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GIANNI ZAGATO

  • "SCENDI IL CANE", UN CASO
    SCIENTIFICO E MEDIATICO

    data: 06/02/2019 11:18

    È durata lo spazio di un mattino la notizia della dotta risposta dell’Accademia della Crusca al quesito che diversi cittadini le avevano posto: se sia lecito, o meno, l’uso di espressioni quali “scendi il cane” o “siedi il bambino”. Detto altrimenti, fino a che punto, e in quali casi, sia ammessa nella lingua italiana la costruzione transitiva di verbi intransitivi. Il risalto mediatico che l’ha imposta all’attenzione di un pubblico largo ha avuto se non altro il merito di incrinare, sia pure per qualche ora, la stucchevole tiritera di quei due o tre fatti attorno cui è ormai costruita l’informazione nel nostro paese; sempre di più nel dare conto dell’escalation verbale dei consueti protagonisti, sempre di meno nell’approfondire l’analisi dei fenomeni inediti del nostro tempo.
    Ma ben presto, quella che poteva essere un’ottima occasione per introdurre, e diffondere, una discussione culturale che riguarda ciascuno di noi, come l’uso che facciamo della nostra lingua, parlata e scritta, si è dovuta piegare alle regole da tempo vigenti nel dibattito pubblico italiano. Semplificare la notizia; azzerarne il punto di vista dialettico; tramutarla, attraverso la pronta entrata in scena dei social, in una conta tra i favorevoli e i contrari, così che l’opinione “dei più” risolve numericamente ogni disputa, per quanto complessa possa essere.
    “Sdoganare” è l’imperativo di una comunicazione sempre più imprigionata nel proprio circolo vizioso. Che nel caso specifico vuol dire: “Sono sgrammaticato, parlo male? Posso farlo, ho ragione nel farlo: lo dice l’Accademia della Crusca”. Chiusa la questione. E invece toccherebbe tenerla aperta, la questione, cercando di indagare le connessioni tra il modo di parlare e il modo di essere. Sono tante, sono rivelatrici di come il linguaggio sia precisamente quella lente attraverso cui mettiamo a fuoco il nostro sguardo sulla realtà, cogliendone le differenze, le trasformazioni, le novità.
    Intervenendo qualche giorno dopo la diffusione della notizia che finalmente potevamo “scendere il cane” e “sedere il bambino”, il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, ha amaramente considerato: “Ogni volta che si trasferisce un discorso scientifico sottile su un piano mediatico, si producono risultati perversi”. La questione, da tenere aperta, è esattamente questa. Non possiamo fare a meno del “discorso scientifico”, inteso come studio analitico dei fenomeni complessi che segnano quotidianamente la nostra vita. È un discorso, per sua natura, fondato sulla ricerca, sul sapere critico, sul raffronto delle differenze. Né possiamo fare a meno del “piano mediatico”, inteso come quel sistema che mette in circolazione le informazioni, le diffonde a un pubblico largo, oltre la cerchia ristretta degli specialismi.
    Il discorso scientifico produce conoscenza; il piano mediatico produce democrazia. A questo servono, e abbiamo bisogno di entrambi, in un mondo sempre più complesso. Ma è la virtuosità di questa relazione che oggi manca, e la vicenda dello “scendere il cane” è proprio in questo, e forse più di tante altre, rivelatrice di qualcosa di “perverso” che diventa il nuovo paradigma di un modo di pensare, di guardare le cose, di farsene convinzione e opinione, giudizio.
    L’Accademia della Crusca, una delle nostre più antiche e prestigiose istituzioni culturali, da alcuni anni fornisce un servizio di consulenza ai più diversi utenti: sull’uso della grammatica, sull’evoluzione (e l’involuzione) della lingua, sull’origine delle parole. Dispone inoltre di una rivista semestrale, La Crusca per voi, rivolta per lo più alle scuole, che si propone di creare un ponte, sulla questione della lingua parlata e scritta, tra lo specialismo dello studioso e il mondo esterno.
    Mettere insieme le risposte che vengono date di volta in volta ai più svariati quesiti, equivale per il singolo utente ad azionare un sismografo capace di segnalargli i movimenti, le increspature, le oscillazioni del modo di parlare. Perché la lingua è anch’essa in continuo movimento e anzi la sua direzione di marcia va di pari passo, molto più di altri indicatori, con quella culturale: ci dice dove stiamo andando.
    Alla domanda di un utente se sia corretto l’uso dell’espressione “scendi il cane”, Vittorio Coletti, consigliere dell’Accademia e linguista tra i più accreditati, ha dato una risposta articolata, documentata. Distinguendo tra uso domestico, parlato e popolare e uso scritto; tra forme concentrate del parlare veloce e l’intramontabilità della regola linguistica per la quale i verbi di moto sono e restano intransitivi; confrontando la lingua italiana, che necessita di continue mediazioni tra scritto e orale, e quella francese, ad esempio, una lingua così fortemente “parlata” che le medesime espressioni (sortir le chien; assuoir l’enfant) risultano da decenni ormai nei vocabolari ufficiali. La conclusione di Coletti, a leggerla con l’attenzione che merita, rende conto di un dato oggettivo: c’è ormai un bisogno di brevità, di velocità, nel nostro modo di essere e di esprimerci, tale da creare espressioni linguistiche altrettanto rapide, entrate ormai nell’uso corrente. Forme di metonimia, direbbe un linguista.

    Un conto è tuttavia l’uso che si fa di queste espressioni, e altro conto è la grammatica, la regola linguistica. Del resto, si può considerare “inglese” la lingua “globis” oggi maggiormente parlata al mondo? Con le sue 1500 parole, funzionali al lessico commerciale e tecnologico (quando l’Oxford English Dictionary ne annovera più di 60 mila) è piuttosto – come osserva Lamberto Maffei nel suo Elogio della lingua - la lingua del mercato che un reale fattore di integrazione culturale. È così che una questione complessa, strutturata attorno a un “discorso scientifico”, si è tramutata, sul “piano mediatico”, in un “risultato perverso”: una sorta di elogio al parlar sgrammaticato. E poiché ogni lingua interpreta il mondo, sgrammaticato rischia di diventare il tempo e lo spazio del nostro agire. 

