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MARIATERESA GABRIELE

  • VERMIGLIO, OSCAR
    PRENOTATO

    data: 27/09/2024 20:59

    Ma che bello “Vermiglio” di Maura Delpero: un film che racconta una realtà che non si frequenta spesso al cinema, che rispolvera le basi più autentiche del neorealismo (Rossellini lo ha in qualche modo ispirato, ne sarebbe fiero e Delpero s’inscrive così nell’albo dei nostri maggiori registi) ma in più ha un tocco femminile, una sottile ma tenace traccia femminista, pacifista e sentimentale da commuovere profondamente. Il titolo è quello del paese d’origine della regista, il paesino di suo padre e di suo nonno, che era poi il maestro della Val di Sole, in Trentino Alto Adige; il maestro Graziadei è interpretato da Tommaso Ragno. Poche parole, incisive – qui parlano di più i bambini, arguti e consapevoli – un modo di fare da patriarca, un atteggiamento odioso di capofamiglia ma anche di grande saggio, fallito però nella sua cerchia più stretta. C’è la scuola come primo gradino della selezione di classe: “va avanti negli studi solo chi eccelle”, gli altri fanno lavori manuali per cui non c’è bisogno del diploma, sostiene il maestro. Ma, come gli dice la moglie quando boccia il loro figlio maggiore, Dino, incline all’alcolismo proprio perché non capito ma con un’inclinazione artistica: “Il diploma serve anche a non vergognarsi davanti agli altri”, dimostrando così di conoscere molto più del marito il valore dello studio. E Dino, una volta bocciato, accortoccia la pagella e se ne va dall’aula sbattendo la porta. Anche Ada vorrebbe continuare ma il padre-padrone decide che lei resterà in casa ad aiutare la madre, gravata da dieci gravidanze successive e poi, non ci sono soldi per far studiare tutti. A Trento in collegio dalle suore andrà Flavia che è portata per gli studi, è vivace, ha deciso sempre lui. Ada, intrisa di sapere religioso (s’infligge punizioni, vorrebbe essere prete per essere ascoltata da tutti) si farà suora, invidiando in segreto la libertà folle di Virginia, ragazza felice, che fuma e va in bicicletta e che si trasferisce con la madre in Cile. Il maestro viene ascoltato al bar, zittisce chi crede che un soldato debba sempre andare in guerra: “Non è lui che ha scelto, ci è stato mandato”, perde un figlioletto di malattia ma intanto ne ha già procurato un altro alla moglie che fa sempre più fatica a portare avanti le gravidanze (lo nota il dottore, mica il “sensibile” patriarca) e stenta persino a mettere insieme il pranzo con la cena, mentre lui pensa al “cibo della mente”, comprandosi dischi. In classe fa ascoltare le Quattro stagioni di Vivaldi e appunto seguendo l’avvicendarsi stagionale (“in un colore azzurro di ghiaccio e di prati verdi”, più che bagliori vermigli) il film si snoda, in 119 minuti, dall’inverno all’autunno, dal gelido dicembre 1944 a quando la guerra finalmente finisce e nel 1945 ne succedono di cose. L’Italia si libera dal fascismo ma per la famiglia Graziadei i guai non sono finiti e con tutta la sua saggezza, il maestro non impedisce il disastroso matrimonio della figlia maggiore, Lucia, che sposa un siciliano arrivato sui monti insieme al figlio di sua sorella e zia dei ragazzi, suo nipote Attilio che proprio da Pietro è stato salvato in trincea.

     
    Sappiamo che i Graziadei, prima ancora di conoscerli, sono otto figli dal numero delle scodelle di latte che vengono via via riempite accanto alla cucina economica a carbone: un piccolo muore di malattia, il medico consola il padre: “Dio ve ne ha mandato un altro” che la madre partorirà senza dimenticare quello scomparso così presto. E a parto avvenuto sarà Dino a portare alla madre un mazzolino di fiori, provocando l’ira del padre che afferma che quei fiori sono stati rubati al vicino e “ai miei figli ho insegnato l’onestà”. La madre qui sfodera carattere: “Non ti permetto di chiamare ladro mio figlio. Di’ piuttosto che sei geloso perché in tanti anni mai ti è venuto in mente di darmi un fiore alle nascite”. Lui si arrabbia con lei: “Come osi mettermi in discussione davanti ai figli?” e va via. Ma tanto è intatta e reale la sua in genere indiscussa autorità che Flavia, la figlia prediletta, quando avrà il menarca sarà a lui che lo dirà, dopo avergli accennato i primi versi della più nota poesia di Carducci, il Pianto antico. Gli svelerà un segreto che è insieme mistero e verità, e la madre le darà un pannetto di stoffa da usare nei due versi, da non sprecare. Poi succede una svolta tragica ma non svelo il finale di un film che è insieme testimonianza etnica (basti dire che il canto popolare alpino dedicato alla sposa è molto simile a quello che si canta a Bari sulla successione di vivande – ovviamente diverse – da dedicare alla nubenda) e racconto avvincente, calcando l’attenzione critica sulla bravura dei bambini, tutti del posto, e sulle ragazze, le tre sorelle canoniche che la sera nel lettone unico si scambiano pareri sulla giornata appena trascorsa e che poi finiranno una in collegio a Trento, un’altra a servire in città e una ancora in convento. Lasciando quel letto vuoto, dimenticato, come rischiava di essere la vita di questi Malavoglia del Nord se non fosse stata raccontata. Splendido, candidatura all’Oscar più che giusta.

  • UN PIANOFORTE
    PER SETTE GIORNI

    data: 29/08/2024 16:51

    Cosa c’è di meglio che ascoltare il suono di un pianoforte in riva al mare? Decisamente si tratta di una esperienza fondamentale e ogni anno, da un po’ di anni a questa parte, a Bari è possibile grazie al Piano Festival, diretto dal maestro Emanuele Arciuli, pianista barese di fama internazionale. I concerti si svolgono nell’arco di una settimana anche nel chiostro di santa Chiara, a Bari vecchia, e il pubblico risponde numeroso, nonostante il caldo soffocante che non inviterebbe a muoversi. Questa sera la chiusura, a Torre Quetta, spiaggia cittadina.

    Gli eventi comprendono anche presentazioni di libri, “parole senza musica” come l’ultimo romanzo di Francesco Carofiglio (“La stagione bella”, Garzanti) o le memorie di Carlo Fontana (“Sarà l’avventura- Una vita per il teatro”, il Saggiatore): molto sperimentalismo, tante novità, nomi che meritano una fama più diffusa.
     
    Si è iniziato giovedì scorso sul sagrato della basilica di San Nicola con un recital di Alessandro Taverna. Si è proseguito il venerdì con il concerto al tramonto “Best of”, di Iiro Rantala (musicista finlandese) presentato da Alceste Ayroldi: a Torre Quetta, spiaggia cittadina, la stessa che ospita stasera la conclusione affidata ad Antonio Faraò presentato da Ugo Sbisà.
     
    Domenica gli appuntamenti erano due: alle 6 il concerto all’alba al parco Due Giugno di Simone Liberale e Flavia Salemme che hanno suonato per un’ora e mezzo davanti a uno sparuto gruppo di mattinieri; e la sera al chiostro Santa Chiara l’incontro con Carlo Fontana, in dialogo con Nazzareno Carusi ed Emanuele Arciuli.
     
    Lunedì alle 19 c’è stato l’assalto al chiostro Santa Chiara per “An american piano” della pianista australiana Lisa Moore. Purtroppo sono potuti entrare solo quel centinaio di persone per cui c’era il posto, pur essendo l’ingresso libero, perché il luogo è sottoposto a vincolo della Soprintendenza, ha una capienza limitata e forse non è adatto a un evento pubblico, pur essendo molto suggestivo. A Bari ci sono luoghi molto più capienti, uno per tutti l’Auditorium Nino Rota. Questa esclusione ha dato adito a numerose critiche e Arciuli si è detto sorpreso che ci fosse questo assalto per una musica di nicchia, promettendo per il prossimo anno di rimediare. C’è da osservare che un festival di questo genere serve proprio a scoprire nuove sonorità e che chi organizza queste rassegne di solito sottovaluta la capacità, la voglia del pubblico di una città grande come la nostra di assistere a concerti o spettacoli anche sperimentali, considerando poi l’offerta piuttosto scarsa. Prova ne è lo straordinario successo di pubblico che ogni anno raccoglie il Bif&st, una rassegna di cinema ormai tra le più consolidate del panorama festivaliero (e speriamo che continui).  
     
    Voglio soffermarmi proprio su questo aspetto, di festival conciso ed efficace (e perciò seguitissimo, anche al di là dello scenario più vasto di Torre Quetta) proprio perché consente di scoprire autori che solo gli appassionati seguono. Roberta Di Mario è una di questi, giustamente messa in risalto da Arciuli, sebbene concludesse una serata, quella di martedì, intensa e preceduta da “Nightscapes” di Benedetto Boccuzzi e dalla presentazione del libro di Carofiglio (Francesco, fratello di Gianrico). Roberta Di Mario, nata a Parma 50 anni fa, è una straordinaria pianista e compositrice, musicista a tutto tondo, che il pubblico barese colpevolmente non conosceva: lei ha detto che è la prima volta che è venuta qui, accolta molto bene sia pure in un caldo infernale (Bari sta vivendo una delle estati più infuocate di sempre). Pur essendo una compositrice, il che è ancora una rarità purtroppo, e pur avendo scritto moltissimo, anche per colonne sonore, il suo nome non circola come dovrebbe. E ha presentato in anteprima “Ala” ma non solo: la musicista ha spiegato la sua ispirazione, presentando altri suoi brani ricchi di citazioni da Bach a Mozart ai Beatles, per poi suonare Chopin, suo autore prediletto. Tra un brano e l’altro ha parlato, Di Mario, delle donne afgane a cui è stato tolto il diritto di parola, ennesimo sfregio alla loro libertà; ha reso omaggio a Milan Kundera, scomparso l’anno scorso, che nei suoi libri ha dedicato pagine memorabili alla musica; ha parlato del valore della musica che “è una, un linguaggio universale” che andrebbe usato anche per annientare tutte le guerre che sono in corso adesso nel mondo. E ogni volta rendendo un tributo doveroso al pianoforte, strumento dalla meccanica perfetta che si traduce in poesia. Come non essere d’accordo con lei? Di Mario è stata acclamata dal pubblico, che ha avuto il privilegio di ascoltare e vedere una musicista contemporanea che merita tutta la fama che le compete di diritto.

  • TURISTI ALL'ASSALTO
    DI BARIVECCHIA

    data: 13/08/2024 14:44

    Era meglio prima? Non si può essere passatisti, il mondo cambia e noi con lui. Barivecchia è cambiata: in meglio, in peggio? Di sicuro è diversa da decenni passati e anch’io la guardo con occhi diversi perché sono mutate le circostanze in cui la attraverso, città nella città. Da quando la percorrevo con il mio primo filarino, ed era un paesino minaccioso affacciato sul mare, poco illuminato, quasi spettrale, in cui ci si avventurava poco perché si riteneva che fosse dimora della malavita più spietata, dei boss del contrabbando di sigarette. Eppure era già in atto il trasbordo dei suoi abitanti veraci nel quartiere periferico Cep, poi San Paolo, isolato dalla città, raggiungibile coi mezzi pubblici solo con l’autobus 3. Molti tornarono indietro, soffrivano di malinconia, il cuore di Bari stava là. Andarci infatti era bello, per sentire il vero dialetto, per essere accolte quasi come in una visita tra parenti, specie di giorno, quando le signore sulla porta di casa, un basso di poche stanze, ti avvisavano di stare attenta alla borsa e in piazza Ferrarese c’era ancora un mercato di frutta e verdura. Non si era ancora all’assalto dei residenti borghesi, dei professionisti in cerca di loft prestigiosi, ristrutturati, come sarebbe accaduto di lì a poco, si era pur sempre in pieno centro. Con i fondi europei la cittadella labirintica e millenaria fu ripulita, sorsero musei e itinerari meglio definiti, insomma si cominciò a parlare di turismo. Tuttavia si era ancora al tempo in cui, camminando, le signore sulla soglia dei loro bassi (detti così perché a piano terra) di poche stanze ti avvisavano di tenere ben stretta la borsa e i motorini sfrecciavano incuranti dei passanti, sempre meglio dei monopattini di adesso che manco si sentono.

    Lo scippo era organizzato: una volta, circa 30 anni fa, avendo fatto un prelievo al bancomat in corso Vittorio Emanuele e accompagnando una parente milanese nella controra per la visita d’obbligo ai luoghi storici fino a San Nicola, mi accorsi di essere seguita da un signore distinto che fece da palo perché, arrivate in piazza delle colonne, ecco che  tutti coloro che erano seduti sull’uscio, si ammutolirono all’istante e sparirono oltre le cortine di plastica a strisce; e mi si avvicinò un giovane che a testa bassa mi strappò il borsellino, e io gridai come un’aquila che mi lasciasse almeno i documenti, cosa che fece portando via i soldi. Oppure poteva capitare che un gruppo di ragazzi urlanti ti puntasse contro una pistola, vai a sapere se vera o finta e comunque, fino al luglio 2001, quando cadde una vittima innocente, Michele Fazio, un ragazzo nemmeno ventenne che faceva qualche lavoretto per aiutare la famiglia e che ora viene ricordato in una piazzetta con un commovente monumento di Jean Michel Folon (una rondinella il cui volo è stato spezzato), a Barivecchia si sparava, ed era sicuramente peggio.

     Ma se per questo, almeno il 28 novembre 1977, fu pericolosa anche la Bari “nuova”, infestata da neofascisti che uccisero a coltellate Benedetto Petrone, un ragazzo di Barivecchia, in piazza della Prefettura, poco oltre, nella zona murattiana.

     La cronaca nera esula da questa panoramica, tuttavia. Ora perlopiù si mangia: sembra che la preoccupazione principale sia di non far mai mancare del cibo ai turisti che affollano Barivecchia a ogni ora del giorno e della notte. Non che Barivecchia (e voglio scriverla così, tutt’attaccato come la pronunciamo) fosse priva di salumerie e quant’altro, ma adesso i pochi residenti autentici si sono improvvisati ristoratori e fin dalle 18 cominciano ad allestire tavoli per accogliere turisti che, mai così numerosi, risiedono a pochi passi, negli appartamenti storici trasformati in B&B. Non parliamo poi delle orecchiette: oltre a una via apposita, dove le fanno fresche in serie (e le ho viste chiedere pure a notte fonda), sotto la supervisione della ormai celebre nel mondo Nunzia, occhieggiano ovunque ben impacchettate, in qualsiasi bottega. Non solo: quasi in ogni angolo ci sono grandi calderoni di olio bollente in cui friggere, anche a 30 gradi fuori, come quest’estate, scagliozze (quadratini di polenta lessa) e popizze (massa lievitata), ottimo cibo da strada (con cui ci si riscaldava d’inverno…), e i tavolini dei ristoranti o delle più frequenti rosticcerie (fritto a volontà, per dei panzerotti dal dubbio sapore, dalla pasta dolciastra) sorti dall’oggi al domani: in piazza Mercantile per esempio, stanno arrivando a occuparla tutta, quasi a ridosso del palazzo storico con l’orologio che non funziona.  Passi dalla via principale che porta alla basilica e cosa vedi? Una sfilza di ristoranti già pieni all’ora del vespro (ancora segnalato dalle campane), con abbondanti piatti di spaghetti con le cozze: turisti giapponesi, spagnoli, finlandesi, svedesi, inglesi…Bari piace, piace molto, se la mangerebbero persino ma a quanto pare è così in tutte città storiche italiane.

     Poi ci sono delle oasi di cultura e probabilmente anche quelle, si spera, saranno prese d’assalto: gli ottimi musei archeologici, civici, diocesani, e le numerose chiese, racchiudono tesori davvero unici, come gli exultet in cui amanuensi bizantini riassumevano in lunghi rotoli di pergamena le vicende che il prete narrava srotolandoli dall’alto come fumetti d’antan. Si passeggia in via Venezia e qui, oltre che in certe deliziose corti, ci si accorge di un’altra passione barivecchiana: le piante. Sarà per l’aria di mare, i balconi fioriti e multicolori abbondano e fanno un arredo urbano semplice ma dei più efficaci. Nello specchio davanti al Fortino si stanno facendo il bagno, nei campetti recintati che videro Cassano dare i primi calci, si gioca sempre a pallone. Allora, meglio, peggio? Non si può dire, cambiato, questo sì. Certo fa strano veder uscire da casette in largo santa Chiara persone di nazionalità la più varia, con la bici, che si apprestano a percorrere Bari, dotata di numerose piste ciclabili, e spingersi fino al parco, è auspicabile, perché Barivecchia non è tanto grande. Comunque offre sempre angoli appartati perché è un labirinto, la puoi percorrere cento volte e non ripassare dallo stesso posto. Misteri dell’urbanistica levantina e mediterranea e dunque sì, Barivecchia val bene una visita.

  • CHI L'HA VISTO?
    QUANDO LA CRONACA
    DIVENTA STORIA

    data: 20/07/2024 17:51

    Buona la prima: mercoledì ha esordito, su Raitre, “Newsroom”, un programma d’inchiesta, capitanato da Monica Maggioni (con una redazione di donne inviate), che ha trattato della “fast fashion”, ovvero di quella moda veloce, che invade in un battibaleno i mercati di tutto il mondo con conseguenze pesanti sull’ambiente, soprattutto considerando il modo in cui viene prodotta e il suo smaltimento. Le cifre sono da capogiro: solo Shein, gruppo di abbigliamento cinese sorto nel 2008, produce novemila modelli al giorno per 261 milioni di consumatori. C’è forse euforia nel trovare e farsi recapitare a domicilio abiti a basso costo ma chi confeziona questi capi lavora fino a 17 ore al giorno per stipendi da fame. In Bangladesh le sarte (infatti in maggioranza si tratta di donne) lavorano dalle 7 alle 21 per 70 euro al mese, senza interruzione durante la settimana, per non parlare dei malori che colgono gli operai dove i tessuti vengono tinti o trattati chimicamente e nelle stesse filiere di produzione. Alla fine c’è l’usa e getta che crea un’enorme massa di rifiuti difficili da smaltire se non in luoghi defilati e poveri del mondo, come ad Accra, capitale del Ghana, dove arrivano balle di vestiti che non producono certo gli africani: si creano montagne di abiti-spazzatura che vengono bruciati, con serie conseguenze per chi ci lavora e per l’ambiente. Oppure finiscono in Cile, nel deserto di Atacama, dove confluiscono diseredati fuggiti dalla crisi economica venezuelana, per lavorare allo smaltimento di balle da 45 kg di vestiti, che vengono divisi per categoria e rivenduti o bruciati. Un ciclo consumistico davvero impressionante che dovrebbe indurre a soppesare bene ogni spesa di vestiario che s’intende fare. Ma il mondo della moda è bacato anche nel settore del lusso, se le indagini della Guardia di Finanza hanno rilevato recentemente che prestigiosi marchi si avvalgono di lavoro nero e fanno lievitare prezzi per prodotti spacciati per fine artigianato, quando invece si tratta di lavorazioni in serie, spesso effettuate in Cina o in Bangladesh.

    Dunque “Newsroom” non ha fatto rimpiangere “Chi l’ha visto?”, il programma condotto da anni da  Federica Sciarelli (ormai prossima alla pensione, ma i suoi fan possono contare ancora su un paio d’anni di conduzione) e tuttavia “Chi l’ha visto?”, in vacanza in questi mesi, rappresenta una pietra miliare della Rai, una formidabile fucina di storie condotte con perspicacia e bravura da giornalisti che nulla hanno da invidiare agli inviati di grido. Senza andare a ripescare i mitici servizi di Gianloreto Carbone che, con la sua tipica cadenza, riassumeva casi di cronaca eclatanti, anche nelle ultime puntate la squadra della Sciarelli ha collezionato scoop non da poco. Prendiamo (ma andrebbero citati tutti) Chiara Cazzaniga, una giovane che con il suo modo di fare educato, preciso, elegante, ha smascherato non pochi intrighi, come quello di Marzia Capezzuti, la povera ragazza che fu schiavizzata e uccisa dalla famiglia del suo ex (morto) per sottrarle la pensione d’invalidità, nel Salernitano. Nella penultima puntata Cazzaniga ha rispolverato il delitto del commissario di polizia Ninni Cassarà, ucciso a 38 anni sulle scale di casa il 6 agosto 1985: i killer furono presi quasi tutti a eccezione di Giovanni Motisi, di cui è stato diffuso un identikit di come potrebbe essere oggi. Costui, uomo di fiducia di Totò Riina e ufficialmente pasticciere, di fatto è uno spietato killer ancora libero, dopo 40 anni. Sono stati intervistati un collega del commissario, Francesco Accordino e la sorella, Rosalba, che chiedono giustizia, come tutti noi che rievochiamo questi terribili accadimenti. Non solo: illustrando la costa di Casteldaccio, un comune di undicimila abitanti alle porte di Palermo, si vedono ville faraoniche appartenenti a mafiosi e proprio qui, nel 1992 sparirono due ragazzini, Salvatore Colletta e Massimo Farina, che forse si erano spinti a guardare qualcosa, una festa, un raduno in casa proprio di Motisi, che non dovevano vedere e da allora non si è saputo più niente di loro.

    Quanti casi insoluti, quanta accortezza nell’intervistare, per esempio, l’organizzatore del raduno a Vidal, in un’ex abbazia, tale Zu, che si lascia scappare un “quando è m. quando è successo”, fermandosi alla emme di “morto” per il povero Alex Marangon venticinquenne di Marcon, che alle 3 di notte del 29 giugno scorso, dopo aver bevuto una pozione drogata, è stato poi ritrovato senza vita qualche giorno dopo in riva al Piave.  O sentire in Sardegna Igor Sollai, il marito di una sventurata quarantenne, Francesca Deidda, sparita da maggio, che mandava messaggi dal suo cellulare per rassicurare parenti e amici si trattasse di una sparizione volontaria e invece ora, a “Chi l’ha visto?” concluso, hanno ritrovato il corpo a pezzi in un borsone e lui ha voglia a proclamarsi innocente, davvero non è credibile. Come non era credibile, davanti sempre a un’inviata della trasmissione, un autotrasportatore in Toscana che si diceva estraneo alla sparizione di un suo collega che trasportava borse di lusso e che proprio lui, con altri, aveva ucciso. Certo, il programma cerca (ma non sempre la trova) la confessione in diretta, come avvenne per il clamoroso caso di Ferdinando Caretta che, raggiunto a Londra, confessò il suo terribile segreto nel 1989: mesi prima aveva sterminato la sua famiglia, genitori e fratello. E per far questo la Sciarelli arriva ad assumere un atteggiamento confidenziale con un ospite in   studio, come don Ciccio “che potrebbe invitarla a ballare”, ma si tratta del titolare di un locale del Torinese, Chiomonte, da cui è scomparsa una donna, Mara Favro. E poi c’è l’italiana vessata in Egitto dal suo ex marito, italiano pure lui ma rifugiatosi al Cairo…davvero troppo, in una sola puntata. Giuseppe Pizzo ha cercato per sere un’anziana sparita a Napoli, senza trovarla. Il piglio, l’intento, la cura sono tuttavia diversi dagli orridi programmi del pomeriggio in cui pure si tratta di nera, mescolandola però a servizi di costume e rosa, perché “Chi l’ha visto?” è come un rotocalco, popolare certo, che si sfoglia con apprensione e la cui soluzione, come nei gialli, si dilunga nel tempo e di casi clamorosi ce ne sono tanti. Solo per fare un esempio, non ha mai smesso di occuparsi di Manuela Orlandi, la ragazzina del Vaticano scomparsa nel nulla a Roma, in pieno centro, il 22 giugno 1983 e di Mirella Gregori, sparita sempre nella capitale il 7 maggio di quello stesso anno lontano, o di un ragazzino figlio dell’ambasciatore peruviano. O di Ustica. O di Elisa Claps a Potenza o di Ciccio e Tore a Gravina. Alla fine “Chi l’ha visto?” è storia.

