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ANGELO SFERRAZZA

  • ELEZIONI IN USA
    MENTRE IL COVID-19 TESSE
    LA SUA TELA DI RAGNO

    data: 28/10/2020 09:10

    -9 alle elezioni Usa (mentre scriviamo) e la seconda ondata del Covid-19 che colpisce con forza tutti i Paesi, soprattutto l’Europa e gli Stati Uniti. Fuori dal covid-19 sembrano essere la Cina ed altri paesi asiatici, Corea e in parte Giappone. Durante il precedente lockdown ci siama chiesti quali sarebbere stati i cambiamenti “dopo”. Tante le buone intenzioni, ma al dunque se non travolte, certamente rimandate a tempi migliori. A cominciare dal proposito di collaborare assieme, in una specie di irenico ONU. Invece stiamo assistendo ad un procedere isolato, egoistico, dove anzi si sfruttano le difficoltà degli altri a fini politici e speculativi.

    L’esempio più eclatante è quello del vaccino, come si vede nel conflitto fra Cina, Russia e Stati Uniti. Nella poltrona per tre, non c’è posto per l’Europa. Ma questo ha contribuito ad un risveglio e un salto di qualità nella politica europea, seppur faticoso, ma reale. Divisa fra chi condivide la linea Merkel-Macron, i Paesi “frugali” e gruppo Visegrad, abbiamo assistito ultimamente ad una unità di voto sulle sanzioni alla Bielorussia e alla Turchia. La situazione generale obbliga l’Europa, se non vuol sparire, ad avere una politica estera e di difesa comune. Anche perché l’Europa deve recuperare tempo, generare un pensiero comune e strutture nuove. Si era subito capito che la linea trumpiana era quella dello stravolgimento della politica estera nei confronti dell’Europa, non più alleata, ma concorrente. Tutti ricordano i giochetti del ritiro delle truppe americane dalla Germania e la disputa per la condivisione dei costi della Nato. Una politica che è piaciuta a Putin, ma che non ne ha ricavato molto, preso com’è da una serie di difficoltà interne ed esterne.

    La tela di ragno del Covid-19 non ha bloccato mutamenti dell’assetto e degli equilibri internazionali. Come in una zona che sembrava bloccata e sempre sull’orlo di una guerra: il Grande Medio Oriente. Il 15 settembre si è firmato a Washington l’accordo “Abramo” fra Israele e gli Emirati Uniti Arabi e il Bahrein. “Notaio” il Presidente Trump che incassa un successo per la sua campagna elettorale e soprattutto per il premier Benjamin Netanyahu, in affanno per come ha gestito il problema Covid-19, ma soprattutto per i suoi guai giudiziari. L’accordo cambia totalmente la situazione politica, militare ed economica dell’area consentendo agli Usa di poter ritirare truppe dalla zona, conservando i loro interessi da Suez allo stretto di Hormuz, dove passa il 30% del petrolio del mondo e dove si affrontano navi iraniane e americane. Ma di questi cambiamenti è Israele ad avere il maggior successo per il futuro e la sicurezza del Paese. Israele porta a cinque, ultimo il Sudan, i Paesi con cui avrà rapporti diplomatici. Altri in attesa. L’”operazione” è iniziata il 6 dicembre del 2017 con il riconoscimente da parte degli Usa di Gerusalemme capitale di Israele. Tiepide le reazioni di alcuni Paesi Arabi a cominciare dall’Arabia Saudita del principe Mohamed Bin Salman.

    Prendeva così corpo quell’alleanza di fatto dei sunniti contro gli sciiti dell’Iran. Ma l’area si allarga fino al Mediterraneo Orientale. Un’area dai confini marini incerti fra Turchia, Cipro e Grecia, dove navi da guerra che battono bandiere diverse e aerei si sfiorano pericolosamente, con la Francia presente con una portaerei, la Charles De Gaulle. Ma anche altri, Israeliani, Egiziani, libanesi, Russi. La posta? Gas e gasdotti, petrolio sotto l’azzurro Mediterraneo. La storia ci insegna che quando si parla di petrolio e gas, che valgono miliardi di dollari, il gioco si fa duro. Se ne potrebbe accorgere Joe Biden, che nell’ultimo dibattito con Trump ha detto cose sacrosante sul petrolio, ma da maneggiare con cura in una campagna elettorale così tesa e incerta. E la crisi dell’area è frutto anche della politica di Erdogan, che forte di una grande tradizione storica come l’Iran, cerca di avere un posto fra le medie potenze sognando di rinnovare l’impero ottomano. Lo dimostra nel Kurdistan, in Siria, dove affronta la Russia.

    Ma ora tutti siamo in attesa del 3 novembre. L’America al voto. Prevedere chi vincerà è un rischio che dopo l’esperienza di Hillary Clinton non ci possiamo permettere. Una campagna elettorale fuori degli schemi per il coronavirus di Trump, ma superato con facilità, cavia di nuovi farmaci miracolosi, solo per lui! Il Covid-19 è stato uno dei temi più importanti dello scontro elettorale. Una dimostrazione ancora una volta, della “variabilità” di Trump, reduce da un quadriennio di politiche alternanti e contraddittorie in casa e fuori. Con viaggi entusiasti nella tana del lupo, Cina, Corea del Nord, qui al limite del macchiettismo, in India, Giappone, Europa con brutte figure di ogni genere e in casa un viavai di collaboratori di ogni livello. Un elenco senza fine, con qualche strappo alla Costituzione e alla prassi. Un uso disinvolto della Guardia Nazionale e Fbi nelle proteste in seguito alla morte di George Perry Floid a Minneapolis. Per capire il successo di Trump bisogna conoscere gli Stati Uniti, non fermarsi a New York, Washington, Boston, S. Fracisco. Bisogna scendere nell’Arkansas, in Alabama, Georgia, Michigan o Stati del centro come Nebraska, Tennessee ed altri. Trump è un grande attore, parla alla pancia degli elettori, si immedesima in loro. Questo basta per vincere una elezione, ma non per conservare il ruolo degli Stati Uniti come guida e prima potenza del mondo. Gli Stati Uniti sono di fatto sotto assedio e il dopo elezioni sarà il momento della verità. A chi spetta il ruolo di potenza egemone? Alla Cina? Sarà una guerra non combattuta con le armi, ma sulle nuove tecnologie e a chi avrà più alleati. Quella che gli esperti chiamano “guerra irregolare”. La Cina che ha battuto il coronavirus prima di noi è pronta con una economia in espansione, un Pil in aumento ed un vivace mercato interno.

    I democratici hanno un programma ragionato, volto verso il futuro, ambiente, lotta alla povertà, corente con la Costituzione. E Biden con qualche inciampo e tentennamento è stato capace di presentarlo. Accanto a lui Obama che è uscito allo scoperto e con coraggio. Ma gli americani sanno che questa volta si vota anche per i vice Presidenti, data l’età dei candidati, 74 Trump e 77 Biden, per il conservatore Mike Pence e Kamala Harris, la prima donna che sarebbe eletta come Vice-Presidente, senatrice della California, di madre indiana, padre giamaicano e un marito ebreo. Sarebbe la nuova America che avanza. -8….. a mercoledi 3!
     