  • BANFI. E LA COMPETENZA?

    data: 23/01/2019 11:14

    Lino Banfi è un attore di lungo corso, è popolare, da anni è entrato nelle nostre case attraverso la televisione. É simpatico, ci fa sorridere. Tutti, in famiglia, dai più piccoli ai nonni, che infatti ormai rappresenta anche simbolicamente. Poi ha quella parlata strascicata, piegata verso l’equivoco, il doppio senso sempre dietro l’angolo, che è l’ingrediente forse principale della comicità. Si può discutere - senza per carità che ci si metta ad erigere steccati tra cultura “alta” e cultura “bassa”, sovvertiti, se non proprio spazzati via, più di mezzo secolo fa da Umberto Eco in un celebre saggio - se il suo tipo di arte recitatoria risulti alquanto ripetitiva, monocorde, e i suoi tanti personaggi in carriera non siano, in fondo, la rispolveratura del medesimo. Tanto da farci pensare che Banfi recita ogni volta se stesso, e non può che venirgli bene, occorre aggiungere.
    Dunque averlo nominato, da parte dell’attuale Governo, a rappresentare l’Italia nella Commissione per l’Unesco, è una scelta che può persino funzionare. Può, ma non funzionerà. Può, se pensiamo a quanto conta nel nostro tempo presente la cosiddetta “società dell’immagine”, l’icona da mostrare, il personaggio pur che sia popolare.
    Ma funziona? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prima farcene un’altra: esiste ancora una qualche differenza tra una giuria cinematografica, o un concorso di bellezza, ad esempio, e una commissione parlamentare, o quella che manda avanti l’Unesco? Si. Pur vedendo intorno una grande confusione di ruoli, la differenza esiste, eccome. E ha un nome preciso: si chiama “competenza”. Si acquisisce in vari modi, principalmente per studio, poi per esperienza, le due cose insieme, ancor meglio. E quando c’è, dà autorevolezza, risolve problemi. Questa è una regola, una di quelle che manda avanti il mondo.
    Poi, come ogni regola, ammette l’eccezione. E allora si può qui e là piazzare una bandiera, per sventolare il simbolico. Ma sotto il simbolico dev’esserci pure qualcosa di reale. La tendenza ormai predominante pare viceversa quella di uno stuolo di vessilli che da ogni lato ci sventola addosso. Specie in politica, dove primeggia incontrastata la categoria dei comici. Viene in mente Marx che stravedeva per Balzac: “Ma è un reazionario”, ribattevano gli amici. “In politica – replicava il barbuto filosofo -, ma io devo giudicare lo scrittore. E come scrittore è rivoluzionario”. Ecco un altro modo di dire cosa sia la competenza.

    Ora, quando incroceremo quella politica che mette Lino Banfi, che senz’altro sa di recitazione, di sceneggiature, di pause e battute, in una commissione per lo spettacolo; e promuoveremo invece un bravo funzionario che conosce vita morte e miracoli del nostro patrimonio a rappresentare l’Italia nella Commissione dell’Unesco? “Ofelè fa el to mesté”, si sente dire a Milano: Pasticciere, fai il tuo mestiere.   

  • PERCHE' QUESTO DEGRADO?

