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LUDOVICO FULCI

  • COSI' LA SCUOLA ITALIANA
    E' DIVENTATA VECCHIA

    data: 17/02/2021 17:02

    Sicuramente in Italia la scuola è un problema. Ma non solo e non tanto perché gli studenti non la frequentino o la frequentino poco. Oggi la scuola è lo spazio sociale nel quale lo “studente” apprende le strategie da applicare per vivere in società con i suoi simili. Come in passato, c’è un clima di competizione, ma non si fa a chi sia il più bravo e riporti in pagella i voti migliori. Oggi si fa a chi sa farsi meglio rispettare dai compagni e dalle compagne, ignorando quasi completamente l’autorità dell’insegnante.
    Abbiamo un liceo classico – scuola all’occhiello del Ministero dell’Istruzione – nel quale si studia un po’ di letteratura italiana, greca e latina, per il resto si acquisiscono nozioni generali circa le altre materie. Matematica, fisica e scienze sono quasi neglette. Insomma salvo eccezioni, a volte cospicue, si rifiuta lo studio e si conservano le nozioni apprese nella scuola media, nell’opinione che quanto si è imparato prima non meriti d’essere rivisto nel bisogno di approfondire quel che si conosce solo superficialmente.
    Ci sono scuole che il sabato sono chiuse e quelle che restano aperte assistono in quel giorno a una sensibile flessione delle presenze in classe. Il lunedì si entra in ritardo, se non ci si assenta un’altra volta. Il fatto è che, nella vita sociale dell’adolescente italiano, l’organizzazione del week-end e lo smaltimento della sbornia di musica, alcol, talvolta droga richiede un “recupero” che si risolve in una bella e in parte salutare “dormita”.
    Qualcosa del lavoro scolastico si fa dal martedì al giovedì, il venerdì venendo a scuola quegli studenti che ancora non sanno come trascorrere il week-end e non sono stati lesti ad organizzarsi per una festa in qualche discoteca che per molti è obiettivo principale.
    La capacità di concentrazione dei nostri giovani è, a dispetto di ogni apparenza, notevole. In compenso la deconcentrazione è quasi immediata. I mezzi di comunicazione di massa hanno infatti stravolto il modo di rivolgere e gestire l’attenzione a qualcosa. Il mondo mentale del giovane di oggi è veramente fatto a finestre che si aprono e si chiudono in passaggi analogici che stuzzicano la curiosità mentre si avverte poco il desiderio di esaurire un tema, figurarsi lo sviscerarlo.
    Tornare al già detto per precisare un concetto annoia le giovani menti, alla ricerca di novità che, quanto più contrastano con l’appena visto, tanto più si gradiscono anche perché non è detto che il contrasto comporti il superamento cioè la cancellazione di quello di cui s’è ragionato con loro uno o due minuti prima.
    Insomma non viviamo più nella civiltà del libro, ma in una civiltà eminentemente iconografica un po’ come lo era il medioevo. Giotto e Dante Alighieri sono più congeniali ai nostri studenti che non a noi, fatto di cui il professore dovrebbe tener conto.
    Va da sé che quanto più si persevera nell’uso del manuale come interfaccia tra l’insegnante da un lato e lo studente dall’altro, tanto più la comunicazione tra docente e discente viene meno.
    Una buona idea è quella di spingere a coniugare la scuola con il lavoro. Anche qui però gli equivoci sono tanti.
    La scuola, così com’è, dà un’immagine distorta del lavoro. Basti pensare che quello del professore non è considerato da parecchi alunni un lavoro vero e proprio. Ciò significa che gli adulti con i quali sono a contatto non sono nella condizione di fare loro per primi da ponte tra il mondo dorato di un’infanzia che nell’adolescenza si protrae, e la vita vera. La scuola appare loro lo spazio protettivo nel quale trovano (o non trovano) eco le raccomandazioni di mamma e papà. Tra i banchi di scuola si ingigantiscono, in altri termini, i problemi di casa e che a casa è coccolato, si sente coccolato anche a scuola, chi invece è trascurato, si sente ugualmente trascurato e abbandonato a sé stesso. Il fenomeno del bullismo è specchio di questa realtà, dove spesso il bullo (e la bulla) sono insospettabili bravi ragazzi che, protetti da papà, si fanno aggressivi nei confronti dei deboli.
    Sono dinamiche di gruppo che, se osservate attentamente, si articolano in una complessità che ripropone gli scenari di quartiere, col debole che, se non è attaccato, provocato, messo alla berlina, si sente spaesato e confuso.
    Tutto questo significa che la scuola va concepita diversamente perché risponda a un effettivo scopo educativo. Dirò che trovo singolare il fatto di cui in questi giorni si legge sui quotidiani romani di un preside che ha impedito agli studenti, normativa vigente alla mano, nel quadro di un momento di didattica alternativa, temi quali l’aborto e l’identità di genere.
    Nell’arco di tempo che va dall’unità d’Italia agli anni Sessanta del Novecento, il preside avrebbe avuto il plauso da parte di qualsiasi pedagogista, perché vigeva fino ad allora il principio che i ragazzi non vanno “turbati” ponendoli di fronte a problemi “più grandi di loro”. Va riconosciuto che da qualche decennio in qua le cose sono cambiate. Frequentano le scuole superiori ragazzi e ragazze che, a raccontare le loro esperienze di vita, turberebbero loro professori e professoresse, specie quelli di “buona famiglia”, educati a un eletto sentire e che poco o nulla sanno delle condizioni reali nelle quali vivono i loro studenti, compresi quelli che oggi consideriamo figli di “buona famiglia”, perché anche il profilo della “buona famiglia” è cambiato rispetto a quarant’anni fa.
    Io non sono un credente ma devo dire che mi colpì tanti anni fa un fatto che mi sorprese, come professore o, se si vuole, come “educatore”. Morì, ucciso probabilmente per un regolamento di conti, un docente che, ritenuto inadatto all’insegnamento, era stato destinato a lavoro di segreteria nella scuola in cui io prestavo servizio. Di lui non si sapeva niente, ma in quel frangente leggemmo sulla stampa particolari raccapriccianti della vita di quest’uomo e quando il professore di religione che tutti chiamavano Monsignore ed era il parroco della Chiesa degli Artisti a Roma, propose di celebrare una messa in suffragio di quell’anima disperata, molti colleghi si scandalizzarono. Io no. Anzi apprezzai l’idea perché ha senso celebrare una “Messa” per chi in vita ha sofferto, anche nel ragionevole sospetto che certe anime di “peccatori” possano essere (perché no?) predilette ad altezze alle quali, posto che lì ci sia qualcuno, noi non riusciamo a giungere. Perciò presi l’abitudine di scambiare ogni tanto qualche parola con Monsignore, scoprendo una persona coltissima e di grande sensibilità alle cose dell’arte, alla scultura in modo particolare. Ancora oggi ricordo qualche battuta che scambiavo con lui e altri colleghi al bar dell’Istituto Roberto Rossellini, noto a Roma come Cine Tv.
     

  • LA COMMEDIA
    DEI PERSONAGGI

    data: 06/02/2021 12:18

    È un momento in cui la letteratura si va facendo, nell’indifferenza generale, contenitore di tante materie. Uso il termine “materie” con lo scopo preciso di indicare non tanto l’argomento quanto appunto quel che nel crogiolo dello scrittore deve poi amalgamarsi in un’operazione alchemica grazie alla quale liquori, polveri, infusi cadono in un impasto rendendolo, a seconda dei casi, ora gustoso, ora stomachevole.

    Se “stomachevole” è quanto viene propinato sull’onda di un ingenuo entusiasmo che vede lo scrittore cimentarsi nella persuasione che l’ispirazione sia tutto, è al contrario “gustoso” quel che tiene conto delle letture fatte che danno poi “materia” al nostro scrivere. Nel primo caso ci si trova di fronte a qualcosa che, per essere benevoli, potrebbe chiamarsi una disordinata rapsodia di suggestioni; nel secondo caso di fronte a un’opera il cui primo lettore esigente è l’autore.
    Questo sta a dire che ci troviamo in un momento in cui la letteratura può addirittura prendersi una sua rivincita sul cinema col quale è entrata in competizione, sbagliando però direzione. Sono tanti infatti gli scrittori che, sognando di vedere al cinema la storia da loro inventata, trascurano le potenzialità di una narrazione fatta di parole invece che di immagini. E raccontano creando una successione di scene.
    L’ultimo libro di Luigi Ferlazzo Natoli, The big Bet. Remembering Giobbe, recentemente uscito per i tipi della casa editrice Novecento di Palermo, pone al centro una questione di carattere morale che invece di svilupparsi secondo una prospettiva filosofica, si sviluppa alla luce di un sapere letterario. Per farmi capire dirò che il personaggio più stravagante della letteratura è l’io. È l’io che spesso si trasforma in personaggio proiettando lo scrittore e il lettore in una dimensione dove, trascinato dagli eventi, forte delle sue certezze, il personaggio è spettatore della sua stessa vita cercando a volte invano di diventarne il protagonista.
    Sono tantissimi i personaggi nei quali si specchia l’imperfetta conoscenza dell’io e quelli che più colpiscono, anche per una certa loro involontaria comicità, sono gli eroi ora positivi, ora negativi, che rivendicano un proprio carattere, che si sostanzia in una “coscienza di sè” e nell’orgogliosa rivendicazione di possedere una personalità.
    Opera, agile e arguta, The big Bet, si rifà a due diversi momenti della tradizione letteraria, il Cinquecento, che è il secolo in cui il genere del dialogo tornò in auge, e il Settecento, quello in cui, col brio tipico della cultura francese, si disputava di questo e di quello.
    Di notevole, cioè di nuovo, se non addirittura di innovativo, c’è lo spirito socratico che non stupisce in un siciliano erede consapevole della tradizione magnogreca, ma soprattutto l’attenzione che da un certo punto in poi si richiama sul personaggio di Giobbe.
    Quest’ultima è la trovata di maggiore significato.
    Ripartiamo dal titolo. La grande scommessa (the big bet), di cui nel libro si ragiona, è prima di ogni cosa la scommessa tra Dio e Satana circa la devozione di Giobbe a Dio. Ma c’è un’altra scommessa che nella narrazione si fa urgente ed è nella domanda se l’uomo sia o non sia arbitro del proprio destino, che si traduce nell’apprensione per i due protagonisti del dialogo, che nascono da un evidente sdoppiamento dell’io dello scrittore e che sono guarda caso due personaggi usciti da una raccolta di racconti pubblicata anni fa dallo stesso Ferlazzo Natoli sotto il titolo di One Way. Si tratta di Nathan il vecchio e il dottor Peller. Tale destino è solo in parte nelle mani dell’autore perché credo che sia una regola di tutti i tempi quella per cui il personaggio prende la mano allo scrittore, acquistando una sua vita. Le avventure di Pinocchio sono un po’ il manifesto di questa sottovalutata verità, per cui il personaggio ai cui casi ci appassioniamo acquista sorprendentemente una sua personalità.
    È facile capire che Luigi Ferlazzo Natoli non vuole confondersi con lo scrittore onnisciente di una lunga tradizione letteraria per cui accetta la sfida che tacitamente e di comune accordo gli è lanciata dai due amici che discutono dei massimi problemi, secondo un gioco che è nello spirito dialettico che sostiene l’amicizia dei due dialoganti.
    Ed è qui che c’è uno scorcio veramente potente sul sistema letteratura e quasi sul suo punto d’origine.
    Il dialogo che, nello stile, potrebbe dirsi neo-umanistico e, nella sostanza socratico, è perciò anche aporetico nel senso che non conduce a una conclusione certa. La dialettica è autentica, perché condotta per puro amore della dialettica stessa. Si penetrano da parte di Ferlazzo Natoli, alcuni segreti costitutivi di questa antichissima e nobile via di esplorazione, a cominciare da una memoria che cresce su se stessa, dilatando i tempi della narrazione, che consiste nel confronto tra i due sfidanti, Nathan e Peller, tutt’e due attenti a non perdere il filo del proprio e dell’altrui ragionamento. E a questo punto il dialogo si fa epico, per come è alta la posta in gioco: il destino dell’uomo.
    Messo il dito sulla piaga che consiste nel rivelare come il filosofico ragionare sia un’invenzione letteraria, lo scrittore salta su un carro diverso, quasi violando un tabù che per secoli ha agito sulla tradizione letteraria e più genericamente culturale dalla quale noi stessi siamo nati. Il carro è la Bibbia, tradizionalmente posta fuori, agli estremi confini del sistema letteratura, che per lungo tempo è rimasto campo appena lambito. In questo senso il richiamo al personaggio di Giobbe mi è parsa immediatamente una gran cosa. Giobbe non partecipa al dialogo ma è esplicitamente invocato, diventando pedina che Nathan e Peller fanno muovere sulla scacchiera.
    Di più questo balzo vale gli ultimi due tre secoli di quella filosofia a cui il bravo prefatore fa riferimento colmando un vuoto che è solo apparente ed esteriore, un vuoto che in un libro di filosofia desterebbe qualche perplessità e che invece si spiega benissimo in questo rammentarsi di Giobbe, speculare quasi al Waiting for Godot. Il futuro si scambia col passato e il prezioso giocattolo con cui si vorrebbe ancora giocare, ridiventa come per magia un affare serio, anzi serissimo.
    Ragioniamo da narratori che hanno a che fare con personaggi. La singolarità del personaggio Giobbe, che si direbbe privo di un’interiorità, è notevole. Giobbe è tanto forte sul piano morale da superare la filosoficità del dottor Fileno, creato da Pirandello. Fileno, filosofo del lontano, protagonista della novella dal significativo titolo La tragedia di un personaggio, pensa alle sue disgrazie collocandole idealmente in un tempo lontano, trasformandole così in dispiaceri tollerabili.
    Giobbe, cioè Giobbe visto da Ferlazzo Natoli, lo supera di gran lunga, mosso com’è da un assurdo e tenace amore per la vita da vivere, per cui qualunque cosa gli succeda, tira dritto per la sua strada, soffrendo magari ma in quel soffrire dando senso alla propria volontà di vivere.
    Da questo punto di vista la scommessa di Dio contro Satana è vinta in partenza. A differenza dei dannati di Dante che “bestemmiavano Dio e i lor parenti, / l’umana spezie e ‘l loco, ‘l tempo e ‘l seme / di lor semenza e di lor nascimenti”, Giobbe no, non si pentirà mai dell’esser nato e non maledirà Dio per le disgrazie e i dolori che l’esistenza gli procura.
    Probabilmente il giardino nel quale Giobbe vive è per lui il dono più prezioso e grande che si possa ricevere. La vita consiste nel viverla, non nel combatterla.



     

  • COSI' GLI ITALIANI
    CONTINUANO A FARE
    I DUE ERRORI
    DI COCCAPELLIER

    data: 02/02/2021 19:59

    Contrariamente a quanto vorrebbe una certa morale corrente, l’essere ambiziosi non è una cattiva cosa. Il punto è che l’ambizione va poi frenata, o meglio controllata, usando quella forma particolare di intelligenza che si fa consistere nella prudenza. La prudenza dell’ambizioso è nel saper cogliere il momento in cui rivestire nella vita pubblica (politica, culturale, artistica) il ruolo a cui si aspira perché in qualche modo a quel ruolo si è chiamati.
    La “chiamata” non è qualcosa che io possa decidere in base all’ingenua considerazione che, se ho ambizione, allora sono stato chiamato. Quella voce tutta interiore – che meglio dovremmo dire “vocina”, che mi spinge a realizzare il mio sogno nel cassetto – deve diventare una voce che viene dall’esterno, per cui qualcuno deve avvertirmi, bussando su una spalla e dicendo convinto “tocca a te”. E davanti a un invito, insistito, che viene da più parti, tu cedi, assumendoti fra l’altro non soltanto gli onori ma anche e soprattutto gli oneri, conseguenti all’impegno assunto. Se non si ha questa accortezza, non si diventa niente, né statisti, né grandi scienziati, né artisti di valore. Si insegue il successo, seminando cadaveri lungo il proprio cammino. E i cadaveri purtroppo resuscitano come ci insegna il Machbeth di shakespeariana memoria.
    Chi queste cose ignora non vede il sorriso beffardo e ironico di chi lo ha fatto cadere nella trappola, per cui, invece di diventare quel che desideravi diventare, sei quello che sei, una carta da bruciare in attesa che le cose cambino.
    Io temo che nel nostro paese tutto proceda, da qualche tempo in qua, secondo questa logica. Si parla di poteri occulti, ignorando che il potere non mostra per sua natura la sua vera faccia. Mai. In nessun tempo. In nessun paese. Si maschera, si traveste, apparendo quel che all’occorrenza deve apparire e se, per ragioni misteriose, tocca a Pulcinella di ricoprire una carica importante, si farà in modo che Pulcinella creda che sia arrivata l’ora del suo riscatto, mentre per lui è arrivato soltanto il momento della verità. Scivolerà miseramente sulla prima buccia di banana e, invece di entrare nella storia, cadrà in una di quelle orrende buche che sono i grandi dimenticatoi del passato.
    Si chiamava Francesco Coccapellier, un po’ giornalista, un po’ arruffapopolo, l’uomo aveva la grinta del predicatore moralista pronto a criticare il comportamento dei politici che si discostassero dalla morale del senso comune. E fu eletto deputato per diventare poi il persecutore di tanti deputati.
    Quest’attitudine, che a qualcuno oggi appare meritoria, era in realtà assai stridente con la vocazione di tutto un secolo che cercò in tutti i modi di ridefinire i concetti della morale corrente. L’uomo dell’Ottocento – si chiamasse Alessandro Manzoni o Camillo Benso di Cavour – elabora una nuova prospettiva secondo la quale delle volte più che non far bene, secondo un prontuario delle cose da evitare e delle cose da fare, ci si deve alle volte dar da fare per inventare il bene. Lo inventa il medico che, per la professione che svolge, si trova a volte di fronte a scelte assai gravi. Lo inventa l’avvocato che deve esporre le ragioni del suo assistito perché la sua deontologia professionale gli suggerisce quel che infine tutti dovremmo capire, che anche il peggiore dei delinquenti, in un paese civile, deve trovare chi accetti di patrocinare la sua causa. Perfino la madre di famiglia, nel ruolo di educatrice si trova a valutare se sia o non sia il caso di discostarsi dagli ineffabili consigli del parentado.
    Nasce la deontologia professionale, per cui si impara a coniugare, sul lavoro, morale e politica. I toni paternalistici cominciano a mandarsi in soffitta perché se ne coglie l’ inutilità. Non è un caso che l’Ottocento sia il secolo nel quale la pedagogia si rinnova completamente, rinunciandosi al motto “in puero homo”. Il bambino non è un adulto deficiente e non si deve vedere in lui l’uomo che ne verrà fuori. È un bambino, soggetto di diritti, oltre che di doveri. Spaventarlo per indurlo all’obbedienza comincia ad apparire a tanti un abuso. Si scopre che c’è anche un’educazione alla politica che va oltre le buone maniere.
    Nasce con l’Ottocento la sociologia e si scopre che certi reati rispondono a dinamiche sociali ben precise. Si comincia a prevenire, ritenendo che si tratti di qualcosa da preferirsi al reprimere.
    Tutte cose che Coccapellier mostra di ignorare. Lui richiede al politico un comportamento irreprensibile più da scolaretto che da uomo adulto e pretende di bacchettarlo quando crede di ravvisare una condotta difforme da quella della morale comune.
    Gli italiani hanno continuato a pensare come Coccapellier da un lato condannando l’immoralità della politica, dall’altro esaltando la personalità “d’eccezione” che – sgomitando più di altri e pestando i piedi a Tizio e a Caio, compagni di partito compresi - sa emergere sulla folla.
    Due errori per non dire due idiozie che hanno nociuto e continuano a nuocere a una politica da attuarsi in uno spirito autenticamente democratico.
    Così quando cominciò a parlarsi di “trasparenza” e la vecchia D.C. era moribonda, convenimmo con degli amici che la trasparenza è anche nelle cose e non c’è bisogno, secondo una battuta che sentii già allora, di fare indossare ad Andreotti una camicia da notte trasparente per vedere che cosa c’è dietro. Sta all’intelligenza e alla fantasia più o meno sbrigliata di chi viva la politica con una qualche sincera passione, saper dedurre quel che non si vede. Sicché l’eccesso di moralismo è per gli sciocchi che vogliono continuare a essere trattati come sciocchi, di quelli che vanno presi per mano anche quando si tratta di condursi nella vita di tutti i giorni.
    Viceversa la favola dell’uomo volitivo, furbo, determinato che si impone sugli altri, ferisce il senso democratico inducendo quanti abbiano rispetto della nobile arte della politica che era in passato definita la più nobile di tutte, a pretendere che ci sia nei nostri politici quello spirito di servizio senza del quale la politica diventa zuffa e, nella zuffa, tutto si pasticcio e i problemi vieri sono messi da parte.
    Coccapellier non l’aveva capita, ma noi dobbiamo capirla.
     

  • SI E VOLUTO SOLO
    INDEBOLIRE IL GOVERNO

    data: 30/01/2021 18:21

    S’è voluto indebolire il governo, forse mirando a dare un po’ di luce a personaggi della vita politica italiana che rischiano di diventare sbiaditi la volta che l’emergenza corona virus dovesse cessare risolvendosi grazie alle vaccinazioni di massa. È ovvio infatti che, in questo caso, Conte incasserebbe un successo, tanto più che, riaperte le vie di comunicazione, anche le attività economiche riprenderebbero vita in poco tempo.
    È un fatto che di una crisi di governo vera e propria non si potrebbe in questo caso parlare, e direi che fin da quando se n’è cominciato a parlare, il sospetto era che ci fosse qualche esagerazione nell’uso dell’espressione che pure sui giornali si leggeva da tempo.
    Il problema è che non si è indebolito soltanto il governo e che la sensazione da parte di alcuni osservatori sia che manchi una classe politica capace da un lato di governare senza troppe difficoltà e dall’altra capace di stare all’opposizione.
    Il senatore Salvini ha tentato di muovere delle critiche al governo, nel suo discorso al Senato, ma senza andare di molto oltre i mormorii della piazza e i discorsi che si sentono al caffè e ha avuto una spiacevole caduta di stile nel riferirsi ai senatori a vita. Il senatore Renzi, che ha il pregio di una qualche eleganza oratoria, ha fatto però una sorta di apologia di Ponzio Pilato che può indicarsi quale antesignano di quanti, con poca eleganza invero, lasciano la scena. Tirarsi indietro nella tempesta non è un merito e chi governa la barca la abbandona solo se costretto dai fatti, non per compiere un nobile (?) gesto, che consisterebbe nel fare un favore a chi vuol prendere in mano la barra del timone.
    Ci sono stati generalmente toni duri negli interventi che abbiamo ascoltato sia alla Camera, sia al Senato. Pochissima ironia, poco distacco, molto nervosismo. Sarebbe piaciuta qualche battuta lasciata cadere là in mezzo al discorso, qualche riferimento agli interventi degli altri, qualche improvvisazione. Già Indro Montanelli proponeva di cambiar nome al Parlamento, sostenendo che fosse un Leggimento. Non aveva tutti i torti. In televisione abbiamo visto onorevoli che non alzavano gli occhi dal foglio e nonostante ciò, prendevano qualche “papera” e qualcuno si perdeva i fogli mostrando un certo nervosismo.
    Mi domando: gli italiani meritano questo?
    Per dirla in due parole: se il governo Conte non è il migliore governo del mondo, mancando un’alternativa che in tempi assai brevi (qualche giorno, per intenderci) consenta la formazione di un governo diverso, è certo che non sono questi i tempi adatti a un governo dai poteri ridotti, che sbrighi gli affari di ordinaria amministrazione, nell’attesa che nasca qualcosa di nuovo. Fatto che rende improponibile la convocazione delle elezioni. Nell’emergenza attuale non si possono aspettare mesi prima d’avere un governo, né può il Parlamento pretendere di assumere funzioni che non gli competono istituzionalmente.
    Da questo punto di vista c’è il sospetto che la papera più vistosa presa dall’opposizione sia nell’accusa rivolta a chi governa d’avere affezione alla poltrona, come se agli oppositori non passasse neanche per l’anticamenra del cervello la voglia di accomodarsi ai posti di “comando”.
    Capovolgendo e lievemente modificando il detto latino, si potrebbe osservare: “accusatio manifesta, excusatio non petenda”, per cui chi accusa sfacciatamente l’altro, non prende neanche in considerazione l’eventualità delle scuse. Motto che certo non indica una spiccata educazione non dico alla dialettica ma neanche a un dibattito autenticamente politico.