  • TRUMP E NETANYAHU INSIEME A “RISOLVERE”
    IL PROBLEMA DI ISRAELE!

    data: 10/11/2019 11:14

    Il 28 di gennaio festa grande alla Casa Bianca. Finalmente Trump ha disvelato L’Accordo del Secolo promesso da tre anni. Trump ha fatto sapere qual è la sua idea per risolvere i problemi fra arabi e israeliani. Il Piano, frutto di un lavoro del genero Jared Kushner, doveva essere reso noto già nel giugno scorso, ma i risultati elettorali che non premiarono il Likud di Netanyau lo hanno impedito. Una parte di esso, quella economica, fu però presentata da Kushner stesso nel Peace e Prosperity Forum a Manama nel Bahrein il 25 e il 26 giugno dell’anno scorso.
    Il piano economico consisteva e consiste ancora in 50 miliardi di investimenti per 179 infrastrutture e progetti di sviluppo fra Gaza e la valle del Giordano. Kushner nel suo discorso introduttivo definì il Forum come il primo passo per la pace, affermando che “la prosperità e la crescita economica non sono possibili senza una soluzione politica duratura ed equa che garantisca la sicurezza di Israele e rispetti la dignità del popolo palestinese”. Il progetto è stato subito rigettato da Abu Mazen: "Non siamo in vendita”.
    La “soluzione politica” l’ha dettata ora Trump il 28 gennaio, assai onerosa per i palestinesi. A cominciare da Gerusalemme: “Gerusalemme resta la capitale indivisa di Israele”. Si sa da secoli che su tutto si può discutere meno che su Gerusalemme. Trump con il suo “accordo del secolo” non è riuscito a far fare passi avanti al processo di pace. Anzi con questa sua ultima uscita ha fatto mettere d’accordo Anp, Hamas e dentro il territorio Jiahd, cosa che non succedeva da decenni.
    Come hanno reagito i Paesi del Medio Oriente? Si sono creati due schieramenti. Da una parte Turchia, Iran e Giordania, dall’altra Arabia Saudita, Emirati arabi uniti e Qatar, che con Israele sono ormai alleati. I Sauditi hanno espresso “apprezzamento” per gli sforzi di Trump per “sviluppare un piano di pace completo fra israeliani e palestinesi e incoraggiare l’avvio di negoziati di pace diretti, sotto gli auspici degli Usa”. Gli Usa hanno creato le condizioni di una “superiorità” politica e militare di Israele con decisioni che violano tutte le precedenti dichiazioni dell’Onu, con lo spostamento dell’Ambasciata a Gerusalemme, il riconoscimento degli insediamenti nei territori palestinesi, dove risiedono 400 mila coloni e del Golan, già occupato da Israele nel 1967.
    Gesti ad orologeria, “doni elettorali” a Netanyauh. É chiaro che con questo piano gli Usa hanno abbandonato e cancellato la linea delle precedenti Amministrazioni di Bill Clinton e del repubblicano George Bush jr. Rimanendo nel nostro secolo e in casa repubblicana, nel 2006 Condoleezza Rice lancia il “progetto” per il Nuovo Medio Oriente, che sostituiva quello del 2001 del “Grande Medio Oriente” dopo l’11 settembre e che coinvolgeva Iran, Turchia, Afghanista e Pakistan.
    Sappiamo invece come sono andate le cose. Una instabilità permanente, mai risolta dai Presidenti che si sono succeduti, fino ad Obama. Con Trump le cose cambiano. Una nuova dottrina viene imposta dal nuovo abitante della Casa Bianca. Lasciare che le cose si muovano da sole, disordinatamente, fino a che non vengano però toccati gli interessi americani.
    Per questa nuova politica, per gli Stati Uniti l’alleanza stretta con Israele è fondamentale. Il piano per la pace illustrato da Trump, sembra essere stato redatto non da esperti dell’Amministrazione, ma dallo stesso Israele. Troppo precisa la minuziosa esposizione di Trump per non farlo sospettare. É cancellata la nascita di due Stati che convivono insieme. Parte della Cisgiordania e della valle del Giordano di fatto annessa ad Israele. Lo Stato palestinese previsto dal Piano Trump è all’interno di Israele e smilitarrizzato, collegato fra le varie parti, come ad esempio Gaza, con tunnel sotterranei e strade protette. Il piano separa Gerusalemme dalla Palestina, Ramallah da Betlemme. E proprio Gerusalemme è il nodo, anche perché il problema Gerusalemme non è solo politico, ma soprattutto religioso.
    La proposta che si legge nel Piano, una capitale per i palestinesi a est di Gerusalemme, è inaccettabile, perché al di là della barriera (muro!) che già divide i quartieri arabi. E questo significa che quel ridotto spazio, che molti chiamano il Miglio Sacro dove si trovano il muro del Pianto, la Spianata delle Moschee e il Santo Sepolcro sarebbe sotto il totale controllo israeliano e il Piano lo afferma con chiarezza: “E’ lo Stato Ebraico a dover salvaguardare i Luoghi Santi di tutti”. La magra consolazione per i palestinesi è che potranno chiamarla Al Quds!
    Il 2 marzo in Israele si terrano le elezioni per il rinnovo della Knesset. A vuoto sono già andate tre elezioni, senza che Israele abbia avuto un governo. Mai successo nella storia politica del Paese. E con Benjamin Netanyahu, melek yisrael, l’ultimo Re di Israele che resiste e che si prepara forse a vincere le possime, a dispetto del processo per corruzione che lo attende. La società israeliana è cambiata radicalmente, prevale ormai una maggioranza radicale e nazionalista, con combattivi partiti ortodossi Dimenticati i padri della Patria, Ben Gurion, Golda Meir, Shimon Peres, Moshe Dayan, Ytzhak Rabin. Lo spirito dei kibbutzim, in maggioranza ashkenaziti, che traevano ispirazione da una forma di sionismo religioso e socialista è scomparso, cancellato. Aspettiamo le elezioni. Certo il Piano di Trump è quasi un manifesto elettorale.
     

  • IO, BERLINO EST/OVEST
    E IL MURO

    data: 09/11/2019 12:33

    Venti luglio 1959. Fano, Bologna, Hannover, Berlino. Ora è facile, ma non in quegli anni, non per i trasporti, ma per la “politica”. Per andare da Hannover a Berlino via terra si doveva attraversare la DDR e per farlo c’erano tre “corridoi”, Monaco, Hannover ed Amburgo. L’Italia non riconosceva la DDR, lo fece solo nel 1975 e quindi era necessario un visto speciale del Ministero degli Interni. Non era facile averlo perché le nostre autorità dovevano “indagare” e solo dopo le Questure autorizzavano al viaggio il cittadino italiano. Ricordo, sul mio primo passaporto un timbro rosso a tutta pagina dove si leggeva “il signor Angelo Sferrazza è autorizzato a transitare nel territorio della così detta DDR”. Si indicava il “corridoio” e guai a non farlo, perchè poi intervenivano pesantemente i tedeschi della DDR. Per me era il primo viaggio all’estero. Avevo vinto una borsa di studio del Senato di Berlino (Ovest). La guerra era finita da quattordici anni, non tanti da cancellare i ricordi di un ragazzino di nove anni che aveva vissuto i momenti tragici del 43/44 e che dei tedeschi ricordava solo divise e paure. Anche se nella nostra costa adriatica ormai erano presenti in massa, specialmente le ragazze, terrore delle nostre madri! No, no, una tedesca no!. Non era in Germania che avrei voluto fare il primo viaggio, ma come i giovani di allora negli Stati Unititi, in America, conquistati non solo dai “liberatori”, ma dalla lettura di Alexis de Tocqueville e di Hemingway, Faulkner, Steibeck o Parigi. Ma il viaggio in Germania, riconosco oggi, fu educativo, come quello dell’anno successivo, precedente la costruzione del muro. Pensavo che avrei visto una Germania, distrutta, con rovine e “punita”, ma svegliandomi la mattina in treno dopo un viaggio notturno, turbato dagli ordini dei ferrovieri nelle diverse stazioni che mi ricordavano altri ordini, scoprii una Germania ricostruita e avanzatissima, rispetto a noi. Viaggio in pulmann: 