  • RACCONTO DI DUE STAGIONI
    L’ULTIMO FILM DI CEYLAN

    data: 25/06/2024 16:58

    Non si esce indenni dalla visione di “Racconto di due stagioni” (in originale “Erba secca”), ultimo film di Nuri Bilge Ceylan che dieci anni fa vinse a Cannes con “Il regno d’inverno”. Perché è un film-mondo, racchiude tanti di quegli argomenti, sentimenti, visioni, che davvero vi si sta immersi per tre ore e si vorrebbe continuare, coinvolti come siamo nella vita del non ancora quarantenne Samet, professore di educazione artistica e fotografo in uno sperduto villaggio dell’Anatolia orientale. Il film comincia con una riunione in sala-professori, con Samet (l’ottimo Deniz Celiloglu, classe 1986) che viene accolto dai suoi colleghi con un certo stupore, perché pensavano che avesse ottenuto il sospirato trasferimento a Istanbul. Una di loro parla di profumi che le ha venduto un vucumprà occasionale e sorge la questione se quei prodotti siano originali o contraffatti. “Non compro roba falsa”, replica lei risentita, come invece è avvenuto per delle tute da ginnastica acquistate dal prof addetto, Kenan (Musab Ekici), bel ragazzo trentenne, che pare aver vinto un terno al lotto con questo posto d’insegnante, altrimenti avrebbe dovuto fare il pastore. Kenan vive con Samet, in questo sperduto villaggio dove la neve scende copiosa e dove l’unico diversivo consiste nell’andare a prendere l’acqua da una remota fonte con chiostra di monti sullo sfondo; pare la Siberia, un paesaggio davvero scoraggiante, del resto lì ci sono solo due stagioni, l’estate e l’inverno, che sembra non finire mai. Due stagioni ma invece tante sfumature nei rapporti personali, tanta miseria. Samet si muove sempre a piedi, affondando nella neve, e visita i militari che si lamentano del superlavoro, quando invece stanno a guardare la partita in tivù. Oppure va a prendere il tè (se ne beve di continuo, leggero o più denso, in bicchierini di vetro) da un veterinario-mercante che tiene d’occhio un giovane sfiduciato, senza lavoro, forse ne ha trovato uno in un casinò, che parla di andar via ma intanto non fa nulla, beve e un giorno scompare senza che nessuno si preoccupi di che fine abbia fatto. Lui che ha avuto il padre arrestato da piccolo e poi non più visto, e di quella sera ricordava solo il riverbero del fuoco della stufa sul soffitto. Sua madre stava sempre sveglia in attesa del suo ritorno, la sua sagome si profilava dietro la finestra, tutti la vedono ma non c’è solidarietà in paese, si guardano l’un l’altro con sospetto. “Niente di ciò che è umano mi è estraneo”, come recita il detto latino. Il veterinario spiega a uno sfiduciato Samet che aveva curato due vacche a un contadino e quello il giorno dopo è andato e gli ha ucciso il cane. Perché? “Perché è un essere umano”, la desolante risposta.

    Tutto si svolge in una routine gelida. Samet ha preso in simpatia una sua alunna, Sevim, le fa regali di nascosto, uno specchietto per esempio, ma niente di più per quanto la osservi sempre. Un giorno capitano in aula gli ispettori, anche donne: vigilano che i ragazzi abbiano le unghie pulite, svuotano gli zainetti in cerca di qualcosa di proibito, lo specchietto lo è, non si va a scuola con il rossetto, insomma le donne sono molto vigilate. Ceylan scrive le sue sceneggiature con la moglie Ebru, la situazione femminile in Turchia viene espressa molto bene, lo era anche nella figura della sorella del protagonista in “Regno d’inverno”, di cui si raccomanda la visione (si trova su Raiplay). Sevim si è infatuata del suo professore, capita spesso a quell’età e il preside ha intercettato una sua lettera che viene consegnata a Samet; la ragazza però capisce che lui ce l’ha e pretende di riaverla indietro. Samet le dice di averla fatta a pezzetti, che non è più possibile recuperarla. Intanto, all’improvviso, i due amici professori vengono convocati dal provveditore, su segnalazione del preside: ci sono state voci, pare che i due abbiano avuto atteggiamenti troppo confidenziali con degli alunni, ma si sa come sono a quell’età e il provveditore non li punirà. Tra i denuncianti c’è, si saprà in seguito, anche Sevim. Ma i due sono sconvolti e vanno dal preside a chiedergli ragione della sua denuncia al provveditore, accusandolo anche di essere lì non per anzianità o merito ma per raccomandazione politica. Il punto è che il trasferimento a Istanbul subisce uno stop per Samet. E che poi Samet venga a sapere da un altro collega che in realtà è stato Kenan a spingersi oltre con qualche pizzicotto alle guance delle ragazze e che lo ha coinvolto quando è stato interrogato dal preside. Nel clima di spionaggio – raggelante come quello meteorologico - che caratterizza questa piccola scuola di provincia (ma in questo non dissimile da istituti urbani più prestigiosi), Samet resta molto male per ciò che ha saputo (senza accertarsi tuttavia se fosse vero o no) del suo coinquilino Kenan e decide di vendicarsi.

    I due hanno conosciuto una professoressa, Nuray, che insegna inglese (“ma davvero non so se sono io a insegnare inglese a loro o loro il curdo a me”) in una città poco distante: lei, attivista contro il governo, è invalida, è rimasta coinvolta in un attentato pochi anni prima e una scheggia di bomba le si era infilata in una gamba, provocandole cancrena e l’amputazione dell’arto, ma ciò non le ha tolto la voglia di lottare, di schierarsi a sinistra, di  agire per l’indipendenza delle donne. Le piace Kenan e invita entrambi a una cena in casa dei suoi, che si assenteranno per qualche giorno. Ecco lo spunto che dà modo a Samet di vendicarsi di Kenan, perché si presenta alla cena da solo; lei lo intuisce (“Perché non hai detto nulla a Kenan?”), ma poi la serata prende la piega che entrambi hanno voluto ma Nuray lo prega di non dire nulla a Kenan. Samet però, per vendicarsi fino in fondo di quello che credeva un amico, non solo glielo dice ma provoca, come reazione, che Kenan non risponda più alle chiamate di Nuray (che è stata annunciata con le note della Traviata ed è interpretata da Merve Dizdar, 38 anni il 25 giugno, premiata a Cannes come miglior attrice l’anno scorso); e che musica ha Kenan nel suo telefonino? “La bohème” di Aznavour. In una notte di tempesta Nuray si presenta a casa dei due per chiedere a Kenan come mai non le risponda al telefonino: i due amici replicano a monosillabi, lei se ne va ma torna indietro perché nevica molto e gli chiede di accompagnarla. Così il triangolo alla Jules e Jim si ricompone, eccoli in estate in gita nei pressi di Smirne, vicino al mare, tra reperti preziosi archeologici e con lei che dice: “Tutte le cose belle di questo mondo restano invischiate nelle ragnatele che tessiamo e alla tela non arrivano mai”. Che è poi il senso di questo magnifico film. Mentre Samet calpesta un’erba ormai secca.

  • I BIG DEL MONDO
    A BORGO EGNAZIA
    PASSERELLA O RISULTATI?

    data: 16/06/2024 22:07

    La forza delle immagini: indubbiamente il G7 che si conclude oggi in Puglia, nel Borgo Egnazia (tutto finto) in quel di Fasano, ha portato in Puglia i big del mondo, tutti a eccezione dei russi e dei cinesi. La diretta televisiva di venerdì 15, alle 13.45 (seguita da pochi, almeno in un rapido sondaggio personale) è stata davvero straordinaria. Non tanto, ma anche, per il discorso del papa Francesco Bergoglio, primo papa a essere invitato a un G7, in realtà un sette volte sette, ma per la sua passerella in carrozzina, quando tutti i capi di stato lo hanno omaggiato, alcuni stringendogli la mano, altri gettandoglisi al collo, come Milei (in virtù solo della comune argentinità, vien da pensare, se solo ricordiamo che il presidente faceva campagna elettorale agitando una motosega…), Abd Allah II di Giordania, Modi, a capo dell’India, perfino il premier giapponese Fumio Kishida che dovrebbe essere scintoista e via dicendo. I cronisti non hanno potuto raccontare di questo vertice presieduto dalla Meloni che si scattava selfie come una scolara in gita e riportava in riga uno smarrito Biden, nulla di più di quanto abbiamo visto in tv e dunque un “bravo” a cameramen e fotografi. 

    Davvero vien da chiederci che fine farà la professione del giornalista: la carovana dei 1500 inviati era posizionata, infatti, a Bari, alla Fiera del Levante, vale a dire a 70 chilometri da Savelletri, il comune dove si trova Borgo Egnazia, luogo preferito per sposalizi da magnati indiani, quindi si suppone che essi si siano valsi soprattutto di comunicati-stampa passati dagli sherpa, dagli aiutanti, dai segretari dei big mondiali.

    Del resto, anche giovedì 13 giugno, la cronaca dello scontro a Montecitorio fra il cinquestelle (galatinese) Leonardo Donno, aggredito per il solo fatto di aver offerto una bandiera italiana all’inorridito Roberto Calderoli, è stata illustrata come una rissa: non ci fossero state le immagini, davvero sarebbe stato assurdo sentire Igor Iezzi, fedelissimo di Salvini, che al Tg1 ha detto di non aver colpito Donno che sarebbe caduto apposta. E Massimo Franco del Corriere della Sera ha insinuato che Donno abbia fatto tutto questo per rovinare il vertice alla Meloni. Risultato: aggressori (Iezzi e compagni) sospesi per qualche giorno dai lavori della Camera tanto quanto l’aggredito. E anche in questo caso, meno male che ci sono i video!

    Ma torniamo al papa al G7, in quel Borgo Egnazia che nulla ha a che vedere con la vicina Egnatia, il maggior sito archeologico pugliese, in quanto non è altro che un hotel di lusso. Papa Francesco ha fatto un discorso molto strano, fantascientifico. Con la sua solita verve, ha detto, mostrando due fogli, che aveva la versione lunga e quella corta del discorso sull’Intelligenza artificiale e che avrebbe letto quella corta perché era stanco. Il papa non si è soffermato tanto sui rischi che l’intelligenza artificiale comporti per il lavoro d’intelletto. Chiunque abbia sperimentato la chat-gpt, si rende conto di quanto articoli di giornale, romanzi, sceneggiature  e quant’altro possano risultare dei falsi. A Hollywood hanno protestato per mesi, scendendo in sciopero. No, il papa è andato oltre: ha detto che ci sono ormai armi così avanzate che possono uccidere persone sotto false spoglie, umanoidi che sostituiranno o hanno già sostituito i soldati, “armi letali autonome”. Una sorta d’invasione degli ultracorpi, che non può però soppiantare il fatto che gli uomini non hanno bisogno di essere istruiti su questo, basti pensare ai “lupi solitari” che vengono risvegliati via Internet per accoltellare ignari passanti, o ai femminicidii. Senza contare che una bomba, una volta sganciata, fa tutto da sola.

     Seconda cosa: il grande invitato di pietra di questo G7 è stata ovviamente la Russia (insieme alla Cina), che in queste ore ha lanciato comunque una proposta di pace all’Ucraina, chiedendo la restituzione di territori che Russia e Ucraina si stavano contendendo da ben 14 anni prima dell’invasione del febbraio 2022. Questa proposta però è stata completamente ignorata e invece il papa e tutti gli altri abbracciano Zelenski, sempre vestito di verde militare (una sorta di mimetica) che non fa altro che chiedere armi e che non ha nessuna intenzione di sedersi a un tavolo di pace. E ancora la forza delle immagini: al tg si vedono persone che camminano tranquille a Karkhiv, per esempio, accanto a edifici sventrati dalle bombe russe. Non sono stanchi, gli stessi ucraini (russi, ricordiamolo, fino a 30 anni fa) di questa situazione? Certo, anche qui l’aggressore vuol passare per aggredito ma non è il caso di superare questa assurda logica che, lo si è visto anche dalla “rissa” in parlamento, rischia sempre di confondere le parti? Altro che intelligenza artificiale per raffinare armi che già sono al massimo della loro potenza, altro che G7 fatto di vuote parole e zero concretezza, se non rafforzare l’industria delle armi. A fronte di vittime vere, di sangue autentico, di case distrutte; le trattative per la pace dove sono? Ecco che allora un vertice del genere, tranne che una passerella, non pare molto di più. Con un’ultima annotazione: il Sud, che la lega e compagnia brutta, vorrebbe dividere dal resto dell’Italia, è costellato di castelli, che tornano sempre utili ancora oggi (vedi la cena firmata Massimo Bottura in quello di Brindisi, con lasagna tricolore). Adesso invece l’Italia costruisce prigioni in Albania.

  • INTERROGARCI SU TUTTO
    È SCIENZA E METAFISICA

    data: 05/06/2024 19:51

    Tanti auguri professore! Compie gli anni oggi Massimo Cacciari, uno dei maggiori filosofi attualmente in campo. Ieri ci ha regalato una sua lezione magistrale presentando all’Ateneo, a Bari, il suo ultimo libro, “Metafisica concreta” (Adelphi), dando per scontato che l’uditorio l’avesse letto e non mettendolo in vendita nell’aula C  (cosa che personalmente ho molto apprezzato). Per chi non l’avesse ancora letto, comunque, la sua spiegazione è stata molto chiara, offuscata a tratti purtroppo da un sistema-audio disastroso. Forse perché si trovava in un ambiente che gli si confaceva, fra amici e colleghi, forse per la bella giornata, o per una particolare disposizione di spirito Cacciari ieri è stato un vero filosofo, paziente e benevolo, per nulla arrabbiato, come appare a volte dalla Gruber: sarà la televisione che fa quest’effetto. Ha perfino acconsentito ai selfie, seppur “come i bambini” ha celiato.

     Che gioia sentir parlare di filosofia, certo nel luogo più adatto, al dipartimento di Lettere e filosofia appunto, ma non sarebbe male, anzi, parlarne ovunque e tutti i giorni. Ed è proprio il confronto con il reale, con la concretezza, che, ha sottolineato Cacciari, fa del filosofo una figura quanto mai attuale: non si creda che la scienza sia fatta solo di tecnica, non si pensi che la politica sia fatta solo di atti burocratici, per tutto ci vuole quel quid in più che nasce dalla conoscenza. Infatti i greci avevano una sola parola per conoscenza e scienza: episteme. Cacciari lo ha dimostrato in tutta la sua vita, non sottraendosi all’impegno reale, quando per esempio ha svolto la carica di sindaco della sua città, Venezia.

    “Il reale può essere affrontato da prospettive diverse ma queste prospettive diverse come possono dialogare fra loro?” Chi può mettere in comunicazione differenti visuali? Appunto il filosofo. D’accordo costruire sistemi logici inattaccabili, come fece Kant, ma poi bisogna considerare se siano vivi o meno, se agiscano nella realtà. E’ quello che Cacciari ha cercato di spiegare a una delegazione di tre ragazzi palestinesi, due studenti e una studentessa (l’ateneo in questi giorni è occupato da una non meglio specificata “intifada studentesca”) ammonendoli, dopo la lettura di un loro interminabile comunicato, che potremmo finire tutti occupati se non consideriamo le forze economiche, le situazioni concrete che ci sono oltre tutte le apparenze di contrasto evidenti (e le bombe) attualmente alla base dei conflitti. I tre non hanno capito e se ne sono andati sbattendo la porta.

    Ma Cacciari ha proseguito nella sua serafica illustrazione con la necessità d’interrogarci su tutto, di non avere un atteggiamento dogmatico, dell’importanza di porsi una domanda metafisica, che vada oltre cioè le semplici apparenze. “Noi filosofi siamo stati negligenti nel farci intendere: l’immanenza originaria in tutte le cose va spiegata con la conoscenza, il conoscibile e il conoscente, qui sta tutto il problema”. Cercare l’essere nel pensiero e viceversa, sembra impossibile ma è il punto di ogni principio di conoscenza, come ha indicato Husserl.  E’ importante porsi al centro del pensiero che studia il reale, oltre ogni utopia. A cui Cacciari contrappone l’atopia, non stare in un luogo utopico, che non esiste, ma riflettere a partire dal luogo in cui si è.  La splendida giornata che filtrava dalle ampie finestre dell’Ateneo barese sembrava acconsentire alle sue parole e vien voglia di correre a leggere le pagine di questa metafisica concreta, di rivedere i dialoghi di Platone (“la sua città ideale è ancora la nostra”), di superare davvero con la conoscenza tutti i contrasti che ancora annebbiano la mente dell’uomo.

     

    Alla fine, anche di fronte alla minaccia dell’intelligenza artificiale e della manipolazione genetica, dato che lo scienziato non è un mero tecnico, è giusto chiedergli: “Che cosa stai facendo? Che senso ha quello che fai?”, che poi sono le domande fondamentali che ponevano già Socrate e Platone. E si arriva così al fondamentale concetto di crisi che ha consentito lo sviluppo della scienza nel mondo occidentale: magnifico il pensiero orientale, ma si muove dal principio di rivelazione, ha qualcosa di sacrale che in occidente, in Europa, ha assunto una veste laica e di scienza (che qui è nata, almeno nelle forme che conosciamo). E siccome il mondo è diventato uno, sono domande che ognuno deve porsi, oggi, sempre, con spirito appunto critico.

  • CORTO CIRCUITO
    GENOVA-BARI
    NEL NOME DEI SOLDI

    data: 19/05/2024 18:48

    Tanto tuonò che piovve…e piovvero davvero gli avvisi di garanzia ma non in Puglia, dove il centrodestra al governo pareva quasi che li invocassero, ma in Liguria, laddove il governatore, il presidente della regione Giovanni Toti, già giornalista delle reti Mediaset, già pupillo di Berlusconi, era il referente, si è scoperto, di affari e donazioni, per quel flusso di denaro, molto spesso di origine europea, tanto numeroso che, ha detto uno degli indagati, “non si sapeva come spenderlo”.

    In realtà in Liguria, terra vicina al ricco principato di Monaco, meta di tanti evasori fiscali, il sogno degli amministratori, e non da ieri, ma sin dai tempi della rapallizzazione (termine creato ad hoc dall’assalto edilizio a Rapallo) è quello di forgiare un territorio in origine di marinai e contadini a centro di grandi speculatori, con le industrie metallurgiche e turistiche da un lato e banche e assicurazioni dall’altro. Non per nulla Genova, sin dai tempi della repubblica marinara, è una delle città più ricche d’Italia ma anche quella in cui il conflitto sociale ha conosciuto i vertici più aspri; non dimentichiamo l’omicidio di Guido Rossa, il sindacalista comunista che fu ucciso dalle Brigate rosse il 24 gennaio 1979.
     
    Adesso c’è tutt’un’altra temperie e gli affari convergono verso il porto e il turismo, declinato sempre più al privato, con l’occupazione delle spiaggette di cui è costellato il litorale sia a Ponente che a Levante. Proroghe, cambiamenti dei piani urbanistici , choc meteorologici (dall’alluvione che portò alle dimissioni della sindaca Marta Dassù al crollo del ponte sul Polcevera, il ponte Morandi, il 14 agosto 2018 con 43 vittime, in cui si è scoperta solo dopo la tragedia l’incuria di una manutenzione inesistente e la pronta reazione del nuovo ponte progettato dal genovese Renzo Piano). Soldi dal ras delle discariche Colucci, soldi dal dirigente del porto, l’ormai noto Spalletti, insomma da chiunque pur di pilotare la politica verso gli interessi privati e non della collettività (coi fondi pubblici poi). E a fronte di tutto ciò il governatore Toti non si dimette, ci sta pensando da giorni, laddove per Bari si è mandata subito un’ispezione ministeriale dell’antimafia. Si è tanto parlato di voto di scambio a Bari, ma c’è stato anche a Genova solo che non ci si aprono i tg della sera in Rai.
     
    Però Bari resta in prima pagina per la squallida vicenda delle baby-squillo: sedicenni coinvolte in un giro di prostituzione con soldi a palate (una “carta oro” con cui spendere fino a 20mila euro elargita da un 55enne a una minorenne). I clienti (vecchissimi per ragazze sedicenni, avvocati, manager)  sapevano che  le ragazze erano minorenni ma ci andavano lo stesso, con la complicità di almeno un gruppo di cinque donne più grandi, alla faccia della solidarietà femminile. E si teme che questa sia solo la punta dell’iceberg anche se il capo della Squadra mobile ha detto che almeno questa “squadra” è stata debellata e le ragazze, liceali di buona famiglia, a dire di una loro insegnante intervistata da una cronista locale, apparivano come tutte le altre, senza particolari problemi a scuola. A Bari è stata una madre, insospettita dal portafogli gonfio di banconote da 50 euro della figlia, ad allertare le forze dell’ordine. Anni fa a Roma ci furono delle madri complici. Il tutto in nome dei soldi, per cosa poi, per comprare borse e scarpe di lusso e andare ad arricchire le griffe che a loro volta sfruttano i lavoratori. Non è difficile per le madri improvvisarsi investigatrici: basta andare sui siti e rendersi conto che una borsetta di rafia, firmata, arriva a 1600 euro e se la vedi indosso a tua figlia e tu non gliel’hai comprata, due conti te li fai. Per fortuna sono stati pubblicati i nomi di questi approfittatori che non potevano nemmeno aspettare la maggiore età delle loro vittime, evidentemente certi della loro impunità. Onore al merito delle madri baresi dunque, chiamate in una locandina “madri coraggio”. Ma che coraggio ci vuole a parlare ai propri figli? E anche a sbirciare nelle loro borse? In questi casi, non c’è privacy che tenga, su.
     