     

  • OPERETTE DI LEOPARDI
    VENDITORI DI ALMANACCHI
    E SOFFERENZE DA COVID...

    data: 03/11/2020 19:26

    Giacomo Leopardi, noto per essere un pessimista di quelli che si piangono addosso dalla mattina alla sera, era in realtà uno scrittore la cui vena fortemente ironica è tuttora ignorata. Così una delle più celebri delle Operette morali cioè il Dialogo tra un Venditore di almanacchi e un Passeggere, è tuttora letta quale dissertazione intorno al tempo che, secondo una visione meccanicistica, procede inesorabilmente lungo linee di sviluppo legate al passato.
    La verità è che questo dialogo, assente nella prima edizione delle Operette, è inserito dall’autore successivamente – a partire dall’edizione Piatti, quella fiorentina del 1834 – quando Leopardi ha ormai dovuto prendere atto che il suo libro, da lui scritto per scuotere le coscienze degli italiani, non aveva avuto gli effetti desiderati. Il suo disappunto, ci vuole poco a capirlo, è che gli italiani, che oggi preferiscono i calendari e le strenne di Natale alle opere d’autore, preferivano allora gli almanacchi.
    Chiunque conosca la storia dell’editoria sa che già in quel lontano 1827 (quando uscì, per l’editore Stella di Milano, la prima edizione delle Operette) gli almanacchi avevano una più studiata veste editoriale, con disegni e fregi che ne arricchivano le pagine. Alcuni collezionisti li hanno in pregio. Quel che si leggeva su un almanacco erano le fasi lunari per come nell’anno nuovo si sarebbero succedute nel corso del tempo; l’indicazione di feste e, essendo ancora l’Italia tutt’altro che unita, le ricorrenze importanti per il sovrano che governava che poteva essere, come in Piemonte o nelle Due Sicilie, un re ma anche un Duca o un Granduca, ovvero nientemeno che l’imperatore d’Austria per chi vivesse nel Lombardo-Veneto.
    Mettendosi però dalla parte di Leopardi che sperava di trarre dal suo libro assai più di quanto non gli fosse riuscito, la delusione di vedere che si vendono tanti almanacchi e poche Operette, dev’essere stata grande. Oltretutto il poverino aveva anche profonde cognizioni di astronomia e, oltre a sapere quando l’anno è bisestile, conosceva anche l’esatto ciclo delle stagioni, con i due solstizi e i due equinozi che cadono sempre nella stessa data e, per quanto riguarda le fasi lunari, era nella condizione di calcolarle da solo. Da solo sapeva anche individuare in che giorno si sarebbe celebrata in un dato anno la Pasqua. Se ne conclude che le informazioni che l’almanacco gli dà, lui già le possiede.
    A me pare che sia questo e non altro quel che il Passeggere prova a dire all’assai conciliante Venditore di almanacchi che, con disinvolta e del tutto casuale ironia, offre almanacchi nuovi, lunari nuovi, che sono tuttavia vecchi.
    A questo punto come non notare che, pur avendo doverosamente dato ragione al gentiluomo di passaggio, che gli ha fatto intendere che la merce che vende non ha alcun valore aggiunto, a parte il pregio della carta e delle illustrazioni, l’ineffabile Venditore continua imperterrito nel suo “lavoro”.
    Uso le virgolette perché un lavoro che si rispetti ha una sua deontologia e, per esempio, se vendo calzini, è bene che non siano bucati o di così scarsa fattura che, usati quattro volte, vadano poi buttati.
    A parte il commercio dell’usa e getta, a cui il consumismo ci ha oggi abituati, tacendo di chi fa da cameriere, giardiniere o autista per un danaroso campione del malaffare, o “lavora” in fabbriche i cui prodotti, quando non siano addirittura nocivi, sono magari di sempre più scarsa qualità, mi domando perché ci sia tanta affezione a “lavori” che hanno la parvenza di esserlo e che, per la scarsa utilità sociale che hanno, possono a stento definirsi tali.
    La risposta è facile. Si tratta di salvare le apparenze. In realtà non faccio nulla di serio e non do alcun particolare contributo alla crescita della società. Ma agli occhi degli altri ho un “lavoro”, cosa che mi conferisce un’indiscussa dignità che consiste nella diffusa e condivisa persuasione di guadagnarsi il pane col proverbiale sudore della fronte, al di là del fatto che quell’onesto sudore grondi dalla mia fronte solo in rare o rarissime occasioni.
    È un fenomeno curioso che è tipico del popolo italiano. Ricordo un tale che studiava veterinaria e aveva l’ambizione, se così può chiamarsi, di diventare veterinario nell’esercito, sostenendo che nel giro di poche decine d’anni asini, muli e cavalli in dotazione alle forze armate sarebbero scesi sempre più di numero e, a questo punto, lui col tempo avrebbe lavorato sempre meno, prendendo in compenso uno stipendio discreto e comunque sicuro.
    Ai tanti che oggi non vendono almanacchi ma hanno comunque trovato una “sistemazione” confacente, credo possa chiedersi d’avere l’umiltà di interrogarsi circa le loro aspettative e di affrontare con coraggio e serietà le difficoltà del momento. In fondo c’è chi negli ospedali soffre e sono tanti, compresi quelli che si adoperano per aiutare quanti purtroppo non ce la fanno e non ce la faranno.
    Leopardianamente aggiungerei, per concludere questo discorso, che tanti giovani (e meno giovani) potrebbero cominciare a non disperarsi se col Natale tante vetrine resteranno chiuse e non si potrà accogliere in festa il nuovo anno. A quanti poi del tutto comprensibilmente si disperano temendo gli effetti di una grave crisi economica, non resta che ricordare come l’Italia seppe in tempi non troppo lontani affrontare l’occupazione tedesca prima e il dopoguerra poi.
    Come ci ha insegnato Edoardo De Filippo, “ha da passa’ a nuttata!”
     

  • TEMO CHE IL MEDIOEVO
    GIA' "PROSSIMO-VENTURO"
    SIA GIA' TORNATO

    data: 21/06/2020 19:58

    Feudo, signore, scagnozzo, fedelissimo di, uomo di, tirapiedi sono termini e espressioni ricorrenti nel linguaggio di chi si riferisce alla malavita ma anche a qualsiasi forma di potere che si eserciti nel nostro paese. Non ne va esente neanche il mondo dell’informazione dove il tipo di cronaca, a cominciare da quella sportiva e politica, per finire con la cronaca rosa, definiscono campi di pertinenza spettanti a Tizio o a Caio, con Tizio e Caio che sono, se non legittimamente, almeno comprensibilmente, gelosi delle proprie competenze e non gradiscono che sul giardino da loro coltivato poggino i piedi ospiti indesiderati.
    Dire che si tratti di mentalità, riconducendo il tutto a una cultura del potere dura a morire, può indurre a equivoci. L’Italia e forse l’Europa, a dispetto d’essere culla della modernità, non hanno messo in parentesi il loro passato feudale che riemerge. Prepotentemente.
    Se è feudale l’Europa dei sovranismi e delle leadership che si rivendicano, sicuramente è feudale il tipo di organizzazione economico-sociale che regola il vissuto di noi Italiani.
    Già i Savoia non hanno fatto nulla, finché sono stati re d’Italia, per contrastare i residui di feudalesimo che c’erano nel paese. Anzi si direbbe che ne hanno incollato i frammenti. Feudale, almeno fino alla prima guerra mondiale è stato l’esercito italiano, modellato sulla tradizione sabauda, con i generali che anche in tempo di pace continuarono ad avere ancora agli occhi di Vittorio Emanuele III un ruolo politico incompatibile con un paese moderno che avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle il mondo medievale dei “signori della guerra” o, per dirla più pulitamente, la “nobiltà della spada” per promuovere l’industria, che in Italia avrebbe dovuto essere industria legata ai prodotti agricoli, alla loro selezione e lavorazione.

    I quadri della nuova aristocrazia di un paese il cui re fosse costituzionale si sarebbero dovuti rinnovare nel nome di un’efficienza che premiasse un rinnovamento anche economico che all’affare un tempo primario della guerra, lasciasse subentrare il rilievo di un’economia di pace, con un benessere sempre maggiore e sempre più diffuso.
    Per quanto moderno e spregiudicato sia stato, lo stesso Giolitti fece poco e nulla per il vecchio Sud, che fu di fatto decapitato della sua vecchia classe dirigente che, rivendicando il proprio ruolo, si portò nelle grandi città (soprattutto Torino e quindi Roma) a fare politica e a ricoprire cariche amministrative e uffici pubblici, abbandonando agli eredi dei gabelloti e dei campieri i destini di un’economia che si volle fosse essenzialmente agricola nel senso feudale del termine. Il latifondo rimase quale piaga dell’economia del Sud.
    Perché non riconoscere che da scelte del genere nacque la mafia, che è fra tutte le espressioni di un mondo feudale una delle più aggressive e pericolose?
    Io credo che l’Italia debba molto al P.C.I. di Palmiro Togliatti sia pure per ragioni che non esiterei a definire fortuite. Togliatti si trovò a capo di un partito politico che fu, subito dopo la Resistenza, un “refugium peccatorum” con diversi fascisti delusi, alcuni pentiti più o meno sinceramente, altri che si innamorarono di un’ideologia utile a soddisfare esigenze latamente politiche ed esigenze latamente morali. Tutto sommato una povera cosa messa insieme su a fatica e che, se confrontata col P.C.F., cioè il Partito Comunista Francese, risulta assai poco articolata e viva al suo interno. E tuttavia a quello sgangheratissimo P.C.I. vanno riconosciuti essenzialmente due meriti. Il primo è quello di aver contrastato la mafia e il potere mafioso e di quel P.C.I. Peppino Impastato può indicarsi quale ultimo generoso erede. L’altro merito è quello di aver contenuto quella sorta di anarchia morale a cui, dall’era di Berlusconi in poi, si è abbandonato il mondo imprenditoriale italiano.
    Io ho un’anima troppo libertaria per potermi dire comunista nel senso in cui in Italia si intende il termine. La disciplina di partito è inoltre qualcosa che non mi è mai piaciuta. Per me all’interno di un partito ci dev’essere un dibattito e, mancando l’autocritica, vengono meno opportunità anche importanti.
    Oggi però siamo tornati paurosamente indietro sul piano di una politica sociale, confrontabile con quella che Giolitti giudicò a suo tempo inadeguata a un paese moderno, per cui assecondò la formazione delle Camere del Lavoro e aprì il dialogo con i socialisti. All’epoca (cent’anni fa) non c’era ancora, infatti, un partito comunista.
    Dico questo guardandomi semplicemente attorno e vedendo quanto i nostri politici si sono adoperati da tutte le parti per venire incontro alle imprese, facendo quasi a gara a chi promettesse di più, come se le imprese debbano essere viste quale il perno della vita sociale, oltre che economica, della nazione.
    L’imprenditore che al posto del blasone alza il marchio di fabbrica, che rivendica dei privilegi di casta, che chiede l’esenzione dalle tasse un tempo prerogativa dei nobili, mi pare assai simile al signore feudale ebbro di potere.
    A fronte di tutto questo, l’elevato numero di incidenti anche mortali sul lavoro, il caporalato, la prostituzione dilagante, sia femminile, sia maschile sia (e questo è tristissimo) minorile! Si aggiunga una legge che definisce clandestino chi ancora non lo è. Non credo infatti che, stando al vocabolario italiano, possa dirsi clandestino chi, documenti alla mano, si presenta chiedendo asilo politico. E’ vero che probabilmente lo diventerà, anche grazie a criteri e sistemi d’accoglienza improvvisati e a una legislazione che a quel destino lo conducono. Ma non credo che chiedere asilo, specie da parte di chi è disperato, si possa considerare un reato.
    Io non conosco gli spazi in cui vivono questi infelici e mi preoccupa l’indifferenza con cui si ragiona di loro. So solo che è pauroso il numero di queste persone che lavorano in nero e per quattro soldi. Inoltre quartieri degradati, asili nido dove i bambini sono maltrattati, case per anziani dove i vecchietti sono abbandonati a se stessi, talvolta malmenati, spesso trascurati. Questi asili e queste case per anziani, come tanti centri di accoglienza per “clandestini” non sono altro che imprese gestite da chi trae “legittimanente” profitto da queste attività.
    Qui mi fermo, sperando d’essere arrivato al fondo. Se poi c’è dell’altro non lo so. Spesso la realtà supera la fantasia.
    Certo, davanti a queste cose penso seriamente che il medioevo, una volta prossimo-venturo, sia già tornato. E non fa per me.

     

  • ANTI-QUA, ANTI-LA'...
    ITALIANI BRONTOLONI

    data: 15/06/2020 17:47

    Come l’antiberlusconismo ha alimentato il berlusconismo così l’antifascismo ha alimentato il fascismo. L’anti-qualcosa rivitalizza il qualcosa. Ecco perché la critica, in politica dovrebbe guardarsi dall’essere demolitrice, facendosi piuttosto critica costruttiva. Gli effetti della pubblicità negativa li vediamo tutti e, se non ne deriva una bella immagine, sicuramente la notorietà del personaggio, dell’idea, del partito che si critica si rafforza. Si ottiene così l’effetto contrario di quello sperato.
    Chi scrive di politica deve quindi prendere atto di questa situazione ed essere cauto nello schierarsi da questa o da quell’altra parte. Cosa difficile perché chi scrive, magari occasionalmente su queste materie, è spinto più da passione che non da un ragionato riflettere sulle cose. Credo anzi che in questo consista la difficoltà di rinunciare alle ideologie e che questa origine abbiano i tanti ideologismi a cui gli stessi politici si appellano quando difendono le loro posizioni.
    Ciò induce a criticare l’azione di governo, spesso ignorando che il governo attuale prosegue l’opera di quello precedente, ragione per cui, di destra o di sinistra che si sia, la nave da condurre funziona in un certo modo e forzarla può essere pericoloso.
    La burocrazia per esempio è una realtà, non c’è macchina statale che possa farne a meno. E se la legge prescrive che il burocrate si accerti della legittimità e della regolarità di una proposta avanzata da un cittadino, ci si deve rassegnare a che questo succeda. Comprensibilmente indigna poi il fatto che i tempi diventino biblici. Indignazione che si fa sentire nell’emergenza attuale determinatasi con la pandemia che ha messo in difficoltà tutto il paese.
    Io penso che tutto questo derivi da un complesso di fattori che ha finito col fare del burocrate un esecutore, se non di ordini, certamente di procedure sempre più pedissequamente regolari, venendo sempre meno quel potere discrezionale che pure un tempo c’era e si esercitava specialmente agli alti livelli della burocrazia.
    Parliamo, è ovvio, dei funzionari di Stato.
    Non è sbagliato ammettere che l’Italia è un paese povero di cittadini ricchi. Questo certamente non significa che l’Italia sia esente dalla povertà. I poveri ci sono e non sono pochi. Inoltre la crescente povertà allarma ragionevolmente tutti e costituisce a mio parere uno dei più urgenti problemi della situazione attuale.
    Una cosa è certa quando lo stato è povero, il povero si impoverisce sempre di più. Non ha infatti né soccorso né assistenza. I servizi vanno almeno in parte pagati e, tra le prime cose a cui il povero rinuncia, ci sono le medicine. Analisi, accertamenti, visite di controllo sono tra le le prime cose a saltare nell’economia di chi si impoverisce. Non è certo con la carità che si risolve il problema. Lo stile di vita del povero non cambia, anzi peggiora di giorno in giorno e qualcuno si scopre povero senza saperlo. Poveri erano tanti tra i vecchietti ospiti di case di riposo e la loro povertà, che definirei sommersa, era in tanti casi nella necessità di dover lasciare la casa nella quale avevano vissuto e in cui gli era diventato difficile vivere e/o convivere con altri.
    L’egoismo è dell’uomo ed io non posso farmi carico più di tanto dei problemi degli altri. Verissimo, ma poi l’egoismo non deve portare alla stupidità. Ci si deve rendere conto che la povertà è un male sociale che va contenuto nell’interesse di tutti. Il povero vive in un ambiente malsano, nel quale si diffondono le malattie e dove la povertà è diffusa le malattie sono endemiche.
    Occorre allora che i cittadini si rendano conto della necessità di arricchire lo Stato, cominciando ad abolire ogni forma di parassitismo, per cui il cittadino si ricorda che esiste lo Stato quando ha qualcosa da esigere e non perché gli spetti ma solo perché gli si presenta l’occasione favorevole, per cui aggirando la legge, si può ottenere questo e quell’altro.
    Sappiamo tutti che ci sono tanti modi per derubare lo Stato. C’è il pagamento in nero, la corruzione, l’evasione fiscale. Proprio l’evasione fiscale ha reso particolarmente grave la pandemia. Se non ci fosse stata l’evasione fiscale, lo Stato avrebbe potuto far fronte all’emergenza in tempi più rapidi e senza esporre al rischio tante vite.
    Nel nostro paese ci sono campioni sportivi, divi dello spettacolo che notoriamente evadono il fisco e che sono osannati per poco che aprano bocca. Senza contare l’altra assurdità del capomafia che sotto sotto ha l’ammirazione di tanti che gli sono grati perché dà da lavorare a tanta gente…

     

  • L'ORIGINALE MULTISTRATO
    DI MARCHETTI TRICAMO

    data: 08/10/2019 09:23

    La modestia è una virtù tanto più grande quanto più è sottovalutata. Chi faccia degli sforzi per aderire davvero a un ideale di modestia finisce col fare cose assai più grandi di quanto in apparenza non sia. L’ultimo libro di Giuseppe Marchetti Tricamo, apparso per i tipi della casa editrice Ibiskos di Alessandra Ulivieri, porta il segno di questo sforzo e riesce ad essere, proprio per questo un gioiello degno della corona di un re.
    Partiamo dal titolo, Il tempo dilatato. Riflessioni sul senso della lettura. Il titolo è un omaggio a Umberto Eco e nasce non per lodare chi sia già stato ampiamente lodato ma per richiamare un passo di Eco, “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni : c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.
    E veramente il libro è un invito alla lettura. In 118 editoriali, scritti e pubblicati dal 2005 al 2018, l’arco di tempo durante il quale ha diretto “Leggere : tutti” Marchetti Tricamo rende gustoso, appetitoso, succoso quanto per un motivo o per un altro meriti d’essere letto, sicché il libro è il nutrimento di cui si ragiona nelle pagine di questo volume. Si considerino questi incipit: “non è muto. Il libro ci parla” (p. 82) ; “C’è un mondo che da sempre mi affascina, mi coinvolge, mi emoziona: è quello dei libri di carta e di tutta la filiera editoriale” (p. 179); “Non perdiamoci la lettura del giornale del mattino” (p. 276).
    Volendo paragonare Il tempo dilatato. Riflessioni sul senso della lettura di Marchetti Tricamo a un dolce, lo paragonerei a un multistrato con in cima delle decorazioni sobrie, essenziali ma che sono perfettamente in tono col resto, tanto da farti venire l’acquolina in bocca.
    Nella metafora culinaria proposta tutto ciò significa che chi gusta un dolce ben fatto, gusta assieme a quello i dolci già gustati prima, riconoscendone i sapori e risalendo lungo percorsi già seguiti fino ad accostare, paragonandole fra loro, certe prelibate delicatezze, essenze impalpabili e quasi immateriali sollecitazioni al piacere. Che è qui il piacere della lettura.
    Il creatore amorevole e geniale di questo originale multistrato ti conduce per mano ad assaporare l’importanza delle tue letture, sicché anche il taciuto (non si può parlare di tutto, senza essere stucchevoli) suggerisce una qualche stuzzicante emozione che è poi il profumo sulle prime discreto, poi mano mano sempre più delicato che, cucchiaiata dopo cucchiaiata, si sprigiona non visto segnando il ritmo con cui la prelibata pietanza, preparata con amore scende, destinata a trasformarsi in alimento.
     

  • LAICI E LAICISTI

    data: 19/09/2019 19:14

    L’Italia è un paese di tanti “buoni” cattolici che non sanno d’essere laici e ignorano addirittura d’essere laicisti. Laico, infatti, è chiunque non abbia preso i voti. Laicista, chiunque sia convinto d’aver fatto bene a non compiere questo passo, tanto da trovare argomenti per giustificare la sua scelta di essere laico. Se ad esser laici siamo in tanti, ad essere laicisti siamo un po’ meno, ma non tanto quanto possa sembrare.
    Già Orazio scriveva una simpatica satira sull’incontentabilità dell’uomo che si pente delle scelte fatte, scoprendo in ritardo quel che avrebbe magari fatto più volentieri. Ma, se la professoressa scopre che in realtà le sarebbe piaciuto fare la ballerina e il direttore d’azienda il maestro elementare, sono sempre di meno coloro che si pentono di non aver preso i voti. Da questo punto di vista il loro laicismo non riesce ad essere “confesso”, cioè difeso più o meno appassionatamente perché manca di aspetti essenziali per dirsi laicisti.
    Il laicismo è, per dirla con Max Weber, una costellazione di valori. Tra i non pochi valori del laico (e laicista) ce ne sono tre che sono fondamentali. Il primo è il senso civico, il secondo la deontologia professionale, il terzo il senso politico.
    Che il laico abbia un qualche senso civico si deduce facilmente. Comunque abbia scelto l’attività da svolgere, si è posto nella prospettiva di agire nel mondo, realizzando qualcosa di “importante”. Il che si dice asserendo che laico è chi, invece d’avere vocazione religiosa, ha ambizione. E, come è difficile gestire la vocazione religiosa, così è difficile gestire l’ambizione. Chi ha ambizione pratica una morale che in sintesi può definirsi una morale della realizzazione del sé. Si tratta di un obiettivo che va saputo regolare un po’ come per il religioso va regolato il desiderio di porsi sul cammino della santità. Come non basta sentirsi santi per esserlo veramente, così non basta sentirsi dei grandi uomini per esserlo davvero. Tante volte il laico sbaglia nell’esercizio della sua professione e nell’attività che pubblicamente rivendica di voler svolgere, perché sopravvaluta il suo talento e rifiuta di sottomettersi a una disciplina utile alla sua formazione.
    Se al senso civico che spinge a fare il giornalista, il medico, l’architetto, l’attore non segue una deontologia professionale, il laico può addirittura arrivare a pentirsi della scelta fatta, magari perché ha ingenuamente puntato su una carriera di “prestigio” che, per quanto possa dare lustro a una persona, ne soddisfa una qualche vanità, ma non le esigenze reali. Ha senso, voglio dire voler fare il pilota d’aereo perché si vuol vivere l’ebbrezza del volo. La cosa però non ha senso se quel che piace è indossare una divisa da “comandante” e passare con aria disinvolta tra le persone che fanno la fila al gate dell’aeroporto per andare a prender posto nella cabina di comando. Ed è così che il direttore di una filiale di banca può scoprire che avrebbe voluto fare l’allenatore di una squadra di pallavolo. E, da laico, non riesce a trasformarsi in laicista. Infatti, impegnandosi a fatica nel suo lavoro e senza né entusiasmo né voglia di fare, vive male la sua esperienza lavorativa e non impara a difendere la scelta fatta perché sente che quella scelta non gli appartiene.
    La deontologia professionale è quella che ci dà la grinta necessaria a porci nel modo giusto, a trovare le soluzioni ai problemi che troviamo nella nostra attività lavorativa, a non farci venire il mal di fegato quando qualcuno che “può” ci dice che stiamo sbagliando. Chi ha deontologia professionale scopre senza scandalo e senza paura d’avere sbagliato quando sbaglia e tira dritto sapendo che “sbagliando s’impara”, ma può anche capire da solo che la censura che il capo gli muove nasce da incompetenza del “superiore” e si scrolla di dosso il rimprovero immeritato. C’è chi impara alla svelta, chi più tardi, chi non impara mai. Per chi certe cose non le impara il danno è notevole. A parte il senso di sconfitta e di frustrazione, viene anche meno l’entusiasmo e ci si chiude nel “privato”, fino a un qualche impoverimento di quel senso civico che ci aveva suggerito di confrontarci col mondo.
    C’è inoltre il fatto che è la deontologia professionale che crea in noi un senso autenticamente politico della realtà in cui viviamo.
    Giochiamo di fantasia e immaginiamo l’Italia fra dieci o vent’anni. Può darsi che un giovane medico, assegnato a un posto di pronto soccorso, scopra che non ci sono nel reparto garze sterili per medicare le ferite degli ammalati. Se ha un minimo di deontologia professionale, capirà che è tardi e che a un punto del genere non si doveva arrivare. La “politica” vanifica ogni sua velleità di far bene quel che non potrà mai far bene. È la deontologia professionale che ci porta a fare in modo che il politico non sia il principe di machiavellica memoria che signoreggia con la sua forte psicologia la volontà altrui. Chi sia convintamente laico trova il mondo di tirarlo per la giacca, mettendolo di fronte alle sue responsabilità, a costo di appellarsi alla pubblica opinione, di esporsi a rischi perché il suo laicismo lo induce ad abbracciare quella costellazione di valori che ho cercato in sintesi di illustrare, indicandone i capisaldi. Del resto, per poco che si rifletta, agirono così i famosi enciclopedisti i “filosofi” che ancora l’imperatrice Maria Teresa si lamentava di dover tollerare. Il punto è che il laico laicista pratica una morale che è completamente diversa rispetto alla cosiddetta morale comune, nella quale si rifugiano oggi tanti “buoni” cattolici italiani, che nulla sanno del laicismo e hanno continuato, come in passato ad essere laici per “mancanza di vocazione” avendo preferito alla severa vita del chiostro, inseguire le lusinghe del mondo che sono l’amore, l’avventura, il successo, l’arricchimento. La mancanza di un progetto di vita porta tanti a invocare leggi improntate a un ingenuo “giustizialismo”, nessuno spazio concedendo a chi, meglio di altri sarebbe in condizione di definire certe realtà.
    Da laico e da laicista non credo di poter essere io a decidere, con una qualche consultazione referendaria, se e in quali condizioni sia per esempio, legittima l’eutanasia; in quali particolari situazioni debba considerarsi legittimo l’aborto; se vadano riconosciuti alcuni diritti a soggetti che da tempo lottano per averli, che siano italiani o non, che appartengano a questo a quello o a quell’altro sesso. Ci sono questioni e realtà che il comune cittadino non conosce e perfino quando certe cose lo toccano vi arriva impreparato. L’Ottocento e il Novecento hanno tenuto a battesimo discipline nuove e le scienze sociali in particolare hanno compiuto negli ultimi decenni grandi progressi. Esistono mezzi di rilevazione di dati che consentono di mettere a fuoco l’urgenza di questo o di quel problema, la priorità di alcune questioni rispetto ad altre, il loro connettersi l’una all’altra perché i problemi non si presentano di regola da soli. Mai.
    La democrazia ha negli uomini di scienza alleati importanti ai quali spetta il compito delicato di additare ai politici rimedi da adottare per la soluzione dei problemi più gravi e più urgenti e il politico, senza pendere dalle loro labbra, deve però tener conto di quel che gli viene detto e deve arrivare a preoccuparsi se dal mondo degli studi non viene alcun cenno circa quel che si dovrebbe fare e quel che si dovrebbe evitare a tutti i costi.
     