    attraversare la così detta DDR, in una delle autobahn fatte costruire da Hitler, era come entrare in un altro mondo, tutto era grigio, povero, arretrato. Niente auto, campagne con pochissime e antiquate macchine agricole. E questo era niente rispetto alla differenza fra la Berlino sotto controllo franco inglese statunitense, con quello russo. Fummo ospitati in una splendida villa nella zona di Wansee, ma nessuno ci disse che quella villa era appartenuta ad una famiglia ebrea e solo molti anni dopo ho scoperto che a poca distanza si trovava la villa dove si tenne nel ’42 la riunione per la “soluzione finale”. Non fu facile a me, ma anche agli altri giovani, francesi, belgi, olandesi, liberarsi dei ricordi. Ma poi l’attenzione si spostò ad est. Eravamo nella contemporaneità e la porta di Brandeburgo, da dove cominciava il settore russo, era lì a dimostrarcelo. Alle nostre spalle colori e vivacità, davanti ai nostri occhi grigiore e abbandono, una Unter del Linden senza più alberi, deserta. Entrammo nella zona sovietica senza problemi, bastava mostrare il passaporto ai militari di guardia. Palazzi cadenti, silenzio, solo poche persone frettolose e vestite modestamente, qualche rara “Trabant”, la macchina che ha fatto la storia delle grandi fughe. Nel caldo luglio ci fermammo a guardare le vetrine di rari negozi e rimanemmo davanti quella di un venditore di carne: vedemmo un via vai di vermiciattoli bianchicci. Facile fare dell’anticomunismo, di confronti fra la superiorità fra i due sistemi. Non era certo sul consumismo che si doveva fare. Era la paura della gente che colpiva, lo sguardo spaurito, il grigiore dello spirito. A ovest la Kurfursterdamm, la Kude come la chiamano i berlinesi, vetrina dell’ovest, vivace, piena. di giovani, che non ciudeva mai le luci, voluttuosa esca per i poveri della zona Est. Insopportabile per il prussocomunismo del duro Walter Ulbricht. Nel ’61 nella notte del 15 di agosto, scende la saracinesca del muro, il Berliner Mauer che iniziato come semplice filo spinato, subirà nel corso degli anni “miglioramenti” fino a diventare una insuperabile barriera di cemento e tecnologia di 155 chilometri, un mostro bicefalo di lager e gulag. Iniziarono le fughe,molti ci riuscirono, ma molti furono i morti, centinaia, migliaia i feriti, non si sa quanti gli arrestati. La Stasi non perdonava. Fra le prime fughe immortalata da una foto, quella di Conrad Schumann, un vopos che superò con un balzo la barrirera di filo spinato armato, con l’elmetto e la divisa quasi identica (volutamente) a quella della Wermacht. Dopo la costruzione del muro, sono ritornato altre volte a Berlino e lho visto crescere il muro insieme all’irrigidirsi delle procedure, anche per gli stranieri, di valicare il mitico, ora diventato museo, Charlie Checkpoint. Ho altri ricordi. Nel 1985 entra in vigore il “passaporto europeo”. Con un gruppo di giornislisti italiani, invitati a Berlino Ovest per un congresso, decidiamo di andare il giorno dopo , domenica, a visitare il Pergamo. Ero il solo ad avere quel tipo di passaporto che mi era stato rilasciato qualche giorno prima della partenza e che entrava in vigore proprio nella notte fra il sabato del nostro arrivo e la domenica. Ci presentiamo al mattino al passaggio della Friedrichtstrasse. Per entrare ci si doveva mettere in fila, con gli sportelli separati l’uno dall’altro, da un’alta barriera di metallo, che si chiudeva alle spalle. Un cassone di ferro. Presento il passaporto, ma il poliziotto mi urla che il passaporto è falso. Con il mio tedesco di freschi studi, purtroppo scarso, sono riuscito comunque a spiegargli che era un passaporto nuovo e che entrava in vigore quel giorno stesso. Conclusione. Due vopos alle spalle mi afferrano mi sbattono in una cella con un giovane giapponese che tremava di paura. Finalmente, dopo alcune ore fui rimesso in libertà e autorizzato ad entrare a Berlino Est. Il giorno dopo ho riferito al nostro Ambasciatore nella DDR quanto mi era successo. Qualche ora dopo l’Ambasciatore mi ha richiamato e divertito mi ha dato la spiegazione: “Saranno comunisti e tedeschi, ma per loro il sabato e la domenica sono sacri. Si sono dimenticati di inviare la comunicazione ai posti di frontiera”. Confesso che la cosa non mi divertì per niente. Qualche ora in una cella di poliziotti della DDR non dava molte garanzie! L’altro ricordo. Fine giugno 1989, sono stato invitato a colazione da alcuni deputati della CDU della DDR. Il Parlamento della DDR era speculare a quello di Bonn, con gli stessi partiti, in proporzioni diverse. I democristiani erano pochissimi, controllati e senza nessuna posibilità di far politica. Alla fine del pranzo, mi accorgo di non aver fiammiferi per accendere il toscano. Mi consigliano di scendere al vestiario dove avrei potuto trovarli. Al banco una anziana signorai, dignitosa e molto austera, tipo principessa russa scampata alla rivoluzione. Poliglotta, quando mi ha sentito parlare, mi chiede se ero come “quelli di sopra”. Dissi di no naturalmente. E allora mi ha detto:“con questi fiammiferi non cerchi di dar fuoco al muro, perché a novembre cadrà. Lo dicono quelli di sopra: parlano e pensano che io non senta”. Così è stato. Berlino mi è rimasta nel cuore. Anche perché tre giorni dopo la caduta del muro ero a Berlino per un incontro programmato mesi prima, a vedere il muro che perdeva pezzi sotto i colpi di piccone. E dalla porta di Brandeburgo, liberata dalla barriera di cemento, si poteva vedere di nuovo la Unter den Linden, invasa da gente festante e finalmente libera. La Unter den Linden non era più quella del 1959. Ci sono voluti vent’otto anni!

     

  • IL TIRO ALLA FUNE
    FRA TRUMP E IRAN

    data: 06/08/2019 00:11

    Il programma nucleare dell’Iran sta creando crescenti preoccupazioni e notevoli tensioni  nei rapporti con gli Stati Uniti, l’Europa e l’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica delle Nazioni Unite. Il problema è particolarmente delicato, data la posizione geopolitica dell’Iran nel momento in cui la situazione in …. è lungi dall’essere stabilizzata e la tensione in Israele è tuttora elevata. L’Iran potrebbe divenire il più grande problema nel secondo quadrienno della Presidenza …. e di riflesso per i Paesi europei e per il Medio Oriente. Già ora è una prova cruciale per i Paesi dell’Unione Europea. Non è escluso che se dovessero fallire i negoziati diplomatici e le sanzioni economiche internazionali, gli Stati Uniti ricorrano ad un intervento militare. Il Vice Presidente …… e il Segretario di Stato …….. commentando ecc……hanno dichiarato che l’Iran è “in cima alla lista dei Paesi pericolosi”. …. Il Premier  del Regno Unito …… ha smentito il suo ministro degli Esteri  che aveva criticato l’ipotesi di un intervento militare e ha dichiarato: se l’Iran ecc….. potrà essere fermato soltanto con l’uso della forza. La posizione di Mosca è ambigua. Putin dopo l’incontro a ….. con …. ha dichiarato : “abbiamo parlato a lungo di proliferazione e della situazione dell’Iran e della Corea del Nord.
    I vuoti dei puntini non sono un refuso o una dimenticanza. Li riempiremo mettendoci i nomi mancanti. Nei primi c’è Iraq. Oggi sostibuibilr con Siria. Il Presidente è Bush. Il Vice Presidente Usa è Dick Cheney e il Segretario di Stato, qualcuno ricorda (?), Condoleezza Rice. Il Premier inglese Tony Blair. Putin si incontra con Bush a Bratislava il 24 febbraio del 2005. Per la cronaca in Italia ministro degli Esteri e VP del Consiglio dei Ministri è Gianfranco Fini, in lotta con piglio sovranista con Francia, Gran Bretagna e Germania. L’Italia fuori dai giochi.  
    La parte riportata è l’inizio dell’articolo di Achille Albonetti esperto di problemi europei e nucleari, tratto dal trimestrale del Ministero degli Esteri Affari Internazinali dell’aprile 2005! Per curiosità l’articolo si concludeva: “Un Direttorio, seppur di fatto, fra la Francia, la Germania e il Regno Unito si sta formando in Europa. E’ essenziale che l’Italia ne prenda atto e avvii le misure necessarie a far sì che la sua assenza non si protragga oltre. Più passa il tempo, infatti e più sarà difficile ovviarvi”.
    Siamo in pieno governo Berlusconi, che qualcosa però si è portato a casa: l’eterna amicizia di Putin e un lettone! Colpisce che quanto scritto si riferisce a 14 anni fa, così come colpisce il linguaggio e il copione così simile e ripetitivo rispetto a quello che sta accadendo oggi. Una curiosità. Di tutti i politici di allora, sulla piazza è rimasto solo John R. Bolton, un “falco”, allora ambasciatore in Israele, molto attivo e attualmente ascoltatissimo (non sempre) consigliere per la Sicurezza del Presidente Trump. Le tensioni fra Usa e Iran vengono da lontano, quasi un trentennio, da quel novembre ’79, con la cattura degli ostaggi all’ambasciata Usa. Ora di nuovo giunte al  livello di pericolosità con la politica nucleare di Teheran e con il cambio di rotta di Donald Trump, che alterna minacce a cauti messaggi distensivi.
    Quello che è certo è che nei trent’anni di crisi non si era mai sfiorato, come oggi, lo scontro armato. La “politica prudente” dei predecessori di Trump è stata cancellata, soprattutto quella di Obama e non solo sull’Iran. Si può indicare per comodità come data di svolta il maggio del 2018 con l’abbandono da parte dell’Amministrazione Trump dall’accordo sul nucleare. La politica delle sanzioni non ha avuto quegli effetti devastanti che i “Bolton” di turno immaginavano sull’economia iraniana che è al limite. Il crollo del prezzo del petrolio e delle esportazioni sono state un fattore devastante con la perdita di miliardi di dollari. La guerra economica degli Usa ha messo in crisi gli equilibri interni aprendo la strada ad un ritorno degli estremismi religiosi, i mullah, pronti alla guerra. I “Bolton” locali hanno molte cartucce da sparare, ma non tengono conto che gli equilibri interni del Paese sono cambiati.
    I giovani protestano, c’è una borghesia mercantile iraniana che aveva immaginato altri progetti e anche le classi basse risentono di una contrazione dei benefici dello stato sociale. C’è ancora spazio per una ripresa di colloqui fra Usa e Iran? Trump si fa forte dei successi con la Corea del Nord. Ma l’Iran non è la Corea del Nord. Possibilità per una mediazione dell’Europa? Macron ci sta provando, d’accordo con Gran Bretagna e Germania. Il Direttorio dell’articolo di Affari Internazionali  del 2005! Ma ci sono due condizioni. La prima che i leader iraniani manifestino ancora pazienza e gli Usa riducano, ad esempio, parte delle dure sanzioni sulle esportazioni del petrolio iraniano. Più di tanto non si ci si può sperare. Trump è in piena campagna elettorale e quindi non sarà disponible ad un abbassare la tensione. Ma il gioco potrebbe rivelarsi molto pericoloso. I colpi di pistola di Sarajevo del 28 giugno dell’irredentista Gavrilo Pricip dovrebbero insegnare qualcosa. 