    Naturalmente anche a Genova la “dolce vita” dei corrotti ha come corollario la compravendita dei corpi o, nei casi più “per bene”, il contributo per le spese del matrimonio della figlia, sempre dunque soltanto in nome dei soldi, soldi, clap clap, come canta Mamhoud. Un patriarcato invincibile filtra da tutte queste notizie ma forse è solo una mancanza di cultura, una terribile conseguenza dell’assenza di lettura, di confronto, di economia. Perché anche solo a leggere i giornali (che non legge quasi più nessuno) ci si renderebbe conto di come vanno le cose e si attiverebbero gli anticorpi.

  • SOKUROV, MODERNO
    ESOPO RUSSO

    data: 23/04/2024 18:31

    Alexandr Sokurov è un grande regista russo, un maestro riconosciuto della cinematografia mondiale: è stato a Bari per due giorni la scorsa settimana, invitato dall’Università, e ha intessuto con gli studenti un dialogo che sembrava non aver fine, un vero fiume in piena. Del resto Sokurov è un intellettuale completo, ha scritto anche libri e si sofferma a lungo sulla sua teoria dell’umanità. I suoi film sono capolavori, basti pensare ad “Arca russa” del 2002, un lavoro che “nasce dal desiderio di fare pace con il tempo e di creare un film tutto d’un fiato, mostrare l’indivisibilità del tempo” in un’unica sequenza per le sale dell’Ermitage.

    I suoi film, ormai l’elenco è lungo, non hanno di solito una grande distribuzione ma va dato atto e merito a “Fuori orario”, la preziosa rubrica ideata da enricoghezzi (tutto minuscolo come lui vuole che sia scritto il suo nome) e Roberto Turigliatto (coetaneo del regista: sono del 1951), di aver  spesso mandato in onda i film di Sokurov su Raitre e ora su Raiplay. Tant’è che proprio venerdì notte è stato trasmesso “Fairytale”, il film che a Bari si è visto giovedì 18 al Kursaal Santalucia. Una pellicola che è uscita due anni fa, ampiamente recensita per esempio da Filmtv che le dedicò la copertina, ma che in Germania e in Russia non hanno ancora visto. Perché parla del potere, lo mette in vetrina, lo ridicolizza, lo mostra nella sua umanità più misera, e dunque fa paura. Tanto che in patria Sokurov viene osteggiato.

    “Fairytale” (Una favola) è la rappresentazione plastica, visiva più bella che, almeno io, abbia visto, dopo i disegni di Botticelli, della Divina Commedia di Dante. Solo che è resa attuale: vi si aggirano infatti, sullo sfondo di disegni presi da Piranesi (dunque a matita) e da Hubert Robert, i personaggi che Sokurov ha già mostrato in altri suoi film, i dittatori e i protagonisti più temuti del Novecento: Churchill, Hitler, Mussolini e Stalin. E sono proprio loro, non sono attori, ad agire sullo schermo come figurine mobili ritagliate in un collage animato (il regista ha anticipato diavolerie da Intelligenza artificiale). Si aggirano in un limbo in bianco e nero e ripetono a tanti cloni (tra loro si chiamano infatti fratelli), frasi che sembrano chissà cosa e sono invece autentiche misere fissazioni che però hanno determinato la storia e che hanno fatto scoppiare la Seconda guerra mondiale, un evento con il quale l’Europa, il vecchio mondo, non ha ancora fatto i conti. E non considera, il regista, l’America, “quello è un altro mondo”, per quanto anche lì il potere faccia danni. Mentre Churchill pensa alle guerre che ha fatto in Sudafrica-“l’Africa un continente da spogliare”, “tutto per la mia regina”, Hitler ammira il taglio del cappotto di Stalin, lo ritiene un ebreo del Caucaso e si rammarica di non aver bruciato Parigi, ecco che Mussolini avanza gridando “L’impero l’impero!” e Stalin si accarezza sornione i baffi; da un angolo della selva oscura dantesca ecco che spunta Napoleone. Le folle li acclamano (“ci amavano”), li avevano mitizzati ma dove sono ora quelle masse indistinte, su cui spiccano di tanto in tanto i volti della figlia di, della moglie di?  Sono mani che si alzano nel vuoto, ombre che vorticano nello spazio oltremondano, in un limbo eterno, braccia che si tendono verso di loro, i quattro demoniaci detentori del potere, mentre nel bianco/nero da incubo si staglia solo il rosso arancio di qualche bomba, sulle note di Wagner.  E le gigantesche porte del paradiso stentano ad aprirsi.

     Il regista russo si è sempre interrogato sul potere, è il tema dominante della sua riflessione, sin da quando, in “Elegia sovietica” faceva sfilare nominandone solo i nomi, i capi del Pcus. Per lui i dittatori sono ancora tra noi, possono tornare in ogni momento; il male c’è, esiste, il demonio c’è e ispira il potere. Non è che derivi da Dio questo accumulo di decisionismo, il totalitarismo nelle mani di pochi uomini o addirittura di uno solo. Può sembrare una visione pessimista, dice Sokurov col tono dolente della sua persona squadrata, compatta, un po’ gravata dall’età ma ecco che i suoi occhi verdi hanno un guizzo, ecco che sulle sue labbra appare il sorriso: l’antidoto c’è e ce lo fornisce lui, che ci ha pensato tanto. Quando un uomo accumula troppo potere nelle sue mani, vuol dire che è un infelice oppressore e già Goethe ci metteva in guardia dagli uomini infelici, che non vanno compatiti e compresi, no, vanno evitati. Il potere va deriso, ridicolizzato perché è proprio l’ironia, la presa in giro che i regimi totalitari temono più di tutto (e io penso allora al magnifico romanzo di Kundera: “Lo scherzo”). Può sembrare che la massa sia contenta di vivere in uno stato di governo mediocre, in una politica che non ha valore umanistico, ma lo fa perché non studia. Sokurov ci invita a leggere i grandi classici, Dante per l’analisi del potere, Goethe per quella dell’animo umano e ancora Tolstoj, Dostoevskij, Faulkner, Thomas Mann, insomma i grandi. Analizzando i vari caratteri delle persone potremo metterci al riparo dalle deviazioni del potere. Sokurov tiene molto ai giovani, discuterebbe con loro per ore e ore, come ha fatto a Bari: “Perché non possiamo lasciare in eredità la malattia. Io sono come il medico che indica la causa di una malattia. Non è possibile che si ricorra ancora alla guerra per risolvere problemi umanistici. La politica che ricorre alla guerra è rozza, disumana, è poca cosa; in ‘Fairytale’ dimostro come i cosiddetti grandi fossero in realtà persone molto modeste, ossessionate da idee ricorrenti e dal desiderio di distruggere. Già il solo fatto che abbiano prodotto la Seconda guerra mondiale, un evento terribile con cui abbiamo ancora a che fare, è indicativo della loro terribile inumanità che risalta dallo studio dei loro caratteri. Dunque, osservate, parlate, individuate i caratteri perché ogni persona è diversa dall’altra e va analizzata per evitare brutte sorprese”. 

    Su Raiplay è possibile vedere la lunga intervista che Turigliatto ha fatto al regista, in cui sono riassunte le sue tesi e ciò che ha detto a Bari, dall’intestazione: “Un sorriso fra le lacrime” che era uno dei titoli in lizza per “Fairytale”, che poi è stato scelto proprio perché ciò che è accaduto sembra una favola ma invece è realtà, lo è ancora, come negli schemi eternamente validi delle favole. E Sokurov è un moderno Esopo.

  • BARI, CHE FATICA
    SCEGLIERE
    IL FUTURO SINDACO

    data: 15/04/2024 22:13

    È come quando nel lavoro a maglia si perdono dei punti: è possibile riprenderli ma c’è il rischio che, nel frattempo, ne scappino altri. Non si fa in tempo a sapere di un’inchiesta giudiziaria a Bari, che subito se ne ha notizia di un’altra, in una reazione a catena che sembra non aver fine. L’imputazione è quasi sempre la stessa: infiltrazione mafiosa, mercato dei voti, concussione e corruzione, favoreggiamenti vari in cambio di posti di lavoro da affidare a mogli e figli.

    È uno strano clima in cui i mariti e i padri lavorano per le donne in carriera. Se dietro un grande uomo, si diceva, c’è sempre una grande donna, qui a Bari capita che una figlia corrotta, come la consigliera comunale Mary Lorusso, abbia un precedente proprio nel padre oncologo, arrestato per aver chiesto favori ovvero denaro in cambio di accorciamenti della linea di attesa in ospedale  e nel marito, Giacomo Olivieri, molto attivo in liste di centrodestra e poi di centrosinistra, per raccattare voti dovunque e garantire alla moglie quel posto di consigliere comunale che offre un più che dignitoso stipendio fisso al mese. Il tutto con un tenore di vita evidentemente lussuoso a fronte di una dichiarazione dei redditi misera, addirittura da nullatenente. La coppia si stava prodigando adesso per far candidare la figlia, sempre nel consiglio comunale, evidentemente considerato un patrimonio di famiglia. E già a ottobre era stata incarcerata Francesca Ferri, altra consigliera comunale transitata dalla destra alla sinistra, sempre per voti di scambio e insieme al marito.

    Altra coppia terribile, che adesso si dice separata da due anni, quella di Anita Maurodinoia, soprannominata “Lady preferenze”, ex assessore regionale ai Trasporti, che si è dimessa nei giorni scorsi non appena saputo dell’indagine e di Sandro Cataldo, grande raccoglitore di voti, anche in provincia, da Triggiano a Grumo Appula, nelle elezioni del 2019. 50 euro a voto, sono stati trovati database con duemila nomi e “Sandrino” veniva considerato imbattibile nel raccoglierli, tanto che a Triggiano il sindaco si è dovuto dimettere. Ci si può stupire che tutto questo malaffare sia venuto a galla adesso, in prossimità di nuove elezioni l’8 e il 9 giugno: ma è che un’inchiesta ha scoperchiato un’altra, come in un gioco di scatole cinesi. Ecco che a Bari vengono arrestati ai domiciliari due fratelli appartenenti a una famiglia di lunga militanza politica, un tempo Dc e adesso di Iniziativa democratica, una lista che nel 2020 sosteneva alle elezioni regionali il centrosinistra (che portarono all’elezione di Michele Emiliano, attuale presidente della regione Puglia): Alfonso, ex assessore regionale ed Enzo Pisicchio, per episodi di corruzione in relazione a tre gare d’appalto (fratelli del più noto Pino, infatti a “Propaganda live” hanno messo, sbagliando, la foto sua, parlamentare per tre legislature e ora “disgustato dalla politica” ma che giura sull’innocenza dei fratelli). Questi i capi d’imputazione per sette persone in tutto: corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione per l’esercizio della funzione, truffa, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, falsità materiale, turbata libertà degli incanti. I fratelli Pisicchio sono sospettati anche di aver truccato un appalto per l’affidamento della riscossione della Tari a favore della Golem Plus in Rti (tecnologia e innovazione) con Creset e Arca Servizi.

    Le ripercussioni sono terribili, sin da sabato 23 febbraio, quando Emiliano, in piazza, se ne uscì con la storia di Decaro minacciato a “Barivecchia” e raccomandato, perché agisse in sicurezza in quei vicoli dominati dai clan in quanto assessore al traffico (e promotore delle zone pedonali, molto osteggiate da cittadini che fanno dell’auto il loro marchio di riconoscimento), proprio alla sorella di un boss. Il 26 febbraio ci furono poi 130 arresti per vari delitti, dal traffico di droga ad altre imputazioni, con un blitz notturno in cui volteggiarono in città gli elicotteri. Niente nomi influenti o di politici, quella volta. Ma poi è arrivato aprile con altre inchieste che hanno coinvolto i politici e le politiche, amministratrici per giunta.

    Si sono sentite cose turche: funzionarie della prefettura che per avere indietro la macchina rubata si rivolgono a un boss della malavita con la premessa: “Con tanti favori che ti abbiamo fatto noi”, intercettate ovviamente dalla polizia esterrefatta. O le due vigili che, offese per una multa o qualche altra infrazione da un appartenente ai clan (a Bari ce ne sono ben 14, divisi nei vari quartieri), si rivolgono a un boss pure loro per ottenere “giustizia”; sono state licenziate ma la terzietà, per dir così, ne è uscita compromessa. E ancora: i magistrati scoprono che all’Amtab, l’azienda di trasporti urbana che, va detto, non è mai andata così bene, puntuale ed efficiente, le assunzioni sono state gestite da un uomo fidato del boss di Japigia, Savino Parisi. Per cui adesso l’azienda è sotto amministrazione giudiziaria per un anno. E il primo aprile, nel pieno della tempesta giudiziaria, proprio un nipote di un altro temuto capoclan, Tonino Capriati, ora all’ergastolo, è stato ucciso a Torre a Mare, il rione dove abita Decaro. Il 4 aprile in piazza c’è stato il comizio del candidato sindaco Michele Laforgia appoggiato dal movimento 5S con l’intervento di Conte e di Vendola. Per il 7 erano previste le primarie; niente più primarie, ha detto quella sera Conte, poi tornato a  Bari l’11 aprile per ritirare i suoi membri in consiglio comunale e regionale (meno di dieci in tutto, comunque); e per sottolineare che non si sarebbero potute fare le primarie in questo clima. Elly Shlein, scesa a Bari il 5 aprile, dopo il comizio della rottura, resta sconcertata, poi c’è stata una ricucitura ma nuovo colpo di scena: Laforgia ha tenuto a precisare che l’iniziativa di sospendere le primarie è stata sua e non di Conte, il Pd insisteva per candidare Vito Leccese soltanto, ma il vento è mutato ancora e Vendola  ha proposto un terzo nome, Nicola Colaianni, ex magistrato 78enne, che non convince molti. La Schlein insiste: bisogna azzerare tutto e ricominciare daccapo. E mentre Emiliano spiega da Vespa, non senza qualche sconcerto in chi lo ascolta, che la sua strategia è stata di portare gente di destra a sinistra ed è così che la Puglia “è diventata meravigliosa”, la destra, finora in affanno, sceglie finalmente, appena sabato scorso, il suo unico candidato sindaco, Fabio Romito, 36 anni, della Lega (meglio non specificare Nord) e si ritrova stranamente in vantaggio, almeno per ciò che concerne la scelta di chi dovrà correre per la poltrona del primo cittadino.

    Non finisce qui: si annuncia una settimana di fuoco. Riflettori puntati su Emiliano: azzererà la sua giunta, come gli ha chiesto la segretaria del Pd? Il centrosinistra, fino a ieri concentrato sui due candidati Laforgia e Leccese, proporrà qualcun altro o forse una donna? La Puglia si conferma ancora una volta un laboratorio politico in piena effervescenza.

  • CHIUDE IL BIF&ST E
    SI APRE IL CASO BARI

    data: 26/03/2024 22:56

    L’avevo scritto che era un Bif&st emozionante, ma mai avrei previsto cosa sarebbe successo nella giornata conclusiva, sabato 23 marzo: una giornata davvero da film, ci fosse stato Coppola ne avrebbe ricavato una sceneggiatura stupenda. Una giornata solare che metteva in scena da un lato, in piazza Mercantile, diecimila persone al grido di “Giù le mani da Bari” e dall’altro, al Petruzzelli, l’annuncio del fondatore e direttore del Bif&st, Felice Laudadio, di lasciarlo. Il risultato di sabato è stato eclatante: ancora ieri, lunedì 25 marzo, il Tg1delle 20 apriva con il “caso-Bari”. Comunque registi eccelsi in giro non ne mancavano, prossimamente dunque su questi schermi potremo rivivere l’incredibile giornata barese. 

    Riassumo brevemente per chi in questi giorni si sia trovato su Marte: in consiglio comunale c’è stato parecchio scalpore un mese fa per una consigliera eletta nel 2019 col centrodestra ma poi passata nella maggioranza di centrosinistra, Carmen Lorusso, arrestata per voto di scambio ottenuto con traffici con la malavita (arrestato anche il padre, Vito, famoso oncologo, che chiedeva soldi per accorciare le liste d’attesa e per farmaci). Non solo: in un’operazione della Direzione distrettuale antimafia, il 26 febbraio, ci sono stati 130 arresti e il commissariamento dell’Amtab (bus urbani che, va detto, non hanno mai funzionato così bene). Si è scoperto così che a Bari “comandano” ben 14 clan mafiosi che si spartiscono i proventi di numerose speculazioni di una città in crescita soprattutto turistica ed edilizia. Ne è seguita la decisione del governo di inviare a Bari una commissione d’inchiesta che si è già insediata ieri, 25 marzo, a tempi di record, con evidente intento filogovernativo. Il sindaco, Antonio Decaro, in carica da dieci anni e adesso da sostituire con le prossime elezioni di giugno, è insorto: “Sono sotto scorta da nove anni, ho contrastato la criminalità in mille modi, non è giusto che il mio operato venga sottoposto al vaglio di un’inchiesta antimafia”. Ma questo l’aveva detto prima di sabato. Infatti sabato mattina, davanti alla folla che era giunta da tutta la regione a difendere il sindaco, anche presidente dell’associazione dei Comuni (Anci) ed esponente di spicco del Partito democratico, è stato affiancato dal presidente della regione Puglia, Michele Emiliano, il quale, per difendere il suo pupillo, con quel suo fare paternalistico sebbene lo distanzino in età solo 11 anni da Decaro, ha raccontato un aneddoto: “Un giorno (siamo nel 2008), mi vedo arrivare il mio assessore al traffico (Decaro appunto, che all’epoca aveva 36 anni) pallido come un cencio perché era stato minacciato a Barivecchia. Allora io sono andato da una sorella del boss Antonio Capriati, ora all’ergastolo, per dirgli che l’aria era cambiata, che Decaro doveva circolare liberamente tra quei vicoli”.

    La signora è stata rintracciata da un giornalista del Tg1 e ha detto di non aver mai visto Decaro, cosa del resto confermata dallo stesso sindaco. Il che ha costretto Emiliano a un’imbarazzata smentita: “Può darsi che Decaro non ci fosse, sono passati anni, comunque non è un fatto per cui si debba andare in Procura”. Ma non basta: la stampa di destra, ormai scatenata, ha scovato un selfie di Decaro con un’altra sorella di Capriati (sono undici in tutto, i fratelli) e una nipote, selfie che ovviamente Decaro non ricorda ma del resto lui, come sindaco molto alla mano, sempre in giro (ricordate il suo “Voi che ci fate do?” durante il lockdown da epidemia?), non nega selfie a nessuno. Ora, il tutto viene ampiamente sfruttato dal centrodestra che però non può dimenticare che le inchieste sul voto di scambio sono partite proprio nel suo ambito e che a tutt’oggi essa non ha un candidato per la poltrona di primo cittadino e giugno è alle porte. Mentre Fiorello si chiedeva ironicamente come mai la sorella del boss (intendendo per “boss” Bruce Springsteen) si fosse trasferita a Bari, gli autorevoli ospiti del quindicesimo Bif&st erano evidentemente storditi da tanti colpi di scena, tanto che la sera, alla cerimonia finale di premiazione, al Petruzzelli, il presidente Volker Schloedorff, sommo regista 84enne, diceva in perfetto italiano: “Siete fortunati ad avere a Bari Felice Laudadio che ha organizzato questo splendido festival” smentito poco dopo dallo stesso Laudadio che alle 14 aveva già annunciato, sempre al Petruzzelli, le sue irrevocabili dimissioni: “Dovresti usare il tempo verbale passato”.

    Già era stato piuttosto difficile entrare in teatro dopo quello che era successo a Mosca il giorno prima, e quando poi si è diffusa la notizia della morte di Maurizio Pollini, il grande pianista milanese che tante volte è stato a Bari, la malinconia era al colmo, nonostante la radiosa giornata e la manifestazione affollatissima su cui sono cadute impreviste le parole di Emiliano. E quando poi si è sentito Luciano Canfora che, insieme a Marco Bellocchio aveva assistito alla proiezione di “Vincere”, commentare gli eventi con un “E’ tipico del fascismo, attaccare le amministrazioni comunali, così accadde cent’anni fa” e poi l’annuncio di Laudadio, si è raggiunto davvero il colmo della tristezza.

    Per fortuna, la serata è stata invece gioiosa. “Standing ovation” per: Laudadio, che ha limitato la polemica (sicuramente molto forte con la Regione e lo stesso Emiliano, che non gli ha dato la Fondazione che aveva chiesto; è tutto spiegato nel suo libro “Per chi suona la cultura” e questa è la sua 35esima dimissione), all’augurio ai prossimi organizzatori di non dover lottare per il budget com’è successo a lui nell’ultimo lustro; per Antonio Decaro, presente nel palco d’onore insieme a una figlia di Andrea Camilleri, Andreina, di cui Laudadio organizzerà l’anno prossimo il centenario della nascita, da Roma ovviamente e per i premiati, che meritavano tutti, perché davvero si sono visti film magnifici, come sempre dal 2009, in questo Bigf&st che ha reso Bari un po’ Venezia. Alla fine è stato proiettato “Gloria!”, di Margherita Vicario, già cantautrice di fama e ora regista davvero sorprendente, con una storia ambientata nel Veneto ottocentesco e un inedito, ma sempre eccezionale, Paolo Rossi. Grandi applausi anche per lei e un auspicio: che questa splendida avventura del Bif&st continui.

    E segnalo il film, che ha vinto per la giuria popolare, “Il mio posto è qui”, felice mix fra “Una giornata particolare” di Ettore Scola e “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi: lo hanno girato due coniugi, che hanno avuto parole molto belle su questo (“Fare questo film insieme ha rinsaldato ancor più la nostra unione”): Daniela Porto (autrice anche del libro eponimo edito da Sperling&Kupfer) e Cristiano Bortone, con attori straordinari e una Calabria fotografata magistralmente. Ma ci sono stati anche tanti altri film italiani da vedere, di cui molti firmati da registe.

    Nel Panorama internazionale è stato premiato “Gondola” di Veit Helmer, 55enne regista tedesco, come tedesco è il 52enne Kilian Riedhof, autore di “Stella, una vita”, grandioso film sugli anni ‘40 e seguenti del secolo scorso a Berlino, con un’incredibile Paula Beer (già notata in “Ritratto senza autore”), da una storia vera.

  • A BARI UN VERO
    BIG FESTIVAL DEL CINEMA

    data: 22/03/2024 18:02

    Quante emozioni ti regala un festival! Il Bif&st edizione 15, raduna una serie di film che raccolgono pareri discordanti, com’è giusto che sia, visioni che raccolgono il meglio di quanto è uscito negli ultimi anni, che saranno poi sottoposti al giudizio delle due giurie, una per il Panorama internazionale e una per il Nuovo cinema italiano.  La cerimonia finale si terrà domani sera. Per mia scelta (sono o non sono una freelance?) sto seguendo la rassegna internazionale al Petruzzelli, e le mattine sempre nel nostro principale teatro, trascurando in parte il Piccinni e il Kursaal, dov’è un corso una retrospettiva completa di Giorgio Bellocchio, con dibattiti a cui partecipa lo stesso regista, maestro del cinema nostrano e non solo. Ma non tralasciando il Margherita, dove intorno alle 13 si discute con registi e attori dei film che si sono visti il giorno prima. Poi alle 18.30 ci sono le presentazioni di libri; si può consultare il ricco programma allestito dal “vetrinista” (come si è definito lui stesso nel libro “Per chi suona la cultura”, Edizioni Sabinae). Insomma il Bif&st va seguito e scelto dai cinefili; è bello la sera ritirarsi in autobus e sentire i commenti delle persone (specie donne, per la verità, del resto sono anche quelle che leggono di più) sulla giornata.