  • PIATTAFORMA ROUSSEAU:
    EQUIVOCI SUL POPULISMO

    data: 05/09/2019 22:59

    La consultazione sulla piattaforma Rousseau non è solo uno sgorbio costituzionale e un’offesa al Capo dello Stato (vedi Carlo Melzi d’Eril – Giulio Enea Vigevani, Con il voto su Rousseau uno sgorbio costituzionale e una sgarbo alle Istituzioni, Sole 24 ore del 29. 8. 2019). E’ anche un atto formalmente e sostanzialmente antidemocratico, subordinandosi un delicato passaggio politico al dictat di una parte dell’elettorato. Chi governa non governa per i propri elettori ma tenendo conto delle esigenze del Paese. Queste appaiono nelle cabine di regia di tutti i partiti a cominciare da quelli con i quali si accetta di governare, finendo con quelli che dovrebbero fare, in uno spirito autenticamente democratico, un’opposizione costruttiva e in certo modo collaborativa (almeno si spera).
    Si aggiunga che un politico non è la marionetta dei suoi elettori, un po’ come un medico non sta ai desiderata dell’ammalato, prescrivendogli medicine di cui il suo paziente non ha bisogno o sospendendo una cura sol perché la medicina è amara al palato del cliente - Pinocchio.
    Il medico serio si offende e ricorda che il paziente si deve affidare a lui che sa quel che in certi casi va fatto. Se poi il medico è una persona disponibile e intelligente si sforza di spiegare (ma a volte è veramente difficile) quale sia l’azione che il farmaco esercita la volta che sia stato assunto.
    L’onesto cittadino, che non fa politica, ma tenta di tenersi aggiornato sulle vicende interne del Paese, ignora normalmente diversi aspetti di una politica estera che fatalmente condiziona l’agire dei politici. Di queste cose c’è qualche traccia in riviste internazionali e di geopolitica, ma se ci guardiamo in faccia, scopriamo che diversi fra gli elettori italiani hanno difficoltà a leggere il quotidiano e a seguire il telegiornale. Va inoltre riconosciuto che molti di loro si soffermano sul titolo di un articolo ignorando quanto complessa sia la tecnica di composizione del titolo di un articolo di giornale e che il Tg si “segue” tra una forchettata e l’altra, scambiando magari qualche battuta con gli altri che siedono a tavola.
    Quanti italiani hanno in questi giorni notato ad esempio che l’atteggiamento di Francesco Giorgino è interlocutorio, più discorsivo che narrativo, mentre assertivo e asciutto è quello di Laura Chimenti? Parliamo di due bravi giornalisti televisivi che si esprimono senz’altro più correttamente e esaustivamente di tanti che si compiacciono di scrivere sui social e ai quali io personalmente non affiderei mai un incarico serio e delicato del tipo che spetta a chi governa. Diretta, per quanto, la si possa desiderare, la democrazia deve avere dei filtri, altrimenti diventa populismo, col popolo che è il primo a pagare il prezzo dell’errore. Masaniello docet.

  • LETTERA A PINO NICOTRI
    A PROPOSITO DI CAMILLERI

    data: 27/08/2019 21:30

    Caro Pino, non solo rispetto ma confesserò di condividere in qualche parte quanto scrivi a proposito di Camilleri e di una qualche sopravvalutazione dello scrittore, dovuta al fatto che i media ne hanno fatto un personaggio (Camilleri, Salvini
    e le storture mentali della sinistra, di Pino Nicotri, infodem.it, 16 agosto 2019). Cosa che accadde anche di Manzoni, il cui romanzo, se non si fosse fatta l’unità d’Italia, sarebbe rimasto una storia ispirata alla realtà di Milano con Manzoni che forse non si sarebbe curato più di tanto di risciacquare i suoi panni in Arno, se qualcuno non gli avesse prospettato l’eventualità che...
    Per quanto mediocre possa apparire, la partecipazione dell’intellettuale, il suo schierarsi rivendicando una posizione politica, ha contribuito in tutti i tempi a far grandi artisti, scienziati, uomini di cultura dei quali oggi non si ricorderebbe altrimenti neanche il nome. C’è peraltro in tutto questo una platealità che può dar fastidio e uno stile che può perfino piacere. A me lo stile che Camilleri ha avuto nel suo schierarsi sul piano politico non è dispiaciuto né nelle forme né soprattutto nella sostanza. 
    Ciò detto, e a scanso di equivoci, mi permetto di anticiparti che il confronto con una scrittrice di basso profilo come è stata Oriana Fallaci, la cui pagina è zeppa di luoghi comuni, sentimentalismi, sdilinquimenti e quant’altro, giustifica a mio avviso pienamente l’omaggio da più parti tributato a Camilleri. È un segno dei tempi per cui personaggi tutto sommato non tanto eccelsi arrivano comunque a far vibrare corde che, se fossero silenziate, porterebbero oggi a una deriva politica e culturale che è nostro interesse (per me un dovere) scongiurare. Camilleri ha avuto il grande merito di andare ben al di là della retorica di cui è infarcita ad esempio la mai abbastanza deprecata Lettera a un bambino mai nato, per tacere della visceralità di un anti-islamismo che ricorre nelle pagine della sunnominata Fallaci e che indigna qualsiasi buon cattolico, che, avendo letto Dante Alighieri, sa quale debito la nostra cultura abbia nei confronti di quella islamica.
    Tu citi Giulio Ferroni. Io ti cito la stroncatura che dell’opera di Giovanni Verga fece Policarpo Petrocchi, linguista, vocabolarista, illustre cattedratico che rimase inorridito per certe “scorrezioni” di quel grande scrittore che usava lui per egli e l’imperfetto indicativo per il condizionale presente. Ma il buon Petrocchi ignorava che di quest’uso s’era compiaciuto nel suo soggiorno napoletano un certo Giacomo Leopardi che in ciò trovava un’eco dell’antica lingua greca. I professori, caro mio, camminano, gli artisti corrono. E anche tu, perdonami, ti metti a fare il professore parlando di un italiano normale.
    Ma che cos’è l’italiano normale? E’ per caso l’orribile lingua dei saggi storici, letterari e politici di Benedetto Croce? Mamma mia! Quella lingua paludata, misurata, controllata, dove si mira a che tutto sia “chiuso e conchiuso”? Una lingua che nulla concede al sentimento, all’indignazione, al coraggio?!
    Centomila volte meglio la lingua di Gadda, di Pasolini, di d’Arrigo, dei poeti dialettali che da Milano a Palermo hanno rivitalizzato la poesia italiana!
    Dici con un tono che a me, figlio di siciliani, suona snobistico, che Camilleri era siculo! Ma caro mio, verrà pure il giorno che si ammetterà che la letteratura italiana è debitrice alla Sicilia – come quella inglese lo è all’Irlanda – forse perché le minoranze hanno da dire delle verità che, per quanto scomode, verità sono e verità rimangono. Parlo di Capuana, di Verga, di De Roberto, di Vittorini, di Brancati, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia, di Bufalino, di D’Arrigo, di Consolo … e di Camilleri.
    Vedi, io amo molto un poeta come Guido Gozzano, tenero e intelligente cantore delle tristizie e delle malinconie di una cultura che, come quella piemontese, non ebbe la forza di farsi egemone, nonostante mille e più braccia si adoperassero (alquanto servilmente) a soccorrerne le ragioni.
    Non voglio con questo rinnegare la legittimità dell’unità d’Italia, grazie alla quale città come Firenze, Venezia e Napoli per limitarsi alle notissime fra le più note, son diventati centri importanti della moderna e civile Europa, cosa che non dovremmo mai dimenticare. Ma che certo a Napoli, a Firenze e a Venezia, per non parlare dei centri del nostro Sud in genere non s’è dato il respiro che meritavano, è fatto che stiamo scontando. Siamo il paese delle vacanze e dall’Aquila e dalla Costiera amalfitana in giù ci sono mille e mille luoghi incantevoli che perfino gli italiani non conoscono.
    Su un punto devo peraltro darti ragione: il fatto che l’attacco ripetuto e sistematico da parte della sinistra nei confronti di chi ancora per qualche giorno sarà ministro degli interni rischi d’essere controproducente. Anche la pubblicità negativa crea popolarità: sono meccanismi che conosciamo e mi sembra che tu abbia conoscenza e attenzione a questi fenomeni. Ed è un tuo merito.
    Oggi, che è la sera del 26 agosto, sono ore in cui vanno decidendosi i destini del nostro paese ed io credo che in un momento come questo la logica di partito non possa – all’interno della sinistra - avere il sopravvento sul bene della res publica. Questo atteggiamento è piuttosto tipico della destra fin dai tempi di Mussolini che dell’Italia e degli italiani se ne fregò altamente, nel che va ricercata la sua mediocrità di politico. Mi dirai che anche il PCI ha fatto lo stesso errore. Lasciando stare fino a che punto tutto questo sia stato vero, non credo che l’attuale sinistra possa più di tanto confondersi con un partito che appartiene al passato del nostro paese. Interesse di questa sinistra è mettere a fuoco un’identità nuova che miri alla delineazione di un programma volto a salvaguardare le istituzioni, le libertà civiche, la parità dei diritti. Puntare i piedi in questo caso è necessario, fin tanto che è possibile.
    Ciò stabilito, a tutto c’è una spiegazione purché la si voglia cercare. 
    Un caro saluto
    Ludovico Fulci     

          

  • MIGRANTI, UNA PROPOSTA
    A GIANNI MORANDI

    data: 15/08/2019 22:09

    Caro Gianni, mi rivolgo a te, considerando che tu possa essere fra i pochi in condizione di accogliere il mio appello, o per lo meno di prenderlo abbastanza sul serio, quel che basta a trovare il modo di farmi sapere se la proposta che ti faccio sia o non sia per te praticabile.
    Avrai visto come Richard Gere sia opportunamente intervenuto salendo a bordo della “Open Arms”, aprendo anche lui le braccia a dei poveri derelitti perseguitati dalla sorte e non solo.
    L’idea è quella di un concerto di beneficenza, i cui proventi siano destinati, in tutto o in parte, a favore di quanti, tra gli aspiranti immigrati precariamente a mollo nel Mediterraneo, siano in attesa d’essere condotti sulla terraferma.
    I fondi così ricavati potrebbero impiegarsi per consentire a piccoli natanti, comunque sicuri, a cui pare non sia preclusa la possibilità di approdo in terra italiana, di garantire assistenza medica e cibo ai naufraghi raccolti in mare da navi delle ong.
    Scendo a particolari di questo tipo nella considerazione che qualora si pagasse un equipaggio per il soccorso, in base alle leggi vigenti, qualcuno potrebbe ravvisare una forma di reato consistente nel portare a termine una qualche operazione “criminosa” posta in atto da cinici trafficanti di esseri umani… E credo che siamo capiti!
    Se però ci sono soccorritori che si muovono senza compenso e a loro disposizione si mettono medici, medicine, scorte d’acqua e di cibo e in genere quanto possa essere utile a operazioni di soccorso, dubito fortemente che si possa avere la faccia tosta di definire criminosa un’elargizione di solidarietà suggerita da una visione che può caratterizzarsi in tanti modi sul piano morale, sul piano ideologico e su quello politico.   
    Per parte mia non pretendo e non chiedo nulla. Quella che ti rivolgo è una richiesta disinteressata e la mia ambizione è solo di concorrere nel mio piccolo a far del bene, secondo quello che la mia coscienza di uomo, di cittadino e (perché no?) di italiano, mi fa ritenere sia bene.
    L’unica preghiera, nel caso che tu ritenga di poter prendere in considerazione quanto ti propongo, variando a tuo piacimento il progetto, che ti ho esposto volutamente a grandi linee, è di spendere il nome di Ulisse (o di Nausicaa o di Alcinoo) nel varare l’iniziativa. Ciò per dire che il soccorso ai naufraghi è nel d.n.a. della nostra cultura da circa tremila anni, quando più o meno Omero, o chi per lui, cantò delle disavventure di un uomo che cercava la strada per arrivare a casa, dove la casa è il luogo in cui si può vivere senza soffrire, cioè quel tetto sicuro a cui legittimamente aspira qualsiasi essere umano.
    Con viva simpatia

    Ludovico        

  • MIGRANTI/NEOCAPITALISMO
    DA GRAMSCI A FUSARO

    data: 06/08/2019 00:52

    Capace di sunteggiare e schematizzare il pensiero dei filosofi che studia, Fusaro è un bravo professore di filosofia e non stupisce che ammiri Giovanni Gentile, studioso meticoloso, di quelli che prendono appunti diligentemente e non si discostano più di tanto dal senso proprio delle parole. Chiunque abbia letto le osservazioni di Gentile in margine al Dialogo di Plotino e di Porfirio di Giacomo Leopardi, sa però quanto ingenuo, ma anche superficiale e sostanzialmente privo di fantasia fosse Gentile, il quale osserva che “il Leopardi ha messo sul labbro di Porfirio sentenze, che un neoplatonico come lui avrebbe tenute poco meno che bestemmie e che nel fatto sono un anacronismo” (G. Leopardi, Operette morali con proemio e note di Giovanni Gentile. Zanichelli, Bologna 1905, p.294). Come se, colto nel bel mezzo di una conversazione familiare, qual è quella con parenti o amici, il filosofo dovesse, anche in quei momenti, ragionare come quando fa lezione.
    Io credo di amare la filosofia non meno di Fusaro e di Gentile ma quando parlo con mia moglie o qualcuno mi confida un suo problema non rispondo mai oracolarmente sforzandomi di andare con la memoria al motto tale di pagina tale in cui un qualche cavolo di grande filosofo abbia di già affrontato la questione. In fondo assai realisticamente il Plotino di Leopardi lascia parlare liberamente Porfirio, il quale gli conferma d’avere propositi suicidi. Davanti a una confidenza del genere solo un professor trombone si mette a fare il predicozzo. Chiunque abbia umanità e voglia realmente essere utile a chi in fondo gli sta chiedendo aiuto, ascolta. Che altro dovrebbe fare? E il Plotino che felicemente esce dalla penna di Leopardi, lascia perfino che Porfirio sostenga che tante cose Platone le dice per convenzione sociale. Cosa non del tutto impossibile, visto che si tratta di un Porfirio che si sta avviando alla filosofia e non ha quelle posizioni alquanto rigide tipiche di chi approda nei suoi studi a delle conclusioni.
    Aggiungerò che un’osservazione del genere, in tutti i tempi, può essere avanzata da qualsiasi studente che abbia un minimo di senso critico. Tutti i filosofi, da Platone a quelli dei giorni nostri, concedono qualcosa alla prosa del quotidiano. Ed è in questo senso strano che di ciò si stupisse un hegeliano come Gentile, il quale avrebbe dovuto sapere come il pensiero di Hegel fosse così sibillino, per il piacere, ma anche per il tormento, dei suoi allievi. Hegel costantemente oscilla tra destra e sinistra. Ora non mi pare di rivelare chissà che, dicendo che nient’altro che ragioni di convenzionale convenienza spinsero Hegel a tanto, in un mondo in cui rivoluzionarismo e reazionarismo dovevano in qualche modo convivere.                                                                                                                        
    Ora, da hegeliano-gentiliano, Fusaro ha riscoperto anche Gramsci e sostiene che, essendo il mondo d’oggi dominato dall’istanza di un neocapitalismo che non tiene in alcun conto gli interessi dei lavoratori, le navi di certe Organizzazioni non governative, ripescando dal mare i profughi libici o dalla Libia provenienti, farebbero il gioco dei neocapitalisti che, avendo bisogno di mano d’opera a basso costo, trovano modo per rifornirsene. L’idea non è nuova e non credo sia necessario appellarsi all’autorità di Gramsci per ribadire cose del genere. Il punto piuttosto è che, se è così, il fenomeno non può scongiurarsi impedendolo, perché, come esiste il contrabbando di armi e di droga, così può esistere il contrabbando di persone ed io ho il vago sospetto che questa pratica già ci sia. Né mi pare cambi molto se gli aspiranti schiavi o semi-schiavi si trovino in mare, in Libia o già bell’e pronti a farsi schiavizzare nel territorio dei tanti nostrani Paperon de’ Paperoni. Essi esistono e tanto basta a rendere concreta la possibilità di reclutarli. Sicché mi sfugge quale in sostanza potrebbe essere il precipuo favore sostanziale che le ong userebbero verso il “sistema” neocapitalistico, ripescando dal mare della povera gente.
    Da quanto si intuisce, si direbbe che Fusaro ritenga per questa via di spiegare le ragioni che inducono l’attuale governo italiano a chiudere i porti alle navi delle ong. Fatto che mi appare alquanto sconcertante. Se si trattasse di droga o di armi, nessuno scrupolo a veder precipitare un carico che reca disturbi di non poco momento ai poveri pesci poco avvezzi ad assumere cocaina o ingerire bombe a mano. Impareremmo cose fin qui ignorate sulle pratiche sessuali dei pesci spada e sulle capacità digestive degli squali. Qui il carico è di esseri umani ed io obietto a Fusaro che non va bene far la guerra a dei poveri profughi per risolvere la questione sociale al più presto. Sarebbe un po’ come pretendere d’essere socialisti per il fatto d’aver fatto fuori tutti i proletari, quindi esclamare: “Il proletariato? Non c’è più! Ha vinto il socialismo! Tiè!” 
    E’ chiaro che la mia è una battuta che vuol solo far cogliere un paradosso che mi pare sia comunque tendenzialmente nella soluzione caldeggiata dall’attuale ministro degli interni italiano che, a quanto capisco, ce l’ha con sospetti trafficanti di esseri umani e se la piglia poi anche con il carico che le persone da lui sospettate trasportano.
    Confiderò a questo punto di non essere un neocapitalista e che non mi piace esser definito per quello che non sono. Tuttavia credo che respingere in mare i profughi per evitare che qualcuno pensi male di me mi sembra, dal punto di vista filosofico, cosi fantasioso da superare il limite del concepibile. Non posso dire a chi cuoce sotto il sole dentro una nave di tornarsene a casa da dove è scappato, a rischio della propria vita, spiegandogli che non ha capito niente di come stanno le cose perché non ha letto Gramsci. Altro che lo snobismo dei non pochi radical-chic nostrani! Siamo al punto di rimproverare ai neoproletari di non esser degni di lavorare nel nostro mondo neocapitalistico per difetto di coscienza di classe. Ohibò! Un po’ come se Plotino a Porfirio, che gli confida istinti suicidi, avesse detto: “Sei un filosofo che non vale una cicca! Non presentarti neppure agli esami perché ti boccio”, che non è propriamente un modo per risollevare lo spirito a chi medita di farla finita.
    E poi parlano di consolatio philosophiae! All’anima della consolazione! Si direbbe una presa per…, cioè mi correggo, tornando a un frasario più filosoficamente paludato, si tratta di quello che dottamente si chiama populismo.
     