  • LA LUNA, KENNEDY
    E ROCCO PETRONE

    data: 19/07/2019 19:28

    Ricordare la notte dello sbarco sulla luna è sempre un’emozione. Milioni di persone in tutto (quasi) il mondo incollate davanti ai televisori, spesso con immagini sgranate, contemporaneamente esplosero di entusiasmo. Qualche ora prima, guardando la luna, avevamo solo le sensazioni e le emozioni della poesia, delle scarse nozioni impartite a scuola, della fantascienza, di Jules Verne Dalla terra alla luna del 1865, dei primi baci rubati. Ma nel momento in cui il piede di Amstrong lasciò la sua impronta nella polvere del Mare della Tranquillità, il nostro cervello fece una conversione di trecentosessanta gradi. 
    Anche se il primo atto degli astronauti fu quello di piantare la bandiera americana, tutti gioirono. Era una grande vittoria dell’uomo: uscire dall’involucro terra, superato le colonne d’Ercole per entrare nell’infinito, quell’infinito che ti turba guardando il cielo stellato d’estate. Molti si illusero che un evento così avrebbe portato la pace fra gli uomini. Le cose non stavano così. Ad una lettura scientifica, se ne deve aggiungere un’altra politica. I primi ad avventurarsi nello spazio furono i sovietici, i russi, con Yuri Gagarin nel 1957. Gli americani si trovarono in ritardo di almeno quattro o cinque anni, inaccettabile in piena guerra fredda. Fu J.F. Kennedy che comprese il problema e ne dette una lettura politica nuova.
    In un discorso all’Onu del ’61 il giovane Presidente chiese la pacifica cooperazione in questo nuovo settore, quello spaziale. “I freddi spazi dell’universo, disse, non debbono diventare il nuovo campo di una guerra ancor più fredda”. Nel primo messaggio sullo Stato dell’Unione, aveva auspicato la cooperazione fra Est e Ovest per “evocare le meraviglie della scienza, non i suoi orrori. Esploriamo insieme le stelle”. Ma i sovietici avevano respinto bruscamente l’appello. Primo perché erano in fase molto avanzata rispetto agli americani e poi perché le loro finalità erano esclusivamente militari.
    Nella campagna elettorale Kennedy aveva insistito molto sul ritardo in campo spaziale, in polemica con i repubblicani. L’amministrazione Eisenhower non aveva dato molta importanza al problema, manifestando scetticismo sulle possibilità sovietiche. Ma l’elezione di Kennedy cambiò totalmente la politica spaziale che fu uno, se non il primo, impegno per il Presidente della “nuova frontiera”.
    Un punto di svolta lo storico discorso alla Rice University di Huston, nel settembre del 1962, quando Kennedy disse: “ Perché mai, si chiede qualcuno, la luna? … Noi abbiamo deciso di andare sulla luna in questo decennio e fare il resto, non perché ciò sia facile, ma perché è difficile; perché questa meta servirà ad organizzare e valutare il meglio delle nostre energie e delle nostre capacità”.   
    Nel famoso incontro di Vienna, il guascone Kruscev rifiutò ogni confronto e collaborazione spaziale con gli Usa. Lo stesso Kruscev, sprezzantemente, un po’ di tempo dopo, in una intervista, paragonò il progresso spaziale allo sviluppo degli insetti: la sua nazione aveva raggiunto lo stadio del volo, mentre l’America “sapeva solo saltare”. Forse Kruscev, come prima Hitler e Mussolini, non aveva idea cosa fosse l’America! L’accelerato programma spaziale americano con immensi investimenti alla Nasa fu anche di valido aiuto alla politica estera americana.
    Molte altre nazioni collaborarono con gli Stati Uniti. Il programma pagò anche il prezzo di vite umane: Virgil Grisson, Edward White e Roger Chaffee morti il 17 gennaio del ’67 nel rogo dell’ Apollo 1. Fu un evento che colpì, ma che non bloccò la macchina. Anzi servì per riesaminare tutto il progetto. Un progetto complesso, tenendo conto che le tecnologie di allora non erano le nostre. Il cervello umano dovette lavorare molto, lo disse anche Kennedy per arrivare al quel “go!” che cambiò il mondo.
    Ma chi pronunciò quel go!!!!! con voce ferma e sicura? Un italiano: Rocco Petrone, figlio di immigranti lucani di Sasso di Castalda, vicino a Potenza, che lasciarono la loro terra nel 1921 per l’ammerica per arrivare nello Stato di New York. E’ una storia straordinaria quella di Rocco Petrone, per certi versi da libro Cuore. Un libro, scritto con perizia, precisione e sentimento da Renato Cantore, giornalista Rai, già capo redattore Tgr Basilicata, anche lui lucano, uscito questi giorni dall’editore Rubettino Dalla terra alla luna/ Rocco Petrone l’italiano dell’Apollo 11 ci aiuta e come. Affascina la vita di Petrone, che da figlio di immigrati entra a West Point, si laurea poi al MIT di Boston in ingegneria. Militare di carriera, specialista in problemi missilistici, incrocia il nobile Wernher von Braun. La sua è una strada quasi obbligata, lo porta alla Nasa, verso la luna… da Responsabile del progetto Apollo. A soli quarantatré anni ha diretto uno “dei più grandi eventi della storia dell’umanità”, che cambiarono il futuro del mondo. 

