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BRETELLINE ROSSO SANGUE. IL CASO FUSCHI
di Salvatore Genovese

MARTA GALOFARO

Autorizzato dal podestà-sindaco, Paolo Lucifora, ʹntisu Paulu l’uorvu, banditore vittoriese cieco dalla nascita grida per le strade: “Si persi ʹn picciriddu ʹi quattr’anni e a matri ʹu va circannu. Cu n’avi notizzi, parrassi ccu don Pidrinu Fuschi, ra pasticceria Tri Marie (si è perso un bambino di quattro anni e la madre lo cerca. Chiunque avesse notizie, può rivolgersi al signor Pietro Fuschi, della pasticceria Tre Marie)”. Paulu, provato come tutta la cittadinanza dalla notizia, non accetta il compenso che il padre di Alfredino, Pietro Fuschi, vuole dargli perché spera solo che ritrovino sano e salvo il bambino di solo quattro anni, rapito a Vittoria nel maggio del 1946 davanti al bar dei suoi genitori. Non sa ancora Paolo, come non lo sanno Pietro e la sua famiglia, che il piccolo è stato ucciso.
L’atroce premeditato delitto si è consumato la sera stessa del rapimento perché il bambino conosceva uno dei suoi rapitori. Salvatore Genovese racconta questa storia, nota alla cronaca come “il caso Fuschi”, nel suo romanzo d’esordio, Bretelline rosso sangue, in cui magistralmente fonde cronaca e invenzione, senza mai eccedere. Il romanzo si può inquadrare nel genere del giornalismo narrativo, in cui i fatti vengono raccontati unendo alla precisione della cronaca l’arte della narrazione e del talento espressivo.
Piccola cittadina della provincia di Ragusa, Vittoria, cerca, come il resto d’Italia, di riprendersi dalla devastazione che la guerra ha lasciato nei paesi. Soprattutto negli animi se ne portano gli incancellabili segni. Vive nell’inconsapevole attesa di essere chiamata da lì a qualche mese, a scegliere quale sarà la forma di governo del nuovo Stato, mentre tra sofferenze, povertà e incertezze trovano terreno fertile banditismo, delinquenza comune e onorata società.
In questo clima tre improvvisati banditi, Giovanni Solarino, Salvatore Affè e Giovanni Cilia discutono ancora una volta su una panchina dei giardini comunali, su come portare a compimento il piano tante volte meditato per guadagnare una somma di denaro non esagerata per l’epoca ma che avrebbe potuto concedere loro di passarsi qualche sfizio. Cilia ascolta in silenzio. Affè lavorava al Tre Marie ed è così che lo descrive ai suoi Cilia e Solarino: “Viriti ca ‘u cafè ‘i Fuschi è ‘n puzzu senza funnu” , inoltre conosce Alfredino, lo avrebbe prelevato col pretesto di un giro in bici, come tante altre volte. Ma quella sera non lo avrebbe riportato a casa. Dice ai complici: “Mi canusci. Nun lu putiemmu lassari vivu”. È Solarino a risolverli il problema: “Ci pienzu iu”…
Genovese, giornalista di mestiere, servendosi della nutrita documentazione che nel tempo si è accumulata costituendo una fonte storica, riporta, fedele cronista, le lettere dei rapitori con l’italiano sgrammaticato e incerto, i verbali delle forze dell’ordine, i documenti con cui la famiglia e la comunità vittoriese chiedono che la fucilazione degli assassini avvenga in pubblica piazza, sul luogo in cui è stato martoriato Alfredino. Abilmente Genovese, con la sua prosa asciutta, lineare e incisiva, alterna e svela i punti di vista dei carnefici, dei componenti della famiglia della vittima, degli investigatori e degli agenti di polizia (che dopo la caduta del fascismo si stanno riorganizzando). Degli uomini misteriosi della mafia che si preoccupano di assicurare ad un padre disperato che non sono loro gli artefici del rapimento, perché hanno valori, loro, e non toccherebbero mai un bambino, di cercare quindi dalle parti del paese i suoi rapitori.
Bretelline rosso sangue è un romanzo-reportage o romanzo-verità che non lascia indifferenti, sia per la crudeltà della storia, che ha come vittima un innocente di soli quattro anni, sia per la capacità del narratore di incuriosire, nonostante si conosca l’epilogo sin dall’inizio, sia per la sua bravura di districarsi nella narrazione senza tralasciare nessun particolare o punto di vista. Riesce a soffermare il lettore nel corso del racconto a riflettere e ad esprimere il proprio punto di vista, soprattutto alla fine di tutta la vicenda, quando gli assassini ottengono la grazia dal Presidente Enrico De Nicola.
I genitori per più di un anno vivono nella speranza di poter riabbracciare Alfredo, cedendo ai vari ricatti, consegnando puntualmente le somme di denaro richieste nella speranza fossero le ultime, sussultando nel leggere quelle lettere terribili in cui veniva loro comunicato che il bambino era vivo, stava bene e chiedeva di loro, ignari che il loro piccolo giaceva morto semi sepolto sotto un mucchio di pietre nella grotta buia dove si è consumato il terribile delitto. Lo scrittore interpreta con correttezza e senza cedere all’enfasi i sentimenti di una famiglia distrutta che per un anno ha sperato, ma anche i pensieri dei rapitori. “Perché ammazzarlo e in quel modo?”. Di tal genere, se non tali appunto, scriverebbe Manzoni, erano i pensieri di Cilia, l’unico a pentirsi subito dell’orrido misfatto.
 
Bretelline rosso sangue. Il caso Fuschi
Salvatore Genovese
Prova d'Autore Editore, 2017
Pp. 132, euro 15

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