     

        

  • CARO MARCO A. PATRIARCA
    TI SCRIVO DI SALVINI...

    data: 27/07/2019 19:27

    Caro Marco, ti scrivo perché vedo che ci troviamo sulla stessa barca e che abbiamo preoccupazioni diverse ma idee sostanzialmente simili. Mi riferisco a quel che scrivi su infodem.it in data17 luglio rivolgendoti al ministro degli Affari interni del nostro paese. (vedere, in questa stessa colonnina, il blog di Marco A. Patriarca, ndr)
    Ricorderai quelle espressioni di aritmetica che da ragazzini ci sforzavamo di risolvere e ad alcuni di noi risultava alla fine che un panino con la frittata costava 1.754.800 lire! Tutto nasceva da due, tre, enne errori che ci si portava appresso per cui una virgola messa male, una moltiplicazione fatta male, dove magari occorreva un’addizione, bastavano a portare alle stelle il prezzo di qualcosa che allora si aggirava realisticamente attorno alle cento lire.
    Ecco: la mia preoccupazione fondamentale è che banali errori che i nostri governanti stanno compiendo rovineranno in poco tempo prima noi e poi loro. A meno che il popolo italiano, capita l’antifona e messo a fuoco l’andazzo, non si dia da fare per deporre quei ministri che ignorano quali siano i loro compiti e le loro competenze.
    Gli italiani dovrebbero sapere che il ministro degli Interni, quando invita i sindacati a ragionare di questioni che esulano da materie di sua competenza, commette diversi errori. Il primo consiste nell’aver fatto perder tempo ai suoi ospiti, visto che qualsiasi delibera, qualsiasi decisione, qualsiasi prospettiva emersa da quell’incontro non fa testo a meno che il Presidente del Consiglio dei ministri, temendo che possa cadere il governo, non citi nel corso di un suo incontro con le parti sociali quell’evento ad esso richiamandosi per una qualsiasi ragione. Fatto che potrebbe accadere nella volontà di placare gli animi e ufficializzare quel che al momento appare più ufficioso che non ufficiale. Ma è un modo tutto nostro, tutto italiano, di mettere a posto le cose. Se però delibere, decisioni e progetti presi e discussi in quella sede dovessero restare lettera morta, se ne certificherebbe la sostanziale nullità e lo stesso ministro avrebbe perso il suo tempo durante un incontro che, per essere politico e non governativo, si sarebbe potuto almeno tenere in altra sede che non fosse il Viminale.                                                                                                        
    Il secondo errore può derivare dal primo, qualora nessuno provveda a sanare l’equivoco e consisterebbe nel fatto d’avere il ministro trascurato per ovvia conseguenza i propri doveri d’ufficio, di fatto prendendosi una vacanza per scambiare quattro chiacchiere poco concludenti con ospiti che, a loro volta, avrebbero potuto meglio impiegare il loro tempo.
    Il terzo errore sta nel non aver valutato che almeno alcuni dei suoi ospiti abbiano aderito all’invito consapevoli di tutto questo e con lo scopo non dichiarato (e perciò non imputabile) di far cadere il ministro in un tranello, cosa che può anche non dispiacere per l’uomo ma indigna chiunque di noi desideri che un ministro della Repubblica abbia rispetto e considerazione da parte di tutti, rivali politici compresi.
    Ma si sa, siamo troppo poco anglosassoni per sposare disinvoltamente una mentalità che infine non ci appartiene. In Italia disgraziatamente la politica si vive come la tifoseria calcistica e se un esponente politico è sotto inchiesta, i suoi compagni di partito fanno quadrato intorno a lui perfino quando l’accusa sia del tutto credibile. E invece logica vorrebbe che, per amore della propria parte politica, si volesse che la mela eventualmente marcia fosse – se veramente tale – gettata lontano con sdegno.
    Che dirti di più? Che l’Italia è una repubblica parlamentare e che è inammissibile che un ministro si rifiuti di riferire in Parlamento su questioni delicate, per di più lasciando che qualcuno dei suoi dichiari disinvoltamente che in Parlamento, mentre lui lavora, si fa la fiction.
    E quali sarebbero gli inderogabili impegni di lavoro del ministro? Non mancare a una riunione del Comitato Nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica che, istituito nel 1981, è “composto da un sottosegretario designato dal ministro, con funzioni di vice presidente, dal capo della Polizia - direttore generale della pubblica sicurezza, dal Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri, dal Comandante Generale del Corpo della Guardia di Finanza, dal Direttore del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e dal Dirigente Generale Capo del Corpo Forestale dello Stato”. Ora è vero che questo Comitato è presieduto dal ministro dell’interno, ma, visto che esiste un Vicepresidente, nulla impedisce che, essendo il Presidente impedito, il Comitato sia presieduto dal Vice.
    Taccio su altre cose, sperando che i pochi esempi fatti siano sufficienti a rintracciare altre gaffe dei nostri governanti.
    Confesserò che io non ho eletto nessuno di questi eletti che oggi, costituendo una maggioranza raccogliticcia, hanno mandato al governo alcuni loro compagni di partito che, con molta disinvoltura, ritengono di dover governare secondo le ispirazioni dei loro elettori. Come se tu e io non avessimo votato e i nostri desiderata non contassero nulla. Secondo me è saggio governare cercando di venire incontro anche a chi oggi non ci è favorevole, nella speranza che possa esserlo un domani. In altri termini si può riconoscere alle volte che, su certi argomenti, i rivali politici possano avere ragione. Nulla del resto è più mutevole del complesso quadro di una situazione politica che spesso è fluttuante. I ministeri in fondo non sono altro che osservatori privilegiati dai quali il ministro può prendere atto di situazioni che neppure sospettava al momento in cui ha assunto il suo incarico. Ma tant’è: il ministro è un leader e ha paura che il suo popolo gli si rivolti contro. I suoi “tifosi” si chiamano “duri e puri” ma io credo che la lingua di Dante conosca espressioni più efficaci, più proprie e più taglienti per designare certi poveri incoscienti.     
    Ti preciso che negli ultimi anni è prevalso in Italia un atteggiamento che non condivido e che consiste nel timore che i governi possano cadere. Per me il fatto che un governo cada è indice che qualcosa non va, ma allora è un bene che il governo cada, specie se quel che non va è ... il governo stesso. Per non cadere un governo dovrebbe essere “virtuoso”. Questo non significa che debba essere fatto di santi, belli e pronti per il Paradiso, ma semplicemente di persone di buon senso che si pongano intelligentemente al servizio del popolo italiano. E qui devo, più che non a te, ai lettori una breve spiegazione.
    Non tutti sanno che prima che si varasse la Costituzione repubblicana i ministri, in quanto ministri (=servitori) del re d’Italia, indossavano in certe cerimonie pubbliche la livrea (esistono le foto che documentano questa realtà!). Ora, se un ministro della Repubblica veste una divisa, questa è una ideale livrea recante le insegne del popolo sovrano. In altri termini, contrariamente a un’opinione diffusa, noi non siamo nello spirito e nel dettato della Costituzione, governati (manco fossimo cavalli o mucche), e io non ho il diritto di scegliere chi mi governa, visto e considerato che sono un libero cittadino e non una pecorella da condurre al pascolo, che invoca il campanaccio per essere il primo della fila dietro all’ineffabile pastore. Nella repubblica democratica – intendo dire – chi governa non comanda ma amministra ed è auspicabile per lui e per noi che amministri bene. Di qui la necessaria precarietà dello status di ministro che deve sapientemente sfruttare le ricchezze del popolo italiano, badando a che sull’aria, sulle acque, sulle coste, sul verde, sul patrimonio culturale, sulle cose che il mondo ci invidia egli sappia investire per l’utile di tutti. Chi questo non sa fare, torna a casa senza tante storie. 
    Una stretta di mano
    Ludovico

             

  • QUEL FECONDO PERIODO
    DELLA NARRATIVA ITALIANA

    data: 24/07/2019 16:55

    Se Manzoni è stato un bravo scrittore, i manzoniani e il manzonismo hanno impedito che il romanzo italiano decollasse davvero trovando, sulla scia di Pirandello prima e del romanzo sperimentale dopo, un abbrivio originale e, quel che più conta, avvincente. Così quel che poteva essere per molto tempo non è stato, nel senso che i passi interessanti in questa direzione si sono compiuti nell’indifferenza generale.                                                                                                      
    La ristampa di Novel.romanzo di Lewis Job, al secolo Luigi Ferlazzo Natoli, uscito in prima edizione nel 1994 e riproposto a distanza di vent’anni dalla casa editrice romana Progetto Cultura, è una preziosa occasione per ripensare a uno dei momenti più fecondi della narrativa italiana. Era l’epoca in cui si andava concludendo la parabola del romanzo sperimentale che sulla spinta della nuova avanguardia aveva accettato di confrontarsi con nuove forme.
    Ed ecco allora l’affermarsi di scrittori nuovi come Ferdinando Camon, Carlo Cristiano Delforno, Nino Savarese, Mario Lunetta, quest’ultimo autore di una significativa prefazione a Novel di Ferlazzo Natoli, un romanzo che provoca il lettore, lo spinge a capire, nel sospetto che infine non ci sia molto da capire nel senso che il romanzo è lì, con la sua carica di nonsense, con cui si civetta con la cultura specie teatrale d’oltreoceano.
    Che si tratti di lavoro, cioè di compito affidatogli (ma da chi? dalle donne che popolano il suo mondo? dagli amici? dai lettori?) o arbitrariamente assunto, Lewis nell’adempierlo si diverte. Gioca con i bordi della pagina, e perfino con le pagine in bianco; gioca specchiandosi ora come Lew, ora come Lou, ora come L. e la figura allo specchio acquista autonomia. Auto-ironia è poco. A tratti siamo all’autosarcasmo. Si rilegga questo passo:
     
    “Caro L./ in questa storia manca tutto”
    “Che vuoi dire Vittoriano?”
    “Sì in questa storia manca tutto manca anche la storia, la trama, il soggetto, il racconto. Non ci sono personaggi. Poniamo L./ Chi è (per chi legge, per il lettore medioborghese o semiproletario) in effetti L., non ha un volto non ha una faccia non ha un carattere ama, fa politica, milita in un partito di sinistra (ma in America si sa mancano i presupposti economici del socialismo) fa il critico, fa lo scienziato. Ma in effetti tutto questo fare mi pare che si possa considerare un non fare. Un personaggio dovrebbe avere un fare perfettamente caratterizzato”.
     
    Personalmente trovo giocosa e divertente quella frantumazione dell’io su cui certa letteratura s’è pianta addosso, come se non fosse diritto di tutti noi partire per la tangente di un sogno ed essere altro da quel che siamo, cosa che, a pensarci, avviene spontaneamente in viaggio. In viaggio il musone si scopre allegro, l’impiegato solerte un impenitente libertino, la casalinga un’amante calda e appassionata.
    Queste cose che cinema e televisione ci mostrano normalmente, non accadono nei romanzi, dove tuttora il personaggio è una palla piede sia dello scrittore, sia del lettore. E’ raro, ad esempio, che il protagonista irrompa sulla scena quando la storia è già iniziata e tanti, che hanno già parlato di lui, annunciandone la presenza, continuano a ragionarne, come accade nel Tartufo di Molière; da Canone inverso di Mausering, Ricky Tognazzi trasse un buon film anche perché il violino gioca nella storia un ruolo certamente non secondario. Per tacere di quel capolavoro che un regista come John Huston realizzò con la trasposizione cinematografica di un bellissimo romanzo di Melville, nel quale la Balena Bianca è una presenza a dir poco incombente.
    E invece tanti scrittori, anche di successo, si confrontano ancora con storie in cui eroi, antieroi ed eroine, chiusi nel loro mondo, crescono, a volte con qualche goffaggine, secondo un disegno narrativo che, senza essere scontato, è però nella generalità dei casi prevedibile. Il bello è che l’80% almeno degli scrittori desidererebbe che dal proprio “capolavoro” un buon regista facesse un film e questo desiderio struggente si vede. Si vede da come lo scrittore, che non ha confidenza con il linguaggio teatrale e cinematografico si sforza a scavare nella psicologia del suo protagonista, quasi a voler convincere un regista scaltrito dal mestiere che il suo personaggio a tuttissimo tondo è stato concepito per la realizzazione di un film. Tanta ingenuità si coglie anche nel fatto che lo scrittore ha interiorizzato gli effetti magici della visione cinematografica ed è lui rapito da un tipo di narrazione il cui linguaggio gli resta estraneo. Non nota che Riccardo, dovendo andare a un appuntamento di lavoro, s’è messo la cravatta che prima non aveva e perde l’occasione per una bella tirata sulla cravatta che è buffa, inutile, non serve, ma a volte può essere necessaria, mettendo in luce quel che il cinema sembra passare sotto silenzio, mentre ce lo fa vedere. Sennò perché farci vedere prima Riccardo col colletto della camicia aperto, poi con tanto di cravatta. Non trova il coraggio per uscire dal seminato di una narrazione piatta dove quel che a Riccardo succede o non succede o anche potrebbe succedere non va mai in primo piano. In primo piano sempre la faccia da bravo ragazzo di quello stronzo di Riccardo che ama Teresa, senza immaginare che domani amerà Giuseppina o, vedi caso, dati i tempi, un Alfio con tanto di baffi.
    Non pensa, come invece vi ha pensato Lewis Job, alias Luigi Ferlazzo Natoli col suo Novel, ad accelerare il ritmo della “narrazione”, moltiplicando gli specchi che il protagonista di una vicenda può avere, tutt’altro che magicamente, a disposizione. E dove lo specchio in senso proprio non c’è, c’è però un qualche cavolo di dialogo da allacciare con un altro essere umano e se il dialogo non è uno specchiarsi, allora va riscritta la storia della letteratura dai tempi dei Greci ad oggi, magari passando per la matrigna di Cenerentola che, delusa dallo specchio, si rifà (complice il pizzo dell’intimo fatto adocchiare a quel babbeo del cacciatore?) ottenendo – lei crede – il cuore di Biancaneve. E il cacciatore, forse confuso (o reso più avveduto?) da altri pizzi e da altre grazie, consegna alla regina il cuore d’una cerbiatta.
    Sicuramente la fiaba ci guadagna a non esplicitare cose che i bambini apparentemente ignorano, mentre – Freud docet – sono sensibilissimi ai particolari della seduzione. Il lettore deve un po’ fremere immaginando e perfino censurando i propri pensieri. Per me sono sempre stato convinto – e credo che Ferlazzo Natoli sia d’accordo con me – che il turpe monatto di manzoniana memoria avesse fatto un pensierino sulla madre di Cecilia… Ma Manzoni tace e il suo tacere è motivo per tornare alla domanda.
    Resta il fatto che il romanzo è romanzo e, se vuole esplicitare certe cose, deve trovare il modo di farlo. Ora mi pare che in questa direzione Ferlazzo Natoli si sia posto fin dall’origine della sua carriera di scrittore. Ben vengano allora le ristampe, se servono a far luce su meriti dimenticati o poco conosciuti.
     
      

        

  • NON SOLO QUELLA LINGUA
    CI LASCIA CAMILLERI

    data: 19/07/2019 18:47

    E’ veramente tanto quel che dobbiamo alla penna di uno scrittore come Andrea Camilleri, con la cui opera si completa il reiterato tentativo di far riemergere dal passato quella che Dante chiamava la lingua della balia e che è poi la lingua viva, quella popolare a cui la lingua dotta deve, più che non si sospetti, la sua sopravvivenza.
    Se grazie a lui sappiamo ormai che i cabbasisi non vanno scassati, secondo la colorita espressione ricorrente sulla bocca del medico legale di Vigata, restio a peraltro doverose confidenze in ore per lui scomode, conosciamo anche la dolcezza di certe taliate (Leopardi scriveva guardature), la tragicità dell’ammazzatina (che è il pluriomicidio) o della rubbatina (che è il furto sistematico e reiterato) perché quello che può sembrare un diminutivo è in realtà, in siciliano, un frequentativo. Né mancano termini tipici della scrittura di Camilleri come mezzorata o tanticchia che diventa anche nticchia con cui propriamente si indica una quantità veramente minima di qualsiasi cosa. Poi, si sa nell’uso la quantità minima a cui ci si riferisce non è mai veramente minima. Perciò, come i due fili di spaghetti, diventano un piatto colmo, il dito di vino mezzo bicchiere abbondante, così una tanticchia di caffè diventa, all’occorrenza, una tazzina.                                                                                                                          
    Quel che piace in Camilleri è il dialetto che irrompe quando la lingua convenzionale – standard,  come la chiamano i linguisti – non basta, e allora il lettore è posto di fronte a un’espressione per lui imprevista ma che nel contesto è inequivocabile, tanto che, con un piccolo sforzo d’attenzione, chiunque può leggere e capire la pagina di Camilleri e arrivare a gustarne la freschezza e la spontaneità. Specie nei dialoghi tra Montalbano e Catarella:
     
    “Chi fu, dottori? Ci abbisogna di qualichi cosa?”
    “Dormivi?”
    Allato all’ingresso c‘erano il centralino e una cammereddra minuscola con una brandina, dove chi era di guardia poteva distendersi.
    “Nonsì, dottori, stavo arrisorbendo le parole crucciate”.
    “Quelle che ci travagli da due mesi?”
    “Nonsì, dottori, io a quelle l’arrisorbetti. Ne principiai uno nuovo”
                                                                               (da La gita a Tindari, Sellerio, Palermo 2000, p.173)
     
    o ancora:
     
    “Pronto?”
    “Pronti!”
    “Catarè!
    “Dottori!”
    “Che fu?”
    “Spararono”
    “A chi?”
    “A uno”
    “Morì”
    “Morse”
    Splendido dialogo di stampo alfieriano.
                                                                (da La paura di Montalbano, Mondadori, Milano 2002, p. 24).
     
    Per tacere delle esclamazioni – domande come: ti capaciti?, E che? Babbio?, Hai chiffari?, tutte domande retoriche perché l’altro deve aver capito…; perché qui non stiamo a prenderci in giro, e tu che non hai un accidenti da fare, mi devi dare retta. Tutti modi di una comunicazione veloce, immediata, dove si fa la cortesia all’altro di sentirsi intelligente, in quanto decifra il messaggio con le allusioni implicite!
    Ma non è solo per queste ragioni che dobbiamo tanto ad Andrea Camilleri. Resteranno, io credo memorabili, alcuni suoi romanzi storici come La mossa del cavallo, che racconta una vicenda paradossale di cui, poco alla volta il lettore si rende conto fino ad appassionarsi agli intrighi che si costruiscono attorno al protagonista. Così anche ne La stagione della caccia. La concessione del telefono è nel suo genere un capolavoro, geniale ricostruzione attenta e rigorosa, ma anche di un’incredibile vivacità, relativa a una vicenda in cui microstoria e macrostoria si incontrano fondendosi l’una con l’altra.
    Incredibile, magica, la forza che abbiamo visto sprigionarsi dalla recente Conversazione su Tiresia. La cosa più commovente è stato vedere con quale forza, con quale lucidità Camilleri abbia saputo tendere, senza mai spezzarlo, stando per di più seduto su una sedia, il filo di un discorso che colpisce per la sua agilità, la sua compattezza, la sua originalità. 
    Non sono parole a vanvera. L’agilità è in tutti i passaggi narrativi, a cominciare dalle imprevedibili reazioni di Zeus e Hera, per finire con l’omaggio a Primo Levi. La compattezza è nella densità di un impasto dove del tutto naturalmente si scopre che a volte i grandi possono essere piccoli, pure quando si chiamano Orazio o Giovenale. Succede e il risentimento che nei loro confronti mostra Tiresia è un tratto di grande generosità di questo capolavoro. Io amo Orazio e credo che lo ami anche Camilleri, il quale – stiano attenti i professori di latino - si è guardato dal fargli le pulci, come il più antipatico e zelante critico, ma finalmente, da Pirandello in poi, un personaggio ha tutto il diritto di pretendere che uno scrittore si ispiri alla sua storia in modo appropriato. E Camilleri doveva prender le parti di Tiresia.
    Ma ho parlato di originalità che è l’aspetto che più mi preme far risaltare in un momento in cui le “cosine” che vediamo in Tv, per quanto tirate a lucido, ripetono gag già viste, personaggi stanchi, sbiaditi, perfino quando vivono drammi da non dirsi, magari perché senza saperlo sono ombre malamente resuscitate di eroi antichi, quasi sapessero di dover apparire una sera o più sere, per poi finire nel dimenticatoio. Da questo punto di vista Conversazione su Tiresia è un bel colpo assestato contro una cultura dell’effimero a cui gli italiani si sono assuefatti.
    Per tacere dell’attore che è stata la sorpresa della serata, con quell’incredibile abilità di cambiare invisibilmente l’abito e da Tiresia, ridiventare Camilleri per ricordare come il suo sguardo si incrociò a via Teulada con quello di Pound. Passaggio repentino, ma assolutamente geniale.

    E’ proprio vero: anche i personaggi sono persone e le persone, quando sono persone vere, sanno essere con disinvoltura anche personaggi.  

  • CHE ERRORE CONTINUARE
    A SENTIRSI "MODERNI"

    data: 01/07/2019 22:21

    Se è vero che siamo tutti figli della nostra epoca, è opportuno per tutti sapere in quale epoca si vive. Sono ormai circa cento anni, se non di più, che l’età moderna si è conclusa e continuare a comportarsi da uomini moderni significa commettere errori, magari gravi, la cui gravità è innanzitutto in questo procedere un po’ alla cieca nella convinzione d’essere ancora nell’età moderna, in realtà da lungo tempo ormai tramontata.
    L’idea di sorpassare la civiltà orientale e la persuasione che quest’obiettivo fosse ormai vicino, ha reso l’uomo occidentale del secondo Ottocento particolarmente arrogante e aggressivo. L’India era una colonia inglese. Francesi e inglesi avevano colonie, protettorati e basi commerciali nell’estremo Oriente ed era l’epoca in cui si misuravano i crani, gli angoli facciali degli individui delle varie popolazioni non bianche per dimostrare la superiorità di una razza “vincente”. Anche le lingue si studiavano (e si catalogavano) nella persuasione che quelle occidentali fossero le più “evolute”.
    A parte questo evidente errore di prospettiva, che tradisce una visione etnocentrica ormai da decenni denunciata nella sua inattendibilità, in quanto fondata su palesi pregiudizi, c’è il fatto che è sotto gli occhi di tutti che l’età postmoderna è quella in cui civiltà occidentale e civiltà orientale si confrontano alla pari, l’una con l’altra, ed è auspicabile che giungano a un’intesa.
    La fine della modernità è quindi sancita dal venir meno di una visione evolutiva della società che non ha tenuto conto di come, pur mutando lo scenario, la vita dell’uomo (occidentale) si è conformata nelle varie epoche a modelli che di poco sono mutati dall’epoca in cui Socrate insegnava ai Greci come si proceda nel libero confronto delle idee. La casa, la piazza, il luogo di culto dell’Atene di Socrate e Platone sono spazi, magari abbelliti e resi più sicuri, nei quali anche noi viviamo la nostra vita. Non è un caso che coloro i quali si interrogarono per primi sulla crisi del mondo moderno (Fredrich Nietzsche, Max Nordau, Oswald Spengler, René Guénon) o cercarono di comporre una crisi che appariva preoccupante (Max Weber, Sigmund Freud e altri) si spinsero a indagare sull’origine della civiltà occidentale e allora divennero autori alla moda quelli che in vita non lo erano stati, come Schopnhauer e Kierkegaard, il primo che può considerarsi un orientalista ante litteram e il secondo che, indagando sul dramma psicologico di Adamo, mette a nudo le ossessioni dell’uomo occidentale. Furono tutte strade che condussero a una svolta storica, quella per cui nell’età postmoderna non è l’emulazione/confronto con gli antichi a costituire la spinta fondamentale, ma tutto quel che ha a che vedere con l’archeologia, e Claude Levi Strauss da un lato e Michel Foucault dall’altro possono oggi indicarsi, accanto al battistrada Jean François Lyotard, fra i campioni del pensiero postmoderno.  
    L’assurdo, apparentemente, è che chi si ostina a fingere di vivere ancora nell’età moderna e cerca il progresso, la novità, la moda, invece d’andare avanti va indietro, trascinando indietro un po’ tutti noi. Il punto è che, nell’età post-moderna, quel che ci appare “nuovo” e che ci attira, è in realtà vecchio, già sperimentato, per non dire superato. E’ sotto gli occhi di tutti il fatto che va configurandosi quel “medioevo prossimo venturo” di cui aveva ragionato Roberto Vacca vari decenni fa. E poco conta che il “nuovo” medioevo sia esattamente quale si configurò allora nella mente di questo geniale e fantasioso profeta dell’avvenire. Il fatto è che montano le nostalgie del passato. E pazienza che siano rigurgiti fascisti o fascistoidi. La cosa che preoccupa è la nostalgia per quello che si chiamò un tempo l’antico regime, quando sul trono di Napoli sedeva un sovrano assoluto del quale si parla oggi quasi con ammirazione.
    E’ vero che molte delle rivoluzioni “liberali” dette anche non so quanto propriamente “borghesi”, sono state come disse Gramsci, riecheggiando Cuoco, “passive”, cioè subite dalle popolazioni che, se furono coinvolte, lo furono marginalmente, illudendosi di benefici che, quando arrivarono, arrivarono tardi, due se non tre generazioni dopo la pur entusiastica partecipazione di nonni e bisnonni alle lotte che in Italia furono dette risorgimentali. E quel ritardo pesò. Pesò su tutti, anche sui promotori del compimento che si sperava felice del “progetto modernità”. Progetto che si concluse con l’affermarsi del liberalismo, da molti scambiato per ideologia borghese, mentre si tratta di nient’altro che di una teoria che propugnava un libero mercato nel quale le merci (e le idee) circolano senza frontiere, senza dazi, senza tasse aggiuntive. 
    E’ chiaro che, passando dalla teoria alla pratica, per quanto io possa essere un bizzarro collezionista di oggetti particolari, abbia qualche difficoltà come privato ad acquistare un carro armato, per il piacere d’andarci in giro in una mia tenuta. Sicché, per ragioni di ordine pubblico, e per giusta prudenza, ci sono poi restrizioni alla libera circolazione delle merci. Così, ad esempio, i medicinali si comprano in farmacia, presentando, quando sia richiesta, la ricetta di un medico.
    In questo senso il liberalismo, perfino come liberismo, non è affatto incompatibile con un socialismo che consista nella tutela, nella conservazione e nel potenziamento della ricchezza comune. Una città che sia ben tenuta, è meta turistica, specie quando, come tante cittadine italiane abbia tante cose da offrire a cominciare dai tesori d’arte, per finire con un buon pasto. E ciò di cui può beneficiare un turista è, a volte, anche qualcosa di cui può beneficiare un povero vagabondo. Gabinetti e docce attrezzati, posti di pronto soccorso, luoghi di ristoro in cui convogliare almeno la parte intatta e ancora sigillata di quel che resta di un ricco buffet offerto a un pubblico ricevimento possono alleviare tante difficili, difficilissime situazioni di emarginazione. Insomma il benessere diffuso non deve consistere in un geloso uso esclusivo di quel che possediamo e che possiamo, in certi casi senza alcun fastidio da parte nostra, condividere con altri.
    Faccio questo ragionamento con uno scopo ben preciso. Una delle ragioni per cui tanti fra noi si ostinano ad essere moderni è dipesa dalla convinzione che una tappa ulteriore al progresso civile consistesse nella rivoluzione socialista.
    Ed è stata questa convinzione nei fatti sbagliata a farci tornare indietro invece d’andare avanti, prendendoci cura di quanto con impegno e fatica era stato realizzato dalle generazioni precedenti. Evviva la Francia – verrebbe da dire – che di un monumento convenzionalmente brutto come la Torre Eiffel ha fatto un glorioso simbolo della raggiunta modernità!
    A chi per tanti, apparentemente assai fondati motivi, accusa questo ragionamento come un ragionamento tipicamente reazionario rispondiamo che il reazionarismo è stato nel corso del Novecento nel socialismo rivoluzionario, dove quello riformista avrebbe garantito risultati insperati.
    Velleitario, teorico, ispirato a una morale vagamente eroica e fondato su un’ideologia che quanto più è stata rigida più è diventata mitologia, il socialismo rivoluzionario è servito solo a rallentare lo sviluppo sociale in senso socialista.
    Questo non solo perché ha suscitato una reazione in qualche modo prevedibile dell’establishment, rimprovero troppo vile perché si possa pretendere di avanzarlo ragionevolmente. Il punto è un altro: il rivoluzionarismo socialista, dalla rivoluzione russa in avanti, ha commesso l’errore di non considerare che Lenin non rappresentava altro se non la fazione “moderata” di una rivoluzione che, mirando al socialismo, sovvertiva un ordine di tipo feudale che le precedenti rivoluzioni “liberali” non erano riuscite a scardinare. Lenin, non a caso, arrivò a sostenere quanto avrebbe dovuto indignare qualsiasi socialista, a cominciare dai socialisti “umanitari” ai quali Marx appuntò severe critiche, per finire con Marx stesso. Egli sostenne che fossero “borghesi” certe libertà quali la libertà di stampa, di pensiero, di associazione, forse ignorando uno scritto minore di Karl Marx nel quale si ironizza moltissimo e con grande arguzia circa la censura.
    Se poi guardiamo al suo successore, cioè Stalin, la definizione forse più appropriata del personaggio ci pare sia quella di uno “Zar rosso”. Né si comprende per quale ragione la rivoluzione russa dovesse derogare a una regola che dalla “gloriosa rivoluzione inglese” a quella americana e a quella francese, giungendo alle molte che nel Quarantotto alzarono le bandiere di libertà, aveva visto trionfare sempre la fazione moderata, comunque e sempre vincente su quella “radicale”.
    Continuando il ragionamento – forse per certe contraddizioni che appartengono all’animo umano – può veramente dirsi che il socialismo rivoluzionario fu alimentato da leader che, salvo qualche rara eccezione, non appartenevano certo al proletariato. Diversi fra di loro, ora come intellettuali, ora come politici, si guadagnarono un posto di tutto rispetto sul piano della scala sociale in un mondo che assai poco aveva di socialista. La lista è troppo lunga e si va dal “barone rosso” che insegna all’università in tempi in cui l’insegnamento universitario dava prestigio, al giornalista, al cineasta, all’editore che comunque sia, è integrato al sistema che critica. Cosa del tutto legittima e mi pare sia una volgarità condannare sul piano morale un comportamento che, se è criticabile, lo è sul piano politico, in quanto non ha senso lottare per una causa che non ci appartiene autenticamente.
    In altri termini, per quanto generoso possa essere lo slancio che mi porta a difendere i “deboli”, se “debole” non sono difficilmente troverò la via per condurre fino alla vittoria una causa che, nobile per quanto, appartiene ad altri e non a me. Questa lotta sarà sempre e comunque all’insegna di un inguaribile velleitarismo.
    Non ci si dimentichi poi di quel socialismo rivoluzionario che, come tanti di noi sanno, si caratterizzò come socialismo da salotto, dove la gara non era a chi fosse più socialista, ma a chi fosse più moderno, di più “larghe vedute” dove apparire moderni era essenziale anche a costo di suscitare qualche piccolo brivido negli anziani che legittimamente dissentivano, rispondendo al ruolo loro assegnato. E qui torniamo all’errore di cui si ragionava all’inizio. Chi si ostina ad essere ancora moderno è in realtà oggi fuori della sua epoca e, ostinandosi ad essere moderno, fa danni, spesso compromettendo i risultati conseguiti a conclusione dell’età moderna.
    Chiarisco dicendo che il postmoderno non ha alcuna ragione per essere contrario a un socialismo inteso quale benessere allargato e diffuso che invano si cerca con le vecchie rivendicazioni sociali e che, invece di consistere in una alquanto becera (e medievale) concezione che vorrebbe si procedesse a una ridistribuzione della ricchezza, consiste più pragmaticamente in servizi garantiti alla popolazione.
    Chi vive nella postmodernità deve anche rendersi conto che le nuove forme di capitalismo basate sul profitto a tutti i costi portano a far sì che i pesci grossi mangino, come sempre, i pesci piccoli. Ma poi, quando i pesci piccoli sono finiti, inizia una lotta tra pesci grossi e quando saranno rimasti solo quelli di tutti più grossi non resterà, a chi vorrà sopravvivere, altra pratica che non sia il cannibalismo. Ma è dubbio che si arriverà mai a questo punto.
    Aveva ragione Marx: il sistema economico imploderà su se stesso, creando sacche sempre più larghe di povertà. A scongiurare una possibile ribellione di disperati che, a quanti si ostinano ad essere “moderni” apparirà una rivoluzione e sarà solo, se ci sarà, una disordinata rivolta, basterebbe tanto poco. In un paese come il nostro dove tanti evadono il fisco, sistematicamente rubando ai poveri, sui quali pesano cose come i tagli alla sanità e all’istruzione, basterebbe far rispettare le leggi che ci sono, invece di farne nuove che somigliano a quelle vecchie su cui ironizzava Manzoni parlando della Milano del Seicento. E come nel Seicento, la galera sta tornando un luogo di discriminazione sociale aperto ai poveri veri, che vivono in situazioni di degrado se non di abbrutimento nell’indifferenza di chi discetta di cambiamenti e di progresso. Ma i reietti della società sono, fra i delinquenti, pesci piccoli, quelli grossi o sono latitanti da vent’anni o vivono da nababbi in paesi remoti, anche se qualcuno ogni tanto in galera ci finisce. Ed è forte il sospetto che in questo caso sia lì per comandare ed esercitare la sua indiscussa autorità.