    Martedì 19 è toccato a “Calladita” (“Zitta”) e “The G”, il primo spagnolo e il secondo americano.  Il regista di “Calladita” del trentunenne regista catalano, Miguel Faus, di Barcellona (ma lavora anche in Gran Bretagna) e il produttore è il barese Carlo D’Ursi. La protagonista Ana (Paula Grimaldo), è colombiana. Un film che segnala un vecchio-nuovo schiavismo, quello delle donne di servizio d’importazione, come quello che dall’altra parte del Mediterraneo, a Beirut, ha illustrato senza che Faus ne sappia nulla (“Lo cercherò”) Wissam Charaf con “Dirty difficult dangerous”. storia di una cameriera etiope resa schiava appunto a Beirut. Ana invece è arrivata sulla Costa Brava dalla Colombia, con la volontà di far studiare sua sorella: ma la vita al servizio di un banchiere, di sua moglie mercante d’arte e dei loro sfaccendati figli è molto pesante (e a rischio costante di licenziamento ed espulsione per un nonnulla) finché, resistendo a un tentativo di stupro da parte del ragazzo e dei suoi amici, Ana s’ingegna a rubare con il suo smartphone tutti i bitcoin del rampollo.

    Un filo rosso sembra legare tutti i film in gara. Infatti di permessi di soggiorno, di lavoro nero e di tragica emigrazione si tratta anche nel film dello spagnolo Benito Zambrano, che tratta la stessa tematica di “Io capitano!” di Matteo Garrone e di “Green border” di Agnieszka Holland. Alla fine di “El salto” di Zambrano molti spettatori erano in lacrime. Un immigrato del Mali, arrivato in barcone in Spagna, viene brutalmente fermato dalla polizia in quanto privo di documenti (com’è successo a Modena pochi giorni fa) e rispedito in Marocco, dove c’è un confine rafforzato da muraglie di filo spinato che i migranti si allenano a superare in otto minuti, rischiando ogni volta la vita, perché intervengono i militi d’ambo le parti coi manganelli e pochi riescono a passare indenni in territorio spagnolo, quando, come dice un immigrato “gli europei entrano in Africa quando vogliono”. Cinema civile, che denuncia ancora una volta una piaga del nostro mondo.

    Karl R. Hearne, canadese, ha presentato “The G”, un’opera di forte impatto, di denuncia anche questa: negli Stati Uniti catturano a viva forza dalle loro case, rapiscono gli anziani che non possono permettersi cure mediche e li trasferiscono in impenetrabili ospizi, spesso tenuti da religiosi, finendo sotto tutela di loschi personaggi collegati a speculazioni edilizie. Ma è qui che entra in gioco Greta, detta “The G” dalla nipote una combattiva settantenne che riuscirà a vendicare l’uccisione del marito e a liberarsi del capo della congiura e dei suoi scagnozzi, un personaggio dantesco o alla Pulp fiction, magnificamente interpretato da Dale Dickey, che avremmo proprio voluto conoscere ma il regista ci ha assicurato che è proprio come nel film. Bravissima.

    C’è stato anche un “heist movie” (sulle rapine), un genere che può piacere come può non farlo, con la storia di Rose Dugdale, una ex terrorista dell’Ira che organizzò un colossale furto di quadri, al fine di riscattarli con prigionieri dell’esercito indipendentista irlandese nel 1974, ripresa dalla coppia inglese (vive in Inghilterra dal 1987 ma è irlandese) Christine Molloy e Joe Lawlor, con riferimenti anche all’attualità (“e purtroppo la Dugdale è morta a 83 anni proprio lunedì scorso, il 18 marzo e avrebbe compiuto gli anni il 25”,  mentre i due registi erano in viaggio verso Bari) viene descritta senza toni retorici ma con agganci al presente.

    Mercoledì è stata la volta di Vincent Perez, divo di cappa e spada, ma adesso regista che ha presentato sia una pellicola del 2016 sia il suo più recente “”Une affaire d’honneur”. “Alone in Berlin” è un film che è stato poco visto. Chi parla di rassegna con sufficienza non sa che il vero ruolo di un festival è riportare alla ribalta anche film che sono stati distribuiti male e non si vedono, riproporre titoli che sono passati ingiustamente inosservati. Il film ricostruisce una vicenda già più volte trattata, ispirata al romanzo di Hans Fallada “Ognuno muore solo”, quella dei coniugi Otto, caporeparto in una falegnameria, ed Elsa Hampel (nel libro e nel film Otto e Anna Quangel), nazisti come la gran parte dei tedeschi nel 1940, quando perdono in guerra il loro unico figlio.  E cominciano il loro personalissimo atto di coraggioso dissenso contro la dittatura del fuhrer, trasformato in bugiardo: Otto scrive delle cartoline, semplici, che posiziona, con l’aiuto della moglie, sui gradini degli uffici pubblici, nelle piazze, sul tram, dovunque insomma possano essere lette e distribuite, per circa due anni. C’è un ispettore che si mette subito sulle sue tracce, forte anche del fatto che le cartoline gli vengono puntualmente restituite dai cittadini ottenebrati dall’ideologia nazista. E lui stesso, quando capisce da criminologo che nelle cartoline vi sono riferimenti a una macchina (“questo è un granello di sabbia che può inceppare la macchina della propaganda”) indirizza le sue ricerche verso una fabbrica. Ma dai suoi criminali capi della Gestapo viene trattato come un intellettuale, un saputello e preso a calci e buttato fuori dalla questura. Il che non rende dissidente l’ispettore anzi lo incattivisce ancor più. Finché accade l’irreparabile: dalla tasca bucata del cappotto di Otto escono delle cartoline mentre è al lavoro ed è facile risalire a lui, che viene ghigliottinato insieme alla moglie, arrestata non ostante la supplica di lasciarla stare. Richiesta non soddisfatta dall’ispettore a cui Otto dice, in risposta a quale fosse il suo ultimo desideri: “Una cartolina e una penna”. L’ispettore finalmente si suicida e disperde al vento le 287 lettere di Otto, meno le uniche diciotto che non furono restituite. Straordinari interpreti: Brendan Gleeson ed Emma Thomson. Ora Vincent Perez è del 1964, ha vissuto in quella “specie di bolla” che è La Svizzera ma suo nonno spagnolo è stato antifranchista e sua madre è tedesca. Quindi “ho conosciuto bene questa storia: anche nella mia parentela c’è stato uno zio gasato in Germania, e a noi che raccontiamo ma in genere a tutti tocca avere molto rispetto della storia dei nostri antenati perché è importante ricostruire il passato. Mi rivolgo soprattutto ai giovani che vedo qui numerosi: non abbiate paura di esprimere liberamente il vostro pensiero, non fatevi mai condizionare da nessuno. Ci sono stati attivisti che hanno accompagnato Perez nella ricerca dei luoghi del set, come una città fantasma situata a metà fra Germania e Polonia, in cui è stato trovato l’appartamento dei due coniugi, quello dove poi l’ebrea Rosenthal, derubata dai vicini e dai giovani nazisti (tra cui un ragazzo a cui lei offriva sempre da piccolo delle fette di torta di mele) si getta dalla finestra.

    Stessa emozione per quegli anni terribili ha suscitato la visione delle “Quattro giornate di Napoli”, che Nanni Loy firmò nel 1962, un film che dovrebbero vedere tutti, di come Napoli si ribellò e resistè all’avanzata nazifascista subito dopo l’8 settembre, in un’insurrezione collettiva, un film davvero grandioso.

    Un afflato poetico avvolgente e ipnotico permea tutta la pellicola in bianco e nero del regista olandese Jos Stelling , dalla vaga aria ungarettiana, che ha sorpreso gli astanti dicendo che questa è la storia della sua vita. La prima parte di “Natasha’s dance”, annunciata da nuvole in movimento e tempesta di fulmini, racconta di Dantjie, unico figlio (in camera da letto troneggia il ritratto della famigliola, come una trinità) di una coppia sui generis, con il padre commerciante e melomane (ma anche tabagista e incallito traditore) e la madre; il bambino non parla ma osserva tutto, davanti al medico riacquista la parola e si decide che vada a scuola. Ma non va bene, lo picchiano e la mamma lo tiene con sé; infine il padre ha un colpo apoplettico, la madre si risposa e Dantjie finisce in collegio finché resta orfano del tutto per un incidente che coinvolge il patrigno e la madre. Nella seconda parte ritroviamo Dantjie cresciuto, che si mette in viaggio con un’affascinante russa, Natasha appunto, che aveva sposato un olandese molto ricco ed era stata piantata per una donna più giovane, quindi ha fatto la cameriera e ora vuol tornare in Russia (l’attrice, Anastasia Weinmar è di Pietroburgo, molto espressiva): si sposta a est dunque con Dantjie  e lì tutto si svolge proprio come in una favola che la madre raccontava al piccolo. Il tutto sull’onda dell’infanzia da ballerina (mentre una ballerina vera, Eleonora Abbagnato, è protagonista del documentario di Irish Braschi: “Una stella che danza”, in anteprima mondiale) e di una colonna sonora strepitosa, tutta classica.

    Brani d’opera (“Un bel dì vedremo” dalla Butterfly soprattutto) legano anche il sorprendente lavoro della giovane (37 anni) ma già di levatura internazionale regista di Sannicandro Garganico, Grazia Tricarico: “Body Odyssey” con Jacqueline Fuchs, una bodybuilding il cui corpo viene scrutato in allenamento (con il suo coach, ultima interpretazione di Julian Sands, disperso e poi morto nel gennaio dell’anno scorso tra i monti della California) e anche, come fosse una sirena, in riprese subacquee (oggi è la giornata internazionale dell’acqua e ci sta), nelle profondità di un lago svizzero, film che ha lasciato sconcertati molti (c’è chi lo ha trovato pretenzioso) ma che rappresenta invece un tema originale ed esteticamente poi è molto convincente, oltre allo sguardo verde acqua della protagonista, delusa nel suo sogno d’amore.

    E poi c’è tanto altro: per esempio “E tu slegalo”, dedicato a franco Basaglia, del barese Maurizio Sciarra, passato in tv sabato scorso e “C’era una volta il derby Club” che passerà presto in Rai (molto presente con le sue produzioni), di Marco Spagnoli, che presenta i registi con la consueta perizia insieme a Valerio Magrelli e ad altri critici conclamati. O i lavori di Giovanni Princigalli sui rom di Bari. O ancora gli ospiti di Bellocchio, da Piovani a Cancrini (oggi, a conclusione di “Marx può aspettare”, al Kursaal. E Bari sembra proprio il Lido, negli splendidi giorni del Bif&st. Tanto che potremmo anche chiamarlo Bigfest!

  • BIF&ST N.15
    ED E' SUBITO CINEMA

    data: 19/03/2024 23:11

    E siamo a metà percorso del Bif&st, il festival barese del cinema, giunto alla sua quindicesima edizione, sempre con la direzione di Felice Laudadio. Il programma completo è visionabile sul sito eponimo. Una edizione non così ricca come le precedenti ma altrettanto coinvolgente e interessante, con una retrospettiva completa dei film (due pellicole al giorno, con ospiti e commenti dello stesso protagonista) dei film del maestro Marco Bellocchio. Del resto, seguire mille sezioni, con tantissimi film, documentari, anche fiction (come fu qualche anno fa con il cast del Paradiso delle signore) non è proprio agevole, a meno di avere il dono dell’ubiquità.

    Così, per semplificare, voglio esporre la giornata tipo della fan del Bif&st, quando Bari stessa si trasforma in un palcoscenico, seguendo il miglio dei teatri: Petruzzelli, Piccinni, Margherita e Kursaal, tutti vicini e sedi di altrettante rassegne e il Margherita delle conferenze-stampa.

    E dunque per esempio lunedì 18 marzo si comincia alle 9 al Petruzzelli con il film di Giorgio Diritti, “Lubo”, poco meno di quattro ore per quello che sarebbe giusto definire un kolossal, sia pur girato in sole nove settimane. Un film che è uscito a novembre, in contemporanea con “C’è ancora domani”, che ha invaso tutte le sale (grazie a una migliore distribuzione) e che merita un rilancio, perché è davvero un ottimo film con cui il regista Diritti continua, quasi a tener fede al suo nome, a inseguire un discorso di uguaglianza, dignità umana, condanna di ogni discriminazione e della guerra (“un orrendo, inutile massacro”) che fin dall’esordio lo caratterizza, dal “Vento fa il suo giro” che è una pietra miliare nella storia del cinema italiano. Lo zingaro Lubo, interpretato da un eccezionale Franz Rogowski che a dispetto del cognome è romano, è arruolato di forza nell’esercito svizzero (e sì, anche la neutrale svizzera difendeva i suoi confini, s’impara molto qui) e apprende che i gendarmi hanno preso sua moglie (che poi è morta) e rapito i suoi cinque figli, collocati in collegi o dispersi in altre famiglie. Ora, questo in Svizzera è successo realmente: ci sono stati circa 5mila bambini che hanno seguito questa stessa sorte, com’è narrato nel libro di Mario Cavatore (Cuneo, 22 ottobre 1946-14 giugno 2018), “Il seminatore” che si rifà alla reale esperienza di Lubo Reinhardt. Nel 1939 l’opera “Bambini della strada” voleva sradicare i nomadi, togliendo i bambini ai genitori in nome di una “pulizia etnica” allineata al nazismo, come nei fatti nazisti (e pedofili) si rivelano tutti i “benefattori” che Lubo incrocia nella sua vana ricerca dei figli. Su di lui però pende l’assassinio che ha perpetrato a tradimento e violentemente, contro l’uomo che lo aiutava a passare il confine con la Francia e quindi per tutti gli anni successivi seguiamo le sue vicende, fino al 1972, quando questo scandalo venne alla luce in Svizzera (come fosse l’Argentina dei desaparecidos, ma senza generali), mentre Lubo è in carcere per quel suo lontano delitto. Un film che va rivisto, e che si distanzia dal romanzo, alla luce proprio della sua valenza politica. Diritti e Valla, gli sceneggiatori, hanno puntato più sul riverbero del male che un delitto comunque provoca (e il volto ambiguo dell’attore avvalora questa tesi) che non sulla volontà “d’inseminare il maggior numero possibile di svizzere, per rispondere alla politica eugenetica con un gesto eguale e contrario” com’è nell’intento del romanzo di Cavatore. Comunque la condanna di questo sopruso enorme e ingiusto c’è tutta, come pure nella scoperta del ragazzo adottato da un commerciante della sua pedofilia, esercitata sull’ultimo figlio di Lubo fotografato nudo. Il film è stato girato fra Bellinzona, Zurigo, il Canton Ticino e il Piemonte; ha una ricostruzione d’epoca perfetta e non si capisce proprio come mai “Filmtv” lo abbia stroncato nel novembre scorso, va assolutamente riscoperto (tra l’altro in Svizzera deve ancora uscire). Perché i luoghi, ha sottolineato Diritti, sono importanti, forgiano il nostro modo di essere, per esempio in Puglia, ha detto, basta camminare per strada per accorgersi che è proprio una città mediterranea, con il suo miscuglio di colori e caratteri del volto.

    Questo soffermarsi sui luoghi ha caratterizzato anche il discorso di Micaela Ramazzotti, che sabato ha presentato il suo “Felicità”, un’intensa storia di una famiglia che si vorrebbe alternativa (non foss’altro per il padre, Max Tortora, guitto delle tv private) ma che in realtà non sa affrontare i figli oltre al banale “devi annà a lavorare” finché si ritrova alle prese con la dipendenza dalle droghe del figlio a cui solo la sorella (Desiré, la stessa Ramazzotti) riesce a dare un aiuto concreto. L’attrice, per la prima volta dietro la macchina da presa, ha dimostrato una sapienza e una bravura davvero rimarchevoli in questo suo esordio. Il personaggio più brutto è senz’altro quello di Bruno, ritratto con femminile spietatezza: il professore universitario interpretato da Sergio Rubini, infatti, è pronto a fare la morale alla famiglia della sua compagna che lascia però in favore di una sua alunna più giovane e borghese. Ecco, per Ramazzotti i luoghi della periferia coatta di Roma che lei conosce bene sono essi stessi parte della storia. Come per Diritti, i posti di confine e la solo apparentemente pacifica Svizzera.

    Nello stesso torno di tempo al teatro Piccinni, per la sezione Cinema&scienza, si proiettava il doc di Marco Spagnoli: “Spazio italiano-Dalle origini al progetto San Marco”, con un incontro con Giovanni Sylos Labini di Planetek Italia e di Luca Del Monte dell’Esa.

    E’ tempo delle conferenze stampa, alle 13 al Margherita: ci sono Neri Marcorè e Agostino Saccà, regista e produttore (per Raicinema) di Zamora, che ha avuto molto successo domenica, e il regista di Retour en Alexandrie, Tamer Ruggi, che concorre per la sezione “Panorama internazionale”. Il film, con protagoniste Fanny Ardent (un’habituèe barese) e Nadine Labaki, tratta del ritorno di una figlia in Egitto, dove risiede la madre, tra fantasmi e allucinazioni. Stranamente ripresi, questi ultimi (quasi un “fil rouge” che leghi un po’ certi film) in “Sotto il tappeto” o meglio “Sous le tapis” dell’esordiente (ma già attrice di lungo corso) Camille Japy che affronta in modo originale e poetico il tema del lutto, in maniera diversa dallo scioccante “Captain Fantastic”, dirigendo una masnada di ragazzini in modo davvero eccelso e rifacendosi, involontariamente, anche all’ultimo romanzo di Nathalie Nothombe.

    Questo film era al Petruzzelli, sempre lunedì, e in precedenza avevo visto “Il gabbiano”, in un’edizione diretta nel 1977 da Marco Bellocchio con Remo Girone giovanissimo. Alla fine ne hanno parlato il regista con Nicola Piovani, soffermandosi sulle colonne sonore, sulla scelta dei luoghi, e sulla decisione di aderire in tutto al testo di Cechov.   La serata si conclude con “La contadora de peliculas” al Petruzzelli, ambientato nel deserto di Atacama, in Cile, uno scenario senz'altro suggestivo. Ma non per me, tre film al giorno sono sufficienti.

  • PREMIAZIONE DEGLI OSCAR
    UNA CERIMONIA SOBRIA
    ALL’INSEGNA DEL PACIFISMO

    data: 11/03/2024 19:45

    Una cerimonia sobria, ben diretta dal conduttore (sopra le righe in certi punti), su Raiuno trasmessa fino all’incoronazione del film vincitore “Oppenheimer” (quasi tre ore di pellicola e non sentirle), con un doppiaggio finalmente privo di birignao, anche se Matano, forse emozionato, non era molto a suo agio. Ho apprezzato molto i discorsi di certi autori, efficaci, diretti, privi di retorica. Se “War is over”, cantava John Lennon e s’intitola il corto (undici minuti) premiato e dedicato a questa canzone, col figlio Sean che saluta la madre Yoko, come hanno fatto in molti poiché il 10 marzo in America e nei paesi di lingua anglosassone è la Festa della mamma, suona attuale perché purtroppo la guerra non è affatto superata, sono stati due in particolare i registi che lo hanno sottolineato. Unico momento un po’ allegro: quando John Cena è apparso vestito solo di un cartello sulle pubenda, a ricordo dell’insegnante d’inglese americano, Robert Opel, che apparve 50 anni fa nudo alle spalle di uno sconcertato David Niven, guadagnandosi così i cinque minuti di celebrità.

    Jonathan Glazer, regista inglese della “Zona d’interesse” ha ricordato l’attuale conflitto in Medioriente, segnale di “disumanità da una parte e dall’altra”, palestinesi e israeliani (non ha dimenticato l’attacco del 7 ottobre, da cui tutto è iniziato; anche se a Los Angeles ci sono state manifestazioni, ha detto l’inviato Paolo Sommaruga, pro Palestina). Del resto il suo film (tratto da un romanzo di Martin Amis) che ritrae una vita agiata, intenta a coltivare il proprio giardino, al confine con un campo di sterminio, Glazer ha detto più volte come non si riferisca solo agli anni Trenta del secolo scorso ma suoni come un avvertimento. Purtroppo è così: fatte le debite differenze, anche oggi ci sono i macelli dove vengono sterminati milioni di animali innocenti come i neonati agnelli. E le “zone d’interesse” sono ancora tragicamente attuali, zone limitrofe alle stragi. Il discorso di Jonathan Glazer va riportato per intero, perché è perfetto. Dopo aver ringraziato l’Istituto polacco di cinematografia e il Museo statale di Auschwitz, Glazer ha detto, mentre la sua attrice protagonista era inquadrata commossa alle lacrime (e non era la sola): “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e interrogarci nel presente, non per dire ‘guarda cosa hanno fatto allora’. Piuttosto, guardiamo cosa stiamo facendo adesso. Il nostro film mostra a cosa porta , nel peggiore dei casi, la disumanizzazione. Ha plasmato tutto il nostro passato e il nostro presente. In questo momento siamo qui in qualità di uomini che rifiutano che il nostro essere ebrei e l’Olocausto vengano strumentalizzati da un’occupazione che per tante persone innocenti ha portato al conflitto – siano esse le vittime del 7 ottobre in Israele o dell’attacco in corso a Gaza. Tutte vittime di questa disumanizzazione. Come possiamo resistere? Alexandria, la ragazza che brilla nel film come nella vita, ha scelto di farlo. Dedico questo premio alla sua memoria e alla sua resistenza”.

    “Vorrei non aver mai fatto questo film, avrei voluto che la Russia non avesse mai attaccato il nostro territorio, ma non posso cambiare il passato, però più persone possono fare in modo che questa storia venga raddrizzata, che le vittime di Mariupol non vengano mai dimenticate”: toccanti le parole del regista ucraino del miglior documentario, “20 giorni a Mariupol”, Mstyslav Chernov (che parlava anche a nome di Michelle Mizner e Raney Aronson-Rath, reporter dell’Associated press, coautori, con lui sul palco) che tratta dell’aggressione russa (“operazione speciale”) dell’Ucraina che ha ormai superato il giro di boa di due anni. In cambio della pace i registi ucraini premiati scambierebbero volentieri il loro Oscar. Il cinema è storia, serve a narrare, a rimarcare, a non obliare.