    data: 22/01/2019 19:26

    Colpisce un certo degrado della qualità della vita quotidiana. Colpisce l’accelerazione con cui marcia attorno, e dentro, le nostre esistenze. Gli indicatori sociologici lo rilevano da tempo, come rilevano l’impennata di un fenomeno che indica come diffuso sentimento “nazionale”, per usare il linguaggio dell’ultimo rapporto del Censis, il “rancore” che da un anno all’altro si tramuta in “cattiveria”. È un sentimento che si fa modo di essere, metro di misura nelle relazioni. Sentimento che può diventare, se già non è diventato “punto di vista” sul mondo, dunque senso comune diffuso. Esso sta assumendo i tratti della pervasività, occupa gli spazi delle relazioni di lavoro, della vita sociale, di quella affettiva, della comunicazione, dai social ai talk show televisivi. Investe in pieno la qualità del dibattito pubblico, in primo luogo quello inerente la politica.
    Se questo è ciò che possiamo vedere in superficie, come epifenomeno, la radice rende evidenti un insieme di cause, ognuna delle quali richiama una complessità di lettura. La prima, forse anche in ordine d’importanza, è quella sociale, e deriva dalla lunga crisi e dagli effetti che essa ha prodotto non soltanto sul piano economico. Incertezza, precarietà, depauperamento materiale e di status del ceto medio, allentamento dei vincoli comunitari, hanno aperto la strada ad un isolamento individuale che tiene insieme un bisogno d’affermazione dell’uno contro l’altro, con il senso d’impotenza nel realizzarlo.
    C’è una causa che senz’altro attiene alle élite odierne, ed è una discussione in corso (negli ultimi giorni Baricco, Emanuele Coccia e Nadia Urbinati). La causa culturale porta il peso di un Paese che progressivamente è slittato nei posti di coda tra quelli che investono nel sapere e nella sua diffusività. Qualcosa che richiama l’analisi pasoliniana di mezzo secolo fa, quella di un Paese che cresce economicamente con assai più velocità di quanto non faccia culturalmente.
    Oggi che quella crescita economica si è arrestata, e non riusciamo a lasciarci alle spalle questi lunghi decenni di recessione, viene a mancare la sponda culturale solida, diffusa, critica e insieme mediativa, capace di dare qualità allo stato delle relazioni nel tempo della crisi. Naturalmente, il panorama non è del tutto omogeneo, né l’esito già segnato. Vi sono le eccellenze, tante, come vi sono esperienze di aggregazione e crescita culturale e sociale, di cui troppo poco si parla. E anche questo è un problema non di poco conto: cosa e come si racconta, quale è la “narrazione” che passa nella quotidianità.
    La vicenda della Sea Watch è stata per settimane nei titoli di cronaca, più per assistere a chi usciva vittorioso e chi sconfitto nel derby europeo dell’accoglienza agli immigrati, che non per le condizioni delle persone a bordo. E del sindaco di un paesino del crotonese che ha svegliato i propri concittadini nel cuore della notte salvando così persone in mare non è restata quasi traccia. Sta di fatto che l’avvitamento della realtà sociale e culturale in tempo di crisi, insieme all’inettitudine delle classi dirigenti, non solo quelle politiche, produce un nuovo “senso comune”. Dentro il quale lo spazio dialettico, critico, civile e democratico, progressivamente si riduce. Ad esso manca una risposta, che sia di qualità e di sostanza diversa e alternativa, che non risulti nell’agire del tutto marginale, e che non abbia di sé una considerazione quasi d’impotenza nel risalire la china.
    Il blog ha una funzione utile e positiva. Propone contributi culturalmente riflessivi, in vari campi, mette a confronto una pluralità di punti di vista, suscita curiosità. Lo stesso nome, evoca un programma, una linea di tendenza, un obiettivo da conseguire. É pur vero che l’epoca è quella di una certa inflazione informativa, a cui sempre meno corrisponde un’analisi critica e autonoma dei fatti che accadono, dell’attenzione alle fonti e alla loro pluralità, della selezione e del “giusto peso” che a quei fatti narrati va attribuito, della memoria che se ne fa, della complessità che li determina. Conta in ogni caso il “profilo” con cui si entra nel magma di un mercato nel quale l’offerta pare superare di gran lunga la domanda.
    L’attuale profilo del blog, che va mantenuto e anzi implementato nei criteri su cui si è recentemente rilanciato, può tuttavia essere affiancato da qualcosa, certamente da inventare nella forma concreta, che dia l’idea di un leit motiv, di un chiodo fisso su cui battere, di una cifra che lo contraddistingue su un punto specifico: c’è bisogno di un “altro” e diverso senso comune, quello attuale porta ineluttabilmente all’esito, prima o poi, di non aver bisogno né di informazione né di democrazia. C’è ormai un “a priori” che riguarda la possibilità stessa che si affermi un dibattito pubblico in Italia degno di questo nome, nell’informazione, nella cultura, nella politica, ancor di più.
    E’ l’uso delle parole, il linguaggio, il codice di reciproco riconoscimento che rende possibile all’informazione, alla cultura, alla politica di essere praticate in quanto tali, nella loro autonomia e interdipendenza, nella pluralità e differenza delle opzioni all’interno di ciascuna di esse. Quel chiodo fisso da battere possono essere le “venti righe” che giorno dopo giorno allargano e approfondiscono il discorso; può essere la sequela di voci che si susseguono, o con pezzi o con interviste, e compongono un coro polifonico sul discorso medesimo; questo e/o altro che senz’altro potrà emergere da un confronto tra i diversi collaboratori del blog, qualora si ravvisi la necessità di andare in questa direzione. 

        

  • "MARCIRE IN GALERA"?

    data: 18/01/2019 18:13

    Deve marcire in galera. Quotidiani, social, notiziari riportano questa frase lapidaria, a proposito della nota vicenda internazionale che ruota attorno alla cattura di Cesare Battisti, finalmente riconsegnato alla giustizia. A pronunciarla potrebbe essere l’uomo della strada, invece si tratta del ministro degli interni della Repubblica italiana. C’è differenza? É giusto, è necessario che ci sia una differenza?
    Noi continuiamo a credere che, fintanto che sussisterà una divisione tra “governati e governanti”, questa differenza è giusto, è necessario che vi sia, e che risulti chiara, limpida; nei comportamenti e nelle frasi che si pronunciano. Le quali, è bene dire, non hanno mai il medesimo valore, poiché al bar o al mercato sotto casa pesano in un modo, al Viminale in un altro. É anzi proprio in questa differenza, in questo iato culturale, che trova spazio quel che chiamiamo “politica”. Assumere un dato di fatto, per come realmente si manifesta, e trasformarlo, elevarlo verso una forma compiuta, istituzionale e sociale, propria di una comunità matura e democratica.
    Deve marcire in galera, ha un senso inequivocabile, dato che “solo le parole contano, il resto sono chiacchiere”. Il senso di una vendetta compiuta. Sentimento, per quanto moralmente opinabile, legittimo in una discussione da bar; deprecabile nei luoghi delle massime istituzioni e sulla bocca di chi rappresenta, temporaneamente, le massime autorità di uno Stato. Se perdiamo questa differenza, perdiamo la possibilità stessa di un agire politico civile e democratico. Bisogna saperlo, e bisogna dirlo.
    Il discorso pubblico è quello che ci tiene insieme, o ci frantuma, ci disgrega. Le parole dello Stato devono sempre essere “altre” da quelle che evocano, e anzi invocano, la vendetta su un qualsiasi proprio cittadino, fosse anche il più criminale dei terroristi in circolazione. Lo Stato agisce sulla base delle leggi che si è dato; in virtù delle quali Cesare Battisti risulta, dalle prove sin qui acquisite e dai processi svolti, responsabile diretto di atti terroristici costati la vita a diverse persone e per questo condannato ad una pena che ora finalmente dovrà scontare. É quel che chiamiamo “giustizia”, che si esercita risalendo alla verità dei fatti compiuti, mai invocando vendette, naturalmente da esibire sotto i riflettori per un’opinione pubblica da blandire in cambio di un consenso utile al proprio potere.
    Abbiamo una Costituzione, sulla quale giura fedeltà chi assume cariche istituzionali; siamo il paese che ha dato al mondo, già più di due secoli fa, quei Dei delitti e delle pene su cui si fonda il diritto moderno. Eppure, la condizione nella quale oggi ci ritroviamo ci dice che dobbiamo ricominciare da capo. Si tratti di movimenti planetari complessi come l’immigrazione, dell’esplodere di inumane diseguaglianze sociali, dell’arretramento di diritti individuali inalienabili, l’inettitudine conclamata delle odierne classi dirigenti crea un solco sempre più rischioso tra cittadino e istituzioni, alimenta il fuoco che brucia l’idea stessa di civiltà e lascia soltanto cenere nera sotto i nostri piedi.
    Il linguaggio che esse adoperano, scambiato per forza decisionale, è in realtà una spia rivelatrice; nient’altro che lo specchio dove si rifrange la loro impotenza a governare uno che sia uno dei fenomeni contemporanei. È da lì che tocca ripartire, per rimettere in sesto un’idea di persona, di società, di Stato, di convivenza democratica: dal valore che diamo alle parole.
    Cosa più del linguaggio si pone a fondamento di una cultura che riconosca le differenze nel pensare, che contemperi le responsabilità nell’agire, che rischiari la complessità del vivere questo tempo presente? Ma se riconosciamo al linguaggio questa valenza, con esso noi per primi dobbiamo essere esigenti; e verso gli altri mai indulgenti, a maggior ragione quando vengono chiamati a rappresentarci. Il con-vivere si fonda a partire da qui.          