    Così va il mondo che si ostina a definirsi “moderno”. 

  • POVERTÁ, UNA MALATTIA
    BRUTTA E CONTAGIOSA

    data: 25/06/2019 09:14

    Che la povertà sia contagiosa è un fatto ormai palese. Basta che si formino, specialmente nei quartieri delle grandi città delle sacche di povertà, veri e propri ghetti, e il contagio dà il via a un processo irreversibile. Quando poi dilaga, si radica. Ed è allora che nascono atteggiamenti politicamente pericolosi, spia di un’immaturità politica tipica di chi, senza sua colpa, sia povero o alla povertà sia approdato.
    Il punto è che la povertà non crea in chi la vive solo i disagi che chiunque non sia povero può immaginare e che, in alcuni casi, portano alla disperazione. Infatti, tirando la cinghia oltre il consentito, ogni mese che passa è sempre più difficile far fronte ai debiti, che verso gli altri (e verso se stessi) si sono accumulati. Nei casi più gravi l’accumularsi delle rinunce fatte porta a forme di degrado che preludono a un vero e proprio abbrutimento della persona. Ed ecco la violenza nelle famiglie, dove le vittime sono i più deboli cioè i bambini e le donne.
    La povertà crea emarginazione e il vero povero è tagliato fuori da tutti i circuiti di una comunicazione all’interno della quale si compiono sforzi sempre maggiori per capire, definire e controllare quella che molto banalmente definiamo la “realtà”. La “realtà” purtroppo non è oggi sotto gli occhi di tutti, come con disinvoltura comunemente si ritiene. Essa è oggetto di esame e di discussione da parte di politici, ma anche di giornalisti, di sociologi, di economisti. di giuristi e di politologi.
    Se di questo faticoso processo non si ha idea, perché non si hanno neanche gli strumenti per informarsi circa il dibattito, si è politicamente assenti. Ma di questa assenza non si ha consapevolezza. Non so dire quanto l’astensione dal voto, accompagnata da altri indicatori sia fatto sintomatico del trovarsi vicini alla soglia di povertà. Sicuramente la si è varcata quando il voto diventa un voto di protesta fine a se stessa.
    Il povero legge, quando è alfabetizzato, senza curarsi di darsi spiegazione delle parole che non conosce, spesso cadendo in equivoci anche circa nozioni tutto sommato abbastanza semplici. Il mondo è ciò che vede e poco o molto poco sa di tutto quello che è stato negli ultimi cento anni oggetto di definizione e di dibattito delle scienze. Inoltre assai difficilmente riesce a leggere tra le righe. Con questa stessa superficialità va al cinema e assiste a una partita di calcio.
    è questo l’aspetto politicamente più inquietante della povertà. Comporta un regresso del cittadino allo status di suddito, il suddito essendo chi non è in condizione di partecipare responsabilmente alle decisioni della vita pubblica. Va a votare ma non sa esattamente per che cosa vota, se è vero che molti ritengono di andare a votare alle elezioni politiche per “mandare al potere” questo o quel partito. Ignora che i deputati e senatori che siedono gli uni alla Camera, gli altri al Senato, hanno il compito istituzionale di fare e discutere le leggi. Nonostante nel corso di una legislatura cadano normalmente più governi, continua a ritenere d’aver votato per la composizione di un governo. Ignora che una compagine governativa non “comanda” (siamo, almeno formalmente, in una democrazia!) ma è tenuta a governare nel rispetto delle leggi e nel nome e per conto dei cittadini, sia di quelli che hanno eletto i partiti di governo sia di quelli che hanno votato sperando che le minoranze che precariamente governano, per effetto di un’alleanza tra di loro, perdessero le elezioni. Se ne conclude, che sul piano dell’incidenza politica, oggi in Italia, al povero non resta che ricondursi a un senso elementare di giustizia. Giusto! Ingiusto! Giusto va bene, sennò, paghi.
    Quella terza possibilità che la classe dirigente di ogni paese e a ogni latitudine conosce assai bene da secoli – per cui una cosa “sarebbe giusta ma...”, quell’altra “sarebbe ingiusta ma...” – ripugna alla coscienza popolare e quando furbi, furbetti e furbacchioni fanno leva su una visione ispirata a un astratto moralismo, il popolo è ricacciato nei tuguri da cui con molta fatica era stato tirato fuori nei paesi della civile Europa, a cominciare dalla fine dell’Ottocento, per acquisire una coscienza diversa, secondo quanto sembrava fosse ormai prossimo ad accadere nel secondo dopoguerra.
    Per me la postmodernità consiste nel prendere atto di questa cosa: se la povertà non si contiene, dilaga causando gravi danni, tanto da mettere in ginocchio le più grandi città a cominciare dalle megalopoli e dalle metropoli. Di qui l’esigenza sempre più urgente di porre un freno a meccanismi sociali innescati dall’ottimismo dei moderni. I nostri nonni furono legittimamente fiduciosi nel progresso, spingendosi a credere che il progresso dovesse agire spontaneamente, quasi fosse un correttivo di eventuali errori compiuti da politici distratti.
    Oggi sappiamo che un atteggiamento del genere non ha più senso. Proprio perché la povertà incombe.
    La ricchezza non è come appare ai poveri. Ha tanti aspetti, che vanno oltre l’avere tanti soldi. Per dirla in due parole quel che discrimina il ricco dal povero è la positività delle tre voci tradizionali dell’oroscopo, cioè la buona salute, il successo nel lavoro e negli affari e infine la fortuna negli affetti. E’ chiaro che si tratta di una semplificazione, ma mi pare funzioni per dire che la tanto agognata serenità che tanti cercano si ritrovi poi in queste tre cose. E’ il possesso di queste tre cose che ti mette in condizione di investire e l’investimento che più di ogni altro rende è quello su sé stessi, cioè il mettersi in gara. Cosa che al povero è proibita dai fatti.
    Il povero, quello autenticamente disperato, alla perenne ricerca di denaro che spesso si procura in modo “illecito”, vive pericolosamente, ora rischiando la galera, ora perfino la vita in cambio di quello che riesce a procurarsi, che il più delle volte è una ricchezza che non sa nemmeno come investire. Tanto che quando vince al lotto, in poco tempo la vincita è sperperata e lui torna quello di prima.
    Oltre certi limiti la povertà induce al degrado, che è uno stato pericoloso per tutti. Dove c’è degrado c’è ignoranza, c’è delinquenza, c’è sporcizia. La sporcizia comporta malattie che fanno più facilmente la loro comparsa in ambienti malsani, diffondendosi poi nella aree urbane a macchia d’olio, al punto che malattie in passato scongiurate sono riapparse e altre nuove e aggressive si sono diffuse e si diffonderanno. La delinquenza rende malsicure le vie cittadine. A volte una telecamera e un lampione basterebbero a scongiurare un furto, uno scippo, un’aggressione.
    L’ignoranza non fa danni minori. L’ignorante è infatti convinto che questi mali debbano combattersi frontalmente, invece di rimuoverne le cause. Ed è tutto contento a chi propone la certezza della pena a chi commetta un reato. Silvio Berlusconi sostiene che tutti i cittadini italiani sono per legge innocenti finché non sia pronunciata nei loro confronti una sentenza di condanna nel terzo grado di giudizio. Ma quanti sono i poveri che possono ricorrere in Cassazione e godere del patrocinio di un eminente principe del Foro?
    Le pene più severe e aspre colpiscono i ladri che non sanno rubare e gli assassini che non conoscono l’arte di istigare gli altri a commettere il delitto del quale loro non si sporcheranno mai le mani.                                                                            
    Il povero non sa che, perché nessuno glielo ricorda, che la tradizione del diritto italiano non si ispira, a cominciare già dall’Ottocento, a un criterio punitivo, facendo valere piuttosto il principio secondo cui si persegue il reato, non il reo. Un tale atteggiamento comporta che chi governa debba scongiurare fenomeni come la mafia, lo strozzinaggio, il femminicidio, lo sfruttamento della prostituzione. E l’unica è combattere la povertà. Assicurare alle patrie galere quelli che in gran parte sono vittime della società in cui viviamo si traduce in soldoni in una lotta ai poveri che non porta da nessuna parte, se non ad aumentare la povertà fino a trasformarla in miseria e in indigenza. 
    Si parla di compensare le spese dal governo sostenute, operando tagli alla Sanità e all’Istruzione! Sicché il reddito di cittadinanza vien fatto pagare, magari con gli interessi, a quanti l’avranno ricevuto e che lo spenderanno per mandare i figli a scuola e pagare un ticket più alto per le medicine. 

    Credo che tutti quelli fra di noi che ancora riescono bene o male a vivere decorosamente, abbiano il diritto di pretendere che chi governa ponga un freno al dilagare della povertà. Se la povertà non si combatte, il rischio che essa si diffonda sempre di più è veramente alto. A quanti sottovalutano il fatto ricordiamo che la ruota della fortuna, in certi casi, gira e gira vorticosamente, e quanti oggi sono “ricchi” potrebbero domani ritrovarsi poveri. 

  • LE TANTE "CATTEDRALI"
    CHE BRUCIANO E NESSUNO
    SE NE ACCORGE

    data: 09/06/2019 18:47

    Che una delle principali cattedrali della cristianità bruci è una cosa che fa male a tutti noi. Una cattedrale non è solo una chiesa, è anche il voto dei fedeli che l’hanno edificata, a cominciare da quanti hanno fatto dono della propria opera per costruirla, da chi l’ha progettata a chi semplicemente ha materialmente posto mano all’opera.
    Ci sono però tante cattedrali che bruciano e pare che nessuno se ne accorga. Non si tratta di luoghi di preghiera e neanche di edifici. Sono le opere a cui è legato lo spirito della modernità. Alludo alle opere filosofiche il cui senso, assai annacquato per chi le abbia lette davvero, si ritrova (?) nei manuali di scuola. Alludo a capolavori dell’arte e della letteratura, le prime stipate a volte in musei che ne soffocano lo spirito di novità che le animava, le seconde mal commentate secondo tradizioni interpretative di scarso spessore.
    La cosa è grave, se si pensa che la modernità è stato un obiettivo a fatica realizzato e che faremmo bene a mantenere il più possibile intatto. Ricordare e preservare dalla distruzione le magnificenze della civiltà greco-romana e di quella medievale va più che bene, ma questa “memoria” perde di senso, se non curiamo le eredità più recenti.
    Lo stato moderno, nato dal diritto costituzionale che pone la Costituzione a fondamento di un civile ordinamento giuridico, sta regredendo verso lo stato feudale. Se la mafia è la più tipica delle organizzazioni di tipo feudale, non manca poi un’esenzione fiscale di cui godono di fatto alcune categorie di persone. C’è non a caso chi parla di “casta”. I privilegi ad personam, con cui procedeva la macchina dell’economia feudale son tornati di moda. I figli spesso ricalcano le orme paterne abbracciando la carriera di papà. Per non dire che i “potenti” sono omaggiati e riveriti. Di tutto questo pochi s’ accorgono, nonostante siano tanti i segnali che in tal senso vengono dal mondo della politica. 
    Ci si domanderà: forse che una costituzione può paragonarsi a una cattedrale?
    Ecco, per me, già questa domanda dice tutto. Per me la costituzione o statuto è innanzitutto la codificazione dei principi stabiliti da una comunità di studiosi, che vogliano indagare i fenomeni naturali, per come questi si conformano alle leggi (di natura). Se nella fisica newtoniana non si fossero stabiliti i principi della dinamica, non sarebbero state possibili molte delle più interessanti scoperte che in quel settore si son fatte a partire da Galilei per finire con Maxwell. Dopodiché qualcosa cambiò e dalla fisica classica, si passò alla fisica moderna che utilizza altri principi. Sul piano delle scienze giuridiche è esattamente la stessa cosa. Se alcuni principi generali non si assumono come inderogabili, l’intero quadro di un ordinamento giuridico rischia di saltare, perché le leggi create a prescindere dai principi ispiratori, finiscono coll’inseguire le situazioni specifiche di categorie a vantaggio delle quali (o contro le quali) si varano norme ispirate al senso comune. Quest’ultimo, che tanti confondono col buon senso, non è altro se non l’umore della folla che chiede condanne esemplari e assoluzioni immediate.
    Io credo che la Costituzione, grazie alla quale nasce qualcosa che può ben dirsi “scienza della legislazione” sia un riparo per i cittadini operosi che, attraverso il lavoro, intendano agire nell’interesse proprio e altrui, rivendicando quella particolare dignità che consiste nel diritto d’essere e di sentirsi utili. Ora la misura dell’utilità del mio operato, in relazione al contesto sociale in cui mi trovo, non può venirmi altro se non dalla soddisfazione di vedere che tanto io quanto gli altri dirigiamo tutti il nostro agire, uniformandoci a principi generalissimi che valgano per tutti e per ciascuno. L’azione del personaggio politico, del medico, del professore, dell’operaio trova senso nello sforzo comune di preservare diritti e soddisfare ai doveri che si hanno in quanto cittadini di uno stato.
    Tutto cambia quando le Istituzioni rispondono nei fatti a scopi diversi rispetto a quelli originari. Il Parlamento non è più in Italia l’organo legislativo, la funzione legislativa essendo ormai, nelle materie più importanti, assolta dal governo. Il Parlamento sembra esser diventato piuttosto un serbatoio di voti per sostenere il governo, la cui lunga durata sembra costituire la maggiore preoccupazione politica. In una democrazia che si rispetti i governi cadono perché non vanno ed è allora un bene che questo succeda. Inoltre non dovrebbero avere più di tanto un colore politico, governandosi nel nome e nell’interesse di tutti i cittadini, anche dei tanti che hanno espresso un voto contrario a quelle minoranze che, alleate, formano la compagine governativa. Questo non vuol dire sposare la logica dell’avversario, quanto piuttosto impegnarsi a dimostrare con i fatti di riuscire a risolvere i problemi concreti di tutti. Ciò che, a mio avviso, nessun governo, compreso l’attuale, è riuscito a fare da circa venticinque anni a questa parte.
    D’altronde sono anni ormai che della Costituzione italiana e della sua esistenza si prende atto solo da parte di studiosi. Per molti cittadini e per alcuni politici è come se non esistesse, come se si trattasse di un’utopistica e sorpassata visione delle cose. 
    Non era Erasmo da Rotterdam che, proprio agli inizi dell’età moderna, lamentava nei religiosi zelanti nell’osservare le regole dell’ordine religioso di appartenenza, la singolare follia che consisteva nell’ignorare il Vangelo? E che cos’era il Vangelo per la pratica religiosa, se non una sorta di costituzione, di carta fondamentale a cui sistematicamente ricondursi?
    Allo stesso modo noi oggi inseguiamo logiche di partito, poco curandoci del dettato e dello spirito della Costituzione. Per usare una metafora nautica, il timoniere deve stare al timone, ma se del timone non conosce l’uso né le funzioni, urge che scenda dalla nave, nel primo porto che capita.

        

  • PADRI BAMBOCCIONI

    data: 14/05/2019 15:11

    Bamboccioni. Così vengono oggi definiti tanti giovani italiani. Ma siamo sicuri che i “bamboccioni” siano veramente loro? Io dubito fortemente che sia così. La commedia all’italiana, cioè quel genere di film tra il comico e satirico che per un certo periodo ci ha divertito e che oggi appare a tanti un po’ stucchevole, ha sempre preso di mira il tipo del bamboccione, a cominciare dai Vitelloni diFedericoFellini, che solo per certi aspetti può rientrare nel genere della commedia all’italiana. E ancora prima Michele degli Indifferenti di Moravia è un po’ il prototipo del giovane italiano che si perde davanti alle scelte difficili. Tanto basta a dire che il discorso non nasce oggi. Siamo forse alla terza generazione (se non più) di giovani bamboccioni. Da questo punto di vista il grave non è tanto che siano bamboccioni i figli, quanto che lo siano (lo siano stati) i padri. E di padri bamboccioni è piena l’Italia. E l’ipotesi che si nascondano dietro l’accusa d’esser bamboccioni che rivolgono ai loro figli lascia alquanto sconcertati.
    Non mi riferisco all’uomo disinvolto e intraprendente che ama la vita avventurosa. Mi riferisco al tipo del giocherellone, che punta sulla simpatia che suscita negli altri per condurre a buon fine “affari” d’ogni tipo, da quelli “sentimentali” agli affari veri e propri che non sono sempre chiari, tanto da assumere spesso l’aspetto dell’intrallazzo. E qui la letteratura, il cinema e perfino la fiction televisiva offrono esempi a mai finire. Se non mancano eroi (cioè antieroi) che, giovani, si caratterizzano in tal senso, non mancano uomini d’età matura che chiedono addirittura ai loro figli aiuto. Mi riferisco all’imprenditore disinvolto che, privo di denari, trova un finanziamento ovviamente indebitandosi e, a cuor leggero, avvia un’attività, magari pronto poi a liquidarla, la volta che potrà disporre di un indennizzo. Infatti spera di ricominciare come prima, cosa che si mostra impossibile. Quando poi tutto va male cerca quasi piangendo la comprensione dei figli.
    Questi inguaribili bamboccioni da vecchi diventano più brontoloni e scontenti di altri perché non sanno accettare la vecchiaia. Da vecchi anzi sono veramente insopportabili, perché da simpatici che erano in gioventù diventano antipaticissimi in vecchiaia.
    Generalmente sono i padri peggiori. Assenti e menefreghisti, non sanno offrire esempi validi ai figli, abituati a sentire il racconto delle “prodezze” paterne, spesso consistenti in puri atti di sopraffazione nei confronti di poveri ingenui e sprovveduti, in inganni e imbrogli dove papà fa sistematicamente la figura del “dritto” fin dai tempi della scuola, e da quelli del servizio militare, fino ai primi impegni di lavoro. Possiamo escludere che il “bullismo” nasca da qui?

    Con questo non voglio dire che un padre debba essere una specie di Matusalemme perennemente imbronciato e serioso, incapace di allegria al punto da non scherzare mai con i figli. Il mestiere di padre è difficile e non in tutte le situazioni della complessa realtà del mondo d’oggi è possibile assolvere ai tanti obblighi che riserva un mestiere del genere. Ma insomma fare lo sforzo d’essere credibili è il minimo che si possa chiedere a chi si disponga a fare il padre con un qualche senso di responsabilità.    