    Anche Cillian Murphy, miglior attore protagonista per “Oppenheimer”, 47enne attore irlandese, ha detto che dedica la sua statuetta ai cercatori di pace, lui che nel film di Christopher Nolan, uscito vincitore assoluto da questa 96esima edizione degli Academy Awards, è “un distruttore di mondi” mentre Robert Downey Jr. (miglior non protagonista maschile, eccezionale contraltare dello scienziato nei panni del generale Lewis Strauss, che prima lo esalta poi lo distrugge cacciandolo dalla Commissione per l’energia atomica, dando inizio alla guerra fredda con l’Urss) ha fatto un discorso personale, tirato in causa dal presentatore Jimmy Kimmel, invero crudele nel ricordargli il passato di tossico. Ha detto, Downey Jr, di ringraziare la sua infanzia disgraziata e ha ringraziato la sua veterinaria, la moglie, che lo ha raccolto come un randagio ringhioso. Veramente straordinaria la sua prova, giustamente premiata.

    Così come subito è salita sul palco la divina (un po’ come la Mami, Hattie McDaniel, di Via col vento) Da’Vine Joy Randolph, trentasettenne di Filadelfia, unica allieva di colore in una classe di bianchi, come ha ricordato, cantante ma anche attrice su suggerimento della madre: “Grazie per avermi vista” ha detto, lei che è un’attrice sublime (Oscar per la non protagonista nel magnifico film di Alexander Payne “The Holdovers”, gli emarginati, gli avanzi, dove fa la cuoca di un collegio esclusivo di Boston).

    Gli effetti speciali sono andati a Godzilla Minus One, di Takashi Yamazaki, sul palco insieme ai suoi collaboratori tutti con il pupazzo in gomma del temibile gorillone che ha compiuto 70 anni, così come il miglior film d’animazione è andato a “Il ragazzo e l’airone” del maestro documentario Hayao Miyazaki.

    Il ricordo dei trapassati quest’anno è affidato alla canzone “Con te partirò” dei Bocelli padre e figlio (unici italiani in evidenza), Andrea e Matteo.

    Come da previsione, molti premi per “Poor things”, il film del regista greco Yorgos Lanthimos (già scelto a Venezia col Leone d’oro), fino alla prima attrice, Emma Stone che raggiunge un primato già di Meryl Streep o di Liz Taylor: ovvero due Oscar entro i 35 anni. Oscar per trucco e parrucco (beh, solo a vedere come hanno trasformato Willem Dafoe), scenografia (quegli intarsi di legno sulla nave…), costumi (Holly Waddington si è presentata con un vestito molto alla Baxter, con ampie maniche goffrate)l. Sul film, dico solo che il titolo originale è più appropriato di “Povere creature”, perché “cose, things” sono state, nella narrazione del film (tratto da un libro di fantascienza del 1992 dello scrittore scozzese Alasdair Gray, scomparso il 29 dicembre 2019, il giorno dopo il suo 85esimo compleanno) le persone, compresa Bella Baxter, alla mercè del patriarcato, dello sperimentalismo scientifico, dell’educazione repressiva, degli ormoni, fino a un lento e auspicabile riscatto, non per tutti però (vedi la “gemella” di Baxter). La Stone è stata presentata da un’entusiasta Sally Field.

    Il cane Messi, attore principale in “Anatomia di una caduta”, è diventato inevitabilmente (ha anche applaudito) la mascotte della serata. Il film premiato con l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, è stato scritto dai coniugi Justin Triet e Arthur Harari durante il lockdown.

    Il documentario breve premiato è stato “The last repair shop” di Ben Proudfoot e Kris Bowers, sulla divulgazione musicale e il dono di strumenti musicali ai ragazzini che vogliono studiarli, come la piccola violinista di celeste ammantata: avremmo voluto sentirla.

    Piccola nota di colore: quasi tutte le donne indossavano scarpe che andranno per la maggiore, le Mary Jane di vernice nera, la cantante premiata per la canzone Billie Hailish anche con calzini bianchi, ma look tutto sommato non eccessivi, hanno puntato piuttosto sui gioielli. Anche gli uomini, quasi tutti elegantissimi e con una spilla di diamanti sul bavero, come Ben Kinsley.

    Peccato per gli esclusi (ovvio, Garrone) ma c’erano film molto belli (compresi il premiato per la sceneggiatura “American fiction” di Cord Jefferson, o “Killers of flower moon” di Scorsese con la grande Lily Gladstone, su Prime video o “Maestro” di Bradley Cooper, attore e regista fantastico, su Netflix) che si possono recuperare facilmente. Quanto a “Oppenheimer” serve comunque da monito contro la bomba atomica e va visto insieme al formidabile “Dr Stranamore” di Stanley Kubrick: maledetta fu quella bomba e tutte le altre che ancora esplodono in tante, troppe parti, di quest’”atomo opaco del male”.

  • "COMPAGNI AL FLACCO"
    STORIE DI PERSONAGGI
    DEL LICEO E DI BARI

    data: 28/02/2024 23:01

    Questo è un libro straordinario. Lo dico senza remore, lo ha pubblicato Adda, meritoria casa editrice barese, ormai sei anni fa ma merita di essere riscoperto e valutato nel suo giusto valore. Consta di 255 pagine, ha molte foto e costa 20 euro. Lo ha messo insieme come un collage e con grande amore, Lorenzo Liberti, professore universitario di chimica e raffinato scrittore. Si tratta di un memoir, allora già vedo le facce di chi esprime noia al riguardo, nostalgia canaglia, riguarderà solo lui e pochi altri, di cosa mai si tratta? No, cari miei, non è un semplice memoir: è un vero e proprio libro di storia, di quelli che mancano spesso nelle biblioteche e di cui si sente la necessità, soprattutto in città come Bari che hanno avuto un ruolo centrale in particolari momenti della storia, che non sono mai state provinciali e la cui vita vissuta riserva delle sorprese ai suoi stessi distratti abitanti. 

    “Compagni al Flacco 60 anni fa” s’intitola e di anni ne sono passati ora 66 ma non importa: intere generazioni di alunni del prestigioso liceo classico pubblico cittadino, che l’anno scorso ha compiuto 90 anni, si possono ancora riconoscere in quegli ex ragazzi ma soprattutto possono leggere le storie di personaggi non solo del liceo ma della città tutta. Come Peppino Laterza, che presidiava la sua libreria, allora in via Sparano, e riusciva con abilità levantina a vendere intere enciclopedie per esempio a un nuovo ricco che aveva necessità di arredare la sua stanza di lettura. Si apprende di villa Laterza, purtroppo abbattuta come molti edifici pur storici sopraffatti dalla speculazione edilizia sempre molto attiva a Bari, in corso Sicilia (oggi Croce), dove il filosofo se ne calava da Napoli molto spesso e vi trovava il professor Michele D’Erasmo che a Napoli aveva studiato e si era laureato, anche se di Napoli non apprezzava l’”ammuina”, pur recitando in aula con quella sua voce profonda e seducente “A’ livella” di Totò e tanto altro. D’Erasmo, che figura indimenticabile! Anch’io l’ho conosciuto, nel suo ultimo periodo d’insegnamento e questo libro è pieno di ricordi e di notizie su di lui. E getta degli interrogativi: ecco questo volume, che ha i contributi di illustri alunni del liceo Quinto Orazio Flacco, confidenzialmente Flacco, può dare vita ad altri libri, storici e sociologici. Non tutti sanno infatti che Radio Bari, fondata durante il fascismo (del resto la radio stessa si deve a Guglielmo Marconi) diventò un presidio di democrazia e fu proprio il professore di Lettere e latino, Michele D’Erasmo, ad adoperarsi dai suoi microfoni per organizzare a Bari, al teatro Piccinni, il primo Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale Antifascista, il 28 e 29 gennaio 1944, ricordato a 80 anni dal suo svolgimento a gennaio scorso, con l’intervento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Gli alleati erano incerti se indirlo a Bari, altre località in ballo erano Salerno e Napoli. Ma per farlo tenere a Bari, D’Erasmo, importante esponente del Partito d’Azione (antifascista e antimonarchico), in linea con il suo carattere beffardo e sornione, fa annunciare che non si sarebbe svolto più, suscitando l’ironia dei tedeschi, sempre in ascolto e pericolosamente ancora in agguato sulla stessa radio (in via Putignani) presidiata appunto dal professore insieme ai suoi colleghi Giuseppe Bartolo e Fabrizio Canfora, al quindicenne Paolo Laterza (poi editore) e facendo decidere per lo svolgimento in città di quel fondamentale Congresso. Ricordiamo che solo il 2 dicembre precedente, nel 1943, il porto di Bari aveva subito un attacco terribile da parte della Lufwaffe, che in una notte di luna piena aveva attaccato le navi alleate, fra cui la Harvey carica di iprite (la Pearl Harbour del Mediterraneo…).
     
    Poi D’Erasmo si allontanò dalla politica, ricevette dei non meglio precisati torti come si evince dalla lettera a lui rivolta da Tommaso Fiore, lo stesso Partito d’Azione sparì e comunque il Professore (ci va la maiuscola, per questo luminare dell’insegnamento!) restò nei decenni successivi un pilastro della vita intellettuale e culturale barese, spaziando dalla letteratura alla musica, fino alla sua scomparsa (era nato a Sannicandro di Bari il 14 agosto 1911 e spirò a Bari il 16 marzo 1997); diresse infatti la Fondazione Piccinni, ma soprattutto continuò a insegnare, riproponendo alle varie generazioni i suoi cavalli di battaglia: Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Leopardi, Saffo, Apuleio, Proust (che saccheggiava a man bassa), Maupassant, accogliendo le sue damigelle (cioè noi) con affetto e burbera autorevolezza, come quando ci espose il suo ricco programma di studi e se qualcuna ne fosse stata spaventata (era una classe femminile quella volta, la sezione E), ebbene lui  ci avrebbe aiutate…a cambiare sezione.
     
    Chi invece continuò la sua attività politica, fino ad essere per un ventennio deputato alla Camera per il Pci, fu il professore di Storia e filosofia Renato Scionti (nato a Firenze il 15 settembre 1909 e morto a Bari il 29  luglio 1985), altra mitica figura a cui sono dedicate le pagine 87-102 di questo prezioso volume. Questi professori, si capiva che avessero un passato importante, da raccontare ma non ne facevano mai cenno; si era ben lontani alla mia epoca dal “personale è politico”. Scionti per esempio declamava le sue lezioni, perfette al punto che dagli appunti si potrebbe benissimo ricavare un libro, orazioni che non avevano proprio nulla da invidiare a quelle di docenti universitari (anzi, dopo aver avuto professori di questo calibro, come Dionisio Altamura, che sapeva il greco antico come l’italiano, e vinse molti concorsi internazionali come quello che si teneva in Olanda, o come Maria Parmigiani allieva di Enrico Fermi, l’università fu ben deludente), senza mai far cenno al suo passato. E invece la sua vita è stata un romanzo: certo, sapevamo che aveva meritato la medaglia d’oro della Resistenza, cercavamo di intuire cosa vedesse oltre lo sguardo celeste dei suoi magnifici occhi, eravamo ammaliate dalla sua voce dal mai perso accento toscano e facevamo mille congetture ma lui mai ci parlò di sé, della sua epopea che apprendo da questo libro adesso. Grazie Liberti, ancora una volta. Bari gli ha dedicato una via, secondaria però come per Nino Rota, il muscista milanese voluto a Bari da D’Erasmo, quando per interi rioni (Poggiofranco ad esempio) sono preferiti papi e cardinali. E anche molte professoresse, come Elvira Cagnazzo Tatulli che ha instillato l’amore per l’arte in tanti baresi (magari non prevalenti rispetto agli altri che dell’arte se ne infischiano), meriterebbero intestazioni di strade. Se posso aggiungere una nota, Scionti ebbe tre figli (era a Como nei giorni della fine della dittatura, i genitori erano i siciliani, visse in Toscana, studiò a Roma, insegnò anche a Pola e poi giunse a Bari dove si sposò) e non due, come viene riportato, ma è un altro dettaglio di come questo libro possa generarne ancora altri.
     
     In finale ci sono i ritratti degli ex alunni di quell’anno lontano, di cui si espone anche il contesto: com’era il clima a Bari nel 1956-57 (quando cominciò l’avventura liceale di questi ragazzi, sempre tali nello spirito, infatti sono ancora amici, si ritrovano puntualmente, organizzano cineforum, gite, ecc.), che cosa si faceva nel mondo, quali dischi si ballavano. Un ritratto storico davvero prezioso. E i nomi non li faccio, proprio perché non solo i nipoti (ormai) dei protagonisti, ma anche i baresi tutti siano spinti in libreria a cercarlo questo libro, a consultarlo, a leggerlo. Tranne per il suo meritorio curatore, Lorenzo Liberti, diplomatosi nel 1960, laureato in Chimica industriale a Bologna e poi ricercatore all’Irsa, “dove per 20 anni ho condotto con passione ricerca applicata su ‘water for world’s thirst’, girando il mondo per studio e lavoro” e che ancora adesso, a Bari, dove ha insegnato al Politecnico, è pronto a raccontare aneddoti e fatti storici di quell’epico lustro. Perché il Flacco non si dimentica mai.

  • LA VERGOGNA E'
    RIVOLUZIONARIA: 2 FILM
    DI DIVERSA UMANITA'

    data: 12/02/2024 23:10

    Recuperateli, cercateli, vedeteli: non posso consigliare altro. Sono due fondamentali film di due cineaste, una giovane l’altra più in età, completamente opposti eppure con qualcosa in comune: uno sguardo intenso, artistico, partecipe, un’autentica empatia con quanto viene rappresentato. E’ tutto vero e nel contempo sembra tutto così assurdo. Da una parte il libero associarsi di persone in un territorio ai confini di due grandi nazioni; dall’altra ancora un confine ma segnato dal filo spinato, dall’assurdità degli uomini che, vivendo su uno stesso pianeta, hanno pensato male di dividerlo in confini, in nazioni, in modi di odiare il prossimo.

    Sono entrambi vicini al documentario ma sono di più di questo, proprio perché filtrati dal pensiero delle autrici. Il risultato è esemplare, si tratta di film che tutti, e specialmente le isituzioni, dovrebbero vedere. 

    Il primo è “Last stop before Chocolate mountain” di Susanna Della Sala: la regista (ora 36enne, ma quando ha cominciato a girare questo suo lavoro non aveva ancora 30 anni. Il suo film è uscito un paio d’anni fa, è stato presentato l’anno scorso a Locarno, sta girando adesso l’Italia; è stato a Bari, a Roma, al Festival dei popoli di Firenze, raccogliendo premi e successo ovunque). Vi si racconta l’incredibile convergenza di personaggi, da Tao Ruspoli, 48 anni, eclettico artista, ex marito dell’attrice Olivia Wilde, figlio di Dado ispiratore della Dolce vita felliniana (e molto ricorda Fellini qui) a Sonia, una donna fuggita con i figli dal marito violento e giunta in questa terra desolata, ai confini col Messico, ai bordi di un grande lago artificiale, teatro di esperimenti nucleari che lo hanno contaminato, tant’è che di tanto in tanto suona l’allarme-inquinamento. Salten lake, prima dell’arrivo degli artisti e dei freak che ora lo popolano, era noto come la “baia delle bombe”, non esattamente un luogo attrattivo. Ma sarà stata l’aria, sarà il suo essere lontano dal mondo, quella linea di confine attraversata solo da treni-merci, sarà il potere salvifico dell’acqua, quel monte in lontananza dal nome suggestivo, l’idea di sentirsi qui protetti e al di fuori da qualsiasi burocrazia, ecco che pian piano, da centro residenziale per gli scienziati atomici che nel corso degli anni lo hanno abbandonato, questo posto è stato invaso da una serie di personaggi che hanno dato vita a un esperimento sociale davvero unico e interessante, in pace e in nome dell’arte, dalla musica alla scultura alla pittura alla ceramica ecc. In realtà viene in mente un precedente in Calabria, nella Riace di Mimmo Lucano o in certi paesini sardi scenario di murales. Intanto qui, nella California degli ex figli dei fiori, in una sorta di “buen retiro”, c sono questi personaggi (e altri via via se ne aggiungono), fra cui Adam, il figlio di Sonia che ha passato 20 anni in carcere avendo compiuto otto rapine alle banche e adesso è qui, in questa Bombay Beach – così si chiama il villaggio, ribattezzato così da Tao Ruspoli – che corre in bicicletta come un dodicenne e dipinge su qualsiasi superficie, tanto da essere quotato e seguito dalla macchina da presa partecipe di Della Sala, a sua volta disegnatrice geniale. Ma non è il solo Adam a essere colto dallo spirito dell’arte in questo luogo apparentemente squallido, perché a poco a poco, nel corso degli anni, Bombay Beach, profonda California, quasi deserto, è stata raggiunta da una folla di persone che hanno vissuto ai margini della società opulenta americana, e che qui hanno trovato un senso alla loro vita, riuscendo anche a creare un festival artistico che si tiene con regolarità ogni anno e che richiama migliaia di visitatori. La stessa Della Sala è giunta qui per caso, perché certamente Bombay Beach è fuori da qualsiasi itinerario turistico: “Mia sorella Linda (che ha composto delle musiche per il film) aveva partecipato a un tour di Italianidifrontiera, il sito creato da mio zio Roberto Bonzio per visitare e conoscere la Silicon Valley, e poi si è fermata a San Francisco; io l’ho raggiunta, ho conosciuto Tao Ruspoli e ho visitato per la prima volta Bombay Beach. Di lì l’idea del film, girato in tre mesi ogni anno, dal 2018, anche con una raccolta-fondi a cui ha contribuito pure una società di Bari, la Wehobo, e ora c’è il portarlo in giro, il distribuirlo, anche se su qualche piattaforma lo si trova: ogni volta una bella esperienza”. Susanna Della Sala, con questo cognome così profetico, come nasce regista? “E’ stato un giro un po’ tortuoso: sono laureata in Architettura, ho sempre disegnato, sono anche illustratrice di libri e fumettista. Da Pavia, la mia città, mi sono iscritta al Centro sperimentale di Cinematografia a Roma, dove vivo adesso, seguendo i corsi di Scenografia ma appassionandomi alle riprese, al lavoro di regista che è ciò che faccio ora stabilmente”. A Bombay Beach il film, della durata di circa tre ore, è stato proiettato l’anno scorso, ci sono le reazioni degli abitanti nella versione definitiva che registra la loro incredulità: “Chi doveva mai dircelo che saremmo diventati un polo d’attrazione delle arti, che avremmo tenuto qui una mostra annuale”. E questa carovana (Fellini docet) di eclettici protagonisti del vivere, si conclude con un bagno rituale nel lago, a cui ha partecipato la stessa regista. Si tratta di una visione magica, dai tenui colori celeste e rosa (fotografia magnifica), con un’attenzione ai particolari da pittrice, da miniaturista. A quale film sta lavorando ora? “Una storia tra madre e figlia, dai risvolti psicologici interessanti”.

    Passiamo ora a “Green border”, film della regista polacca Agnieszka Holland (classe 1948), gran premio della giuria a Venezia (ma avrebbe meritato senz’altro il Leone d’oro): qui il confine è molto più tragicamente quello fra Bielorussia e Polonia, in mezzo alla foresta più fitta, dove un esiguo numero di migranti viene rimpallato da un Paese all’altro manco fossero, appunto, palloni. Con soldati di frontiera crudelissimi d’ambo le parti (a un’afgana assetata svuotano per puro sadismo una bottiglia d’acqua per terra pur di non dargliela, anche se chiedono soldi per tutto) e con la delusione, il dolore, le perdite dall’arrivo in Bielorussia con aereo di linea offerto dal governo (ed è gente disperata che arriva dall’Africa, dalla Siria, dall’Afganistan) e il ritrovarsi nel buio e nel gelo della foresta (il film è in bianco e nero tranne per l’inquadratura iniziale di tutti quegli abeti giganti verdi), all’addiaccio, senza viveri né acqua, senza la certezza di essere presi per il promesso trasbordo in Svezia dove vivono parenti già fuggiti alla dittatura siriana o ad altri dispotismi, stranamente dimenticati dalle proteste sempre così attive solo contro uno stato che comincia con I e non è l’Iran. Un bambino viene inghiottito dalla fanghiglia della palude orrenda che nasconde questa foresta insidiosa, una donna afgana testimone di questo delitto dell’incuria e dell’odio fra popoli sparisce senza lasciare traccia, proprio lei che era fiduciosa nell’Ue, lei che ripeteva sempre che il fratello, ora al sicuro negli Usa, aveva combattuto a fianco di polacchi che si erano comportati bene con lui a Kabul, adesso invasa dai talebani, così come la Siria è in preda all’Isis che butta gli omosessuali dai palazzi. La povera Leila aveva fiducia nell’Europa unita: invece la Polonia, paese Ue, tratta questi profughi come rifiuti, li caccia verso la Bielorussia e li bastona disumanamente, tanto che il nonno della famigliola ritratta ne muore davanti agli occhi del figlio che non può far nulla per soccorrerlo. Il richiamo all’Europa fatto da Julia, una “strizzacervelli” che decide dopo un arresto ingiustificatissimo di aiutare gli attivisti (ce ne sono, per fortuna), provoca una sonora risata in una ragazza che si prodiga, con pochi altri, di aiutare questi poveri dannati della terra.

     Alla proiezione, in una sala gremita, domenica sera a Bari, erano presenti, imbastendo un breve dialogo fra loro (niente dibattito), il candidato sindaco e promotore della “Giusta causa” Michele Laforgia, la docente di Diritto internazionale Marina Castellaneta e il critico cinematografico Angelo Ceglie. Laforgia si è detto devastato da questo film e ha fatto riferimento a un libro del filosofo francese Frédéric Gros “La vergogna è un sentimento rivoluzionario” (Nottetempo), citazione da Marx, a indicare come il male “in questo film siamo noi che guardiamo: siamo noi, con il nostro voto, che determiniamo che esistano governi liberticidi come quello polacco. La differenza fra la vita e la morte sta nella Politica – ha scandito Laforgia – e abbiamo un  modo per esprimerci: il voto. La matita elettorale. Sta a noi, che assistiamo a questo scempio dell’umanità senza reagire, dicendo e dicendoci che tanto non possiamo cambiare nulla, che non sta a noi, cambiarle, invece, le cose, con il voto e il film della Holland mostra chiaramente cosa succede quando viene meno il diritto-dovere dell’umanità, dell’essere benevoli ed empatici verso il nostro prossimo. Non è consentito stare solo a guardare. Guardare e basta è male. Bisogna vergognarsi e attivarsi per cambiare le cose. Soprattutto con la politica”.

  • 80 ANNI DAL CONGRESSO
    DEI COMITATI DI
    LIBERAZIONE NAZIONALE

    data: 30/01/2024 21:08

    Una visita a Bari, lunedì 29 gennaio 2024, del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per un evento importante, che negli anni scorsi venne ricordato con altrettanta solennità, non pare al telegiornale principale, quello del TG1 Rai, almeno alle 13.30, degna di cronaca. Né della presenza di qualche ministro, ma soltanto del viceministro barese alla Giustizia Francesco Paolo Sisto.