  • LEONARDO, 500 ANNI DOPO

    data: 08/01/2019 14:47

    Cosa ci dirà questo anniversario leonardiano che riempirà l’Europa intera di eventi nell’occasione dei cinquecento anni dalla morte (Amboise, 2 maggio 1519) di Da Vinci, il genio dei geni? In Italia, nelle città dove Leonardo ha vissuto e operato. A Firenze, dove torna per l’occasione alla Galleria degli Uffizi il Codice Leicester (ora di proprietà di un certo Bill Gates); a Milano con l’esposizione del Codice Atlantico alla Pinacoteca Ambrosiana; a Roma con la mostra allestita alle Scuderie del Quirinale. E in Francia, dove troviamo il cartellone più ricco e investimenti ben più cospicui che da noi; nella Loira, dove Leonardo ha vissuto gli ultimi anni, e con il Louvre che raduna le maggiori opere, tra cui la probabile esposizione di quel Salvàtor mundi che ha battuto tutte le aste ed è stato messo in vendita alla cifra capogiro di 450 milioni di dollari.
    Ci dirà qualcosa che già sappiamo: il suo genio non ha tempo, e percorre in pieno il nostro presente, indica la via di un futuro possibile. La indica per quest’Europa malandata e depressa, chiusa nel recinto delle proprie paure, in cerca di un’identità perduta. Un’identità ostinatamente curvata verso il primato di un’economia sregolata e del mercato produttore di vite frantumate, quando l’anima di quell’identità risiede viceversa, oggi più che mai, nella qualità di quell’umanesimo rinascimentale, rappresentato proprio da Leonardo nel suo punto più alto, che pone i valori della bellezza e della cultura, dell’arte e del sapere, dell’armonia con la natura, alla base della convivenza civile, di un’idea alta di società. Qui è la peculiarità dell’Europa, il tratto distintivo che non la consegna alla subalternità e la sottrae al declino. La chiave di lettura di questo anniversario può dunque dischiudere porte davanti a noi, ed è un’occasione di ricerca, di studio, di conoscenza, che non andrebbe persa o consegnata al marketing culturale.
    Di Leonardo poi abbiamo ancora molto da scoprire, tanti i punti “aperti” della sua vita come dell’opera. A cominciare da quel “Leonardo scrittore” che pur è stato indagato verso la seconda metà del Novecento da studiosi di primo piano del Rinascimento, come Carlo Dionisotti o Eugenio Garin, senza mai oltrepassare tuttavia il perimetro delle aule universitarie e delle riviste specializzate. Eppure oggi sappiamo che la sua produzione “di scrittura” è immensa, non inferiore a quella artistica, ingegneristica, progettistica. Alla sua morte nel castello di Amboise, in Loira, lascia in eredità a Francesco Melzi, l’allievo prediletto, una sterminata quantità di manoscritti: quaderni, taccuini, relazioni, note di esperimenti. E scritti letterari, di libri mai completati né pubblicati in vita, materiali andati dispersi e che qua e là riaffiorano ogni tanto nel tempo e in qualche angolo del mondo. Oggi disponiamo di cinquemila pagine di quegli scritti, redatti con quella inconfondibile e quasi indecifrabile scrittura speculare che andando da destra verso sinistra rovescia anche in questo l’ordine delle cose prestabilite.
    Chi mette meglio a fuoco il filo che lega Leonardo alla scrittura è uno dei nostri autori novecenteschi più inclini verso la cultura scientifica, Italo Calvino. E’ una ricerca che lo impegna per più di vent’anni, e che comincia in verità non con Leonardo ma con Galileo, un altro scienziato. Galileo, dice Calvino, è tra tutti gli scrittori italiani, il più grande. Usa il linguaggio con una “coscienza letteraria” e una “espressione immaginativa addirittura lirica”. Le critiche che si attira a seguito di questo sovvertimento dei valori letterari non gli impediscono di proseguire sul terreno che indaga la letteratura come “mappa del mondo” e dello scibile umano, e la scrittura come “quell’interminabile, ininterrotta linea creata dal movimento della penna”.
    Ed è su questo terreno, a contatto con i più importanti Codici leonardeschi e particolarmente quello trivulziano che annovera migliaia di vocaboli e liste lessicali, che Calvino giunge al Leonardo scrittore, parlando di una vera e propria “battaglia con la lingua” che fa della scrittura leonardesca qualcosa di originale rispetto ai propri contemporanei, rendendola un campo sempre aperto, potenzialmente infinito. Calvino ne parla diffusamente nelle Lezioni americane, e non per caso nella terza, dedicata all’esattezza. Una testualità in movimento, priva di gerarchie, aperta alle varie contaminazioni e combinazioni, come non può che essere quando l’oggetto di studio è la realtà in continua trasformazione. E’ una delle invenzioni più significative del genio di Leonardo, annota Calvino. A cui interessa il confronto tra “parola” e “immagine”, confronto che Leonardo risolve, come ben sappiamo, a favore del “figurare”, per lui superiore al “descrivere”, dato che solo la pittura è in grado di “comporre il molteplice” in un’unica figura e forma, senza dover subire la successione del tempo, come è invece per la parola, parlata e scritta.

