-9 alle elezioni Usa (mentre scriviamo) e la seconda ondata del Covid-19 che colpisce con forza tutti i Paesi, soprattutto l’Europa e gli Stati Uniti. Fuori dal covid-19 sembrano essere la Cina ed altri paesi asiatici, Corea e in parte Giappone. Durante il precedente lockdown ci siama chiesti quali sarebbere stati i cambiamenti “dopo”. Tante le buone intenzioni, ma al dunque se non travolte, certamente rimandate a tempi migliori. A cominciare dal proposito di collaborare assieme, in una specie di irenico ONU. Invece stiamo assistendo ad un procedere isolato, egoistico, dove anzi si sfruttano le difficoltà degli altri a fini politici e speculativi.
L’esempio più eclatante è quello del vaccino, come si vede nel conflitto fra Cina, Russia e Stati Uniti. Nella poltrona per tre, non c’è posto per l’Europa. Ma questo ha contribuito ad un risveglio e un salto di qualità nella politica europea, seppur faticoso, ma reale. Divisa fra chi condivide la linea Merkel-Macron, i Paesi “frugali” e gruppo Visegrad, abbiamo assistito ultimamente ad una unità di voto sulle sanzioni alla Bielorussia e alla Turchia. La situazione generale obbliga l’Europa, se non vuol sparire, ad avere una politica estera e di difesa comune. Anche perché l’Europa deve recuperare tempo, generare un pensiero comune e strutture nuove. Si era subito capito che la linea trumpiana era quella dello stravolgimento della politica estera nei confronti dell’Europa, non più alleata, ma concorrente. Tutti ricordano i giochetti del ritiro delle truppe americane dalla Germania e la disputa per la condivisione dei costi della Nato. Una politica che è piaciuta a Putin, ma che non ne ha ricavato molto, preso com’è da una serie di difficoltà interne ed esterne.
La tela di ragno del Covid-19 non ha bloccato mutamenti dell’assetto e degli equilibri internazionali. Come in una zona che sembrava bloccata e sempre sull’orlo di una guerra: il Grande Medio Oriente. Il 15 settembre si è firmato a Washington l’accordo “Abramo” fra Israele e gli Emirati Uniti Arabi e il Bahrein. “Notaio” il Presidente Trump che incassa un successo per la sua campagna elettorale e soprattutto per il premier Benjamin Netanyahu, in affanno per come ha gestito il problema Covid-19, ma soprattutto per i suoi guai giudiziari. L’accordo cambia totalmente la situazione politica, militare ed economica dell’area consentendo agli Usa di poter ritirare truppe dalla zona, conservando i loro interessi da Suez allo stretto di Hormuz, dove passa il 30% del petrolio del mondo e dove si affrontano navi iraniane e americane. Ma di questi cambiamenti è Israele ad avere il maggior successo per il futuro e la sicurezza del Paese. Israele porta a cinque, ultimo il Sudan, i Paesi con cui avrà rapporti diplomatici. Altri in attesa. L’”operazione” è iniziata il 6 dicembre del 2017 con il riconoscimente da parte degli Usa di Gerusalemme capitale di Israele. Tiepide le reazioni di alcuni Paesi Arabi a cominciare dall’Arabia Saudita del principe Mohamed Bin Salman.
Prendeva così corpo quell’alleanza di fatto dei sunniti contro gli sciiti dell’Iran. Ma l’area si allarga fino al Mediterraneo Orientale. Un’area dai confini marini incerti fra Turchia, Cipro e Grecia, dove navi da guerra che battono bandiere diverse e aerei si sfiorano pericolosamente, con la Francia presente con una portaerei, la Charles De Gaulle. Ma anche altri, Israeliani, Egiziani, libanesi, Russi. La posta? Gas e gasdotti, petrolio sotto l’azzurro Mediterraneo. La storia ci insegna che quando si parla di petrolio e gas, che valgono miliardi di dollari, il gioco si fa duro. Se ne potrebbe accorgere Joe Biden, che nell’ultimo dibattito con Trump ha detto cose sacrosante sul petrolio, ma da maneggiare con cura in una campagna elettorale così tesa e incerta. E la crisi dell’area è frutto anche della politica di Erdogan, che forte di una grande tradizione storica come l’Iran, cerca di avere un posto fra le medie potenze sognando di rinnovare l’impero ottomano. Lo dimostra nel Kurdistan, in Siria, dove affronta la Russia.
Ma ora tutti siamo in attesa del 3 novembre. L’America al voto. Prevedere chi vincerà è un rischio che dopo l’esperienza di Hillary Clinton non ci possiamo permettere. Una campagna elettorale fuori degli schemi per il coronavirus di Trump, ma superato con facilità, cavia di nuovi farmaci miracolosi, solo per lui! Il Covid-19 è stato uno dei temi più importanti dello scontro elettorale. Una dimostrazione ancora una volta, della “variabilità” di Trump, reduce da un quadriennio di politiche alternanti e contraddittorie in casa e fuori. Con viaggi entusiasti nella tana del lupo, Cina, Corea del Nord, qui al limite del macchiettismo, in India, Giappone, Europa con brutte figure di ogni genere e in casa un viavai di collaboratori di ogni livello. Un elenco senza fine, con qualche strappo alla Costituzione e alla prassi. Un uso disinvolto della Guardia Nazionale e Fbi nelle proteste in seguito alla morte di George Perry Floid a Minneapolis. Per capire il successo di Trump bisogna conoscere gli Stati Uniti, non fermarsi a New York, Washington, Boston, S. Fracisco. Bisogna scendere nell’Arkansas, in Alabama, Georgia, Michigan o Stati del centro come Nebraska, Tennessee ed altri. Trump è un grande attore, parla alla pancia degli elettori, si immedesima in loro. Questo basta per vincere una elezione, ma non per conservare il ruolo degli Stati Uniti come guida e prima potenza del mondo. Gli Stati Uniti sono di fatto sotto assedio e il dopo elezioni sarà il momento della verità. A chi spetta il ruolo di potenza egemone? Alla Cina? Sarà una guerra non combattuta con le armi, ma sulle nuove tecnologie e a chi avrà più alleati. Quella che gli esperti chiamano “guerra irregolare”. La Cina che ha battuto il coronavirus prima di noi è pronta con una economia in espansione, un Pil in aumento ed un vivace mercato interno.
I democratici hanno un programma ragionato, volto verso il futuro, ambiente, lotta alla povertà, corente con la Costituzione. E Biden con qualche inciampo e tentennamento è stato capace di presentarlo. Accanto a lui Obama che è uscito allo scoperto e con coraggio. Ma gli americani sanno che questa volta si vota anche per i vice Presidenti, data l’età dei candidati, 74 Trump e 77 Biden, per il conservatore Mike Pence e Kamala Harris, la prima donna che sarebbe eletta come Vice-Presidente, senatrice della California, di madre indiana, padre giamaicano e un marito ebreo. Sarebbe la nuova America che avanza. -8….. a mercoledi 3!