  • CITTADINI E POLITICI:
    DIRITTO AL SOSPETTO

    data: 24/04/2019 18:07

    Secondo un’agenzia Ansa “a una domanda su possibili scambi con il M5s tra il voto sull’autorizzazione a procedere per la vicenda della nave Diciotti e il via libera alla Tav" Matteo Salvini, attuale ministro degli interni avrebbe a suo tempo dichiarato: “Il prossimo che ne parla lo querelo". Fermo restando il diritto di ogni cittadino, ministri compresi, a tutelare la propria immagine e il proprio nome, resta il fatto che la politica degli ultimi trent’anni ha legittimato i cittadini, che con più attenzione seguono i fatti della vita politica, ad avere sospetti, dove il sospetto non è una cosa in alcun modo condannabile, come non lo è una domanda che a tale sospetto dà libero seguito. Io confiderò che il sospetto che ci possa essere un accordo tra forze politiche consistente in un “do ut des” risponda pienamente al clima politico dei nostri giorni in Italia e fuori d’Italia. E mi lancerò a sostenere che è forse stato così in tutti i tempi, per cui un certo Cavour azzardò di parlare della politica come di arte del compromesso.
    Perciò credo che di queste cose non solo si possa ma si debba parlare, anche perché abbiamo tutti le orecchie per sentire quel che si dice o anche semplicemente si sussurra. A parte i social su cui oggi cade l’attenzione degli osservatori politici, c’è la chiacchiera di autobus, quella del mercato e l’altra, un po’ più nobile del caffè che rimbalza fin nelle osterie. Si va da vieti luoghi comuni del tipo “il più pulito ha la rogna” a osservazioni pungenti e, ahimè, “azzeccate”, sia pure solo come battute.
    Chi è personaggio pubblico deve, secondo me, rassegnarsi a leggere sui muri pesanti insulti al proprio indirizzo, confortandosi del fatto che siano anonimi e quindi espressione di un pensiero non troppo coraggioso, che calcando un po’ la mano, si può anche definire vile. Il politico in particolare deve aspettarsi che il dibattito sul suo operato tocchi corde incautamente malevoli e forse sarebbe utile che Salvini sapesse che un certo Giolitti ebbe modo di assistere a uno spettacolo su di lui intitolato Turlupineide (il titolo rende bene l’idea) e fu visto ridere con gusto seduto nella prima fila del teatro in cui Turlupineide fu dato.
    Io non so se sia vero (mi è stato raccontato da qualcuno che ritengo bene informato), ma pare che digitando su un motore di ricerca di seguito al nome e cognome dell’attuale ministro degli interni una certa parolaccia, non compaiono stringhe di testi in cui egli (o dobbiamo dire Egli?) sia così tristamente e volgarmente definito, ma il suo volto sorridente e sornione.
    Se tutto questo denota una certa predisposizione al gioco, induce però a un sospetto, cioè che gli uomini politici di oggi inclinino più a esperire modi per propagandare la propria immagine che non ad affrontare i gravi impegni a cui sono stati chiamati andando a governare un paese. Altrimenti come trovare il tempo per il sarto, il parrucchiere, l’estetista, il dentista, l’intervista alla tv e alla lettura delle cose sconce che si dicono su di loro?
    Torna alla mente il capitano che Archiloco, il quale oltre a fare il poeta era anche un soldato mercenario, diceva di preferire!

    Sull’Italia premono questioni e problemi non risolti e di grande urgenza. La ricchezza di questo paese, che è compito dei governanti amministrare, consiste del bel cielo d’Italia, dei boschi, delle coste, dei monti, dei beni artistici e culturali, delle città ricche di storia, meta di turisti sempre più delusi dai servizi che non sono erogati o sono malfunzionanti. Non si offenda il ministro Salvini se gli si ricorda che egli occupa precariamente il ruolo che attualmente riveste per cui, a proposito di sospetti, gli domandiamo: Che cosa accadrà quando, sparendo il suo astro politico che sportivamente gli auguriamo possa a lungo splendere, queste cose risulteranno essere state irrimediabilmente trascurate, più del dovuto? Sono ormai anni che si parla, e a buona ragione, di degrado ambientale e culturale. Che cosa fa l’attuale governo per correggere questi mali? Intende querelare chi ne parla? 

  • IL TESORO DI S. GENNARO
    PER SALVARE NAPOLI?

    data: 15/04/2019 19:10

    Operazione San Gennaro è il titolo di un famoso e divertente film di Dino Risi realizzato nel 1966. Si immagina che una banda di ladri voglia impadronirsi dell’immenso tesoro del napoletanissimo santo, il cui valore pare sia superiore a quello del regale tesoro della Corona inglese. Inutile dire che con molto garbo il film allude alla questione che noi qui intendiamo porre esplicitamente. Posto che per il popolo napoletano il tesoro di San Gennaro non si tocca, c’è però il fatto che, alienandolo anche solo in parte, si disporrebbe di tanto denaro da risolvere molti ma veramente molti dei problemi che affliggono la città, arrivando a costruire, salvo nostro errore, una Napoli 2 moderna, accogliente ed efficiente, in cui trasferire la popolazione che vive nei quartieri degradati della città, che potrebbero trasformarsi in aree museali. Qui il turista, curioso di conoscere gli aspetti del folklore locale, avrebbe modo di muoversi negli spazi dei vasci, animati magari da figuranti che si esibiscono in canti, balli e sceneggiate.

    Se in altri tempi l’idea poteva apparire coraggiosa, in quanto capace di turbare i sonni di tanti buoni napoletani, ci pare che oggi la necessità di aderire a un modello di vita improntato a una qualche modernità, imponga a ogni persona di buon senso il richiedersi a che cosa possa mai giovare un tesoro costituito da oggetti che, ricchi di un valore originariamente poco più che simbolico, si è nel tempo incrementato incredibilmente, tanto da poter dare, proprio come tesoro, la possibilità di risolvere problemi a chi ne sia possessore. Risanare interi quartieri della nobilissima città di Napoli è, dal nostro punto di vista, un’occasione imperdibile. Infatti, da un lato la popolazione potrebbe veramente dire che “San Gennaro ha fatto la grazia”, rinunciando al concetto in qualche modo “egoistico” di un favore concesso alla persona, per considerare quanto importante sia la ricchezza comune che rende la vita più facile a tutti, emarginati compresi.

    D’altro lato l’Europa plaudirebbe alla scelta di utilizzare una risorsa con cui potrebbero oggi ripagarsi i sacrifici di un’intera popolazione. Sacrifici gravi quanto più se ne consideri il valore che hanno sul piano della storia locale.

    Napoli conquisterebbe l’aureola di città moderna, dismettendo come d’incanto l’abito sempre più scomodo di capitale di un’Italia borbonica e levantina.

  • UN "PICCOLO" CHE VOLLE
    FARSI "GRANDE"

    data: 23/03/2019 18:19

    La storia di un paese è in qualche modo la storia di chi lo ha rappresentato. Se questo è vero alla coscienza di una nazione, lo è ancora di più alla coscienza di un popolo che a quella nazione sia vicino per ragioni storico – politiche. Quale più quale meno, a tutti i vicini di casa un popolo appare diverso da quel che crede d'essere quando pensa ai tratti costitutivi della propria identità culturale. Questa cosa che vale per tutti, vale in modo particolare per noi italiani che siamo, agli occhi delle altre nazioni europee “consorelle”, un bel po' diversi da come sembriamo a noi stessi. E' un fatto che noi ci consideriamo intelligenti, creativi, fantasiosi e geniali, mentre gli altri ci vedono vanagloriosi, imbroglioni, inattendibili e poco seri. Il divario nel giudizio è considerevole ed è bene che da parte nostra se prenda atto.

    La storia non ci ha certo aiutati. Arrivati quasi per ultimi a darci una forma di Stato indipendente, dopo che Inghilterra, Francia, Spagna, Olanda, Svezia, Norvegia avevano ormai da lungo tempo raggiunto questo traguardo, che era bene o male visto come traguardo di civiltà, abbiamo voltato le spalle alle conquistate libere istituzioni, cadendo in una dittatura come quella fascista.
     
    1. Il fascismo visto dai non italiani: l'immaturità politica di un popolo
     
    Il punto grave, tanto da allarmarci, è che quell'infantilismo morale e civico, che all'uomo medio italiano viene rimproverato ogni volta che si atteggia a don Giovanni, o preferisce lo stadio a uno straccio di impegno civico, si converte nell'accusa d'essere noi italiani incapaci di gestirci autonomamente, perché refrattari alla democrazia, che può fondarsi solo su un maturo senso civico dei cittadini. Siamo considerati gente neanche troppo brava, capace di tirare quattro calci a un pallone, di fare complimenti magari pesanti a una bella turista, e di proteggerci l'un l'altro in una catena di omertà. Il giudizio è severissimo, per poco che si conosca la mentalità dei popoli del Nord - Europa. Eppure questa e non altra è l'immagine che, sul piano politico hanno di noi inglesi e francesi, il che significa anche i popoli che a quelle due culture sono più legati (sia pure per antichi contrasti, che fanno comunque della cultura francese e di quella inglese un polo di riferimento) cioè gli olandesi, i belgi e i popoli scandinavi. Sui tedeschi continuano a pesare gli antichi pregiudizi che con troppa disinvoltura gli italiani hanno mostrato per secoli d'avere nei loro confronti come zotici, incolti e maleducati. Ora si sa: a parlar male degli altri, prima o poi finisce che gli altri parlano e pensano male di te. Sicché per i tedeschi noi siamo fanfaroni, bugiardi e non degni di fede, fermi al Medioevo anche per via della religione cattolica che è quella ufficialmente professata dalla stragrande maggioranza degli italiani.
    Come accennato peraltro, non è la storia del nostro paese, della nostra civiltà che vogliamo qui ripercorrere. Ci interessa quella sorta di caduta dalla democrazia al fascismo, tanto più che il fascismo è vissuto dagli stessi italiani come un fatto endogeno, comunque essi si pongano di fronte a tale fenomeno politico del nostro recente passato. Lo è per i nostalgici, che lo rivendicano con orgoglio; lo è anche per gli “antifascisti” che lo considerano una spiacevole parentesi della nostra storia.
    Ma siamo sicuri che il fascismo sia stato un movimento tutto italiano? A parte il fatto che si presentò in diversi paesi europei come la Francia, la Spagna, l'Ungheria, è proprio da escludere che all'affermarsi del fascismo in Italia non concorresse la volontà dei governi dei paesi leader della politica europea negli anni tra il 1920 e il 1922? 
    La nostra idea è che certamente questo elemento così sottovalutato dalla storiografia sul fascismo abbia giocato un ruolo, complice una stampa internazionale che proprio allora ricamava sui luoghi comuni del machiavellismo italico come elemento di un ethos per certi versi primitivo rispetto alla ricchezza di temi e di valori invece tipici di più raffinate civiltà quali quella inglese e quella francese. Gli osservatori stranieri vedranno non a caso nel Duce il tipo del Principe di machiavellica memoria.
    Una cosa è certa: l'aiuto che alla causa dell'antifascismo diedero i governi dei paesi tradizionalmente liberali fu tutto sommato povera cosa, che si esaurisce nell'asilo offerto a tanti fuorusciti che furono comunque abbandonati al loro destino come Amendola, Gobetti, i fratelli Rosselli che proprio in esilio morirono, colpiti da sicari di Stato..
     
    2. Ma che cosa fu il fascismo?
     
    Del fascismo i giovani d'oggi sanno poco e niente. L'impressione addirittura è che ci sia qualche tentativo di ridurre perfino le distanze rispetto a un'epoca che fino a qualche tempo fa si ridicolizzava per certi aspetti esteriori, per l'imposizione di una moda, nel parlare, nello scrivere, nel ballare, nel fare cose che fossero squisitamente italiane. Oggi Mussolini, senza essere considerato un genio della politica nazionale, è comunque visto dai più, studiosi e uomini di cultura compresi, un uomo politico di primo piano, uno statista. 
    E se non fosse così? Se Mussolini fosse stato posto a capo del governo italiano non solo col beneplacito ma con qualche sospiro di sollievo da parte di altri governi europei? Se Mussolini fosse stato lo strumento di altri, in Italia e fuori d'Italia, pur senza essere una sorta di marionetta che fa quel che gli viene detto di fare, occorrerebbe certamente rivedere la storiografia tradizionale che tanto ha insistito sul carattere autoctono del fascismo come tipica tendenza del popolo italiano.  
    Mi pare oltretutto che a caratterizzare il fine statista, l'uomo politico di grande statura, sia l'eleganza con cui esce di scena se non propriamente carico di onori, col rispetto almeno di coloro che hanno assistito alla nascita e al tramonto del suo astro, rivali politici compresi. In tutto questo il morire, come si dice, nel proprio letto è la riprova di una “grandezza”, che rivela l'abilità di sapersi tenere a distanza da nemici pericolosi e da amici troppo intriganti, per non dire falsi. Mussolini non rientra in questa tipologia, tutt'al più in un'altra, che è quella dei non pochi epigoni di Napoleone e di cui Cromwell potrebbe dirsi l'antesignano. Questi personaggi lasciano una memoria di sé che divide il paese in due schiere: da un lato c'è chi li ammirano, dall'altro chi arriva perfino a disprezzarli, decretando in entrambi i casi una sorta di immortalità sia pure precaria. Tutto ciò li fa “grandi”, ma ci pare che non abbia nulla a che vedere con le qualità politiche. Si tratta infatti di personaggi capaci di incidere, a volte anche fortemente sull'ethos nazionale e che, per il seguito che hanno trovato, hanno fatto la fortuna di alcuni e la disgrazia di altri. Ma tutto questo col talento politico c'entra poco e niente. 
    Qualsiasi persona che abbia raggiunto una certa età intende benissimo in che senso la sorte di ognuno di noi sia nelle proprie mani e sa pure che la propria rovina e quella dei propri familiari, fatale perché casuale quando abbiamo trent'anni, è, dopo i sessant'anni solo frutto di una deriva che non siamo in grado di controllare, quando le nostre stesse scelte ci portano a dover affrontare situazioni non previste. I sessant'anni (o giù di lì) sono l'età della verità, quella in cui si fa un bilancio della propria vita e si cominciano a raccogliere, quando ci sono, gli allori ovvero gli insulti del destino che si sia voluto sfidare.
    Nel caso di Mussolini il lutto per la scomparsa di un figlio morto in combattimento, può ancora, nonostante tutto, apparire ed essere perfino vissuto come una dolorosa ineluttabilità. Certo non potremo mai sapere se, di fronte al terribile fatto, il “duce” si interrogasse circa il grave errore (politico) compiuto scegliendo di entrare in guerra a fianco di Hitler. Ma se la morte di Romano poté del tutto legittimamente apparire una disgrazia ineludibile, di sicuro non fu ineluttabile, tragica fatalità la fucilazione del genero, padre dei propri nipoti, che non solo non si seppe scongiurare, ma che il “duce” dové disporre per l'evidente ragione di doversi piegare alla volontà di un alleato troppo più forte di lui. Pretendere che in quel caso valesse il rispetto alla virtù romana per cui si castiga comunque chi agisce contro lo Stato ci pare eccessivo, anche perché, a conti fatti, il fascismo nella sua parabola conclusiva, rischiò di svendere lo Stato ai tedeschi, cioè ai nazisti e Mussolini aveva occhi per vedere in quale baratro fosse caduta l'Italia dopo l'8 settembre e la nascita della R.S.I. Noi saremmo addirittura dell'idea che Hitler barattasse l'incolumità della colonna dei mezzi che portavano a Brindisi il re d'Italia con la sua corte, con la “liberazione” di Mussolini, temendo (perché escluderlo?) che Mussolini si ponesse a capo di un movimento antitedesco, finalmente cedendo alle pressioni di Ciano. Se l'ipotesi è corretta, va detto che Hitler, sicuramente più macellaio di Mussolini, in una scienza politica ridotta a macelleria più o meno “scientifica”, aveva però assai bene inquadrato il personaggio. Di qui l' epilogo tristissimo e assai imbarazzante. Alludiamo all'arresto in divisa da soldato tedesco, con tanto di elmetto calato sugli occhi. E' la fine di un sogno, di un delirio di grandezza, di un teatro giocato sul palco della storia senza una adeguata preparazione. Un tonfo nel quale cadde non solo il leader del fascismo ma il popolo italiano con lui. Finale che non può non essere coerente a un esordio ugualmente avventuroso, senz'altro diverso da quello che ci è stato raccontato. E veniamo ai giorni della famosa Marcia su Roma.
     
    3. Le origini del fascismo
     
    Cominciamo allora col dire che all'indomani della prima guerra mondiale l'Europa vuole difendersi dall'ingerenza degli Stati Uniti d'America, una realtà che, specie in Italia e in altri paesi come l'Ungheria e l'Austria pochissimi conoscono bene, ma che crea, anche per questo, qualche sconcerto. Gli americani, figli minori di una cultura, quella occidentale, il cui cuore sta nella Vecchia Europa, hanno un po' troppo alzato la testa, facendosi arbitri, a Versailles, dei destini del mondo. A parte l'orgoglio ferito, occorre ridisegnare alcuni equilibri interni all'Europa e occorre pure che ciò sia fatto senza che si chieda il parere del Presidente degli Stati Uniti, che è già stato tanto pesante nel decretare, d'accordo con la Francia, che la Germania dovesse sopportare l'onere principale del pagamento delle spese di guerra.
    Nello scacchiere europeo l'Italia non è un paese particolarmente importante né sul piano militare né su quello economico. E tuttavia – per poco che si tenga presente come la grande operazione dell'Unità non sarebbe stata possibile senza il beneplacito di francesi, inglesi e tedeschi – lo spazio italiano non è ovviamente indifferente alla diplomazia internazionale. Geograficamente, se non anche geopoliticamente, l'Italia occupa uno spazio mediano tra l'Europa occidentale e l'Europa orientale e, se a considerarla stato-cuscinetto può farsi qualche fatica qualora tale nozione si riduca a una visione di mera strategia militare, diventa assai più immediato dare all'Italia una tale funzione per quanto riguarda i contatti d'affari e la rete diplomatica che corre sul duplice filo del neonato Stato italiano e l'altro della Santa Sede, con interessi confliggenti e talora paradossalmente anche concomitanti. Ci si ricordi che Mussolini, baluardo in Italia all'avanzata del pericolo rosso (e che i francesi ben conoscono avendogli dati i soldi per fondare il “Popolo d'Italia” che era nato per convincere gli italiani della necessità della guerra), arriverà a firmare un concordato con la Chiesa poco prima che un'iniziativa in tal senso potesse esser messa a punto dalla Francia. Sicuramente la questione della Santa Sede, che stava a cuore ai maggiori stati europei, era una questione internazionale rispetto alla quale l'estraneità degli Stati Uniti poteva darsi per scontata. Ma tanto nei confronti della Francia, quanto nei confronti dell'Inghilterra, Mussolini scelse di giocare d'anticipo deludendo sia i francesi che gli inglesi. I francesi perché si sarebbero volentieri proposti come alfieri del Pontefice di Roma; gli inglesi perché memori del laicismo dichiarato del fascismo all'epoca in cui il primo governo Mussolini si era insediato, offrendo loro più di una rassicurazione circa il fatto che la fine del potere temporale della Chiesa non diventasse una cosa temporanea ma restasse una situazione definitiva. Quando Mussolini conquistò il potere, come con retorica fascitica si disse e si continuò a dire, si trattava insomma di scongiurare da un lato l'affermarsi di un “totalitarismo rosso” in un paese considerato refrattario alla democrazia, ma importante sbocco del mercato industriale europeo, dall'altro di far sì che continuasse in Italia il braccio di ferro tra laici e cattolici (ma anche protestanti e cattolici) che da lungo tempo ormai caratterizzava l'Europa liberale.
    Mussolini insomma dà alcune garanzie e alle due appena indicate se ne aggiunge una terza: quel nazionalismo di parata, che si presenta quale anima del fascismo, non può che essere innocuo al prepotere delle grandi potenze. Coreografico dapprima e cinematografico in seguito, trapassa dal mondo dell'Opera lirica caro ai francesi, che sanno decifrarne l'impatto scenografico, a quello dei set dei film di Hollywood quando si tratta di rappresentare nella lontana America il mondo dell'antica Roma. Qualcosa cambierà con l'avvento di Hitler, ma al momento in cui Mussolini assume le redini del governo in Italia è remota perfino l'ipotesi che Hitler possa porsi alla guida della Germania. Certamente inoltre se Mussolini si assicurò la presidenza del consiglio dei ministri con l'appoggio o con il consenso di paesi stranieri, non è certo alla Germania, che in quel momento era a pezzi, che bisogna guardare ma all'Inghilterra e alla Francia, come agli Stati in condizione di esprimere coi sotterfugi della diplomazia il loro assenso e il loro veto ad altri possibili concorrenti alla prestigiosa poltrona.
    Non vogliamo sostenere che Mussolini fosse stato messo a governare l'Italia dalle superpotenze europee, Inghilterra Francia in testa, ci pare piuttosto che alla designazione di un tale personaggio da porre alla guida politica del paese si giungesse dopo aver scartato altre ipotesi che avrebbero potuto risultare non gradite ad alleati troppo potenti. Ci pare in questo senso che il nome di cui Francia e Inghilterra si fossero stancati fosse quello di Giovanni Giolitti. Riconosciuto in Italia tra i grandi statisti della storia nazionale, Giolitti rappresenta un' Italia “liberale”( l'Italietta, come si disse) giunta a uno stato di crisi che, dal punto di vista degli osservatori stranieri, può essere senza ritorno. La questione della Santa Sede non preoccupa il vecchio leader liberale, e, per quanto riguarda il pericolo rosso, conta d' affrontarlo con strategie che possono fuori d'Italia apparire perfino pericolose, mirando a coinvolgere alcuni esponenti del partito socialista nella formazione di governi che hanno vita precaria, come quello di Ivanoe Bonomi.  
    Se è assai probabile che Vittorio Emanuele III si fosse stancato dell'ormai vecchio Giolitti, è altresì credibile che tale stanchezza potesse essere indotta da un clima politico europeo a cui, dopo Versailles, la corte italiana era sicuramente sensibile. La Corona, come a quel tempo si diceva, aveva la funzione di garante delle istituzioni democratiche (o pseudo-democratiche) nate con l'Unità d'Italia, svolgendo quella funzione di bilanciamento e di coordinamento tra le varie realtà istituzionali che sarebbe poi trapassata in età repubblicana alla Presidenza della Repubblica, che qualunque osservatore politico sa essere sensibile al mantenimento degli equilibri internazionali,  Ora al tempo in cui il fascismo divenne forza politica dotata d'una qualche consistenza è quando sorge la questione di Fiume, la cui occupazione a opera di D'Annunzio e dei suoi seguaci subì un'immediata battuta d'arresto per opera di Giolitti, che sostituì Nitti incapace di governare la situazione. Non ci riferiamo a valutazioni personali di Vittorio Emanuele III, che pure hanno un indiscutibile peso nell'Italia d'allora. Tale situazione è in parte obiettiva e una volta tanto l'allora re d'Italia fece bene a nominare il vecchio Giolitti, a ciò spinto da una provvidenziale crisi ufficializzata dal Parlamento. Il punto però è che il re fu costretto a tale mossa per evitare incidenti internazionali che avrebbero posto il paese in una situazione pericolosa. C'è da aggiungere che D'Annunzio non si sarebbe lanciato nell'impresa di Fiume se non avesse avuto la sensazione di far cosa gradita se non direttamente al re, almeno agli ambienti di corte. I suoi biografi sanno che l'impresa comportò per lui il titolo di principe di Montenevoso e il conseguente diritto a prender parte alle battute di caccia alla volpe, uno dei sogni dello stravagante protagonista della vita letteraria italiana. Cosa che rende lecita la domanda: quali interessi correvano nell'area del Carnaro? Quali problemi la riconosciuta italianità di quei territori avrebbe risolto per tanti personaggi influenti del mondo della politica, della finanza e dell'industria pesante?
     