    La lungimiranza di Calvino è stata proprio quella di andare alla ricerca di testi del passato per comprendere, attraverso la letteratura, i “valori” necessari nelle sfide del tempo presente. Che abbia incrociato in questa ricerca il Leonardo scrittore considerato sì genio, ma “omo sanza lettere” (forse per aver imparato il latino sui quarant’anni e ignorato del tutto il greco) ci dice quanto ancora possiamo nutrirci, nell’affrontare i nodi intricati del nostro tempo, della sua incessante creatività. 

  • NEL 2019 CON LEOPARDI

    data: 20/12/2018 22:51

    É sempre un buon esercizio della mente, lasciandoci alle spalle un anno che finisce e andando incontro a quello nuovo che inizia, tornare a leggere il Leopardi del Venditore d’almanacchi. Una delle Operette morali più fulminanti nella sua densa brevità, “il meglio ispirato dei dialoghi leopardiani” a detta del De Sanctis, scritta nel 1832, in età matura. Per quanto la nozione di “maturità”, nel caso del nostro poeta e filosofo, prescinda da una dimensione puramente temporale, se è vero che la sapienza esistenziale racchiusa nei quindici endecasillabi non rimati de L’infinito, di cui proprio nel 2019 ricorre il duecentesimo anniversario, è stata composta a poco più di vent’anni.
    Ogni passaggio d’anno facilmente si presta ai riti propiziatori di un tempo migliore in cui sperare, o credere; e in uno passato da lasciarsi una volta per tutte dietro le spalle, se il bilancio del tempo che è stato è di quelli che ha deluso le nostre aspettative. Al fondo di questa ritualità, che pure s’ammanta nella nostra tradizione popolare di tratti scaramantici, è sedimentato, a veder bene, uno degli architravi portanti della cultura e della civiltà occidentale di cui siamo parte. L’idea, che è insieme bisogno e speranza, necessità e desiderio, del domani come di quel luogo cui andare incontro nel calendario della vita futura per aprire una prospettiva diversa dalla realtà del presente. Un’idea insieme individuale e collettiva.
    In fondo è a partire da quest’idea che storicamente mettiamo a fuoco le nozione di “progresso”, di “sviluppo”, di “crescita”; nozioni che permeano il nostro essere sociale, gli conferiscono una funzione civica e politica. Il fatto è che mai come dentro il tempo presente avvertiamo l’usura di questo insieme di nozioni, e l’impraticabilità di un loro compiersi. Un sentimento diffuso, prevalente, se non dominante, che oscura l’idea stessa di speranza, la mette all’angolo. A guardare le cose da vicino, c’è da pensare che questo sentimento riguardi più la dimensione europea che altre parti del mondo, che con il “progresso” e con lo “sviluppo” continuano a fare i conti, sia pure con le spaventose contraddizioni che sono sotto i nostri occhi.

    E dentro l’Europa, il luogo di più acuta depressione tocca noi, il nostro Paese. Non può sorprendere lo scatto dell’ultimo rapporto del Censis che coglie l’avvitamento tra povertà materiale e “desolazione ideale”, generatore di uno stato d’animo diffuso, percepito, di “cattiveria”. Sempre di più si sfarina l’involucro sociale, resta sul campo l’individuo, impotente con la propria crescente solitudine nel dare vita ad una prospettiva reale di cambiamento di sé. Ma “là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che ci salva”, come insegna il grande Holderlin. Se c’è una strada possibile, è proprio quella di prendere sul serio queste parole. L’almanacco di cui abbiamo con urgenza bisogno non è quello che vende allora impossibili miraggi, bensì quello che restituisce all’individuo una funzione sociale, comunitaria. Da lì forse si può tornare a sperare che domani sia un altro giorno.       