    Con il rimpianto che Presidente Kennedy non abbia visto l’uomo sbarcare sulla luna. Ci si chiede cosa accadrà ora. Nuovi spazi, nuove esplorazioni. Per ora ciò che colpisce è la militarizzazione dello spazio. Ma il sogno di pace di Kennedy resterà nella nostra memoria. Qualcuno in quel lontano 1963 scrisse. E’ il momento di ripetere, anche per J. F. Kennedy quanto Pericle diceva, come ricorda Tucidide, intorno ai caduti di Atene: “Per tale città costoro caddero combattendo, perché da magnanimi si imposero di non lasciarsela strappare ed è giusto che per lei chiunque altro dei sopravvissuti sia pronto a soffrire”.                                                

  • IL FALLIMENTO
    DI NETANYAHU

    data: 15/06/2019 17:23

    Non era mai successo, dalla fondazione dello Stato di Israele del 1948, che dopo le elezioni per il rinnovo della knesset non fosse possibile formare il governo. Questo è accaduto. L’ultimo re, melek yisrael, Benjamin Netanyahu, che voleva raggiungere Ben Gurion, non c’è riuscito. Quello che fu definito un referendum, è naufragato sugli scogli di un piccolo partito di destra, cinque parlamentari, ma determinante per raggiungere la maggioranza, Israel  Beitenu, a capo del quale c’è Avigdor Lieberman, già ministro della Difesa, nemico storico di Netanyahu, che dimettendosi per contrasti sulla linea di condotta per Gaza, fece cadere il precedente governo.

    Prima di arrivare alla decisione di rinunciare, nei 45 giorni concessi per la formazione del governo, Netanyahu ha tentato disperatamente tutte le strade possibili e contraddittorie, addirittura  fino ai laburisti che hanno ottenuto il risultato  più basso della grande storia del partito. Il segretario Avi Gabri si è dimesso. Quando si è convinto che non sarebbe riuscito e nel timore che il Capo dello Stato,  Renven Rivlin, potesse affidare l’incarico a Benni Gantz, il leader di “Blu e Bianco” che nelle elezioni ha ottenuto lo stesso numero dei seggi del Likud 35, sul filo di lana, Netanyahu ha fatto approvare la legge per lo scioglimento della knesset. Data delle elezioni il 17 settembre.
    Qualcuno ha detto “un anno perduto”. Il fallimento di Netanyau cade in momento assai complicato nel Medio Oriente e nella confinante parte africana, dal Sudan  alla Libia e nello Yemen dove si combatte una guerra della quale nessuno più parla. La crisi Usa-Iran passa da alti bassi. Intanto nel Golfo russi e americani giocano alla battaglia navale con la situazione in Siria sempre più confusa. Il califfato, dichiarato defunto come Stato, si è velocemente trasformato in una rete terroristica capace di colpire ovunque. E tutto questo in presenza di una linea Trump, ondivaga e incoerente. Trump, il munifico protettore di Netanyau, che gli ha regalato lo spostamento dell’Ambasciata Usa a Gerusalemme e qualche giorno prima delle elezioni, addiritittura il Golan, in spregio a tutti gli accordi e le risoluzioni dell’Onu, promette  nello stesso tempo un “Deal for Century”, l’“accordo del secolo”, che dovrebbere risolvere la crisi israelo-palestinese. Un piano a cui ha dedicato molto del suo tempo e crediblità politica, Jared Kushner, consigliere speciale della Casa Bianca e  genero di Donald Trump e Jason Greenblatt, uomo di fiducia del Presidente.  
    Il Piano verrà discusso nella parte economica il 25 e il 26 giugno nel Bahrain a Manama. Se si terrà, qualcuno ha ventilato un rinvio. Intorno al tavolo siederanno diplomatici di Emirati Arabi, Baharain, Arabia Saudita,  fedelisssimi alleati di Trump dell’area e per la prima volta Israele. I Palestinesi non saranno presenti. Un piano non condiviso da tutti, anche dallo stesso Segretario di Stato Mike Pompeo che lo ha definito “non particolarmente originale”. Il piano sarà analizato soprattutto nella parte economica. Sono previsti sostanziosi investimenti per i palestinesi intorno ai 90 miliardi, non solo americani, ma anche del Fondo monetario. Sarà l’Arabia Saudita ad accollarsi il maggior peso finanziario. Non si parlerà certo dei territori, di Gerusalemme, della sicurezza.
    Israele bloccato dalla crisi politica, non potrà esporsi più di tanto. Politicamente però è la riprova sanzionatoria (se ce ne era bisogno…) della coincidenza di interessi con il mondo arabo moderato in funzione anti iraniana. Problema, quello dell’Iran, gestito non troppo brillantemente da Trump, che alterna segnali moderati, ad un aumento della sanzioni e della minaccia di inviare truppe nella zona. Il vertice di Manama dei prossimi giorni, se si terrà, non aggiungerà molto a Netanyau per le prossime elezioni, perché queste si giocheranno pesantemente in casa e sui nuovi rapporti di forza fra le varie famiglie poltiche di Israele. Israele è una democrazia consolidata, con radici lontane, ma ha anche delle peculiarità riportabili al fattore religioso e l’insuccesso di Natanyau lo testimonia.
    E’ sulla legge che limita ai giovani ortodossi il dovere di fare il servizio militare, che tutto è crollato. Gli ortodossi aumentano il loro peso elettorale e questo è dovuto ad un aumento assai sensibile delle nascite: ora sono il 12% della popolazione, nel 2040 il 20. I due partiti Shas (sefardita) e Giudaismo unito nella Torah saranno l’ago della bilancia. La società israeliana diventerà sempre più religiosa e osservante, una società dove ora anche i laici rispettano le tradizioni, controcorrente al nostro mondo dove i valori religiosi si stanno lentamente spegnendo. Prevedere cosa accadrà il 17 settembre è prematuro con i problemi sempre caldi, dalla Cisgiordania a  Gaza. Con per Netanyau un ulteriore problemino: le sue vicende giudiziarie.
    E i palestinesi? Già i palestinesi… Una parte della soluzione l’ha suggerità qualche giorno fa l’ambasciatore americano in Israele, David Friedman: “Israele può annettersi parti della Giordania”! Un altro regalino di Trump, che ha rapidamente smentito. Come fa spesso. 

  • NETANYAHU, L'ULTIMO
    DEI RE DI ISRAELE

    data: 17/04/2019 12:48

    I titoli e foto del “buco nero” in prima pagina dei quotidiani, hanno messo in disparte, senza ”oscurarli”, quelli della vittoria di Benjamin Netanyahu. Israele ha incoronato l’ultimo re, melekh yisrael. Mai come in queste ultime elezioni l’attesa è stata così forte, anche se ad occhi e orecchie attenti, rimanevano pochi dubbi sul risultato. Non sono state elezioni, ma un referendum. Netanyau ha vinto sorpassando così il mandato di Ben Gurion e guiderà il trentacinquesimo governo di Israele. Sempre che non sopravvengano  eventi nuovi, come i guai giudiziari.
    Guiderà un Israele completamente cambiato, che non assomiglia più all’Israele dei padri fondatori, per la stragrande maggioranza aschenaziti, che traevano ispirazione da una forma di sionismo socialista e utopico, del quale Ben Gurion fu un teorico, quell’Israele nato dai kibbutz laici e religiosi, con una popolazione nata nella sofferenza, nel sacrificio, nella paura, nella fatica. Lontana anni luce dal benessere, dal livello di vita d’oggi. 
    Per capire ciò che sta succedendo in Israele bisogna innanzi tutto conoscere la biografia di Bibi Netanyahu, le sue radici culturali, le sue esperienze. Il primo Presidente è nato nel 1949 un anno dopo la nascita dello Stato ebraico. Suo nonno, giornalista, veniva dalla Bielorussia e si chiamava Natan Mileikovsky, ma si firmava Netanyahu, cognome più sefardita e che vuol dire “dato da Dio”. Nella formazione del giovane Netanyahu molto contò il padre, Benzion, sostenitore della corrente nazional-religiosa, in contrapposizione a quella socialista e laica. Benjamin Nethanyahu ha vissuto negli Stati Uniti, ha frequentato il Mit, esperienze di lavoro nel mondo della finanza, con cittadinanza americana, alla quale rinunciò quando entrò in diplomazia. Combattente nei servizi speciali nella guerra del 1973, con un fratello eroe, Yoni, che comandò l’operazione di liberazione degli ostaggi a Entebbe rimanendo ucciso. Carriera diplomatica, poi in politica nel Likud, il partito di destra.
    Nel 1996 primo ministro, nel momento in cui Israele cominciava a cambiare faccia, con una massiccia emigrazione dalla Russia di quasi un milione e mezzo di persone dopo la caduta del muro di Berlino e l’apertura della frontiere nell’Urss in via di liquidazione. Questa emigrazione massiccia, assieme a quella dai paesi arabi, con un radicato sionismo religioso, tamponò il pericolo dell’aumento della natalità di quella palestinese, ma mutò l’equilibrio delle forze politiche, con elettori non cresciuti certamente in paesi democratici.
    La congiuntura politica internazionale ha favorito la vittoria di Netanyahu, ma anche la sua indubbia abilità e la situazione economica del Paese. L’economia  cresce solo di poco meno del 4 per cento, il reddito pro capite sfiora quasi i quaranta mila dollari, di un quarto superiore al nostro. Niente disoccuppazione, servizi, comunicazioni e viabilità perfetti, esportazioni di alto valore tecnologico e militare. Ma Netanyahu ha vinto sul piano politico, quello della sicurezza. Non ha fatto operazioni militari all’estero se non con l’aviazione, nessun soldato della Tsal ha messo piede fuori dei confini di Israele e questo ha significato meno morti e attentati diminuiti. Ha contenute le minacce dell’Iran con una stretta alleanza con Arabia Saudita ed Egitto e Usa naturalmente. Una diplomazia vivace e un po’ spregiudicata con paesi che non sono esempi di democrazia e con un passato non limpido nei confronti degli ebrei, come i paesi Visegrad. Ma su questo si può passar sopra, se il fine è quello di un vantaggio per Israele. Con Trump e Putin, che ha incontrato poco prima delle elezioni, la sintonia è perfetta. Buonissimi i rapporti con la Cina. Trump dosa i tempi delle “donazioni”: l’ultima è stata quella del Golan, che gli Israeliani già controllavano dal ’67. Forse darà il via anche alla annessione della Cisgiordania! Intanto nell’attesa ha inserito i Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione khomeinista nella lista dei gruppi terroristici mondiali.
    Questo non significa che l’Iran non sia un pericolo per Israele appoggiando gli Hezbollah in Libano e Hamas nella striscia di Gaza. Il rullo compressore di Netanyahu, se formerà il governo, continuerà ad avanzare. Molta terra è già stata asfaltata, basterà cambiare il nome delle strade! Netanyahu negli ultimi giorni della campagna elettorale ha promessoche, in caso di vittoria, avrebbe annesso i territori degli insediamenti. Un sogno lontano la nascita di due Stati. Se formerà un governo con la maggioranza che ha con i partiti religiosi, il completamento di “Israele Stato-Nazione degli Ebrei” sarà totale. Nella West Bank e a Gerusalemme, ma anche nel rapporto con la minoranza araba di cittadinanaza israeliana, che in queste elezioni invece di unificarsi si è ancor più divisa, diminuendo sensibilmente il numero dei parlamentari alla Knesset.

