Ma quando esattamente, sulle ceneri della Prima sarebbe nata la Seconda Repubblica? E c’è stata effettivamente una Seconda Repubblica o si è trattato solo di un’invenzione, un miraggio, un equivoco? È proprio vero che tutto avrebbe preso un diverso andazzo a cominciare da Tangentopoli e dalla “discesa in campo” di Berlusconi, nella prima metà degli anni Novanta? O qualcosa era già intervenuto, negli anni Settanta, a spezzare la storia del Paese e, negli anni successivi, a trasformare costumi e politica, sino a determinare appunto Tangentopoli, Mani Pulite, la “discesa in campo” e infine la decadenza, la ferocia e la scomparsa dei freni inibitori di questi anni?
È forse proprio di qui, dagli anni Settanta, che bisogna ripartire per comprendere come possa essersi creato un contesto tale da consentire a un “transgender” fatto deputato da Rifondazione Comunista, Vladimir Luxuria, di reagire sorpreso e un po’ sdegnato alla domanda di un cronista, sul Corriere della Sera, chiedendogli: “Le sembra sconveniente che una comunista si sia prostituita?”. E a un intellettuale ex-comunista come Giuliano Ferrara, di rivelare con iattanza e allegria, e senza vergogna - su un giornale sovvenzionato dallo Stato italiano, oltre che da Berlusconi - la sua esperienza di “informatore prezzolato della Cia” e di rivendicare con orgoglio, senza essere travolto dalla riprovazione collettiva, di aver “combattuto i nemici di Craxi e di Berlusconi non perché siano la parte peggiore del paese ma per il motivo opposto. Detesto i migliori”.
Forse bisogna rifarsi - come involontariamente suggerisce proprio l’inquietante confessione dell’“immoralista” Ferrara - non alla fine del “craxismo” ma, all’opposto, ai suoi albori, alle trasformazioni che produsse e all’evento che lo consentì.
1978. L’assassinio di Aldo Moro e la fine della collaborazione fra la Dc di Moro e il Pci di Enrico Berlinguer, nel 1978, non cancellarono solo quel tentativo di aprire pienamente la democrazia italiana agli interessi e alla rappresentanza di milioni di italiani che si riconoscevano nella “tutela”, nelle lotte e nella politica del partito comunista. Non troncarono solo, dall’alto, una politica e una fase della storia italiana apertasi negli anni Sessanta, dal basso. Non consentirono solo la neo-collaborazione fra una Dc di destra ansiosa di conservare il potere e un Psi anti-comunista ansioso di conquistarlo a tutti i costi.
Insieme a tutto questo - e forse prima di questo, se si può dire - quell’assassinio politico costituisce il momento più alto e finale della brutale interruzione dall’esterno, dall’estero, di un processo di sviluppo nazionale autonomo. Un processo in tutta evidenza complesso e contorto, avvelenato da battute di arresto, passi all’indietro, tentativi di golpe, strategia della tensione, terrorismo, ecc., ma nostro, nazionale. È appena il caso di ricordare i segnali di incomprensione e le minacce fatte pervenire dagli Usa a Moro, e il rancore maturato a Mosca verso un “euro-comunista” riottoso come Berlinguer. Gli Usa non potevano tollerare che un partito comunista arrivasse al governo in un paese del suo “impero”, esattamente come l’Urss non poteva tollerare l’ipotesi che, a fronte di un evento del genere, gli Usa potessero avanzare pretese e realizzare un evento uguale e contrario nel vasto impero sovietico.
Insomma, nel 1978, un fattore esterno alle dinamiche sociali e politiche, e a rapporti di forza nazionali - vale a dire la legge di Yalta, con gli interessi strategici delle due Superpotenze - si impose su tutto il resto. Per la prima volta, forse, l’autonomia e la storia della Repubblica venivano letteralmente azzerate. E con esse un processo di sviluppo che aveva radici nel dopoguerra e che, dopo gli anni del “boom economico”, si era espanso comprensibilmente (e virtuosamente) sul terreno della democrazia e dei diritti civili.
Negli anni Settanta si giocò una partita mortale: da un parte, istanze insieme di democratizzazione e modernizzazione; dall’altra, istanze di mera “modernizzazione”. Il terrorismo, l’assassinio di Moro, la fine della “solidarietà nazionale” e l’emergere dell’aggressivo protagonismo socialista, con Bettino Craxi, fecero pendere il piatto della bilancia a favore della modernizzazione senza democratizzazione (e senza vero sviluppo), inaugurando negli anni Ottanta una pratica politica e un costume che raggiunsero la massima potenza negli anni Novanta e che Mani Pulite mise a nudo in tutta la sua mediocrità etica, morale e politica.
C’è chi, come l’autorevole editorialista del Corriere della Sera Angelo Panebianco, pur non citando esplicitamente l’assassinio di Moro e la fine della collaborazione fra Dc e Pci, ritiene al contrario che “per tutto il periodo della guerra fredda la democrazia italiana sopravvisse più a causa dei vincoli esterni (la Nato e, per essa, il rapporto con l’America, la Comunità europea in subordine) che a causa delle sue tradizioni e della sua cultura politica”, sottolineando insomma “il potentissimo ruolo stabilizzatore che ebbero le costrizioni esterne”. Laddove per “stabilizzazione” si intende evidentemente anche l’esclusione sistematica dalla piena partecipazione alla vita democratica, ottenuta con qualsiasi mezzo lecito e illecito, di un terzo della popolazione nazionale.
Rimane il fatto che dal 1978 - “negli ultimi venti anni”, come dirà nel 1998 l’allora pubblico ministero milanese Gherardo Colombo - “la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti. L’Italia la si può raccontare a partire da una parola... Ricatto”.
- 6. continua
- da ANTOLOGIA DEL VENTENNIO (1992-2012) di Beppe Lopez
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