  • OLTRE IL NOVECENTO

    data: 28/11/2018 09:31

    Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile. Però, tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita? Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti… Eppure, tutto sembra senza limite. Giunto al dunque, nel pieno di uno snodo – la lunga malattia - che sentiva come ultimativo della propria vita, aveva in mente di tornare a girare di nuovo, un’ultima volta. Per il bisogno di chiudere il cerchio, lo stesso che fa dire a un Paul Bowles interprete di sé stesso, in penombra nella scena finale de Il the nel deserto, che tutto accade solo un certo numero di volte. E il cerchio da chiudere l’avrebbe nuovamente riportato alle origini che, come sempre accade nelle biografie importanti, molto spiega della vita e dell’arte di Bernardo Bertolucci.
    Parma, la cultura contadina che trasuda innocenza arcaica, come gli ricordava Pasolini, la famiglia dominata da quella “cupola paterna” da cui riconosce di non essersi mai liberato: “eravamo troppo figli per diventare padri”. E dunque il Novecento, il nuovo “atto” cinematografico di un secolo che pare non finire mai nel presentare il conto amaro di un declino di valori e di cultura, al punto da sovvertire le nostre stesse radici. Impossibile considerare l’arte di Bernardo Bertolucci senza gettare la giusta luce su un cordone ombelicale con la “famiglia” mai reciso del tutto, e anche per questo fertile ogni volta di una nuova linfa creativa. Il confronto ininterrotto con il padre Attilio, uno dei poeti più raffinati (e critico cinematografico) di quel Novecento raccontato dal figlio, la contaminazione culturale che si poteva respirare nella casa romana di Monteverde Vecchio, assiduamente frequentata da Gadda e da Zavattini, da Moravia e da Caproni, da Roberto Longhi. E da quello che più di tutti ha segnato, in quegli anni giovanili, il destino artistico di Bernardo: Pier Paolo Pasolini.
    Accattone è un film, a ben pensarci, che ha qualcosa di prodigioso: ottiene il massimo successo con il minimo costo di produzione, sulla scena attori di strada, è diretto da uno scrittore che mai prima di allora s’era cimentato con una macchina da presa, e chiama un ventenne come Bernardo a fargli da aiuto. Ma sono messe, già lì, le carte in tavola del percorso futuro di Bertolucci. Da Pasolini apprende quella che diventa la sua regola fondamentale: il cinema si fa con il linguaggio della realtà, usando ogni volta la realtà che ci sta intorno, sia essa quella delle lotte sociali novecentesche dell’Emilia contadina di Novecento, come la realtà del fascismo letto come sessualità repressa de Il Conformista, o quella così diversa e così distante dal Po com’è la realtà del Sahara o del Nepal, immortalata nella “trilogia del viaggio”.
    Senza mai ripetersi, in ogni pellicola c’è tuttavia al fondo questo segno comune, che finisce per dischiudere la strada dell’opera artistica di Bertolucci ad un impegno civile portato sino alle ultime prove, com’è ne The Dreamers, una rilettura del Sessantotto come bisogno di “un domani che cambia il mondo”, di una sete di futuro mai più rivissuta dopo di allora. E’ un’idea di cinema “puro” che porta ben presto Bertolucci ad avvertire tutti i limiti di una lingua come quella italiana, perfetta per il discorso poetico e per quello musicale, non per il discorso cinematografico. Il suo cinema che s’intride di realtà ha bisogno di una lingua che non sia “letteraria”, ma leggera, diretta, quotidiana.  
    Dopo Novecento girerà soltanto in inglese i suoi dialoghi cinematografici. In fondo è una rottura che si carica di molteplici significati, segnando la compiuta emancipazione culturale dell’arte di Bertolucci. Dalla dimensione “letteraria” paterna, da cui pure tanto ha assunto, alla contaminazione di altre culture che, come nel caso di quelle buddiste, non sono scritte in un libro, dove ogni destino è già segnato, prescritto, ma si aprono libere alla realtà delle cose della vita. Ognuno di noi, pare dirci Bertolucci attraverso il suo modo di aver inteso e di aver fatto cinema, scrive la sceneggiatura della propria vita. E questo oggi è il messaggio di libertà che ci consegna.      

      

  • PERCHE' ROSSINI E' ATTUALE

    data: 21/11/2018 20:02

    Senza la musica la vita sarebbe un errore, afferma categoricamente Nietzsche. Ed è l’unica, tra le diverse forme dell’arte, a non piegarsi al volere umano, lo travalica, poiché essa è libera, non ha padroni da servire. Gioacchino Rossini, di cui ricorrono quest’anno i 150 anni dalla morte, è tra i geni musicali quello forse che più interpreta e fa pienamente suo questo pensiero del filosofo tedesco. Ci consegna, come è stato detto, una musica che ha il potere, ogni volta che l’ascoltiamo, di  renderci felici.

    La ricorrenza dell’anniversario ha qualcosa di inusitato, qualcosa che occorrerebbe esaminare con una certa attenzione. Per il semplice fatto che ha sì a che fare con una creatività artistica avvenuta due secoli fa, ma pone a noi contemporanei problemi del tutto aperti, e irrisolti, che riguardano la musica e insieme la oltrepassano, toccano la nostra qualità del vivere nel tempo presente. E’ una connessione, quella tra arte e vita, che dobbiamo saper vedere, e interpretare, dato che, in fondo, a questo serve l’espressività artistica. L’anniversario in sé è poco più che un pretesto, sono piuttosto i fatti che, messi insieme, ci consegnano un fenomeno, appunto, da indagare.

    Oggi la musica di Rossini è rappresentata, come mai era avvenuto, in tutti i teatri del mondo, e neppure quella di Mozart pare reggere alla lunga il confronto. Si assiste a una fioritura biografica e storica continua di saggi, di narrativa, epistolare e naturalmente gastronomica, data la nota predisposizione del  Pesarese per la buona cucina. È capitato ai principali quotidiani italiani, in questi ultimi mesi, di ospitare in prima pagina e in più occasioni articoli sulla musica rossiniana; e le celebrazioni di convegni, mostre, dibattiti risultano talmente fitte e diffuse da riempire già il calendario del prossimo anno.

    La domanda dunque è scontata: a cosa è dovuto tutto questo interesse, che va molto più in là della cerchia degli intenditori e tocca un pubblico ormai largo e, ecco un’altra novità, soprattutto  giovanile? C’è da dire che Rossini è sempre stato, per così dire, assai popolare, in Italia e in tutta Europa. L’opera sua più celebre, Il Barbiere di Siviglia, è ininterrottamente in cartellone nei teatri in giro per il mondo da quando fu rappresentata per la prima volta a Roma, al Teatro Argentina, nel febbraio del 1816. Rossini aveva appena ventitré anni  e quell’esordio, com’è noto, fu un fiasco clamoroso. Da quella sera sono trascorsi più di duecento anni, e non esiste opera  alcuna, neppure il mozartiano Don Giovanni, così capace di portare a teatro un pubblico sparso in ogni dove.

    Ma quello che oggi imperversa, è un altro Rossini, assai diverso da quello che siamo abituati a conoscere, ed è questa la novità, musicale e culturale, con cui fare i conti. E questo nuovo e in gran parte  inedito Rossini va visto come il punto d’arrivo di un percorso  durato gli ultimi trent’anni. Cominciato con il lavoro filologico  sottotraccia di uno dei più profondi conoscitori dell’arte rossiniana (Alberto Zedda), portato coraggiosamente sulle scene da cantanti  e direttori d’orchestra di eccezionale valore (Maria Callas e  Claudio Abbado), sviluppato sul piano della critica musicologica (Arrigo Quattrocchi), fino all’affermazione di una nuova generazione di cantanti “rossiniani” (Chris Merritt, Jaun Diego Florez) che ha saputo interpretare questa musica nuova come mai prima era toccato sentire.