    Non c'è dubbio che, sul piano della politica internazionale, la figura di Vittorio Emanuele III fosse ormai sbiadita, tanto da destare motivate perplessità alla stessa conferenza per la pace. La questione del patto di Londra, patto segreto non denunciato in quel consesso internazionale nonostante gli inviti a farlo, fu probabilmente la goccia che fece traboccare il vaso. La monarchia italiana, che tanto interesse aveva a rivendicare il possesso di Trieste e della penisola del Carnaro, parve sospetta due volte: la prima perché aveva nascosto agli italiani un accordo per l'entrata in guerra, anche dopo che la guerra era stata dichiarata e iniziate le operazioni militari, la seconda perché insospettiva l'urgenza di occupare Fiume, di cui si era fatto sollecito interprete D'Annunzio, famoso scrittore ma anche noto terminale di un mondo affaristico del tutto privo di scrupoli.               
    La sensazione è che, volendo essere un pizzico maliziosi, tra questo mondo e il re d'Italia ci fosse un qualche legame probabilmente stabilito nel corso della guerra, quando, dovendosi armare l'esercito e quindi anche disarmarlo, occorreva qualcuno che garantisse movimenti di denari e di armi lungo una frontiera. Come fu armato l'esercito italiano nel corso della prima guerra mondiale? Gli armamenti che per varie vie (non ultima quella degli USA) furono in dotazione dell'esercito italiano nel corso di oltre quattro anni di guerra rimasero tutti in Italia? Non c'è bisogno di pensare a un Vittorio Emanuele trafficante d'armi, basta pensare a un coinvolgimento anche indiretto del re e / o di qualche personaggio della casa reale troppo al corrente di materie delicate, avallate in fretta e nell'urgenza di risolvere, purché fosse, una grave emergenza per immaginare un possibile coinvolgimento di Vittorio Emanuele III in operazioni che ne possono compromettere la credibilità. Come non pensare che il confine tra l'Italia e i paesi slavi – alcuni dei quali nelle rosee aspettative del re e dei suoi amici, sarebbero sicuramente diventati territori italiani – servì come utile linea di passaggio a traffici che in entrata e in uscita si avvalevano di qualche agevolazione? A volerla dire tutta, lungo un confine non passano in tempi di guerra soltanto armi, ma anche documenti relativi ad accordi sulle modalità di pagamento...
    La guerra, la prima guerra mondiale si risolse, in parte nascondendoli, in conflitti sociali di cui fu spia in Italia (ma anche in Francia e in Germania) la dura disciplina militare con tanto di processi sommari e fucilazioni che gli ufficiali eseguirono nei confronti della truppa, cosa che non poté sfuggire all'osservazione di Mussolini che, pur interventista (e volontario di guerra) era pur sempre allora socialista. Fu forse allora che questo leader di un partito di massa comprese che la causa socialista fosse una causa persa e, desideroso di salire sul carro dei vincitori, mutò divisa. 
    In tutto questo va pure ricordato come la prima guerra mondiale fu combattuta anche con l'impiego di spie e lo spionaggio internazionale compì allora rapidi passi in avanti, sia per gli strumenti in dotazione, sia per la preparazione delle persone impiegate nel delicato ruolo di informatori dei vari governi. Francia, Germania e Inghilterra si erano su questo piano assai bene organizzate, meglio che non l'Italia. I fatti italiani, a cominciare da quei panni sporchi che si vorrebbero lavare in famiglia, erano sicuramente noti ai governi delle superpotenze europee e questo non valse certamente a far accrescere la stima che nei nostri confronti avevano le altre nazioni d'Europa, a cominciare da quelle che allora contavano di più.
    La triste, veramente triste conclusione a cui giungiamo alla fine di queste nostre considerazioni è una e non è piacevole. Fu proprio con Mussolini che si intraprese una strada che a tratti sembra essere stata ripercorsa anche successivamente nella storia del nostro paese, quella per cui si fa finta di governare, evitando di amministrare sapientemente le ricchezze del paese e del popolo italiano. Più urgente è il messaggio da dare agli “alleati”, per cui chi governa riesce a tenere a bada una popolazione indisciplinata, irresponsabile e poco incline alla democrazia e soprattutto scandalosamente disinformata sulle cose della politica. Noi siamo dell'idea che è probabilmente proprio a partire da Mussolini che a governare davvero in Italia è un sottobosco politico che con molta indolenza si limita a fare in modo che ogni cosa prosegua come per l'innanzi era accaduto. A parole si fa non si sa bene che rivoluzione, nei fatti si procede alla formazione di nuovi uffici, di nuove mansioni che garantiscano ai fedeli e ai fedelissimi una collocazione sociale particolarmente vantaggiosa, compreso qualche arricchimento. E nacquero i Gerarchi. 
     
    Conclusione
     
    Certamente tutto questo non esaurisce il discorso sul fascismo, ne mette però in luce un aspetto che, per essere coerente ad altri che vengono man mano emergendo (la rivalità di Mussolini con altri capi del fascismo come Italo Balbo e Roberto Farinacci che volentieri lo avrebbero visto morto e un autoritarismo a cui il dittatore si risolse per l'evidente intrinseca debolezza del suo governo) cancella in gran parte l'eccesso di amore (e di odio) che ha concorso a porre Mussolini su un piedistallo troppo alto per lui e per noi, che tuttora sembriamo ai popoli degli altri paesi europei inetti all'autogoverno e tali da dover essere governati, come con molta disinvoltura sostengono alcuni illustri parlamentari che ci invitano e esprimere un voto col giusto diritto di scegliere il padrone.
    Mi dispiace: questo modo di parlare e di ragionare è contrario allo spirito di una democrazia autentica: il padrone è il popolo italiano e chi governa, cioè i ministri, “governa”, cioè lavora nell'interesse e nel nome di chi lo abbia chiamato a tale ruolo, vale a dire il Parlamento che esprime fiducia al governo, il governo amministrando saggiamente le risorse che sono del popolo elettore. Altrimenti, A CASA!

  • INTERVISTA A MACHIAVELLI
    SUL GOVERNO CONTE

    data: 09/03/2019 10:22

    Abbiamo chiesto a Machiavelli di dire due parole sulla situazione politica italiana corrente. Non mettiamo la mano sul fuoco circa il fatto che sia stato proprio lui a rispondere. È certo peraltro che il segretario della repubblica fiorentina, figlio come tutti del suo tempo, aveva una mentalità e un metro di giudizio lontani dal nostro giudizio e dalla nostra mentalità, sicché pare difficile applicare il suo modo di vedere ai fatti della cronaca politica oggi corrente. Ma, per buona informazione dei lettori, abbiamo ceduto alla tentazione di riportare un parere comunque autorevole che ci sembra possa riassumersi nei termini che seguono.
    “Secondo che sento dire da alcuni, volendo il dottissimo messer Giuseppe Conte entrare in politica, stimato com’è peritissimo professore delle scienze giuridiche, accettò suo malgrado il fardello assai grave d’essere a capo d’un Governo del quale dovea egli essere piuttosto arbitro che non conduttore. Come in questi casi suole accadere, ne’ destini incerti d’un futuro che nulla promette, messer Conte trova la via più agevole per uscir d’impaccio”.
    Vuol dire, messer Machiavelli, che il premier Conte fa cadere il governo di proposito?
    “La intenda come vuole, o meglio come la sarà da intendere man mano che diano gli eventi il frutto da ciascuna parte sperato. Gli è che, cadendo il Governo, verranno meno amendue le misure che sono sul punto di prendersi e tanto la via ferrata che speditamente dovrebbe unire Torino a Lione, quanto l’obolo ch’è in punto di darsi a’ non pochi che figureranno esserne bisognosi non avran seguito…”.
    Si spieghi meglio
    “È semplice: da un lato si dee ancor giugnere a definire in che termini e modi precisamente debbesi disciplinar la materia dell’obolo caritativo, dall’altra cadendo il Governo si differisce ogni e qualsiasi decisione in merito alla “Tav” - si chiama così? - che saria secondo che mi vien detto qualcosa come il “trasporto assaissimo veloce””.
    Un danno per tutt’e due gli schieramenti politici attualmente al Governo!
    “Sia pure ma, senza rifarsi a’ profondi principi dell’arte nobile e sottile di far politica, mi concederà esser fondato l’adagio per cui “tra i due litiganti il terzo gode” ovvero come dicea mia nonna “a crear scompiglio, qualche cosa ci piglio!””.                                                                                                  
    E quale futuro, secondo lei, si preparerebbe per il Paese?  
    Cotesta è materia assai grave. Ne nascerà, io sono per temere, un Governo simile assai a quello di Alessandro de Medici del quale ebbe a lamentarsi messer Michelangelo Buonarroti ove disse “Caro m’è il sonno e più l’esser di sasso / mentre che il danno e la vergogna dura; / non vedere, non sentir m’è gran ventura; / però non mi destar, deh, parla basso”. Ma io penso che meglio e più scopertamente dicesse Dante “Ahi, serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province ma bordello””.

                                                             

  • RUBARE E' UNA SCIENZA?

    data: 25/02/2019 17:50

    C’è tra scienza e democrazia un rapporto assai più profondo di quanto non si sospetti, perché coloro che gettarono le basi dello stato moderno non furono altro che “scienziati” o, per usare termini più appropriati, “filosofi”, quando, tra Sette e Ottocento, i filosofi erano coloro che appassionatamente ponevano i loro sforzi allo studio meticoloso e sistematico di alcune questioni.

    Quel che dalla nascita dello stato moderno ci si sarebbe aspettato come risultato maturo non si è compiuto e, contrariamente alle aspettative dei padri fondatori del diritto costituzionale e delle “libere istituzioni” sorte nell’Ottocento, il politico, al quale si concede pure di non essere profondo conoscitore del diritto, dell’economia e della sociologia, non si affida oggi a giuristi, a economisti e a sociologi per la definizione e la soluzione dei principali problemi. Per dirla brutalmente i politici hanno trasformato i giuristi in avvocati capaci di suggerire strategie che li proteggano da spiacevoli sorprese, i sociologi in attenti rilevatori degli umori della piazza, gli economisti in contabili che fanno i bilanci, calcolano i disavanzi e il debito pubblico, togliendo in tal modo a giuristi, sociologi ed economisti la funzione di semplificare i problemi complessi, riconducendoli a schemi che li rendano gestibili nell’interesse dei cittadini.

    I sondaggi d’opinione, creati su modelli offerti da sociologi americani, i referendum popolari, la propaganda politica e talvolta anche la poca sincerità degli studiosi, solleciti a compiacere i potenti, hanno incrinato un sistema che pareva dover offrire obiettive garanzie di successo. E oggi ci si appella, per falso spirito democratico, al popolo ben sapendo che il popolo non ha competenze necessarie a risolvere certi problemi.

    La bella tirata di Roberto Saviano a “Che tempo che fa” di domenica 24 febbraio, che ha trovato la solidarietà di un Camilleri in splendida forma, ha descritto questa deriva, facendo presente come con poco sforzo, e senza far ricorso più di tanto a tecnicismi che possono apparire fumosi, chiunque può rendersi conto di come stiano le cose, purché utilizzi correttamente alcune nozioni.
    Contro Saviano peraltro agiscono tutti quegli invisibili legami che i mass-media, vere e proprie armi di distrazione di massa, hanno con l’ormai diffusa esigenza, vivissima negli italiani, di violare il rigore del ragionamento, perché ragionare stanca, richiedendo un eccesso di concentrazione.
    Di questa esigenza che ha l’italiano medio, possono farsi alcuni esempi.
    Primo esempio. In un suo celebre dialogo che un (finto) moribondo ha col confessore, il marchese de Sade attirava nel secondo Settecento l’attenzione sul fatto che per giustificare una cosa incredibile come è l’esistenza di Dio, si ricorra al miracolo, che è un’altra cosa incredibile! Molti italiani oggi, stanchi di ragionare su questioni teologiche, tagliano corto e credono, confondendo la fede con la credulità di fatto diventando, a vari livelli, sanfedisti, pronti a cadere in ginocchio davanti a qualcosa che non si spiegano, probabilmente per pigrizia. Io non sono credente, ma mi pare difficile che, se un Padreterno c’è da qualche parte, premi la pigrizia morale e intellettuale. Né credo che un Padreterno, che ha sicuramente un’intelligenza superiore alla media, sia così piccolo da prendersela con chi in buona fede si sforza soltanto di capire le cose, legittimamente usando quel po’ di cervello che lo stesso Padreterno gli avrebbe messo a disposizione.
    Secondo esempio. Molti italiani sanno che la Terra gira intorno al Sole, ma non si curano di appurare perché sia così e se gli chiedi se siano o non siano copernicani, ti rispondono che non c’è dubbio: loro sono copernicani, perché la teoria di Tolomeo non va bene. Ma in che cosa consista il copernicanesimo e perché il buon Nicolò preferisse la teoria eliocentrica a quella geocentrica è quanto molti di loro ignorano del tutto.
    Terzo esempio. Gli italiani sanno benissimo che le coste, i mari, i boschi, le montagne, le città in cui vivono costituiscono una ricchezza che il mondo ci invidia, un immenso capitale sul quale investire per far crescere il Paese. Per loro queste ricchezze reali non contano nulla rispetto al numero che leggono su una banconota, che ha infine un valore nominale. I soldi, che servono a spostare la ricchezza e non sono ricchezza, sono tanto preferiti alla ricchezza comune che tra i primati che l’Italia si assicura c’è quello dell’evasione fiscale.
    Io credo che il razzismo in Italia nasca da una guerra fra ladri, per cui chi ruba, protetto dalla legge o da un sistema nei suoi confronti fin troppo benevolo, è una persona rispettabile, il ladruncolo che sull’autobus sfila il portafogli va preso a botte, a calci e a insulti.
    E non mi dispiace dirlo: io mi metto dalla parte del ladruncolo e contro l’evasore fiscale.

  • CONDANNA O ASSOLUZIONE
    MA NON GIUDIZI SOMMARI!

    data: 19/02/2019 17:10

    C’era una volta il processo sommario, per cui su due piedi e sulla base di una tesi accusatoria, alcune persone erano condannate a pene anche dure, anzi durissime, come la pena capitale.
    Oggi in Italia si ricorre all’assoluzione sommaria, perché è “logico” che un ministro non possa agire altrimenti che nell’interesse dello Stato. Un ministro è “responsabile”, per definizione, non perché generosamente appellandosi all’opinione pubblica, mostra il petto, quasi dicesse “sparatemi, se ardite fare tanto”. In questo senso è pleonastica tanto l’affermazione di Conte quanto quella di Di Maio circa la corresponsabilità con Salvini. Tutto questo è già nei fatti e se non lo fosse stato nessun magistrato avrebbe chiesto l’autorizzazione a procedere. Mi permetto di far osservare una cosa. L’on. Salvini è senatore, ma non è nella sua qualità di senatore, non è per un eventuale abuso di potere che come senatore si sarebbe arrogato che gli si chiede di rispondere del suo operato. Se si fosse trattato di Conte, che non è né deputato né senatore, quale procedura si sarebbe dovuta seguire? Sicché, stando alla logica, un comune cittadino avrebbe potuto auspicare che il ministro caldeggiasse lui un’autorizzazione a procedere, d’accordo con tutti gli esponenti del suo partito, tutti desiderando far piena luce sui fatti. A parte queste disquisizioni teoriche, ammetterò un mio limite.
    Io non sono così intelligente da saper cogliere la verità profonda che probabilmente si nasconde nell’affermazione che 177 persone disarmate, tra cui donne e bambini, possano costituire un pericolo all’integrità territoriale dell’Italia, al punto da invocare la difesa dei confini della patria, come intento da perseguirsi per impedire loro lo sbarco.
    Vorrei che questa cosa mi fosse spiegata, visto che non la intendo. E mi pare che, nell’interesse di altri che come me hanno per loro disgrazia la testa dura ma desiderano capire come stanno le cose, si desse a chi vuol difendere le sue posizioni, di dare l’occasione per farlo.
    Sono contrario ai giudizi sommari, comunque siano, di condanna o di assoluzione. 
     
     

  • IL CONCORDATO, 90 ANNI FA
    PERCHE' FU ANACRONISMO

    data: 10/02/2019 21:27

    E' un fatto: quando l’11 febbraio 1929 si sedettero per la firma dei patti lateranensi il rappresentante del governo italiano e quello della Santa Sede, si rialzarono a cose fatte, il rappresentante del governo italiano e quello dello Stato della Città del Vaticano. Nella storia politica della Chiesa cattolica il fatto valse una vittoria. Ma quanto autentica fu poi quella vittoria?

    Non nasconderò che questo fatto storico mi impedisce di professarmi cattolico. Sono infatti convinto che la fine del potere temporale sancisse una qualche pacificazione tra la monarchia papale, sostanziale emanazione del potere del collegio cardinalizio, e il popolo di Roma composto in gran parte di semplici fedeli. E dire che non erano mancati autorevoli intellettuali che avevano attirato l’attenzione sull’anacronismo di un governo alla cui guida si ponesse il capo spirituale di una religione.
    Nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni si legge il rimbrotto che il Cardinal Borromeo rivolge a quel mediocre curato che nella finzione romanzesca è don Abbondio, il quale, tra le altre cose, si sente dire: “Non sapevate voi che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e lo spavento altrui?”.
    E' dai tempi della rivendicazione di quel potere da parte di Pio IX che tanti cattolici, ossequiosi di nient’altro che dell’autorità d’un principe, si sono da fedeli trasformati in creduli, e – spaventati - hanno ritenuto che ci fosse un qualche diritto da parte del papa a rivendicare un potere temporale purché fosse. L’ esercizio di un tale potere è per me incompatibile con un potere autenticamente spirituale e poco conta che il territorio dello Stato della Città del Vaticano si limiti a quattro o cinque palazzi storici del centro di Roma. Se all’epoca in cui il nuovo Stato rinacque, cioè nel 1929, era opinione diffusa di quanti si occupavano di “dottrina dello stato” che il territorio fosse un elemento fondamentale, oggi lo Stato della Città del Vaticano è riconosciuto dall’ONU e non è meno influente, sul piano delle relazioni politiche, di quanto lo siano altri piccoli enclave che, per essere dei paradisi fiscali, molto incidono sulla politica internazionale.
    Il laicismo, voglio dire, non è una conquista dell’agnostico o dell’ateo, è una conquista del fedele che finalmente impara che la sua scelta di restare nel mondo non nasce necessariamente dalla viltà di non sentire la vocazione al sacerdozio. Tale scelta nasce, al contrario, dal coraggio di riconoscere che non tutti siamo fatti per abbandonare il secolo e che anzi nel secolo possiamo essere utili, senz’altro più di quanto nel chiostro non fosse quel miserello di don Abbondio, che avrebbe fatto assai meglio a non prendere i voti. Se invece che alla cura delle anime si fosse dedicato a qualsiasi altra onesta attività, si sarebbe reso più utile agli altri e a se stesso.
    Corollario di questo “teorema” è che c’è una dignità in tutti noi e, se il credente farà bene a sentire un senso di rispetto per chi veste l’abito religioso, non dovrà però cedere, credulo e spaventato, all’idea che a lui manchi qualcosa. A parte il fatto che la “chiamata” può arrivare in qualsiasi momento della nostra vita, chi non la sente ha comunque un merito che è quello dell’onestà verso se stesso.
    Concludendo, quando novant’anni fa si istituì lo Stato della Città del Vaticano si fece torto più che ad agnostici, atei e indifferenti, a quei fedeli che più responsabilmente di altri desideravano vivere e testimoniare liberamente la loro fede, senza essere né creduli né spaventati, ma ricchi di un entusiasmo che tutti dobbiamo rispettare. 

  • SALVINI SALVA LA PATRIA?

    data: 31/01/2019 10:37

    All’accusa di non aver soccorso dei minori in pericolo, l’attuale ministro degli interni ha risposto dicendo d’aver impedito lo sbarco ai profughi per salvare i confini della patria. Ora, se c’era pure da porre in discussione il capo d’accusa, sono le scuse del ministro, cioè gli argomenti da lui addotti contro l’accusa, a lasciare perplessi. Quel che si insinua da parte di Salvini è che i profughi della nave Diciotti, minori compresi, potessero costituire una minaccia alla sicurezza del popolo italiano. Ciò è palesemente falso e ci pare che anche il ministro lo sappia.
    Sono senz’altro più pericolose per gli italiani cose come le zanzare tigri, le trombe d’aria, le alluvioni, le valanghe di neve che uccidono e fanno danni per non parlare della mafia e dell’evasione fiscale. Se queste non sono tutte materie di stretta e diretta o esclusiva competenza del ministro degli interni, è vero tuttavia che, come vice-premier il ministro Salvini potrebbe (= avrebbe da tempo potuto) caldeggiare un’azione coordinata di più ministeri per la soluzione di questi e di altri problemi. In Italia crollano ponti, decine di cittadini muoiono e le autorità competenti si scusano dicendo d’essere all’oscuro della pericolosità della struttura, quasi che non fosse compito di chi amministra avere informazioni aggiornate su cose così importanti.
    Il fatto d’altronde è successo poco dopo che il governo s’era insediato e gli italiani hanno voluto benevolmente chiudere un occhio sull’accaduto. Resta il fatto che, se i terremoti e le eruzioni vulcaniche sono imprevedibili, altre cose lo sono, a cominciare dal fatto che siano senz’altro a rischio abitazioni che sorgono a ridosso di un vulcano. E un governo che voglia risistemare le cose che non vanno avrebbe fatto bene ad attivarsi per scongiurare possibili disastri. Tanto per distinguersi da quanti in passato hanno trascurato problemi che son venuti crescendo nel tempo.
    Ma allora perché prendersela con Salvini? In fondo non è peggiore di altri…
    A guardare le cose con un certo distacco può effettivamente apparire così, ma c’è una piccola cosa che un po’ sgomenta, l’assenza di umorismo e di senso del comico. Senso del comico che fa oggi addirittura rimpiangere i tempi di Giulio Andreotti, quando c’era meno “trasparenza”, ma con un briciolo di fantasia gli italiani arrivavano a vedere quel che a loro non veniva mostrato.
    Adesso siamo ai tiri con effetto e non tutti sono in condizione di parare colpi del genere. Il triste è che c’è da scommettere che nessuno sappia dove la palla possa andare a finire, forse neanche chi l’ha lanciata. 
     

  • INSEGUIRE I REATI?
    MEGLIO PERSEGUIRLI

    data: 16/01/2019 13:27

    E’ normale esser contenti perché la giustizia trionfa e perché una persona, riconosciuta colpevole per delitti commessi anche svariati anni fa, sconta finalmente il suo debito. Resta il fatto, nel caso di Cesare Battisti, al quale ci riferiamo, di un provvedimento tardivo che molto ricorda quello di mafiosi che, latitanti da lungo tempo, vengono assicurati alla giustizia la volta che la “soffiata giusta” consenta alle forze dell’ordine di fare irruzione in “residenze-bunker” a volte a poca distanza da dove risiedono i familiari del boss. Il sospetto (e i sospetti sono legittimi) è che il pericoloso criminale sia assicurato alla giustizia quando non è più in condizione di nuocere.
    Sono trascorsi più di trent’anni da quando, secondo quanto risulta dai processi intentati contro di lui, Cesare Battisti commise i reati che gli sono ascritti. E in questo senso anch’io che rispetto la sentenza di una magistratura che agisce in accordo con le disposizioni di legge, non posso non plaudire all’esito positivo di una “caccia all’uomo” che ha posto fine a una scandalosa latitanza della giustizia in Italia. Finalmente può dirsi, riecheggiando il celebre finale dei Tre moschettieri di tale Alexandre Dumas “giustizia è fatta!”.
    Facendo però i conti con la realtà, due cose vanno, secondo me, prese in considerazione: la prima è che non può ridursi il senso della giustizia a una rivalsa contro chi ha “sbagliato e deve pagare”. E’ dall’Ottocento che la scuola del diritto italiano ha denunciato l’inattendibilità di teorie volte a considerare la pena quale espiazione di una colpa. La società civile si tutela nei confronti di un criminale valutandone la pericolosità e, in ogni caso, avendo cura di spendere delle risorse per la rieducazione di chi si sia macchiato di un delitto.
    Dirò di non credere alla pericolosità di Cesare Battisti, a meno di dover cedere all’opinione diffusa che chi abbia compiuto un reato sia una persona destinata a reiterarlo. Ma non pare che in tutti questi anni Battisti abbia commesso altro reato se non quello di sfuggire alla giustizia (intempestiva?) del nostro paese. Aggiungerò che, a quanto è dato di capire, parecchie risorse sono state impiegate per la cattura di quest’uomo, in un momento in cui sono obiettivamente tante (=altre?) le priorità del paese Italia che possono definirsi pressanti, anche relativamente alla lotta alla malavita organizzata, terrorismo compreso. Va bene aver assicurato alla giustizia un terrorista di quasi quarant’anni fa, ma perché non spendere tutte le energie possibili contro quanti possono al presente nuocere al nostro paese?
    So bene che non poche obiezioni possono farsi a quanto qui sostengo. Ci sono iniziative alle quali non si dà più di tanto pubblicità perché devono restare “segrete” per essere attendibili. Di più: si è data la caccia a criminali nazisti catturati ben oltre i quarant’anni dai delitti commessi. E non nascondo

    La critica fata non va dunque intesa in quanto rivolta al giusto zelo che ha portato al felice esito dell’operazione compiuta dalle encomiabili forze dell’ordine, ma all’efficacia di un sistema che sembra piuttosto inseguire che non perseguire i reati di quanti violano in Italia la Legge. 