    Si trattava di ricordare gli 80 anni dal Congresso dei Comitati di liberazione nazionale, svoltosi al teatro Piccinni il 28 e 29 gennaio 1944, nella città appena liberata dal giogo nazifascista. Il presidente è arrivato verso le 10 e non ha parlato, si è accomodato in prima fila, nel Piccinni gremito da autorità e da scolaresche rigorosamente selezionate, (mentre tutto l’isolato è stato bloccato: la folla è stata tenuta fuori da questo evento), e ha ascoltato come tutti gli interventi del sindaco di Bari, Antonio Decaro, del presidente dell’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani, Gianfranco Pagliarulo e del presidente della Regione, Michele Emiliano, che ha sottolineato la natura antifascista della Repubblica e ha citato il valore della famiglia Laterza (presente nel “palco reale”), l’editrice di Benedetto Croce che quel Congresso diresse. A concludere i tre interventi sul palco, il professor Luciano Canfora, che ha ricostruito i lavori di quel Congresso e del ruolo decisivo che vi ebbero le forze antifasciste, sia perché il governo, provvisoriamente affidato al maresciallo Badoglio, non voleva che si riunissero i partiti che fino ad allora avevano lottato contro la dittatura sia perché lo stesso comando alleato, stabilitosi a Napoli, ritenne la città vesuviana troppo vicina al fronte di guerra, ancora dolorosamente attivo.

    Bari dunque, dove c’erano molti esponenti del partito di Giustizia e libertà (tra i quali voglio ricordare il mio adorato professore di Lettere al liceo Flacco, Michele D’Erasmo), il segretario del comitato provinciale di liberazione Michele Cifarelli (suocero di Canfora stesso) e, tra gli altri, Tommaso Fiore, il conte Carlo Sforza (vero oppositore del regime fascista, sin dal delitto Matteotti, da allora in esilio, la sua biografia va studiata), lo storico Adolfo Omodeo, Francesco Cerabona, Eugenio Reale e tanti altri, con l’avallo di Churchill che a Radio Londra diede il riconoscimento mondiale di questo Congresso che pose le basi per la svolta democratica dell’Assemblea costituente e del referendum del 2 giugno 1946, con cui gli italiani scelsero la Repubblica. E ha citato, il professore, seduto a un tavolino d’epoca, con una bandiera italiana attorcigliata sul davanti, ampi stralci del discorso che Benedetto Croce, allora già 77enne, pronunciò quale presidente del Congresso e che ribadiva il culto della libertà che aveva coltivato per tutti gli anni precedenti, fino al sospirato riscatto. Infatti il suo discorso era intitolato: “La libertà italiana nella libertà del mondo”.  Poi, conclusa la locuzione storica di Luciano Canfora, salutato dal suo quasi coetaneo Presidente (in realtà maggiore di un anno, il presidente è nato a Palermo il 23 luglio 1941, Canfora a Bari il 35 giugno 1942), Mattarella, acclamato dagli studenti presenti nei palchi in alto, ha salutato velocemente alcuni dei 33 sindaci presenti, ed è andato via, al Castello Svevo, dov’è stata però impedita la presenza sia del pubblico sia dei giornalisti.

    Il che ha fatto pensare a quanto aveva detto poco prima Canfora, cioè che 80 anni fa il teatro (allora piuttosto annerito dal tempo, mentre oggi risplende restaurato) era pieno di poliziotti americani, inglesi, e di altra nazionalità e isolato per timore di disordini da quello stesso Badoglio che aveva ordinato di sparare ai manifestanti il 28 luglio 1943, quando carabinieri e militari (oltre ai fascisti in via Niccolò dell’Arca) attaccarono e uccisero i baresi che festeggiavano la caduta del fascismo di tre giorni prima. Anche oggi, in sostanza (a causa di motivi di sicurezza senz’altro, in un giorno feriale), il pubblico è stato tenuto fuori da questa ricorrenza, a eccezione degli invitati. Il Presidente poi, con tutto il suo seguito fra cui due imponenti corazzieri, è ripartito subito alla volta del Quirinale.

    In precedenza era stata scoperta nel foyer del teatro una targa commemorativa del giornalista Oronzo Valentini, alla presenza dei suoi tre figli, che hanno donato al Presidente una copia della gazzetta del Mezzogiorno del 30 gennaio 1944, con la cronaca di quel Congresso. E sono state scoperti tre pannelli in terracotta con incise le frasi significative del discorso di Benedetto Croce, opera di Giuseppe Caccavale.

    Al Castello c’è una mostra fotografica che si potrà visitare fino al 24 marzo sulle stragi nazifasciste nella Guerra di Liberazione 1943-45, perché la memoria va esercitata, non è materia inerte, come ha ricordato Emiliano citando lo stesso Mattarella; la storia non si deve dimenticare, anzi va sempre coltivata.

     

    Mi pare doveroso a questo punto ricordare qualche pensiero di Benedetto Croce, senatore del Regno che pure votò la fiducia al governo fascista nel 1922 ma se ne dissociò nel 1925 e da allora cercò di contrastare, invano, la crescente ascesa della rivoltante dittatura. Sono brani tratti dal suo diario, pubblicati da Adelphi sotto il titolo “Soliloquio”. Scriveva dunque Croce il 6 ottobre 1925: “Ho riesaminato ancora una volta per ogni verso la situazione presente; e il riesame mi avrebbe lasciato nella depressione della tristezza, se non mi fossi rammentato di cosa che, da filosofo, ho ragionato, dell’errore cioè di porre i problemi politici in termini estrinseci, scrutando l’Italia e temendo o sperando di lei; laddove l’unico modo di porli è quello personale e morale, che cerca e mette capo alla determinazione del ‘quid agendum’ personale, del proprio dovere. E non mi è stato difficile rifermarmi nella risoluzione, che a me spetti continuare a fare quel che posso fare, qualunque cosa accada. Tutt’al più, se non potrò più pubblicare le mie cose, verranno alla luce postume. E’ dolorosa, senza dubbio, la rinuncia alla società e alla conversazione dei contemporanei e connazionali”. Ma ecco cosa pensava di questi ultimi qualche tempo dopo, il 31 gennaio 1939: “Voglio dire oggi che da più mesi la vita mi si è fatta, assai più che già non fosse, triste e pesante, e più frequentemente di prima debbo raccogliermi a meditare la condizione in cui mi trovo, ed esortare e sforzare me stesso a continuare l’opera mia. (…) E intorno a me altri hanno potuto degnamente lavorare, e ho potuto consigliare e dirigere una casa editrice, rimasta a me fedele (qui si riferisce alla Laterza, ndr), nella scelta dei buoni e serii libri; e da più indizii desumo che tutto questo vario e assiduo lavoro non è stato invano. (…) Ciò che mi opprime veramente è la condizione generale degli spiriti in Italia e fuori d’Italia; la menzogna, la malvagità e la stupidità in cui siamo come immersi e quasi sommersi; gli atroci delitti ai quali si assiste impotenti (come è ora la fredda spoliazione e persecuzione degli ebrei, nostri concittadini, nostri compagni, nostri amici, che per l’Italia lavoravano e l’Italia amavano non più né meno di ogni altro di noi); l’incertezza del domani in ogni sfera della vita, anche in quella privata e familiare; la mancanza di aria aperta in cui pensieri e sentimenti nostri respirino e s’incontrino e scontrino con quegli degli altri; l’indifferenza e l’ignoranza dei cosiddetti giovani, che niente conoscono e di niente si appassionano”. Ecco, in poche righe, tracciato il quadro di un paese sotto dittatura.

  • MATTARELLA A BARI:
    80 ANNI FA IL CONGRESSO
    DELL'ITALIA LIBERA

    data: 25/01/2024 22:21

    Confesso che sono ancora sotto shock dopo la visione de “La Storia”, la magnifica ricostruzione sceneggiata che la regista Francesca Archibugi ha realizzato per Raiuno dell’eponimo romanzo di Elsa Morante. Uscì, il romanzo, nel 1974, lo comprammo e lo leggemmo tutti all’epoca, ma la mia copia Einaudi, si è persa fra i mille libri sparsi per casa, seguendo un po’ la sorte del romanzo che invece va giustamente riletto e riproposto, essendo decisamente un caposaldo della nostra letteratura.

    Ci fu inoltre un primo sceneggiato diretto da Luigi Comencini (la cui nipote, Giulia Calenda, è fra gli sceneggiatori dell’ultima versione televisiva, la cui conclusione è andata in onda su Raiuno martedì scorso), risalente a ormai 38 anni fa, con Claudia Cardinale nella parte di Ida Ramundo, ebrea per parte di madre, stavolta interpretata come meglio non si potrebbe da Jasmine Trinca. E ovviamente restano negli occhi di tutti i figli di Ida Ramundo, Nino e Useppe (e chi non l’ha visto ricorra al più presto a Raiplay). Vi si narrano le tragiche vicende che hanno toccato Roma dal 1938, anno di emissione delle leggi razziali contro gli ebrei, al 1946 ed è ispirato a una storia vera: ci fu l’irruzione della polizia in un appartamento, uccisero il cane che abbaiava contro gli estranei e trovarono lì una donna stordita e il figlioletto morto. 

    Furono anni terribili quelli: e Bari 80 anni fa, il 28 e il 29 gennaio 1944, fu la prima città libera, libera dai fascisti e dalla monarchia fuggiasca, ragion per cui lunedì prossimo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sarà al Piccinni, il teatro comunale dove si svolse il Congresso storico dei Comitati di Liberazione Nazionali, appunto nei due giorni di quell’anno cruciale, il 1944.

     E la prima città a liberarsi dei nazisti, e dei fascisti, fu in realtà la vicina Matera, con un’insurrezione dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, avvenuta il 21 settembre di quell’anno, che costò ben 20 morti, a cui seguirono le Quattro giornate di Napoli, dal 27 settembre in poi. Ma Bari aveva già pagato il suo tributo di sangue alla Liberazione, perché il 28 luglio 1943, in via Niccolò dell’Arca, ci fu una manifestazione antifascista che celebrava la caduta della dittatura del 25 luglio, a cui parteciparono circa 200 persone, che sfilarono sotto la sede del partito fascista: il corteo fu attaccato dai fascisti che spararono dall’alto, dai carabinieri e dall’esercito che colpirono gli inerti in strada alle spalle; la via si riempì di manifestanti in agonia e che non venivano soccorsi, ci furono 20 morti tra cui tre ragazzi di 13 anni, Giovanni Nicassio, Giuseppe Potente e  Francesco Tannarella e fu ferito, fra gli altri, il padre di Luciano Canfora, il professor Fabrizio. Una strage senza precedenti in una città che doveva ancora vedere il peggio. Il 2 dicembre infatti, in una notte di chiaro di luna, la Lufwaffe attaccò con un bombardamento a sorpresa le navi in rada al porto, con morti e feriti e soprattutto l’affondamento della John Harvey, una nave americana piena zeppa di bombe all’iprite, che causarono incendi e devastazioni a lungo termine (l’inquinamento da iprite proseguì per i decenni successivi, con la contaminazione del mare, morti di pescatori e di pesci ancora fino ad anni recenti). Un assalto, quello dei tedeschi che dopo l’armistizio divennero sempre più crudeli in tutt’Italia e all’estero (basta ricordare la strage dei soldati italiani a Cefalonia), fu paragonato a quello giapponese alle Hawaii a Pearl Harbour, contro gli americani. 

    Dunque che un Congresso dei partiti che avevano congiurato fino a quel momento contro il fascismo (Giustizia e Libertà, Partito socialista, Partito comunista, fra i primi), si svolgesse a Bari, al Piccinni, era più che ovvio, anche se in un primo momento si era deciso si dovesse tenere a Napoli, a novembre, ma poi si ritenne la città troppo vicina al fronte e così si decise per Bari. Benedetto Croce, il senatore liberale che pure aveva votato, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, la fiducia al governo del dittatore (illudendosi di frenarne così le frange estremiste che invece ne erano parte costitutiva, intrinseca al fascismo stesso) e che se ne dissociò nel 1925, rimanendo ibernato in un certo senso durante il periodo successivo, ora 77enne pronunciò un discorso, il 28 gennaio: “La libertà italiana nella libertà del mondo”. Partirono telegrammi di adesione alla lotta antifascista verso il presidente americano Roosevelt, il primo ministro inglese Churchill, il maresciallo Stalin, il generale De Gaulle ad Algeri, il maresciallo Chang Kai Sheck, al popolo jugoslavo, al popolo greco. 

    Il resoconto di questo Congresso cruciale fu diffuso dai microfoni di Radio Bari, allora in via Putignani (dove lavorava anche Alba De Cespedes, la grande scrittrice) e fu giudicato da Radio Londra il più importante convegno mondiale da cui doveva partire il riscatto verso la Liberazione.

    Ma la strada era ancora lunga, altri bombardamenti ci furono a Bari e a Foggia, dove c’era un aeroporto importante per l’Armata alleata. E se pensiamo che il 27 Gennaio è la giornata della Memoria, che ricorda gli ebrei, ma anche gli oppositori e gli omosessuali trucidati nei campi di concentramento nazisti fra Germania e Polonia, ma anche fascisti a Trieste (risiera di San Sabba) e la Casa rossa di Alberobello dove gli ebrei venivano radunati per essere portati via, nei viaggi della morte, vengono i brividi.  Nel maggio 1944 Vittorio Fiore, figlio di Tommaso, il politico-scrittore del “Popolo di formiche”, diede vita alla rivista “Il nuovo Risorgimento”.

    Fa certamente specie però, osservare che dopo l’8 settembre i soldati italiani che pensavano di aver finito la guerra, fossero cercati dai fascisti come disertori e spesso uccisi: si può dire che ogni famiglia avesse in casa un rifugiato, un soldato che veniva nascosto dalla furia di quei fanatici che ancora si battevano per Salò e per il dittatore salvato dai tedeschi. Mentre i nazifascisti al Nord, e soprattutto lungo la linea gotica – gli Appennini toscoemiliani, si davano a stragi pazzesche (un nome per tutti: Sant’Anna di Stazzema, in provincia di Lucca, ma tutte le strade toscane ed emiliane sono piene di cippi commemorativi di partigiani e civili barbaramente trucidati), al Sud si proclamava l’Italia libera, ma ancora con quanta angoscia, con quanta sofferenza.

    E mentre a Bari c’era questo Congresso, Anna Frank languiva morente ad Auschwitz e oggi dobbiamo ancora sopportare che gli ebrei non possano sfilare in corteo a Roma per la Giornata della Memoria per paura di attentati e il 7 ottobre 2023 nei kibbutz assaltati dai terroristi assassini di Hamas può essere paragonato al 16 ottobre 1943 quando i nazifascisti si portarono via gli ebrei di Roma (erano più di tremila, tornarono solo in 16 e ormai sono tutti morti). Ma la memoria dev’esser tenuta viva, bisogna gridare, bisogna lottare contro i rigurgiti neri. Come faceva Vilma, il personaggio della Storia (interpretato molto bene nel film della Archibugi da Giselda Volodi), che metteva in guardia tutti i suoi concittadini lì al ghetto ma che non veniva ascoltata, anzi fu ritenuta pazza. Una pazza che diceva la verità, senza che Pio XII muovesse un dito per proteggere la Città eterna dalla furia reazionaria. E la Storia, come concluse la Morante, continua…

  • IL PARTITO,
    QUESTO SCONOSCIUTO

    data: 17/01/2024 23:20

    Ricominciano da Laterza, la storica libreria della mia città, gli incontri che stavolta s’intitolano: “Le parole della storia” e, come da tradizione, a inaugurarli è stato l’intellettuale per definizione, un vanto per tutta la comunità pensante non solo barese ovviamente: Luciano Canfora, che ha trattato del tema “il partito”. Introdotto dall’editore Giuseppe Laterza che ha porto agli astanti il saluto di buon anno e che ha notato che ormai, nella terminologia politica, il partito sembra non ci sia più (a parte il Partito democratico e quello socialista, gli altri hanno denominazioni diverse), il Professore ha subito affrontato l’argomento con il suo eloquio pacato, preciso, anche a tratti arguto.

    Canfora ha sfoggiato la sua enorme cultura classica ed è partito da lontano, citando Mommsen, e altri illustri studiosi del mondo antico: dai romani, soprattutto, che avevano varie formazioni politiche, a conduzione tipicamente familiare, dei veri clan. A esempio Cornelia, la donna eccezionale che viene ricordata solo per essere la madre dei Gracchi, i suoi “gioielli”, in realtà partecipava attivamente alla vita politica di Roma e proveniva dalla potente famiglia degli Scipioni.

     Davvero ascoltare Canfora significa passare in rassegna tutto lo scibile storico: si è rifatto a una vecchia enciclopedia dell’editore Vallardi, l’Enciclopedia universale dell’umanità (risalente al 1883, ma ha citato anche autori sconosciuti ai più come Battaglia) che per prima certifica l’esistenza del partito, che grosso modo si può collocare al 1848 quando fu pubblicato da Karl Marx (il più aristocratico dei due amici) e da Friederich Engels “Il Manifesto del partito comunista”. Perché fu proprio la Germania a cavallo dei due secoli, l’Ottocento e il Novecento, a essere uno straordinario laboratorio politico, fino alla sfacelo dell’impero guglielmino (che comunque regnava su una Germania spezzettata in piccoli staterelli e principati e ducati e di cui Ferdinand Lassalle predicava l’unità) e alla disastrosa prima guerra mondiale, con la divisione dei partiti socialisti che aderirono alla protesta del dopoguerra, mentre almeno in Italia il Partito socialista si dichiarò sempre fermamente contrario alla guerra stessa.

    Rosa Luxemburg nelle sezioni di partito svolgeva un importante ruolo didattico per le masse operaie, e fu Marx insieme a Lassalle (morto precocemente, a 39 anni, in un duello per questioni d’amore, “altrimenti chissà quale piega diversa avrebbe preso la storia”, nota il professore) a fondare il partito socialdemocratico, anche se Canfora ha trascurato che Marx e Lassalle, da grandi amici, si trasformarono in nemici. Le radici del partito moderno affondano ancora più lontano, dal 1648 della rivoluzione inglese di Cromwell e l’uccisione di un re, Carlo, che può assimilarsi all’arresto inaudito a Versailles di Luigi XVI circa un secolo dopo, il 10 agosto 1792 fino al suo ghigliottinamento il 21 gennaio 1793 e tutta l’alternanza dei girondini e dei giacobini, fino all’ascesa di Napoleone (salvato dal linciaggio da un fratello di Robespierre, anch’egli finito sotto ghigliottina) e alla restaurazione del 1815. (E viene riassunta così la trama dell’ultimo film di Ridley Scott, il bel “Napoleone”).

    Il partito tuttavia non garantisce dalle involuzioni populistiche, dai colpi di stato, dalle tentazioni di un capo che pensi a tutto lui, senza delegare, senza consultare le “sections” di francese memoria. Ed ecco che si arriva alla “Capocrazia”, come recita il titolo di un recente saggio di Michele Ainis. Sono sorti dall’oggi al domani dei gruppi pericolosi per la democrazia, come, in Germania, sempre fra le due guerre mondiali, il 2 settembre 1917, “il partito della patria” ripreso poi nel 1964 da un gruppo di estrema destra e anche in Italia, 30 anni fa, abbiamo assistito al sorgere improvviso di Forza Italia.

    Corsi e ricorsi storici dunque: quando avviò nel 1945 la Consulta per la costituzione, il presidente del Consiglio Ferruccio Parri disse che ci si trovava di fronte al primo esperimento democratico dell’Italia. Ma l’Italia, prima dell’usurpazione violenta del potere da parte del fascismo, era una democrazia, aveva un parlamento regolare; “certo”, ha commentato Canfora, “aveva anche ragione Parri perché gli strumenti democratici erano stati totalmente distrutti dal fascismo e si trattava di restaurare tutto ciò che era stato fatto almeno fino al 1921-22 e soprattutto un Parlamento degno di questo nome”.

    Quindi oggi si potrebbe parlare di plutocrazia, almeno è questo il rischio se negli Usa, “che potremmo definire la Magna Grecia dei nostri tempi”, si è calcolato che una candidatura costi almeno 5 miliardi di dollari.

    A questo punto, colpito da un excursus così esaustivo, l’uditorio, tra cui si sono notati molti giovani, non ha dato luogo a un dibattito vivace anche se gli spunti erano parecchi. A Laterza il compito di rinnovare l’appuntamento al 14 febbraio, quando si parlerà di Europa.

    E’ stato davvero prezioso questo incontro, ma affrontare uno spostamento da casa per sapere qualcosa sul partito dalla viva voce di un’intelligenza reale e non artificiale, ci si chiede quanto possa essere preferibile al digitare la voce sul proprio smartphone e leggere tutto ciò che si vuole sul partito, in tutta comodità, e senza incontrare nessuno. La platea digitale è così: si è in contatto col mondo ma in realtà si è soli.  “Noi soli e arrabbiati”, ha scritto Daniela Hamaui sulla Repubblica: così ci “vogliono i social network” e il titolo traduce soli in “schiavi”, un lapsus forse voluto. Il partito così viene a essere un’istituzione superata ma che forse meriterebbe un recupero vintage. E non essere solo un participio passato del verbo partire.

  • BUON COMPLEANNO,
    CARA TV!

    data: 04/01/2024 20:53

    Il tg1 delle 20 comincia, mercoledì 3 gennaio 2024, la data esatta del settantesimo dell’inizio delle trasmissioni Rai, della televisione in Italia, con Giorgia Cardinaletti in bianco e nero Fulvia Colombo nel lontano 3 gennaio 1954…un attimo di avvolgimento del nastro e si torna al colore all’attualità. Ma la celebrazione si è spalmata un po’ in tutti i programmi quel giorno, in particolare su Raistoria, che ha mandato deliziosi filmati della tv degli esordi, quanta nostalgia ma è proprio Storia: la nascita della Tv.

    E qui, purtroppo e per fortuna, entra in scena l’autobiografia perché 70 anni è quasi la mia vita: io sono nata cresciuta e pasciuta con la televisione, non so come facessero gli umani di altre epoche a vivere senza, come vivevano senza elettricità, acqua corrente, e tutte le belle cose che il progresso ci ha portato. Sempre frutto di quel prolifico, nel bene e nel male, secolo che fu il Novecento. Una vita con la tv, con un unico rammarico, di non averci lavorato, di non aver fatto la giornalista del Tg, tranne una breve parentesi a TeleBari, giusto il tempo di assaporare una popolarità mai più vista. Perché “l’ha detto la televisione” vale più di mille verifiche.  Ricordo ancora l’emozione di una visita guidata alla sede Rai della Rai di Bari, in via Dalmazia; quelle stanze normali, nemmeno tanto grandi ma molto illuminate, da cui viene trasmesso il tg. E in genere la televisione è una scatola magica che ti mette in contatto con il mondo, che ti dà tutte le notizie, che ti consente di andare in posti dove non sei andato ancora o forse non andrai mai. Ricordo quel nonnetto che salutava da Nuova York con la mano, Ruggero Orlando; Tv7 che dava al venerdì tutte i servizi degli inviati speciali e i varietà del sabato sera, dopo Carosello, con le sigle meravigliose, le gemelle Kessler che ballavano e tutti le imitavamo, con la notte è piccola per noi, troppo piccolina, per noi, me e i miei fratelli che mai volevamo andare a dormire, altro che dopo Carosello. Ma del resto i programmi finivano alle 23.30, con la sigla che si perdeva fra le nuvole.