    La “Rossini renaissance” ha sovvertito tanti stereotipi, sedimentati nel tempo, restituendoci una musica, un’arte, che scopriamo a noi contemporanea, ed è questo che spiega il successo nei teatri di tutto il mondo. Opere popolarissime (Il Barbiere, La Cenerentola), trasformate nel tempo da giocose in farsesche,  hanno finalmente riacquistato la loro originaria creatività. Altre ormai non più rappresentate (Matilde di Shabran, Ermione, Semiramide)sono state riscoperte come capolavori dissepolti. E accanto al Rossini “giocoso”, emerge sempre di più quello “serio”, fino all’autore “sacro”(La Petite Messe Sollenelle)  che pare lasciare il testimone sul piano del messaggio musicale – e siamo nel 1867 – alla musica colta, venata di blues e di jazz, di George Gershwin. Ci viene così restituito un patrimonio musicale, più che originale, riaperto, nel senso proprio dell’estetica novecentesca, per la quale nessuna opera d’arte del passato ci viene data qual era in origine, poiché ogni epoca che l’ha custodita, per poi tramandarcela, vi ha lasciato impresso il proprio segno. Ecco allora che il vero Rossini è proprio l’ultimo Rossini, così attuale da sentirlo nostro contemporaneo. Con la sua musica che ci aiuta a correggere della vita i tanti errori di questo tempo incerto e fuori sesto.                  

  • COM'E' CAMBIATO IL POTERE

    data: 17/11/2018 19:38

    Come siamo arrivati fin qui, com’è stato possibile? È una domanda che ci facciamo sempre più spesso, immersi come siamo dentro la palude, dove ogni cosa ci passa veloce dinanzi, senza avere neppure il tempo di capire da dove viene, e dove va. Riguarda la nostra vita quotidiana; riguarda la sua dimensione pubblica, se non vogliamo dire politica. Per giungere ad una qualche affidabile risposta occorrerebbe attraversare la complessità, ma i tempi, i tempi del presente, chiamiamoli pure di superficie, non paiono essere quelli adatti a misurarsi fino in fondo con essa. E questo, di per sé, è già un fatto che ostacola la risalita, il dischiudersi di una qualche utile via d’uscita. Filtra dentro la coscienza la nostalgia della stagione, già lontana, dei grandi ideali, delle appartenenze radicate, delle identità definite. Insieme al mesto sentimento di averle coltivate, dati gli esiti del presente, invano.

    E Invano, di Filippo Ceccarelli, è un libro che ci parla proprio di questo. Una singolare e alquanto spiazzante storia di quell’Italia repubblicana dentro cui la vita di diverse generazioni si è compiuta, muovendo dagli affreschi delle tumultuose passioni che hanno animato il paese uscito distrutto dalla guerra e dalla dittatura, via via sino alle istantanee di quest’oggi impaludato. Un tratto peculiare del libro è che questa storia, la storia, come dice il sottotitolo, del potere in Italia da De Gasperi a questi qua, non viene narrata da uno storico di professione, che per metodo d’indagine pone tra i fatti accaduti e la loro ricostruzione storica quell’ampio spazio temporale di decantazione utile a fornirne un giudizio equanime. A narrare del nostro tempo è qui invece un giornalista, che proprio quella storia ha attraversato nel corso della sua lunga carriera professionale, e anche per questo essa entra in scena, oltre che dalla porta principale dei grandi avvenimenti, dalle tante e spesso imprevedibili entrate laterali dei caratteri e dei tic che delineano, dei diversi personaggi conosciuti e frequentati dall’autore, il tratto antropologico non meno di quello politico.

    E’ noto del resto come il metodo di lavoro giornalistico di Ceccarelli sia stato del tutto particolare, e risulti oggi, nel panorama della carta stampata, messo repentinamente da parte per altri e meno artigianali metodi dettati dal sopravvento del digitale. E’ il metodo del giornalista che i giornali, oltre che scriverli, li legge, e di mattino presto; ritaglia e mette da parte, accumula, classifica e scheda, con il gusto quasi ossessivo per quel dettaglio, quell’inedito, che sfugge ai più. Del resto, non si potrebbe scrivere un libro di mille pagine (e cinque anni di lavoro), senza avere alle spalle della scrivania un archivio assai ben strutturato; e talmente voluminoso da richiedere un tir che lo trasportasse dalla redazione del giornale alla biblioteca della Camera, dove è stato donato. Invano, ci dice l’autore, va inteso in due modi. Quello del potere in quanto tale, che sempre cerca, invano, di ingannare la morte; e quello dei grandi valori che ci hanno attraversato, e contrapposto, se l’approdo è quello che abbiamo oggi sotto gli occhi. Se questo è potuto accadere, è anche per un colpevole difetto di memoria da cui risultiamo afflitti, tale da impedirci ormai di vedere e trovare, dentro il passato, i tratti del presente e i bagliori del futuro. Una sorta di cesura agostiniana di quei “tre tempi del presente” che ha dato una scansione di durata, di trasmissione, di contaminazione temporale delle nostre vite.  

    Questi qua, come li nomina Ceccarelli senza intento spregiativo e anzi mettendoli sul medesimo piano di un modo prima di tutto generazionale di stare sulla scena, si assomigliano: bravissimi nella velocità, permanentemente sui social, autodidatti cresciuti dentro la televisione dei quiz. Ma non hanno “cultura politica”, né alle spalle quei partiti che malgrado i tanti difetti fungevano tuttavia da agenzie di formazione delle coscienze. Scontato, dunque, che al perseguimento della loro idea dell’uomo forte e solo al comando, risultino fastidiose le intermediazioni sociali, i giornalisti dell’indagine, le procedure faticosamente democratiche. Ceccarelli nota come al tramonto delle culture politiche faccia seguito una ripresa della corporeità, il segno prevalente di una personalizzazione ormai pervasiva della politica. L’antidoto, suggerisce l’autore, sta in quel dovere della memoria che guarda al passato non come rimpianto, ma come riconoscimento di un valore necessario al presente. Come senz’altro è antidoto, si potrebbe aggiungere, quel giornalismo che sa farsi fonte storica di primo riferimento e sa accendere le luci in ogni stanza del grande condominio delle istituzioni di un paese, restituendocele trasparenti, per quello che sono. Questa è la ragione, in fondo, che ci spinge, in tempi di twitter e di instagram, a chinarci riflessivi su un libro di mille pagine, uscendone con le idee più chiare, con una memoria più vigile.