    A sinistra le cose sono andate male. Non gli oppositori del Likud, i Blu e Bianco dell’ex capo dell’esercito Benny Gantz che ha pareggiato 35 a 35. I Blu e Bianco sono stati un elemento di novità nel panorama della sinistra con il tracollo dei laburisti. Un pareggio che potrebbe in qualche modo interessare qualche “scuola di pensiero” negli Usa. La vittoria di Netanyahu sarebbe stata perfetta se la sonda lunare Bereshit (“in principio”), contenente una capsula del tempo digitale con oltre cinquanta milioni di pagine di dati, tra cui l’Antico Testamento e che avrebbe fatto di Israele il quarto paese spaziale, non si fossse fracassata nel suolo lunare. Forse un messaggio per Bibi Natanyahu. 

  • VENEZUELA, LA POLVERIERA

    data: 06/02/2019 11:46

    Il sogno infranto di Simon Bolivar: liberare le provincie andine e unificarle in un solo Stato, la Grande Colombia. Ci riuscì, ma per pochi anni. Dalla frantumazione del progetto nacquero numerose repubbliche. Le nazioni dell’America Latina non furono mai, con qualche rarissima eccezione, in guerre fra di loro perché sono sempre e perpetuamente in guerra contro se stesse! Colpi di Stato, rivoluzioni più o meno sanguinose, dittature feroci, deboli democrazie a tempo. Ecco perché l’America Latina è rimasta fuori dai grandi teatri strategici del mondo, una solitudine spesso improduttiva, sul piano economico e su quello politico. L’America Latina non guarda a est o ad ovest, solo a nord verso gli Usa, con la “dottrina Monroe” minacciosamente sospesa sulla sua testa, dottrina che gli Usa hanno sempre applicato in varie forme, considerando l’America Latina il loro patiolito (cortiletto), come dicono i sudamericani.
    Fu J.F. Kennedy a tentare una politica nuova con “Alleanza per il Progresso”, un progetto che aprì i cuori alla speranza fra i giovani e le non numerose élites locali. L’Alleanza naufragò, combattuta come fu dalle oligarchie nordamericane e dalla mancanza di seri interlocutori politici nei Paesi interessanti. I mali di allora sono rimasti: grandi ricchezze e spaventosa povertà, una forbice sociale che resta immobile nel tempo, le immense periferie, la violenza, la corruzione, l’esclusione dei popoli andini e soprattutto lo sfruttamento delle ricchezze con nessuna ricaduta sulla gran parte delle popolazioni. 
    A turno c’è sempre un Paese latino americano al centro delle cronache: ora è il turno del Venezuela. Qualcosa di importante successe nel 1992: Ugo Chavez un giovane militare nazionalista di sinistra tentò un colpo di Stato, fallito. Condannato, fu scarcerato e “perdonato”: nel 1998 fu eletto Presidente con un programma retorico, rivolto soprattutto ai diseredati, alla gente dei barrios, che Chavez ha usato come potente massa di manovra. La politica di Ugo Chavez fu, a dir poco, sconcertante, con la sua megalomania che lo portava a credere di esser l’erede di Castro. Le promesse non furono mantenute: la ricchezza del petrolio non andò a beneficio delle masse che lo portarono in trionfo al palazzo di Miraflores.
    Il suo successore Nicolàs Maduro è riuscito a far di peggio, per incapacità e perché la situazione è così deteriorata da non poter essere corretta. Economia a pezzi, inflazione alle stelle, povertà, tasso di omicidi più alto del continente, fame, mancanza di tutto, emigrazione che supera il milione di persone, prezzo del petrolio a picco.
    Che accadrà a Caracas? Gli schieramenti sono ormai definiti da una parte e dall’altra: quello di Juan Guaido’, il Presidente dell’Assemblea Parlamentare, che forte di una interpretazione della Costituzione si è autoproclamato il 23 gennaio Presidente della Repubblica e quello di Nicolàs Maduro Presidente appena rieletto, secondo l’opposizione con brogli. Con Juan Guaido’ gli Stati Uniti, il Canada e la maggior parte dei Paesi latinoamericani, ad eccezione di Messico, Bolivia, Cuba, Nicaragua. Regista forte, il Brasile di Bolsonaro che ambisce a diventare paese guida dell’America Latina con l’“autorizzazione” degli Usa che lo considerano già fedele alleato. Con Maduro, Russia, Cina, Iran e Turchia. In pochi giorni il sostegno al giovane autopresidente si allarga notevolmente. Anche l’EU si sveglia e il Palamento Europeo a maggioranza riconosce, a maggioranza, Juan Guaidò assieme a molti Paesi europei. Solo l’Italia non ha scelto. La linea europea, a differenza di quella rude di Trump che manda soldati in Colombia e “ordina” a Maduro di andarsene e lo minaccia di incarcerarlo a Guantanamo, è ingentilita dalla richiesta di nuove elezioni, quasi il Venezuela fosse una tranquilla contea del Kent, abituata da secoli alla democrazia. Il Venezuela è una polveriera, ultimo fronte di scontro fra gli Usa e Russia e Cina. Quest’ultima, per ragioni economiche e finanziarie avendo prestato a Caracas ben 60 miliardi di dollari in cambio di petrolio!
    Per la Russia di Putin l’appoggio a Maduro è politico e strategico. Ha libero accesso per la sua aviazione militare negli aeroporti venezuelani, così come in Bolivia. Contractor russi dell’organizzazione Wagner sarebbero già a Caracas, pronti a difendere Maduro: una delle tante notizie ad effetto. Quello che deve preoccupare sono le milizie civili, le varie polizie e le forze armate. I militari, coinvolti in traffici di ogni genere sono il vero ago della bilancia. Per ora si dichiarano fedeli a Maduro. Ma fino a quando? Anche perché Maduro non è Chavez, non ha il carisma per esserlo e poi perché non ha un contatto diretto con i militari che lo hanno sempre considerato il sindacalista della metropolitana! Diverso il rapporto con le innumerevoli milizie, composte da civili legate a lui politicamente, armate,  determinate e pronte a tutto.
    Chi getterà per primo lo zippo nella polveriera? Il giovane Juan Guaidò, che si fa fotografare con moglie elegante e figlioletto in una posa da reali scandinavi o il pericoloso Maduro, che non ha più niente da perdere?
     