    E quando c’erano i programmi che presentava mio zio, il cantante: Ray Martino, dalla voce stupenda, che avvenimento! Fu protagonista anche di uno spot incredibile in cui, per pubblicizzare l’acqua idrolitina, si aggirava a cavallo per una città deserta.

     Gli sceneggiati, da Gian Burrasca a quelli misteriosi che facevano paura come Belfagor. E la mitica Tv dei ragazzi con sigle che ancora ricordo come “Chi trova un amico trova un tesoro” che annunciava le avventure del guardiano del faro. E poi gli immancabili telegiornali, prima da un canale solo in bianco e nero, con un annunciatore il più possibile impassibile, anodino, dalla bella dizione e poi con i giornalisti. I Sanremo, che scandiscono l’avvio del nuovo anno a febbraio, gli Zecchini d’oro, i quiz, i tanti quiz fino al venerdì sera di Portobello, quando davvero sembrava di essere al mercato, con la ricerca delle cose più disparate da una cartolina persa chissà dove a persone che si ritrovavano (guidata dal bravissimo Enzo Tortora), un anticipo di quella formidabile fucina di storie che è ancora Chi l’ha visto?

    E ancora lo sport, le gare del giro d’Italia, seguito ogni pomeriggio, con il successivo processo alla tappa. E il Cantagiro; le domeniche sportive con quella sigla inimitabile, meravigliosa, a scandire ogni domenica il dopopranzo e poi la fine del dì di festa, sempre, come sapeva già Leopardi, tristissima. Il giorno dopo mio padre sarebbe tornato al lavoro, la mamma all’impegno della casa, noi, io e i miei tre fratelli, a scuola, la televisione era un vero svago. Molto meglio il varietà del sabato sera, con Mina che cantava da par suo, con i balletti, le mille luci, il pubblico sulle gradinate, diretti da quel genio di Antonello Falqui. Ricordo la pausa pomeridiana appunto della Tv dei ragazzi dove ho visto un film che mi ha appassionato al cinema, un film russo, anzi sovietico come si diceva allora: “Quando volano le cicogne”, di Kalatozov, rivisto decenni dopo con gioia intatta su Raimovie, un canale finalmente dedicato solo al cinema. Che però non mancava nella televisione di tanto tempo fa: c’erano belle rassegne, il lunedì sera per esempio; abbiamo visto tutti i film di Danny Kay, di Frank Capra, di Stanlio e Ollio, i cartoni animati, oltre alla visione obbligata a puntata di Via col vento, il film che più passavano gli anni più era restaurato e quindi migliorava, fino a questo Natale in cui Mediaset (che lo ha in cineteca) non lo ha trasmesso più dopo anni e anni (come pure il Dottor Zivago).

    Adesso le notizie corrono veloci su Fb, sui social ma la televisione (e la Radio, che quest’anno compie 100 anni, altra compagna di vita inseparabile) resta ancora il mezzo più efficace per informarsi, per vedere, per essere dove non si è: come con Geo & Geo, il programma forse più longevo della rete Tre, diretto da Sveva Sagramola, che passa in rassegna tutti o borghi in una visione forse fiabesca e ferma nei secoli fino a Linea verde Life che ogni sabato ci fa scoprire una nuova città.

    Prima c’erano gli sceneggiati, con il regista Sandro Bolchi. Poi è venuta l’epoca dei serial: “Beautiful” prima ce l’aveva la Rai, andava in onda sempre sullo stesso orario di ora sulla rete Due: io lo seguo dagli inizi (quasi 40 anni) e capisco benissimo il personaggio di “Caro Diario”, film imprescindibile di Nanni Moretti, che, isolato alle Eolie per una settimana e affermando ai quattro venti di star bene senza tv, chiede disperato quando perde l’imbarco con chi è scappata Brooke, se Ridge è ancora con lei. Così come da Napoli viene trasmesso ogni santa sera, dal lunedì al venerdì, “Un posto al sole”, dal 1996; la sigla meravigliosa che ci chiamava a raccolta tutti davanti alla tv adesso non la posso sentire, perché mio padre e mia madre non ci sono più ed era mio padre ad annunciarci che cominciava. La tv è davvero il focolare della casa, dà calore, dà il via al ragionamento, è fantastica per me: è sicuramente una buona maestra (e in certi momenti con “Non è mai troppo tardi” lo è stata davvero). Poi si è insegnato di tutto, dall’inglese alla cucina (forse un tantino esagerata) e non si è trascurata la cultura.

    Un lessico immaginario mi porta a dire A come annunciatrici, un ruolo decisamente subordinato ma pche poteva essere per alcune l’anticamera della presentazione di programmi utili come Almanacco, dalla bella sigla. A come agricoltura con quel filmato d’inizio in cui il contadino seminava a mano, gettando i semi nel solco arato da una bisaccia che portava a tracolla, sulle note di “Green leaves”.  All’Approdo programma culturale della domenica sera comparivano gli intellettuali più famosi, ricordo uno per tutti Giorgio Bassani, dalla dizione e voce impeccabili, con il suo impegno ecologico ante litteram con Italia nostra. E poi ci fu Baricco con il suo “L’amore è un dardo”.  A come Agorà, l’importante programma di riflessione politica della mattina sulla rete tre. B mio fa pensare a Bari perché durante la Fiera del Levante, a settembre, noi, noi pugliesi e basta, la mattina vedevamo i film degli anni Trenta-Quaranta in esclusiva. E poi Bongiorno nel senso di Mike con i suoi inarrivabili quiz e i campioni che sfoggiavano tutta la loro memoria in dilemmi insolubili a Rischiatutto. O B ancora come Barendson per lo sport. E Bisiach per le inchieste, anche a Radio anch’io. Dire: si dicono tante cose in tv, specialmente nei talk show, con un tasso di disputa alle volte molto alto ma sempre interessante. E come Eccoci, ogni giorno, un servizio indispensabile, un notiziario imprescindibile. F come fine delle trasmissioni: un tempo alle 23.30, per ricominciare il pomeriggio dopo, roba da non credersi in questo flusso continuo d’immagini e informazioni.

    G come Gianni Morandi, più amichevolmente Gianni, così come Caterina Caselli, protagonisti indiscussi con Mina dei primi varietà, altra levatura rispetto a    quelli di ora condotti per ore e ore da Carlo Conti o Milly Carlucci.  Domenica In ha introdotto l’entertainer; c’è poco da eccepire, se Mara Venier fa interviste è una giornalista a tutti gli effetti. Così come Fazio a Che tempo che fa non era solo uomo di spettacolo (nonostante la voce sul contratto).

    C’è una lamentela generale per i programmi della Rai e son tutti lì a vantarsi di guardare invece le serie sui canali alternativi, Netflix, Mubi, Disney+ e compagnia cantante. Ma la Rai, a ben vedere, qualcosa di buono lo fa, basta azionare il telecomando e invece di restare sull’1 e di vedere i pantaloni che si rompono mentre Mammuccari balla per la gioia della domatrice di ballerini Carlucci, si può andare su Rai5, dove ci sono splendidi programmi, come quello in cui Strinati spiega i capolavori delle chiese di Roma o i documentari di “Di là dal fiume e tra gli alberi” o seguire, il sabato dalle 12.30 (su Raiuno stavolta) due inviate spigliate e brave come Monica Caradonna ed Elisa Isoardi, che colgono il meglio dalle varie città che visitano.

    E voglio segnalare la nascita di una nuova trasmissione dedicata ai libri: “La biblioteca dei sentimenti” che ha preso il via lunedì 18 dicembre scorso, condotto da Maurizio De Giovanni e Greta Mauro, che il mercoledì successivo ha già subito un’interruzione a causa dei lavori parlamentari. Tra l’altro, non so quanto siano stati seguiti in passato Camera e Senato, ma mi pare che da un annetto a questa parte non si possa far a meno della diretta parlamentare il più frequentemente possibile: il che è certamente un bene, ma perché per gli altri governi non succedesse resta un mistero e poi ci sono canali più adatti, Rainews per esempio o le reti proprio del Senato e della Camera, che seguono ogni seduta, senza rimpiangere la “Tribuna politica” d’antan.

    Ovviamente un programma di libri va in onda alle 15.23, quando pochi lo vedono ma c’è Raiplay, si può recuperare tutto, anzi spesso è una corsa al recupero.

    Insomma, per la televisione, senza contare le dirette più storiche, ognuno, e l’Italia tutta, ha il suo amarcord personale: 70 anni sono una data importante. Buon compleanno, cara Tv!

  • LA BIBLIOTECA DEI
    SENTIMENTI,QUESTA SI'
    CHE E' UN'IDEA!

    data: 26/12/2023 11:26

    C’è una lamentazione generale per i programmi della Rai e son tutti lì a vantarsi di guardare invece le serie sui canali alternativi, Netflix, Mubi, Disney+ e compagnia cantante. Ma la Rai, a ben vedere, qualcosa di buono lo fa, basta azionare il telecomando e invece di restare sull’1 e di vedere i pantaloni che si rompono mentre Mammuccari balla per la gioia della domatrice di ballerini Carlucci, si può andare su rai5, dove ci sono splendidi programmi, come quello in cui Strinati spiega i capolavori delle chiese di Roma o i documentari di “Di là dal fiume e tra gli alberi” o seguire, il sabato dalle 12.30 (su Raiuno stavolta) due inviate spigliate e brave come Monica Caradonna ed Elisa Isoardi in “Linea verde life”, che colgono il meglio dalle varie città che visitano.

     

    E voglio segnalare la nascita di una nuova trasmissione dedicata ai libri: “La biblioteca dei sentimenti” che ha preso il via lunedì 18 dicembre, e mercoledì ha già subito un’interruzione a causa dei lavori parlamentari. Tra l’altro, non so quanto siano stati seguiti in passato Camera e Senato, ma mi pare che da un annetto a questa parte non si possa far a meno della diretta parlamentare il più frequentemente possibile: il che è certamente un bene, ma perché per gli altri governi non succedesse resta un mistero e poi ci sono canali più adatti, Rainews per esempio o le reti proprio del Senato e della Camera, che seguono ogni seduta. Adesso invece, ogni occasione è buona per mandare in onda imperdibili gare di pallavolo o i lavori delle Aule, di solito nell’ora pomeridiana, quella della pennichella, come a dire: “Guardate un po’ quanto lavoriamo, per voi” o in alternativa, giochiamo.

     

    Ovviamente un programma di libri va in onda alle 15.23, quando pochi lo vedono ma c’è Raiplay, si può recuperare tutto, anzi spesso è una corsa al recupero…La “biblioteca dei sentimenti” dunque è condotta da Maurizio De Giovanni, lo scrittore napoletano autore anche di fortunate serie televisive, e da Greta Mauro: in studio ci sono gli immancabili giovani (anche “Per un mondo di libri” puntava sulla gara tra scolaresche), perché pare che altre fasce di età non possano leggere e riflettere sui volumi che hanno in lettura, così pare e poi ci sono degli ospiti che cambiano di volta in volta. Il primo argomento affrontato era la felicità, con ospiti Franco Arminio che, a sorpresa data la sua fama di paesologo, ha finalmente ammesso che non è detto che nei piccoli paesi si sia più felici, anzi spesso è vero il contrario, e Carmine Abate, scrittore, fra gli altri, di “Un paese felice”. Certo, si pubblicizzano libri, lo si fa dovunque ma almeno non si parla solo dell’ultima fatica di Vespa (per quanto, non si può escludere che lo invitino anche qui…), si discute con intelligenza, si offre un servizio utile. Entrare in questi giorni in libreria è spesso affacciarsi su un oceano di libri: regalarne è la cosa migliore che si possa fare a Natale, perché un libro ti apre sempre un mondo ma qualche indicazione è utile. Nella seconda puntata (finora l’ultima trasmessa, ma il programma va avanti dal lunedì al venerdì), per esempio, ho scoperto Luca Ricci, autore di una quadrilogia edita dalla Nave di Teseo: “Gli invernali”, “I primaverili”, “Gli estivi” e “Gli autunnali”. Ricci, come ho potuto appurare dagli estratti in rete dei suoi libri, non lo conoscevo e in libreria non avevo notato i suoi libri, è un grande prosatore, merita davvero che ci si soffermi e che lo si legga. L’altro ospite era Antonino Tamburello, un pacato psichiatra romano, autore de “L’amore nasce eterno” (Mondadori), che è già molto famoso sui social ma a me era sfuggito.

     

    E colgo l’occasione per ricordare il cofanetto-strenna (edito da BesaMuci) del nostro compianto Beppe Lopez, comprendente tre romanzi, di cui l’ultimo, “Capibranco”, completa un lavoro dedicato principalmente a Bari, la sua città natale, anche se era (fa male scriverlo, “era”) romano di adozione.

     

    Si è fatto un gran parlare dell’educazione affettiva, sentimentale, da impartire a scuola ma, come ha sottolineato Cristina Dell’Acqua, la latinista ospite lunedì alla “Biblioteca dei sentimenti”, nei libri c’è già tutto: scegliendo romanzi e poesie c’è l’intera gamma delle espressioni umane e non umane (basti pensare alle pagine dedicate ai cani, per esempio: da Galsworthy nella monumentale e stupenda “Saga dei Forsyte” a tanti altri, Mann, Maupassant, allo stesso Lopez ne “La scordanza” e così via), che davvero non c’è bisogno di una disciplina ad hoc, c’è già la letteratura. Insomma, questa trasmissione è una chicca da non perdere, è davvero bella, un insperato dono natalizio: le auguriamo l’auditel che si merita, cioè altissimo!

  • "PER CHI SUONA LA
    CULTURA": PER LAUDADIO
    DI CERTO LO FA

    data: 11/12/2023 00:08

    Di poche persone si può dire che parlino come un libro stampato e certamente Francesco Laudadio è tra queste. “Per chi suona la cultura” non è la sua prima prova letteraria e sono 60 anni che Laudadio è alle prese con la parola scritta, oltre a essere un formidabile oratore. Questo libro, tuttavia, è la summa della sua attività frenetica come operatore culturale, da infaticabile promotore e organizzatore di festival, fedele praticamente dalla nascita alla sua grande passione, il cinema, che lo vide spettatore fin dall’infanzia, a Mola di Bari, nel cinema di suo nonno.

    Sembra quasi incredibile che Laudadio sia riuscito nell’impresa di dar vita a svariate manifestazioni, a partire dal Mystfest di Cattolica, proseguendo con il Festival di Rimini, con Europacinema prima a Rimini, poi a Bari, e a Viareggio per oltre 20 anni, una puntata negli Usa, alla Maddalena per il premio Solinas destinato alle sceneggiature, e quindi a Bari con il Bif&st, che è giunto alla sua 14esima edizione e che purtroppo sta trovando delle difficoltà per la prossima, per cui si guarda con molta ansia alla riunione di metà mese del consiglio regionale e alle decisioni di giunta. E non dimentichiamo la Casa del Cinema e il Centro sperimentale a Roma e le loro millanta iniziative, sempre sotto la sua direzione. E Venezia, Saint Vincent, Taormina. Davvero un cursus honorum impressionante, come riconosce Gili nel riassumere la sua amicizia di lunga data con questo mago - perché le peripezie risolte all’ultimo con un colpo di teatro sono state davvero tante - del cinema. E Gili sottolinea la costanza di Laudadio: Europacinema del 1988, a Bari, fu indimenticabile, con il successo di “Nuovo cinema Paradiso” e vent’anni dopo tornò nella sua città per un nuovo festival, appunto il Bif&st. Senza tralasciare la direzione della rivista “Bianco e Nero”, che si aggiunge alla ventennale attività di giornalista (famose le sue “interviste del lunedì” sull’Unità).

    Nel frattempo che si decida in fretta per la prossima edizione, Laudadio, che non sa stare senza far nulla, con un tempismo degno del suo attivismo, manda in libreria questo volume di 484 pagine (edito da Edizioni Sabinae, 20 euro, postfazione di Jean A.Gili), caldamente raccomandato non  solo ai manager dello spettacolo che sono alle prese con amministratori spesso interessati a propagandare le proprie idee (a prescindere dallo schieramento, di destra o sinistra che siano) piuttosto che acconsentire a quelle di chi ne sa più di loro, ma a tutti, per il semplice motivo che Laudadio, con un’abilità peculiare - la stessa che lo portava a intervistare Federico Fellini senza registratore e a riportare tutto a memoria sulle pagine dell’Unità gloriosa (quella del Pci), lasciando stupefatto il grande regista – in questo volume riassume la Storia. Nella parola “manager” c’è un “man” di troppo, ma l’elenco delle collaboratrici e delle direttrici di festival del cui prezioso apporto Laudadio si è sempre avvalso, è davvero consistente. Per citare due nomi a caso: Irene Bignardi e Margarethe von Trotta, ma ce ne sono davvero molte altre. La sezione scientifica del Bif&est è affidata a Orsetta Gregoretti e Silvia Mattoni.

     La memoria portentosa di Laudadio di tutte le vicende riassunte nel libro, ne fa uno storico e un testimone di punti di svolta della vita italiana e non solo, visto che nei suoi festival sono passati tutti gli attori e tutti i registi che contano, di tutto il mondo. Basta solo ricordare il Bif&st del 2015 che ha visto alternarsi sul palco del Petruzzelli  da Scola a Costa Gavras, da Reisz a Wajda, da Annaud a Moretti, e tanti tanti altri, con un pubblico che ogni volta è accorso alle proiezioni e agli incontri-dibattiti durante il giorno sempre più numeroso e affezionato, tanto che oggi i baresi non possono e non vogliono rinunciare al Bif&st che ha reso Bari una seconda Venezia o una nuova Cannes. Col Petruzzelli gremito. Mas anche gli altri teatri e cinema.

    Merito di Laudadio che è partito dalle aule del liceo classico Flacco per poi diventare, giovanissimo, editor della Laterza e della Dedalo, laurearsi in Scienze politiche con Beppe Vacca, spiccare il volo per Milano e per Roma e a soli 30 anni dedicarsi ai Festival, in un vortice sempre più impetuoso. Con un inizio brillante: lui che espone a Sergio Grossi, sindaco di Cattolica la sua proposta di festival del giallo e quello lo chiude a chiave per un’ora in una stanza perché scriva il programma. Detto fatto, in meno del tempo Laudadio aveva già esaurito il suo compito e per ingannare l’altra mezz’ora, non trovando niente da leggere ma della vodka, non ci pensò poi due volte alla fine ad assumere l’incarico di dirigere il festival in prima persona.

    Il libro è per intero così: alterna riassunti di festival, con elenco di partecipanti e di recensioni, a ricordi di vita e a sensazioni personali, con una grande abilità, col piglio del romanziere. Non ce lo si aspetterebbe se non si conoscesse Laudadio, se non lo si fosse visto all’opera nel corso di questi anni al Bif&st, sempre gentile e affabile (a dispetto del suo definirsi caratteraccio, forse in altri anni ma ultimamente certo no), mai stanco e disposto ad ascoltare le istanze di tutti, anche delle giurie popolari che giudicano film sulla base esclusivamente del loro amore per la settima arte.

    Altro episodio emblematico quello raccontato alle pagg. 98-106, del film “Il lungo silenzio”, scritto da Laudadio e diretto da von Trotta in meno di un anno, a ridosso dell’attentato a Paolo Borsellino, domenica 19 luglio 1992, che lo vide subito (ed era domenica, non sabato, unica svista in assenza di refusi, complimenti pure all’editore) impegnato a stilare una sceneggiatura che divenne presto pellicola nel 1993 e l’11 marzo venne presentato a Palermo al cinema King, più volte distrutto dalla mafia, alla presenza di vedove di magistrati e poliziotti uccisi in quel periodo dai mafiosi. Ebbene il film ebbe una risonanza internazionale, fu lodato ovunque, ne furono stampate più copie ma in Italia non lo vide nessuno: qualcuno, dopo quella clamorosa presentazione, ne impedì la diffusione. E non si fa mistero di chi possa essere stato questo qualcuno.

    Ma lasciamo parlare l’autore, a proposito della sua avventura esistenziale, del suo viaggio: “(…)se ho risolto di raccontarlo qui è perché mi auguro possa essere utile a chi, magari ancora giovane, si appresta a intraprendere il duro ma affascinante percorso dell’operatore di cultura con una start up o direttamente in prima persona: affinché sia informato di quanto può capitargli, e che puntualmente capita, e non abbia paura di agire e reagire. Senza nutrire alcun senso di colpa nel raccontarsi con un temerario Io e non con un ipocrita Noi. Diceva Carl Gustav Jung: ‘ Il motivo per cui c’è il male nel mondo è che le persone non sono in grado di raccontare le loro storie’”.