     
     

  • LA RIVOLUZIONE DIGITALE

    data: 06/11/2018 12:03

    La Rivoluzione Digitale corre via veloce, il suo viaggio non prevede stazioni di sosta. È in perpetua gara con il tempo e occupa ogni lembo dello spazio, poiché questa è la sua vera natura; il movimento la sua unica legge fondativa. Porta il cambiamento in ogni direzione e latitudine, tanto verso il singolo individuo quanto nell’intero pianeta, sempre più interconnesso. E tutto è accaduto in un tempo relativamente breve, appena qualche volgere di decennio. Dove ogni cosa, sia dell’organizzazione sociale come della vita quotidiana di ciascuno di noi, è stata rivoltata una volta per sempre, qualcosa di irreversibile. E infatti, adesso che la metamorfosi si è compiuta, a guardarci indietro ci scopriamo quasi irriconoscibili.
    Come ogni rivoluzione degna di questo nome, anche quella digitale si è nutrita di un utopia assoluta, e del resto come poteva farne a meno? Ma non ha teorie o filosofie da dispensare. Lo scaffale di libri, saggi, trattati che la preparano al suo esordio nel mondo è, a differenza di tutte le altre grandi rivoluzioni che l’hanno preceduta, semplicemente vuoto. Perché è piuttosto una pratica; una pratica che ha avuto inizio quando quell’utopia assoluta, nel tempo ancora una volta dell’istante, si è realizzata.
    E’ accaduto precisamente il giorno in cui ci è stato fatto trovare sulle nostre scrivanie un personal computer; insieme al sogno, al bisogno, o forse all’illusione, di socializzare finalmente una qualche forma di potere, personale e di gruppo, prima di allora inaccessibile. Da allora non è esagerato sostenere, dati concreti alla mano, che un consolidato paradigma sociale e di civiltà plurisecolare ha visto ribaltate alcune sue fondamentali categorie: la profondità in superficie, il verticale in orizzontale, la lentezza in velocità, la qualità in quantità, l’oblio in memoria sconfinata. Fino al punto in cui siamo qui giunti. Quello in cui tutto è digitalizzato o può esserlo: il suono, la parola, l’immagine, l’immaginario persino, e con esso ogni anfratto riposto delle nostre vite. Muta, e alla radice, il punto di vista sul mondo, muta la percezione di sé e dell’altro; con l’accorciarsi progressivo della nozione di tempo muta l’idea stessa di futuro. Muta insomma la mentalità di ciascuno di noi.
    E questo, a dire il vero, era nelle previsioni di uno dei profetici padri di questa sconvolgente rivoluzione, Steward Brand: puoi pensare di cambiare la testa delle persone, ma stai perdendo il tuo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano, e cambierai il mondo. Ed è questo che è accaduto, né più né meno. Gli strumenti – i tools, e con essi i device  - ci sono stati forniti, su scala planetaria; il loro sviluppo, e dunque la loro obsolescenza, è incessante.
    L’uso che ne facciamo rende a volte difficile distinguere quale sia il mezzo e quale il fine. Anche per questo sembra giunto il momento di un bilancio, certamente provvisorio, della rivoluzione digitale in corso. Nel farlo, come si sta facendo con largo uso delle più svariate discipline scientifiche e umanistiche, occorrerebbe evitare di dover scegliere per forza di cose tra quelle due opposte categorie interpretative che Umberto Eco adoperò mezzo secolo fa a proposito della  cultura di massa: o apocalittici integrati. Quello di cui c’è bisogno è piuttosto l’esercizio della critica, quella che sa muovere dall’analisi dei dati di fatto. È un esercizio che Jaron Lanier (Dieci argomenti, tradotto in Italia qualche mese fa) e Alessandro Baricco (The Game, in libreria in questi giorni), compiono andando al fondo della questione, sia pure da prospettive distanti, e giungendo a conclusioni assai diverse.
    Lanier ha vissuto la rivoluzione digitale dall’interno, ed è considerato uno dei padri della realtà virtuale. Forse proprio per questo colpisce la drasticità della sua diagnosi e l’assolutezza della terapia. In primo luogo verso l’uso dei social media, quel grande miraggio che fabbricando finzione e illusione, lascia al fondo di ciascuno di noi quell’infelicità e quell’isolamento che ci sta disumanizzando. In discussione è ormai la scelta tra conservare o perdere la nostra capacità di libero arbitrio, e per questo si rende necessaria una rapida via di fuga dal sistema dei social, una delle strutture portanti della rivoluzione digitale in atto.
    Alessandro Baricco osserva viceversa le cose dall’esterno e, come già aveva cominciato a fare più di una decina d’anni fa con I Barbari, traccia delle mappe conoscitive per potersi meglio addentrare nel labirinto entro cui siamo. Lo fa sostenendo la causa dell’irreversibilità e insieme della positività dello tsunami digitale che ci attraversa. Ma riconoscendo che, a causa dello stesso impeto che l’ha originata e poi alimentata, la rivoluzione digitale si è come messa su di un piano inclinato; corre adesso il rischio serio di un avvitamento, e dunque è necessario, urgente, rimetterla in asse, trovarle un nuovo equilibrio. Come? Immettendo dentro il processo  di inarrestabile avanzamento digitale proprio ciò che è mancato nel suo inizio: l’umanesimo, in una parola. Quell’umanesimo di cui è ricca, malgrado tutto, quella parte del mondo – l’Europa – che è risultata pressoché assente alla messa in atto di questa rivoluzione, per definizione americana e tecnica, prima ancora che scientifica. Che l’Europa, come sostiene Baricco, sia oggi “il luogo giusto, nel momento giusto”, è una tesi controcorrente nel dibattito pubblico che la riguarda. Ma è una suggestione da raccogliere, e da coltivare.