  • EUROPA, LA NOSTRA STORIA

    data: 04/01/2019 16:47

    Salire in ritardo su un mezzo di trasporto, carrozza, autobus, treno o aereo che sia, è da sempre una metafora per dire che non bisognerebbe perdere le occasioni che la sorte ci offre. La sensazione che gli italiani rischino di perdere un treno importante, magari perché sbagliano fermata, ci induce a qualche riflessione. Ci riferiamo al treno Europa, sul quale salirono, per poco che ci si sforzi di ricostruire correttamente gli scenari storici, i nostri antenati quando ritennero di dover dar vita all’Italia unita.
    L’unità d’Italia, per quanto realizzata nel modo peggiore possibile, consentì agli italiani di entrare nel dorato mondo della “civile” Europa, quello del progresso scientifico e tecnologico, della scuola dell’obbligo, delle riforme e delle conquiste sociali. Per quanto non manchino oggi critiche a questa definizione di un mondo per più aspetti in crisi, ci pare fuori discussione che l’ingresso nel “concento europeo”, come nell’Ottocento si diceva, faceva delle grandi città italiane centri di produzione e di cultura attivi e intraprendenti. Tutto ciò sarebbe stato impossibile a realizzarsi se, per esempio, il ducato di Mantova o il Granducato di Modena fossero rimasti quel che erano. Ciò significa che non fu un diffuso spirito nazionalistico a promuovere l’unità d’Italia, come pure è stato raccontato, quanto piuttosto la sagacia di un’intellighenzia italiana il cui nerbo era costituito da un’aristocrazia consapevole del rischio d’una crisi e da una acculturata borghesia delle arti e delle professioni. Su questa intellighenzia non agì tanto lo spirito del nascente romanticismo quanto quello di un illuminismo cosmopolita. Il dibattito sul romanticismo e l’assunzione da parte di qualcuno dei principi della nuova corrente letteraria, valsero ad affacciarsi su uno scenario attuale, per non essere respinti, come accadde della Grecia e delle Serbia ai confini remoti di un impero, quello asburgico, destinato a scomparire. Furono insomma la Milano di Manzoni, la Firenze di Vieusseux, la Genova di Mazzini e la Napoli del giovane Pasquale Stanislao Mancini i polmoni dell’unità d’Italia. Agirono qui comitati che riuscirono a tessere tutta una rete di rapporti anche con realtà periferiche alle quali non parve vero affacciarsi, sia pure timidamente, al balcone della grande storia.
    Ciò chiarito, merita ricordare come ancora oggi, un po’ come in passato, i politici si guardano dal parlare apertamente dei problemi reali del paese. Lo si evita per non creare allarmi, ma anche per non perdere credibilità e potere, dal momento che tutte le forze politiche, quale più quale meno, hanno disposto di canali di informazione (e di finanziamento) più o meno occulti. Siamo oggi al punto – ed è questa una critica di cui chi scrive si assume le responsabilità del caso – che buona parte dei giornali e dei giornalisti politicamente schierati, depistano l’opinione pubblica dai problemi autentici che il nostro paese sta vivendo. Né questa vuole essere un’accusa, quanto la presa d’atto di una situazione in parte inevitabile. Se infatti il politico è giustificato da fatti obiettivi, il giornalista lo è in quanto riferisce puntualmente e “fedelmente” circa le posizioni ufficiali che il politico assume. Ma poi spesso, nella maggioranza dei casi, il giornalista evita, perfino nelle interviste, di azzardare interpretazioni “coraggiose”, anche perché queste interpretazioni metterebbero a rischio l’intervista successiva.
    Occorre allora che, bypassando la cronaca politica, qualcuno dica quel che pure va detto. E non è un caso che le cose più interessanti siano dette da coloro che attivamente si occupano oggi di geopolitica. Il rischio che oggi corrono gli italiani è, secondo noi, quello di assecondare, senza accorgersene, il desiderio di chi vuole circoscrivere la leadership d’Europa affidandola a pochi paesi che siano in condizione di disputarsela. Da questa contesa l’Italia è fuori anche come paese che possa offrire un qualche appoggio a un possibile alleato. E’ infatti accaduto che, nel tempo l’Italia ha perso di credibilità e, da paese che prometteva di diventare moderno, ha mostrato il suo vero volto di paese sostanzialmente feudale. Si leggano i commenti dei giornalisti stranieri circa l’avvento al potere di Mussolini spesso presentato quale campione di un italico spirito a cui si adatta la logica del bastone e della carota.
    Ma veramente il fascismo fu un fenomeno endogeno? Inghilterra e Stati Uniti non fecero proprio nulla all’indomani della prima guerra mondiale per far sì che l’Italia non fosse coinvolta in una rivoluzione bolscevica? Che opinione si fecero, finita la guerra di una dinastia regnante giunta con Vittorio Emanuele III al culmine del reazionarismo e dell’inettitudine politica? Che cosa veramente accadde a Versailles, quando al tavolo dei vincitori della prima guerra mondiale l’Italia ebbe un ruolo secondario se non marginale? La linea seguita dagli stati dell’occidente europeo all’indomani della seconda guerra mondiale non registra la medesima preoccupazione? La caduta del muro di Berlino non ha forse comportato una quasi uscita di scena da parte dell’Italia dallo scacchiere europeo, visto e considerato che aveva ormai perso la natura di frontiera, peraltro un po’ precaria, del mondo occidentale?
    Diciamo queste cose non per piangerci addosso ma per mettere sull’avviso quanti si illudano che sia auspicabile un futuro dell’Italia fuori dell’Europa. Il treno che l’Italia si prepara a perdere, proseguendo lungo la strada che attualmente percorre, è quello che, impedendole di rivendicare un suo spazio in Europa, la ricaccia verso un Medio Oriente all’interno del quale potrà, non senza qualche difficoltà e aggiustamento, garantirsi un futuro come forza trainante della realtà nord-africana. E’ un paradosso, per poco che si consideri come la prima spinta alla modernità venisse proprio dall’Italia che nel Rinascimento fece da battistrada alle altre nazioni europee sul piano di una produzione che da artigianale andava facendosi proto-industriale.
    Non ci riferiamo – è ovvio – ai mezzi di produzione quanto piuttosto alla quantità di merce che invase i mercati di mezza Europa. Si pensi ai gioiellieri, ai sarti, agli argentieri, si tipografi e ai librai italiani del Cinque e Seicento! Tutto questo consenti a tutta una fascia di popolazione d’affacciarsi a esperienze nuove sul piano della vita morale. Chi acquisisce professionalità infatti comincia a porsi questioni deontologiche di fronte alle quali ci si pone con sempre maggiore chiarezza, quanto più si posseggano strumenti culturali appropriati. Caravaggio che si ostina a pretendere che i santi abbiano i piedi sporchi, contrappone a un’ormai vuota e convenzionale raffigurazione della santità un’altra più vera e più sensata, sorretta dalla conoscenza dei fatti della vita reale. La morale comincia allora a coniugarsi con una visione anche politica del mondo, nel senso che il pittore difende di fronte all’autorità costituita la dignità della propria professione. 
    In mezzo a difficoltà e funambolismi imposti dal clima della Controriforma, gli italiani crebbero fino a tutto il Settecento su questo piano e Verri e Beccaria diedero agli studi giuridici un rigore e una dignità nuovi. E’ con l’Ottocento, il secolo della grande divulgazione del sapere che, complici figure di “intellettuali” che vestirono più l’abito di moralisti e predicatori di verità fatte cadere dall’alto, che si registra un primo ritorno alle origini. Il cittadino, invece d’essere fatto consapevole delle particolari responsabilità conseguenti alla scelta di una professione, è sollecitato a cogliere tutta la poesia di difficili e complesse attività socio-culturali. L’avvocato è uno che opera sempre e di regola per la giustizia; il medico è un filantropo generoso e disinteressato, il militare uno animato da un forte amor di patria e di fedeltà alle istituzioni; il filosofo un uomo d’alto ingegno che si pone di fronte ai gravi problemi dell’umanità, l’artista una persona dai sentimenti generosi e sublimi. Le storie della letteratura che leggono i giovani delle scuole e perfino delle università fanno commuovere circa i casi di Foscolo che va di gente in gente e tacciono del fatto che una caduta da cavallo di una nobildonna può, nell’Ottocento, stendere un velo pietoso sulla circostanza di un aborto, magari imposto da un marito tradito. Cosa che è bene sapere al di là del fatto che l’amata Luigia Pallavicini avesse o non avessero avuto in sorte di andare incontro a un così assurdo destino. La vita privata dell’artista non è indagata a mostrare le difficoltà, le amarezze, gli odi, le rivalità a volte meschine che occorre superare e da cui bisogna guardarsi per sopravvivere in ambienti difficili.
    Una scuola che manca di raccontare certe verità e che non le adombra neppure pretendendo che tutti abbiano un deamicisiano cuore capace di generosi palpiti e afflati non prepara alla vita, ma emargina il giovane in un mondo dorato di sogni dal quale ci si risveglia con qualche osso che duole.
    La verità è che il lavoro, perfino quando piaccia al punto da suscitare entusiasmo in chi vi si dedica, costa fatica e impegno ed è fatto di relazioni interpersonali che per usare degli eufemismi, non sono sempre piacevoli, non sempre felici.
    Una stato nel quale si viva così non è uno stato moderno e, dove la modernità difetti, si corre davvero il rischio d’essere emarginati in una comunità che, a torto o a ragione, si vanta d’aver conseguito il “felice” traguardo di una qualche modernità.

    Siamo sicuri che chi governa il nostro paese non abbia preso in considerazione l’eventualità di uno sbocco in tale direzione e che non miri alla realizzazione di un progetto volto proprio a effetti del genere? Non è un’accusa. E’ un sospetto che come tutti i sospetti ha una legittimità almeno fin tanto che, oltre a parole, non sia fugato anche da fatti. 

  • 10 DOMANDE SULL'EUROPA

    data: 03/12/2018 13:45

    Nella storia italiana è stata posta una questione detta questione meridionale, che ha appassionato, specie in tempi ormai andati, vari studiosi, coinvolgendo anche il mondo politico, sia pure con scarsi risultati. Noi oggi in Europa vogliamo, capovolgendo il rapporto, parlare di questione settentrionale.
    Il Nord Europa è stato fino ad almeno il Settecento, cioè fino all'illuminismo e a Goethe, un luogo remoto, inospitale e culturalmente “arretrato”. Quindi all'improvviso è balzato al centro dello scenario politico-culturale del Vecchio continente.
    Tutto ciò premesso, su questa questione, è parso opportuno formulare un Questionario da rivolgere a tutte le forze politiche del nostro Paese. Ecco di seguito le domande: 
    1. Che rapporto c'è, se c'è, tra un'inversione di rotta che ha capovolto in Europa il rapporto Nord Sud, con quella questione meridionale che si è tradotta nella considerazione comune con la “scoperta” di un Sud povero e arretrato?
    2. Perché l'unità d'Italia s'è progettata e realizzata guardando tutti al Piemonte invece che a Napoli?
    3. È stato quel processo un processo mitteleuropeo, che ha spostato verso Nord l'asse politico – economico di tutta l'Europa?
    4.La caduta dell'impero austriaco e la nascita di un impero tedesco è un fatto legato a risorse economiche prima ignorate nel Nord Europa o alla scoperta che al Nord fosse diventato possibile sfruttare il grande serbatoio delle ricchezze del Sud mal gestite a livello locale?
    5. Che cosa è oggi l'Europa se non il continente posto a Nord dell'Africa?
    6. Chi sta spogliando l'Africa delle sue immense ricchezze naturali?
    7. Chi fu il regista della spartizione del Continente Nero?.
    8. Che cosa accadrà quando il Sud sarà finito e non ci sarà più un Sud da sfruttare?
    9. Nell'immediato quali sono i rischi che il Sud Europa diventi un'area del Nord-Africa a cui demandare il compito di convogliare verso Nord le risorse economiche di quel continente, a cominciare dalla mano d'opera?
    10. Italia, Spagna e Grecia resteranno insomma in Europa? O nascerà un'Europa di serie B, cattolico-ortodossa che comprenda anche la Turchia e altri stati minori del Mediterraneo? 

  • SCRITTORI E DEONTOLOGIA

    data: 18/11/2018 22:34

    La conoscenza dei propri doveri varia a seconda dell'identità che la persona riesce a darsi nella sua attività lavorativa. Quanto più questa richiede competenze e capacità specifiche, tanto più articolato e complesso si fa il nostro mondo morale.
    Nel mondo moderno la deontologia professionale è un momento chiave della crescita morale dell'individuo. Se la morale diffusa soccorre le esigenze di chi si dedica a un lavoro inteso essenzialmente come fatica, chi, grazie al proprio lavoro può in qualche modo “giocare”, appassionandosi a quel che fa, scopre facilmente che la morale comune può conoscere eccezioni e deroghe. Io credo che tutto questo accada perché chi, svolgendo un lavoro, si ponga problemi di deontologia professionale sfonda la parete divisoria tra morale e politica, per come machiavellicamente i due campi erano stati distinti. Il punto è che l'attività lavorativa, quanto più si accompagni alla consapevolezza del ruolo sociale, tanto più si fa pubblica e perciò politicamente rilevante. Né importa se la dimensione “politica” sia la corte di Versailles o il casino dei nobili di Bronte di cui ragiona fuggevolmente Verga in Libertà.
    Va qui detto che veramente Giovanni Verga, così prudente nel far sue certe implicazioni ideologiche del verismo, così fedele alla classe sociale di appartenenza a cui lo lega, a parte la nascita, anche e soprattutto l'attività di scrittore, è uno dei pochi intellettuali del secondo Ottocento ad avere una singolare attenzione alla deontologia professionale.
    Voglio dire che, mentre medici, avvocati, ingegneri hanno maturato abbastanza rapidamente una visione latamente deontologica della loro professione, l'intellettuale-tipo, vale a dire lo scrittore, il filosofo e il giornalista, hanno, salvo le dovute eccezioni, “giocato” un po' da bravi funamboli su questa corda, badando a non smettere l'abito dei moralisti. “Moralista” vale qui nel senso di chi, rifacendosi con poca fantasia alla morale corrente o a timide trasgressioni di essa, accolte nell'immaginario collettivo come atti di coraggio, racconta storie, illustra prospettive di vita e di pensiero, vive la sua vita professionale avendo cura di mantenere una certa rispettabilità e in qualche caso una certa autorevolezza. Mi riferisco – come credo si sia già intuito – alla realtà italiana. Né Russell, né Popper, né Joyce, né Camus e neppure quel narcisista che fu Hemingway meritano un rimprovero del genere. Meno ancora James, Wittgenstein o Bergson o ancora Gide, Kafka o Mann. L'intellettuale italiano è invece un intellettuale “organico” o “integrato”, spesso più di quanto non lo sia un pompiere o un infermiere che si dedichino al loro lavoro per autentica passione. Ed è qui il punto: il pompiere e l'infermiere che svolgano con coscienza il proprio lavoro sviluppano una deontologia professionale che li pone di fronte a problemi concreti, davanti ai quali la retorica e del bene e del male, dell'egoismo e dell'altruismo crolla paurosamente. A questo punto è lecito domandarsi come possa riconoscersi in certi commenti a romanzi anche famosi, tutti pieni di moralistici slanci, chi sa che salvare una vita umana in mezzo al traffico di certe vie di Roma tra le cinque e lei sei del pomeriggio è tanto più difficile quanto più urgente è l'intervento. La prima volta piangi, la seconda t'arrabbi, la terza capisci che tu non c'entri: si fa quel che si può.
    Che l'intellettuale non abbia problemi del genere, che non conosca la rassegnazione, il compromesso, che anzi si sdegni aristocraticamente denunciando i mali del mondo come se non lo toccassero è un'ipocrisia. C'è chi si rifugia in Platone, ignorando che anche Platone potesse avere problemi del genere. Il processo a Socrate pesò sulla sua coscienza quanto su quella di tutti gli ateniesi della sua generazione, anche se la tradizione vuole che il buon Platone, che era ricco, mettesse a disposizione i suoi beni per riscattare la vita del maestro, consentendogli la fuga.
    In certi equivoci, insomma, mi pare che alcuni siano affondati con quasi tutte le scarpe. Mi riferisco in genere a quanti, scrittori di successo, hanno legato il proprio nome a certe cause più o meno appassionatamente difese nel nome di un principio morale. I nomi sono tanti e preferisco non farli. Essi appartengono al variegato mondo della cultura che ha mancato in Italia di stabilire col pubblico dei lettori un dialogo vero, preferendo invece parlare da un pulpito, che è per me un esempio di cattivo gusto. Sarebbe giusto invece che l'intellettuale, a contatto del pubblico, facesse capire chi è veramente, riuscendo così a sfruttare al meglio le sue potenzialità, consentendo al pubblico di affinare il proprio gusto e il proprio senso critico, col risultato di una crescita culturale che interessa tutto un paese. E qui un paradosso: l'intellettuale del Cinquecento aveva una deontologia professionale assai più spiccata dell'intellettuale d'oggi. Vedi un palazzo del Rinascimento dall'esterno e indovini la distribuzione degli ambienti all'interno. Vedi un dipinto di Raffaello e scopri che è lui stesso a indicarti a quali regole si sia attenuto nel comporre il quadro.
    Non dico che l'intellettuale debba parlare delle miserie che sono dietro i premi letterari e le giurie, o di aspetti prettamente tecnici dell'arte letteraria. Desidero però che un romanzo sia scritto bene, che è poi la differenza tra i Promessi sposi di Alessandro Manzoni e i romanzi storici di Massimo d'Azeglio che sapeva cavalcare, tirare di scherma, dipingere, scrivere ogni cosa che faceva era fatta bene ma non metteva in quel che faceva la passione del suocero che aveva assai più deontologia professionale di lui, tant'è che fece solo lo scrittore.
    Di tutto questo non avrei ritenuto opportuno discutere se la mancata deontologia professionale dell'intellettuale nostrano non avesse contribuito a un progressivo venir meno di una deontologia professionale in tanti campi, dall'avvocatura alla medicina, per arrivare a qualsiasi attività possa richiedere una qualche professionalità. Come prendersi cura della manutenzione di un ponte...
    Il punto è che c'è in Italia la convinzione diffusa che l'intellettuale abbia come una missione da compiere che consisterebbe nell'informare e nel condurre gli altri a riflettere sui problemi della vita e dell'esistenza umana, offrendo magari una prospettiva di riscatto e di liberazione. Il tutto discettando in astratto.

    Questa visione, che è vagamente settecentesca, è completamente inadeguata ai tempi d'oggi quando i popoli chiamati a decidere del loro destino, almeno stando ai principi democratici ispiratori dello stato moderno, dovrebbero essere messi in condizione di comprendere per quali vie i cittadini si relazionano alle istituzioni. Siamo al punto che, per risolvere i problemi della scuola, si fa tanta ma davvero tanta pedagogia. Ci sono professori di matematica e di inglese che di pedagogia ne sanno tanta, da uscirgli proverbialmente dalle orecchie. Il punto dolente è che non conoscono bene gli uni la matematica, gli altri l'inglese.             

  • L'EUROPA DEGLI ITALIANI

    data: 06/11/2018 12:40

    L'Europa è una realtà, che è nei fatti. Questi fatti sono la progressiva riduzione delle distanze geografiche, che le vie e gli strumenti di comunicazione hanno ridotto fin quasi ad annullarne gli effetti. In poche ore raggiungiamo città un tempo così lontane da essere luoghi di fiaba, inoltre sappiamo quel che succede a Parigi o a Norimberga qualche minuto dopo che il fatto è accaduto. Tutto questo crea obiettivi comuni che tutti i paesi europei devono darsi se vogliono veramente affrontare e risolvere i problemi dell'economia, dell'ambiente, della difesa militare, della tutela della salute. Sono problemi ormai indifferibili e che nessuno stato appartenente all'area europea può pensare d'affrontare indipendentemente dagli altri.
    Quelle indicate, alle quali potrebbero aggiungersene altre di minore importanza, sono solo le principali questioni che attualmente si pongono nei consessi internazionali del Vecchio Continente. Sono in fondo le ragioni per cui pubblicazioni ormai storiche come “Le monde diplomatique”, “Internazionale” e “Limes” sono riuscite a conquistare un notevole numero di lettori che se non sono qualificati, tengono a qualificarsi.
    D'altro canto che senso ha stare in Europa senza portare nella nuova casa comune il meglio di quel che si possiede delle proprie risorse morali e intellettuali?
    Non ci si può lasciar condurre con pigra rassegnazione dagli altri in un momento in cui si deve essere al contrario attori responsabili e coscienti di un'operazione volta al miglioramento delle condizioni di vita sia nostre, sia delle generazioni future. Ed è questo un compito che spetta a tutti i governi degli stati europei, essendo ciascuno di essi ricco, oltre che di risorse economiche, anche di memoria storica, di talenti, di rinomanze giustamente guadagnate nel tempo.
    La lotta paziente e costruttiva dev'essere contro ogni tentazione egemonica. L'Europa è uno dei più ricchi angoli del mondo, composto da paesi che sono fra i più ricchi della Terra. Un'egemonia di qualunque natura che volesse trasformarsi in egemonia politica sarebbe la fine dell'Europa e un ridursi delle grandi potenzialità che ha uno spazio geopolitico contenuto in un'area non tanto vasta ma di un'impressionante varietà dal punto di vista culturale.
    Che cosa sono io in condizione di fare? Questa è la domanda che dovrebbe porsi ogni stato della comunità europea mettendo ciascuno a disposizione il proprio talento. Se però non ci si fa avanti nessuno si ricorda di noi, né possiamo noi da soli mettere a fuoco le nostre reali capacità. Son cose queste che emergono da un confronto che fin qui nessuna intelligenza politica ha avuto la lungimiranza di promuovere.
    Ci sono gare sportive e festival internazionali soprattutto di cinema ma tutto questo è troppo poco perché le varie nazioni siano a turno poste nella condizione di mostrare la propria creatività.
    Un fatto obiettivo è che l'Italia possieda il più ricco patrimonio artistico esistente al mondo. Un patrimonio che è sempre meno sfruttato, se è vero che il turismo nel nostro paese ha conosciuto delle flessioni non allarmanti ma preoccupanti, costituendo il turismo la voce fondamentale della nostra economia.
    Diventando l'Italia Europa i suoi confini si ampliano. Come da più punti di vista Firenze ha guadagnato qualcosa trasformandosi, dopo l'Unità, da capitale di un granducato in città d'arte italiana, la stessa cosa può accadere quando importanti centri culturali (come Bologna o Napoli), religiosi (come Assisi), artistici (come Pompei o Venezia), industriali (come Milano) si relazionano all'Europa intera. Va da sé peraltro che sono i fiorentini i bolognesi i napoletani gli assisiani, i veneziani a doversi muovere per primi senza limitarsi a creare gemellaggi internazionali che restino lettera morta. 
    Tra italiani ce lo possiamo dire: bisogna evitare che si compiano con l'Unità d'Europa gli stessi errori che a suo tempo si fecero con l'Unità d'Italia. Due processi politici inevitabili, per cui se allora il Sud pagò suo malgrado fu anche perché si aggregò con un ritardo di dieci anni a un corpo politico e amministrativo preesistente che celebrò la Spedizione dei Mille come sottile operazione politico-militare e non come conquista della libertà da parte delle popolazioni meridionali, dandosi a queste il benvenuto nel Regno d'Italia. E' il guaio di lasciarsi liberare dagli altri, invece che da sé. Perché altrimenti il piano Marshall, con tutti gli equivoci che comportò? Il Liberatore, che si tratti del Piemonte sabaudo o degli Stati Uniti d'America, reclamerà sempre il conto. Fortunatamente, per quanto riguarda l'Europa, l'Italia è tra le Nazioni che per prime pensarono a un'Europa Unita. Questo però non basta a farci stare tranquilli. E allora che fare?
    Tenere le ricchezze tra la spazzatura è vizio di chi ha ricchezze in esubero. Un incidente che può capitare a un grande gioielliere, come perdere un pietra preziosa, finita chissà dove, è un incidente che difficilmente accadrebbe nella casa di un impiegato pubblico. Se si riportassero alla luce tutti i tesori d'arte presenti nel paese, molti dei quali nascosti, dimenticati, dispersi, rubati, gli italiani aprirebbero gli occhi su una realtà: l'impossibilità di gestire un patrimonio tanto ingente. Tanto vale allora investire su una parte di esso mettendolo a disposizione dell' UE, e in cambio ottenere un abbattimento del debito pubblico nazionale. Sarebbe già un ottimo risultato se, per tale via, riuscissimo a cancellare gli interessi che, accumulandosi nel tempo, impediscono di fatto la riduzione del debito stesso.
    L'idea sarebbe allora questa o qualcosa che a questa somiglia. Il turista che viene in Europa dagli USA, dall'Australia, dall'Asia e vuole entrare a contatto con la civiltà europea,  potrebbe iniziare il suo giro turistico o dal presente e andare a ritroso nel passato, o nel passato e andare avanti fino al presente, notando come la nostra cultura sia una cultura dell'accumulo delle memorie storiche, aspetto che la caratterizza. Si tratterebbe dunque di fissare due mete fondamentali dove collocare due grandi poli museali, l'uno d'arte e civiltà preistorica e antica, l'altro d'arte e civiltà contemporanea. La Banca Centrale Europea, chiamata a realizzare il progetto, a gestire l'operazione, acquisirebbe i tesori d'arte e al progetto potrebbero concorrere tutti i paesi europei, ciascuno mettendo a disposizione le opere d'arte e di civiltà che vorrà cedere. Spagna, Portogallo, Grecia aderirebbero sicuramente a un progetto di questo tipo e l'Italia si prenderebbe il merito morale d'aver compiuto il primo passo in tale direzione. Un passo significativo anche perché è tale la qualità e la quantità del nostro patrimonio artistico-culturale da non avere competitori nel campo.