  • KIEV, PATRIARCHI E MISSILI

    data: 17/01/2019 09:19

    Il 7 gennaio a Istambul Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, primus inter pares, ha firmato il Tomos (decreto) che concede alla Santissima  Chiesa Ucraina l’autocefalia. Da questo momento in poi la Chiesa ortodossa di Kiev non dipenderà più dal Patriarca di Mosca Kirill, a cui era sottomessa dal 1686. Può sembrare un atto amministrativo, di autogoverno  organizzativo. Non lo è. Laicamente si potrebbe dire che è un forte atto politico, ma con un significato diverso dal nostro, con radici lontane, secolari, che la situazione attuale ucraina ha riacceso.
    L’Ucraina, come dice la stessa parola, vuol dire confine, faglia fra fedi, culture, lingue diverse, con gli ucraini dell’ovest che parlano ucraino e quelli dell’est  russo, una divisione più che etnica, culturale. Sul piano religioso oltre la divisione fra cattolici e ortodossi, pesa quella fra le varie chiese ortodosse: tre, una sola legata al Patriarcato di Mosca. Le altre due vicine al governo ucraino. Il Tomos di Bartolomeo I è un duro colpo per il Patriarcato di Mosca che tendeva ad unificare le tre Chiese ortodosse ucraine, sotto la sua autorità. Il rischio si allarga, con la possibile rottura (comunione) fra Mosca e Costantinopoli e le altre Chiese ortodosse nel mondo.
    Gli ortodossi sono oltre 260 milioni, oltre cento in Russia. Da questo ragionieristico elenco sono escluse le altre Chiese che non hanno riconosciuto  il Concilio di Calcedonia del 451 d. C., copti egiziani, ortodossi etiopi ed altri. Un riflesso lo si avrà anche nel processo ecumenica che Papa Francesco e il Patriarca di Mosca Kirill avevano iniziato. Le Chiese ortodosse sono fortemente nazionaliste. Ricordare Stalin che durante la seconda guerra mondiale utilizzò la Chiesa per risvegliare i sentimenti patriottici dei russi, concedendo qualcosa al Patriarcato in tema di libertà religiosa. Sotto tutela più o meno forte, la Chiesa ortodossa russa è stata utilizzata dai suoi successori. Ma è con Gorbaciov che le cose cominciano a cambiare anche se l’ateismo di Stato sopravvive, almeno negli articoli della Pravda.
    Una occasione è offerta al nuovo Segretario dai festeggiamenti per il millenario del battesimo che il principe Vladimiro impose ai sudditi nel fiume Dnepr nel 988. Una conversione che porta alla nascita della Rus di Kiev, una conversione poco mistica e molto politica. Il 10 giugno del 1988 nel palcoscenico del Bolscioi siedono il patriarca Pimen e Raisssa Gorbaciova, la grande regista della rinascita della chiesa ortodossa, a ricordare questo evento. Lentamente la chiesa ortodossa riprende il suo posto nella “divisione” dei poteri nella nuova Russia che avanza e che trova in Putin il convinto assertore della compartecipazione. Di minoranza naturalmente.
    La guerra in Ucraina è lo specchio del binomio religione e potere, che la variante ortodossa esalta nel contrasto tra Kiev, Mosca e Istambul. Perché l’Ucraina in tema di religione è un caso a parte nella secolare lotta fra russi, polacchi, impero austro- ungarico. Tornando alla politica di questi giorni lo “scisma”, come lo ha definito il patriaca Kirill è una risposta di Kiev alla azione militare di Mosca nel Donbass, in Crimea e mare d’Azov che sta creando danni enormi all’economia di Kiev. Ciò che sta accadendo nel mare d’Azov è molto grave e indicativo della politica dura di Putin verso l’Ucraina.. Mosca non solo non ha rispettato il trattato del 2003 che stabiliva che il mare di Azov apparteneva all’Ucraina e alla Russia, ma ha avanzato la flotta militare dal mar Caspio in avanti. Con un tocco di furbizia, i russi hanno costruito un ponte che collega il territorio russo alla Crimea così basso da impedire il passaggio delle navi ucraine dirette ai porti ucraini da dove parte gran parte delle esportazioni.
    Si è giunti allo scontro fra navi da guerra dei due paesi, con i russi che hanno cannoneggiato e poi bloccato due navi ucraine che tentavano di attraversare lo stretto di Kerch. Alcuni marinai ucraini sono stati fatti prigionieri e trasferiti a Mosca, dove ancora sono. Putin, anche per ragioni interne, ha bisogno di rafforzare la sua immagine, con una caduta del gradimento, soprattutto con la riforma delle pensioni. Ma altri dati impressionano: il livello di vita che non migliora e ancora più l’incapacità di sviluppo industriale ad eccezione di quella delle armi.  Non bastano gas e petrolio a far pareggiare i conti. La Russia sta vivendo un momento di malessere. Il ventennio putiniano ha solo aumentato la ricchezza di pochi.

    Come sempre Putin rilancia. E lo ha fatto esaltando il potere militare della Russia, annunciando in forma solenne il lancio di un missile supersonico che può trasportare testate nucleari, venti volte più veloce di quella del suono, capace di colpire, evitando i sistemi di difesa antiaerea, un obiettivo a più di 6000 chilometri. Non saranno i Patriarchi “ribelli” ucraini a spaventarlo, anche se qualche penna da una delle due ali dell’aquila imperiale gliela hanno strappata 

  • RURALI E MANIFESTO RAZZA

    data: 04/12/2018 21:12

    Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari. Chi sono? Pochissimi risponderebbero alla domanda. Sono i nomi di dieci, si fa per dire, studiosi che sottoscrissero nel luglio 1938 il Manifesto della razza, conosciuto anche come Manifesto degli scienziati razzisti , fondamento “scientifico” delle leggi razziali del 1938. A questo manifesto aderirono con solerzia e spesso senza una particolare giustificazione 329 fra docenti universitari, magistrati, medici, militari giornalisti ed esponenti del clero. Famoso, padre Gemelli che aveva una sua particolare teoria a sostegno e giustificazione del razzismo.
    Quello del mondo cattolico è uno dei temi ancora da chiarire, con coraggio e verità. “La coscienza del legame tra la Chiesa e gli ebrei è oggi per noi cattolici un fatto di popolo. Ma negli anni Trenta in pochi capirono, mentre sopravvivevano vecchi pregiudizi”. Lo ha dichiarato il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della CEI, la Conferenza Episcoale Italiana, a chiusura di un interessante convegno tenutosi alla Dante Alighieri il 19 novembre: “Chiesa, fascismo ed ebrei, la svolta del 1938”.
    Fra i 329 compaiono due nomi che colpiscono, Amintore Fanfani e il prof Gaetano Azzariti, secondo presidente nel 1957 della Corte Costituzionale! Ottanta anni fa. Una data che quest’anno è stata ricordata con un’attenzione particolare, perché in giro si respira aria mefitica. Il 28 ottobre, data della cosidetta “marcia su Roma”, un manipolo di nostalgici ha sfilato a Predappio davanti alla tomba di Mussolini, indossando magliette con scritte antiebraiche come, al di là di ogni ritegno, una vigorosa “massaia rurale” pesarese: “ Auschwitzland”.  Quel campo di sterminio  dove furono inviate quasi tutte le ottomila vittime ebree italiane.
    Ma come è stato possibile che una grandissima parte del popolo italiano abbia accettato e condiviso le leggi razziali? Eppure è successo e nemmeno lentamente. Un contributo determinante, su un terreno fertile in verità, è stata la comunicazione, a tutti livelli e in tutte le forme. Nessuna categoria sociale è stata dimenticata, analfabeti compresi. Nel ’38 l’Italia fascista - al culmine della sua esaltazione, Impero dal 1936, con un orgoglio nazionale che aveva conquistato tutti - pendeva dalle labbra del Duce. Ma c’era ancora qualcuno tiepido: i “rurali”, come venivano allora chiamati chi lavorarava  la terra, al contrario dei “padroni”, fascisti della prima ora.
    Come arrivare ai “rurali”, con una altissima percentuale di analfabetismo e certo non lettori accaniti della stampa di regime? La radio! Nel 1933 nasce l’Ente Radio Rurale che aveva come finalità l’indottrinamento ideologico con la diffusione della radiofonia nelle campagne e nelle “scuole rurali”. Fu costruito un apparecchio speciale, Radiorurale, che diversamente da Radiobalilla, al posto dei fasci aveva incrociati due rametti d’alloro.
    Il progetto Radiorurale naufragò, non sul piano politico ma… tecnico! In gran parte delle campagne non arrivava l’energia elettrica! Si corse ai ripari. Mettere altoparlanti nelle piazze dei piccoli paesi, vicino alle chiese e la domenica mattina, quando i “rurali” credenti uscivano dalla Messa e i “socialisti” al caffè o all’osteria, indottrinarli. Una eredità di “palinsesto” ancora oggi rispettata con Linea verde!
    Come spiegare ai “rurali” il razzismo? Ci pensa la Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’agricoltura, con una pubblicazione di sessantotto pagine dell’anno XVI con numerose fotografie,  dal titolo chiaro e squillante: I rurali e la razza. In prima pagina: “Siete voi, rurali, che rappresentate la razza nel suo significato più profondo ed immutablile. Voi non fate i matrimoni misti… Mussolini”! Poi, in seconda, sempre Mussolini: “La terra e la razza sono inscindibili e attraverso la terra si fa la storia della razza e la razza domina e feconda la terra… “. In sessantotto pagine si sintetizza tutto il credo razzista e si esalta il valore dei Fedeli della Terra “che per tante generazioni, che talvolta hanno sfiorato il millennio, si sono mantenuti nello stesso podere…”. E si continua: “Il contadino è sempre stato il “continuatore della stirpe” mentre la città è il punto “debole e vulnerabile”. Quindi, cari mezzadri, fate figli e rimanete a lavorare la terra per il bene della stirpe! E naturalmente, foto di una famiglia mezzadrile emiliana di quarantaquattro persone di cui 26 bambini. Le didascalie sono spesso sconcertanti. Una fra tutte. I fascisti non ignoravano  la devozione di una parte notevole dei “rurali”, quindi foto di una croce di ferro lavorato,  numerose allora nelle strade di campagna, con un ragazzo in preghiera. Testo: “Ecco la fede che proviene dai secoli e dalle generazioni, la fede in Dio, latino e cattolicissimo, gloria e conforto delle nostre genti italiane”! Anche un libercolo così ha completato quella strada che porta alla Shoah  e che inizia in Italia con la pubblicazione nel 1921 de I Protocolli dei savi anziani di Sion.     

  • GERUSALEMME SENZA PACE

    data: 11/11/2018 21:53

    Il 6 dicembre dello scorso anno, il Presidente Donald Trump, non inattesamente, ha riconosciuto Gerusalemme capitale unica di Israele. Il 19 luglio la Knesset ha votato la legge fondamentale che dichiara Israele  “Stato- nazione del popolo ebraico”. Sessantadue voti favorevoli dello schieramento dei partiti di destra al governo e cinquantacinque contrari.
    La prima proposta della legge fondamentale votata è del 2011, ma le numerose correzioni, specie dopo la vittoria nel 2015 di Benjamin Netanyahu è stata totalmente stravolta. Prevedeva infatti la definizione di “Stato-nazione del popolo ebraico e democratico in linea con la dichiarazione di indipendenza”. La parola “democratico” è scomparsa, cancellando così la visione dei fondatori. Abolisce l’arabo come doppia lingua e confina in un limbo senza speranze il 20% della popolazione, 1 milione e ottocentomila arabi musulmani e cristiani e 150.000 fedelissimi drusi, che addirittura fanno parte dell’esercito israeliano. Un limbo peggiore della Barrier, il muro, che soffoca e umilia, soprattutto i giovani.
    Con questa legge Israele si allontana radicalmente dalla dichiarazione di Indipendenza del 14 maggio del 1948. Altra cosa era l’Israele dei kibbutz, quando la gran parte della popolazione viveva in modo semplice, per necessità, ma anche per una forma di vocazione spirituale che contribuì a creare un modello politico che resse per anni. Una forma di utopia sionista, socialista, volta a creare in Palestina una società nuova, che si concretizzò nello Yshuv. Esso organizzò ad arte la lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna, che aveva ben altre idee sulla Palestina e non prevedeva la nascita di uno Stato ebraico.  
    Quando si parla di Israele, del suo rapporto con i palestinesi, del suo ruolo internazionale ed altro, bisogna procedere con cautela e non farsi catturare da schemi frettolosi, ad effetto. Israele, come ha scritto Vittorio D. Segre in Israele, una società in evoluzione (Rizzoli 1973), libro fondamentale per capire il suo processo storico, “è uno Stato solitario… Non esistono altri stati ebraici nel mondo, né società di lingua o di cultura ebraica” . D’altra parte un popolo che rinasce dopo diciannove secoli, Heretz Israel, la Terra di Israele, è un evento non riscontrabile nella storia di nessun altro popolo. E lo si vede al Muro Occidentale, HaKotel , più conosciuto come Muro del Pianto, dove gli ebrei pregano con le stesse parole, Amidah, gli stessi gesti di duemila anni fa.
    E questa solitudine ha creato un senso di perenne insicurezza, una ghettizzazione al contrario. Non è facile liberarsi dal ricordo di ciò che è avvenuto nella prima metà del secolo XX, quando è scomparso un terzo del popolo ebraico. Sul tema si sono scritte valanghe di libri, ma nessuno riuscirà mai ad avvicinarsi più di tanto alla complessità dell’ebraismo, che trascende la politica. Pensiamo solo a Gerusalemme, la città dai settanta nomi, dove in un piccolo spazio si concentrano le tre religioni monoteiste che aggiungono elementi diversi ad una conflittualità che non è solo fatta di confini. Qui si svolge “una antica e sanguinosa competizione tra ebraismo, islam e cristianesimo”, come ha scritto un acuto analista della politica israeliana. Qui dove mille anni prima di Cristo, il re Salomone, figlio del re David costruì un Tempio, l’unico Tempio degli ebrei, l’anima stessa della loro storia religiosa e politica. E dove l’archeologia diventa strumento politico, perché in Palestina contano prima di tutto le pietre, che sono “parlanti e vive”, come diceva Padre Michele Piccirillo francescano e grandissimo studioso di archeologia biblica. E ciò vale soprattutto nel “bacino sacro”, con gli scavi iniziati nel 2006 , sotto la spianata delle Moschee, Haram-ash-Sharif, dove dopo la “guerra dei sei giorni” con l’entrata della Tzahl, i rabbini suonarono lo shofàr, il corno rituale, quasi a significare il momento del ritorno.
    Benyamin Netanyahu forse crederà di aver concluso il sogno di Thedor Herzl , c’è da dubitare. La congiuntura politica certamente è a suo favore, sia sul piano interno che nell’area del Medio Oriente. I palestinesi della Cisgiordania sono stremati. Abu Mazen mostra sempre minor autorevolezza, per poter guidare una seppur formale opposizione. Israele si allarga con confini “elastici”. Uno Stato palestinese non è più nemmeno ipotesi di lavoro, con i paesi arabi - alle prese tutti con problemi interni - che hanno flebilmente protestato per la legge votata con Israele, schierata con il fronte sunnita. Ma un problema resterà duro come una pietra: Gerusalemme, anche se al momento Israele detiene un potere che limita qualsiasi ipotesi che non sia quella di prendere atto che Gerusalemme è “unita e indivisa capitale” di Israele. Ma Gerusalemme è anche città sacra per le tre religioni e su questo non si può arretrare. Non servirà la politica dei trattati e tanto meno le risoluzioni dell’Onu che lasciano il tempo che trovano. Gerusalemme dalle bianche pietre è lì ad aspettare la sua pace. Da duemila anni…