  • FERDINANDO SCIANNA
    RICORDA IL TIPOGRAFO
    RODOLFO CAMPI

    data: 19/11/2023 23:53

    Ferdinando Scianna, oltre ad essere un fotografo di fama mondiale, è anche un grande scrittore. Ha pubblicato diversi libri, con testi che illustrano le sue magnifiche fotografie. Una volta, anni fa, al “Quotidiano di Lecce Brindisi e Taranto” il direttore ebbe la brillante idea di abbinare al giornale delle vedute di Scianna in bianco e nero, istantanee dei luoghi più significativi delle province di diffusione del giornale. Sono foto che risplendono come quadri: magnifici paesaggi in bianco e nero, a tracciare una mappa inedita della Puglia. Ebbene Scianna è riapparso domenica scorsa con un articolo sul Domenicale del Sole 24ore, scritto in ricordo di un suo caro amico, il tipografo di Rozzano, Rodolfo Campi, “ultimo virtuoso della composizione in monotype”, come recita il sommario del pezzo intitolato: “Odor di piombo che si tramuta in poesia”. Un omaggio che è anche occasione per Scianna di elogiare in modo esemplare un’arte ormai scomparsa, quella del tipografo con i caratteri a piombo fuso. Chi ha avuto la fortuna di veder lavorare i tipografi, nel 1980 e poco oltre, a un passo dalla rivoluzione digitale che ha trasformato la stampa in un collage di fotocomposizione da colla e taglierino, non può dimenticare la maestria, il colpo d’occhi, la velocità con cui i tipografi componevano ogni riga al contrario di quella che sarebbe stato poi stampato, un’abilità che spesso si tramandava di padre in figlio, come in tutti i mestieri a forte impatto artigianale per libri e giornali da Aldo Manuzio, dal 1492 in poi. Ma lasciamo parlare Scianna: “Non era un tipografo come gli altri, Rodolfo (…) Era rimasto tra gli ultimi in Europa a conoscere e a praticare questo nobile artigianato, e ormai non aveva più una clientela di conoscitori e appassionati come avrebbe meritato. Poi è arrivato Vincenzo Campo che, con la sua piccola casa editrice henry Beyle ha follemente, dicevamo tutti, puntato su una collezione di piccoli, preziosi libri e che ha visto in questa tecnica di stampa apparentemente obsoleta una cifra di bellezza e rigore che gli ha fatto vincere la scommessa di inventarsi un pubblico nuovo di lettori collezionisti che in quella classicità e qualità hanno riconosciuto il crisma di un presente di cui sentivano il bisogno”. E il tipografo di questi libri di Campo era proprio Campi (alle volte i nomi curiosamente si chiamano!), vicino a Milano, dove ci sono molti centri editoriali: “Ho avuto il privilegio – continua Scianna – di essere incaricato da Vincenzo Campo di fare un viaggio fotografico dentro questa magica tipografia per un progetto di libro concepito come un omaggio a Rodolfo e alla sua arte sapiente. Un viaggio bellissimo in cui con gli occhi cercavo di cogliere la bellezza da veri oggetti d’arte di quelle due macchine, una degli anni 30, l’altra degli anni 50, che sferragliavano come se cantassero (…) Nel ventre della macchina è incorporata la fornace, che scioglie il piombo da argentei lingotti per poi iniettarlo, piccolo ruscello luccicante, nel cavo determinato da un esatto e misterioso nastro perforato, a fondere così, carattere dopo carattere, il testo che andrà alla stampa. Ai vapori si aggiungono gli odori un po’ bruciati degli oli che costantemente lubrificano tutto. L’atmosfera romantica faceva dimenticare che forse non è proprio molto sano esporsi per anni a quei miasmi. Rodolfo alla tastiera della composizione sembrava un organista in una cattedrale”. Possiamo togliere anche il “forse” perché il piombo, come l’amianto, non è certo salutare. La sua tipografia “era una vera e propria caverna di Alì Babà. Non passato, ma presente palpitante, che non si sarebbe mai voluto smettere di esplorare. E di annusare. Qualche anno fa mi è capitato di fotografare un celeberrimo, ultraottantenne ballerino giapponese di Kabuchi. Mi dissero che il suo governo lo aveva nominato opera d’arte vivente. Ho più volte pensato e detto che Rodolfo Campi avrebbe meritato di essere insignito dello stesso titolo”. Fatto sta che ormai Campi, classe 1949, è passato nel mondo dei più e la sua tipografia a Quinto de’ Stampi (frazione di Rozzano, a cinque miglia – da cui il nome – da Milano), unica in Italia a praticare ancora la composizione monotype, si può visitare nelle pagine del libro di Ferdinando Scianna, “Un fotografo in tipografia”, edito appunto da Henry Beyle. Ma senza più il suo titolare.

  • RIFLESSIONI IN BLU ESTORIL

    data: 02/11/2023 21:50

    C’era una volta una principessa che aveva sposato un suo pretendente, scelto fra tanti candidati, come si usava all’epoca, affascinata dal suo ciuffo impertinente. Il matrimonio, perché ci fu un matrimonio, del resto lei era molto tradizionalista, andò bene sulle prime, ma con il passar del tempo e con l’aumento delle responsabilità governative di lei, nel frattempo divenuta regina, il principe consorte si annoiò e cercò di intromettersi negli affari del regno, occupandosene alla sua maniera, un po’ guascona, corteggiando anche le castellane in un tono tra lo sfrontato e lo scherzoso. Man mano che il tempo passava, il ragazzo assumeva sempre più sicurezza (“cosa possono farmi mai, sono il principe consorte…”), il che venne a disturbare i consiglieri più stretti della consorte. Lui ordinava mantelli blu estoril a bizzeffe e andava in giro col suo cavallo, vantandosi di saperne molto più di lei in tutto e intromettendosi in ogni faccenda, con grande scorno dei “saggi” di palazzo. Pensa che ti ripensa, questi alla fine trovarono il modo di toglierlo di mezzo, anche perché il principe ostacolava le loro manovre politiche: le congiure a corte non mancavano mai. Durante una battuta di caccia, trovarono il modo di azzoppare il suo cavallo e il povero principe finì a letto con un serio malanno, gli ci volle del tempo per riprendersi e nel frattempo la regina rimase in balia dei suoi “saggi” alleati, senza nemmeno potersi più divertire alle sbruffonate del suo compagno, ripudiato in tutta fretta.

     Gli elementi della favola ci sono tutti, anche oggi. Risulta piuttosto ingenua la visione di coloro che, nella Giambruneide, hanno visto una semplice storia di molestie sessuali risolta con l’intervento del “buon Ricci” a favore delle “sue” giornaliste insidiate in diretta tv (sebbene fuori onda) tramite lo svergognamento pubblico a “Striscia la notizia” di Andrea Giambruno, il compagno della premier, subito di fatto “licenziato” (il posto di lavoro l’ha conservato ma non conduce più il programma, non compare in video, è di fatto demansionato)  sia in tv, dove conduceva un talk nel primo pomeriggio sia nel privato. Si è trattato piuttosto – e gli interventi immediatamente successivi di Giorgia Meloni, una presidente del Consiglio che si è sentita sotto l’assedio di “oscuri” nemici, lo dimostrano – di un vero e proprio sgambetto politico, attuato da Forza Italia per indebolire, colpendola nel privato, proprio Meloni.

     E non è la prima volta che accade. E’ tutto scritto, magnificamente, nel romanzo, risalente ormai a 30 anni fa, “Rivelazioni” di Michael Crichton. Che si rifà a una storia vera. E da cui è stato tratto anche un film con Michael Douglas e Demi Moore. L’azione si dipana, per 452 pagine, dal lunedì al venerdì: Tom Sanders, dipendente di una grande azienda elettronica a Seattle, sta per lanciare, come responsabile della linea di produzione, un Cd che però stranamente non funziona ancora bene e il difetto verrà individuato nella fabbrica in Malaysia. Ma qui il suo corrispettivo, Kahn, si è messo d’accordo con Meredith Johnson, una pupilla del padrone della fabbrica che individua in lei il futuro dell’azienda, in una donna con grandi capacità, provvista di laurea e master prestigiosi. Costei, dovendo condurre la vendita della fabbrica a un’altra, si ripromette di buttare fuori Sanders, in modo che l’intero progetto vada in porto. Ed è sicura di riuscirci. Come? Una volta nominata a capo del settore di cui Sanders era il sicuro pretendente, il giorno stesso del suo insediamento lo convoca nel suo ufficio e lo seduce. Nonostante Sanders si sia ritirato in tempo, scatta l’accusa di molestia sessuale nei suoi confronti e dovrà penare molto, il povero Tom, per dimostrare, con l’ausilio dell’agguerrita avvocata Louise Fernandez, che dietro questa pesante accusa ci fosse in realtà un complotto aziendale. A tradirlo era stato proprio Kahn, dalla Malaysia, ma Sanders, tramite l’ausilio della realtà virtuale allora già molto sviluppata seppure agli esordi, in uno splendido capitolo in cui sembra davvero che Crichton descriva un viaggio dantesco nell’irrealtà (con l’ausilio, proprio come nella Divina Commedia, di un angelo-guida), smaschera chi lo aveva ingannato, dicendogli persino che il capo della linea di montaggio era stato colpito da malocchio e quindi stava male, quando non era vero niente. Alla fine, i cattivi vengono estromessi (anche se Johnson proseguirà la sua brillante carriera altrove) e i giusti trionfano. E’ una sorta di manuale, questo, scritto splendidamente, della molestia, che può essere maschile quanto femminile perché, come affermava Katharine Graham, la famosa editrice del Post che smascherò il Watergate: “Il potere non è né maschile né femminile”. E nel prologo viene riportato per intero l’articolo VII della legge statunitense sui diritti civili del 1964, più volte citato, che recita: “Sarà ritenuto illegale da parte del datore di lavoro: 1) la mancata assunzione o il rifiuto di assumere o il licenziamento di qualsiasi individuo, o una qualsiasi discriminazione contro un individuo per quanto riguarda compensi, termini, condizioni o privilegi derivanti dal rapporto di lavoro, sulla base di razza, colore, religione, sesso o origini nazionali del suddetto individuo;  2) limitare, emarginare o classificare i dipendenti o gli aspiranti al posto di lavoro in ogni modo che possa privare o tendere a privare qualsiasi individuo di opportunità di lavoro o influire negativamente sulla sua posizione di lavoratore sulla base della razza, colore, religione, sesso o origine nazionale”.

  • SOLO DUE OSTAGGI
    LIBERATI IN ISRAELE

    data: 21/10/2023 22:10

    Il rilascio delle due donne, Judith e Natalie Raanan, madre e figlia, americane, da parte di Hamas, l’organizzazione terroristica che tuttavia detiene la maggioranza effettiva del governo della Palestina, lascia davvero perplessi: perché solo loro due? Su 200? Si teme per vita degli altri ostaggi, presi nel blitz assassino attuato tre sabati fa, ormai due settimane, al rave di Re’im e nei kibbutz circostanti. Sabato 7 Ottobre 2023: sarà una data storica, come l’11 settembre 2001, non solo per Israele e gli Stati Uniti ma per tutto il mondo. Una data di orrore, come il 24 febbraio 2022, quando la Russia ha invaso l’Ucraina. Proprio mentre il tanto contestato Netanyahu avviava un dialogo con i Paesi arabi, ecco che i terroristi hanno posto bruscamente fine a ogni speranza di trattativa.

    Ieri, giorno di shabbat, la festa degli ebrei, davanti al museo di Tel Aviv è stata allestita una grande tavola con 200 posti, quanti sono gli assenti, coloro, fra cui molti bambini, che mancano all’appello dei loro cari, della salvezza, da quel maledetto sabato. E’ straziante la foto pubblicata sui giornali di questo lungo tavolo preparato, ma senza commensali. Sarebbe stato bello, un gesto di pace, autentico, se fossero stati liberati tutti gli ostaggi e quella tavola fosse stata animata. Ma il rilascio di solo due ostaggi lascia presagire il peggio (già avvenuto per degli ostaggi di cui si è saputo il decesso, come per un cittadino italiano). E se non ci fosse più nessuno da liberare?  Intanto si vuol lasciare libero il valico di Rafah, al confine con l’Egitto, per consentire agli aiuti umanitari (cibo e acqua) di entrare a Gaza, dove una popolazione di due milioni di abitanti vive asserragliata in un territorio grande come una cittadina. I palestinesi sono di fatto ostaggi anche loro di Hamas, per quanto forse volontari. L’Anp, infatti,  capitanata da decenni da Abu Mazen, che ha ormai 88 anni, si affanna a dissociarsi dall’organizzazione terroristica, ma resta il fatto che molti palestinesi vi aderiscono e in numero indefinito sono i lupi solitari pronti a essere riattivati con misteriosi messaggi sui telefonini, come si è visto a Bruxelles lunedì scorso, quando due ignari svedesi, tifosi della loro squadra che quella sera giocava proprio lì, sono stati uccisi dai colpi di kalashnikov sparati da un tunisino, fino ad allora considerato un innocuo migrante.

    Il ministro della Giustizia belga si è dimesso. In Francia, dove un professore è stato ammazzato da un estremista islamico, altro lupo solitario, ad Arras, si è al colmo della tensione: sono stati evacuati la tour Eiffel e Versailles, si vive nel terrore.

    Imponenti manifestazioni in favore dei palestinesi si sono viste giovedì 19 nel “giorno della rabbia”, quando Biden è volato a Tel Aviv ad assicurare l’alleanza americana a Israele: ha detto che lo stato d’Israele, attaccato in modo così proditorio, ha dimostrato grande coraggio e che adesso, consiglio d’amico, non deve cadere nella trappola della vendetta finale. In fondo Hamas è questo che cerca, il martirio, prova ne sia che proibisce ai palestinesi di Gaza di spostarsi a Nord o verso la Cisgiordania. Nonostante gli appelli di Tel Aviv a sgomberare. E c’è il caso del razzo contro un ospedale a Gaza che ha provocato ulteriori vittime, con il rimpallo di responsabilità ma pare proprio che sia stato un razzo sparato da Hamas e che ha fallito il suo obiettivo. Che “ovviamente” era ancora una volta Israele, una democrazia, checché ne dicano i suoi oppositori, circondata da stati autoritari e repressivi, dall’Iran allo Yemen (un razzo è stato lanciato anche da lì). E mentre si vive questa situazione pericolosissima nel Medioriente (ieri c’è stato un vertice al Cairo. E’ il colmo, un dittatore come Al Sisi, i cui agenti segreti hanno ucciso Giulio Regeni, al centro di un vertice per la pace), in Italia – democrazia retta da un governo di centrodestra, guarda le coincidenze – crolla un pilastro della retorica meloniana: “Dio invocato a ogni pie’ sospinto (con corollario di madonne che sanguinano), Patria (con il libro di Vannacci adottato in un liceo di Francavilla Fontana, che vergogna!) e famiglia…meglio lasciar perdere. Avranno da offrire pesche le bambine dei separati ma non servirà a nulla, mentre urge adesso liberare i poveri bambini d’Israele, aggrediti quella mattina di sabato 7 ottobre. E che possano tornare a mangiare insieme ai loro cari. In pace.

     

  • RIFLESSIONI SU
    "OPPENHEIMER"
    E "IO CAPITANO"

    data: 24/09/2023 21:17

    Ho visto in successione i due film del momento: “Oppenheimer” e “Io capitano”, i quali, sorprendentemente, hanno molto in comune. Infatti la storia del fisico americano con radici europee Robert Oppenheimer, il “padre della bomba atomica” e il “distruttore di mondi” e le migrazioni di massa dall’Africa, trattano entrambi un unico tema: la perdita dell’umanità.

    Al contrario di chi ha affermato qui che “Oppenheimer” sia un film mediocre, io invece l’ho trovato perfetto: i dialoghi serrati, la contrapposizione fra i colori della ricerca (e il “cielo stellato sopra di noi”, mistero ancor oggi non svelato, fantastico al cinema su grande schermo come dal vivo) e il bianco/nero della commissione d’inchiesta, guidata da Strauss (Robert Downey Jr, irriconoscibile), un burocrate dalle ambizioni di scienziato ma dileggiato sin dall’inizio dallo scienziato tutto casa e ricerca (ma anche con relazioni lasciate per strada; si è obiettato che le donne non fanno una gran figura nel film, ma il ruolo della donna negli anni 40-50 del secolo scorso era subalterno, persino in America). Inoltre ci sono state scienziate, in Svezia per esempio, perfettamente al corrente delle ricerche che si svolgevano a Los Alamos ma che se ne sono dissociate, come Einstein del resto, come Bohr che nella capitale danese, dove abitava, incontrò Heisenberg, fisico tedesco (c’è un’opera teatrale dell’inglese Michael Frayn, “Copenaghen”, che Rai5 ha riproposto in questi giorni, si trova su Raiplay, imperniata sullo stesso argomento del film, ricavato a sua volta da un best seller).

    Intanto il film ha il grande merito di aver riportato alla ribalta un problema come quello dell’armamento atomico. Pensiamo al fatto che il 10 luglio 1985 ad Auckland, in Nuova Zelanda, ci fu l’affondamento della Rainbow Warrior, la nave di Greenpeace che protestava contro gli esperimenti atomici francesi nell’atollo di Mururoa. Una coppia di spie spacciatasi per giornalisti, mise una bomba nella stiva della nave e morì il giovane fotografo portoghese Fernando Pereira, eroe ecologico. Questo a dimostrazione che ci sono state epoche in cui della bomba H si è discusso di più, mentre ora il dibattito sembra sopito. Anzi non si parla proprio di disarmo. Il film di Nolan riaccende i riflettori sulla questione, e lo fa molto bene.

    Oppenheimer, preso dalla sua tracotanza di ricercatore, sa benissimo di aver creato un’arma pericolosa ma non per questo smette di comporla, anzi organizza in fretta e furia un gruppo di ricerca a Los Alamos, creando dal nulla una città. Ebbene una volta che il “gran fisico” lascia la bomba all’esercito, sa anche che non potrà averne più il controllo e che giapponesi, colpevoli e innocenti, come gli dice un suo collega, moriranno a guerra ormai finita perché, ne cominciava allora, nel 1946, un’altra: la guerra fredda fra Usa e Urss. Il presidente Truman (un democratico bombarolo, c’è stato anche questo…)  nel suo breve incontro con il fisico lo spiega molto bene: “Non ci interessa chi ha inventato la bomba, siamo noi politici a decidere cosa farne”. Tant’è che lo scienziato che credeva di essere assurto agli allori della fama, fu escluso da qualsiasi nuovo intervento sull’atomica, con la scusa di essere stato comunista o comunque di aver avuto contatti con comunisti, come la sua stessa moglie nel passato.

    Sviluppare un genocidio seguendo il filo logico di Oppenheimer che era un fisico consapevole di quello che faceva, anche se non lo voleva ammettere prima di tutto a se stesso, mi pare paragonabile a quello che i governi capitalisti stanno facendo all’Africa. Nel film di Garrone si vede benissimo che Dakar è una grande città dalle mille contraddizioni dove una famiglia numerosa sopravvive vendendo uova al mercato e i ragazzi si vestono all’ultima moda con capi firmati che evidentemente non hanno lo stesso costo che da noi, e forse sono copie (per quanto molto ben fatte). Però la casa è fatiscente, la gente non sa come sbarcare il lunario ed è tuttavia consapevole che tentare la fortuna altrove, in Europa, come avvisa la madre del diciassettenne (bravissimo attore, preso in realtà da una scuola di recitazione non è la soluzione), si può trovare la morte in quel viaggio maledetto. Attenzione anche a generalizzare, perché l’Africa è lo specchio dell’Europa dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e c’è un grande squilibrio fra le due categorie. I due cugini sono appena diciassettenni, vanno ancora a scuola ma vogliono tentare la fortuna esattamente come facevano gli italiani un secolo fa e andarsene, nonostante ne siano dissuasi, cercano la benedizione dello sciamano e partono lo stesso, senza dir nulla alla madre di uno di loro. Sarà un’odissea atroce, dove pagheranno a ogni tappa, soldi su soldi, pure per respirare, dove dal camion scalcinato che attraversa il deserto cade un migrante come loro e avevano voglia d’implorare l’autista di fermarsi a riprenderlo, quello non si ferma e  prosegue il viaggio, a ogni confine perquisizioni e arresti, torture e ferite, e sempre la volontà di proseguire, di attraversare anche quel mare che li porterà in Italia. Seydou, il bravissimo Seydou Sarr, 17 anni, che ha detto che nel film ha rivissuto l’emozione che ha provato alla morte del padre e Moussa (Moustapha Fall), stanno insieme finché un soldato di confine non imprigiona Moussa perché gli trova addosso i soldi che aveva negato di avere. Seydou, nonostante abbia trovato un altro migrante che ha un figlio della sua stessa età e che è diretto a Caserta, aspetta Moussa e lo ritrova gravemente ferito a una gamba, dov’è stato colpito da un militare. Finché un libico propone a Seydou di guidare una barca stracolma, proprio lui che non ha mai visto un timone e non sa nemmeno nuotare e poi non se la sente di avere la responsabilità di così tanta gente su quel catorcio di motore. Ma l’armatore, per dir così, insiste, anche perché un minorenne non è imputabile, invece poi nella storia vera a cui il film si ispira, il capitano, una volta sbarcato, si farà tre mesi di prigione in Italia da “scafista, trafficante”.  E che si ritrova con una barcaccia stipata  di migranti, con una donna che sta per partorire, e altri che si sentono male e lui grida disperato; “Personne va mourir,  personne va mourir!” e come Carola Rackete, arriva finalmente a Lampedusa con tutto l’equipaggio sano e salvo. Seydou e Mustafa non avrebbero mai pensato di fare questa odissea, ha detto il regista Matteo Garrone presentando il film a Bari, studiavano recitazione come detto e sono felici di aver fatto questa esperienza, che per loro è già un lavoro ma tutti gli altri hanno recitato in totale aderenza al film, anche la piccola sorella (sempre nel film, sette anni) di Seydou, così a proprio agio sul set da essersi addormentata nella scena in cui si accorge che il fratello sta partendo: risvegliata dal regista, ha detto le frasi del copione come nulla fosse. Questa è la storia vera di Mamadou, ora residente in Belgio dove si è sposato, e fa il magazziniere. Questi poveri migranti devono pagare soldatacci nigeriani, carovanieri del Sahara, mafiosi libici e a ogni tappa del loro tormentato viaggio, sborsano fior di soldi senza che ciò gli garantisca alcunché. Adesso in Italia il ricatto: non volete finire nei Cpr (Centri di permanenza e rimpatrio per i migranti, in pratica una prigione prima del rimpatrio forzato)? Pagate allo stato italiano 5mila euro a testa, 4938 euro per la precisione, esattamente come fanno i tanti malviventi del film che speculano sulla disperazione altrui. Questo è un ricatto bello e buono, è scritto nel “decreto Cutro” a firma dei ministri Piantedosi, Nordio e Giorgetti. Un decreto inaudito che sancisce una vessazione non diversa dalle mille che questa povera gente subisce per mesi e mesi prima di arrivare alla sospirata Italia. La quale che fa? Strepita, urla, dice che non vuole migranti, li vuole distribuire in tutta Europa e non prende l’unico provvedimento auspicabile: una politica degna di questo nome che si faccia carico delle necessità e delle richieste di chi vuol migliorare la sua condizione di vita, organizzando un’accoglienza degna di questo nome. Spetta alla Politica agire e risolvere i problemi nel migliore dei modi, sempre nel rispetto della vita e speriamo che non si comporti come Truman con l’atomica: abolendo ogni principio di Umanità.

  • DAI FILM ALLA REALTA':
    A VENEZIA VINCE L'IMPEGNO

    data: 14/09/2023 22:44

     Settembre si avvia velocemente verso l’autunno. Di questo danno avviso a fine agosto le feste patronali che negli svuotati paesini del Sud si svolgono quasi tutte alla fine di agosto, in quanto è allora che finiscono le ferie degli “spatriati”, per dirla alla Desiati, di coloro cioè che hanno abbandonato il Sud in cerca di fortuna altrove, spesso al Nord, ma anche all’estero. E pure la Mostra internazionale del Cinema di Venezia segna il tempo in modo marcato. I suoi otto giorni sono filati via spediti e il finale soprattutto, sabato scorso, è stato impegnato, politico, oltre ogni aspettativa e oltre le cronache che si concentrano sul lato mondano della Mostra, pur importante, da non trascurare, Nella cerimonia conclusiva, presentata da Caterina Murino,  ci sono stati discorsi dei vari premiati molto al di là di un formale ringraziamento, che hanno riguardato i temi principali che attanagliano il mondo, la società attuale e il cinema, che ne è un riflesso, una meditata riflessione, non si è tirato indietro.

     
    Si tratta essenzialmente dell’emigrazione di massa, che ogni giorno ormai monopolizza le cronache. Al momento in cui scriviamo, mercoledì 13, Lampedusa, punto di approdo delle barche dei disperati che vogliono raggiungere la “fortezza Europa”, sta scoppiando. Il suo sindaco ha paragonato la situazione a quella di Bari di 30 anni fa, quando ad agosto arrivò in porto dall’Albania la nave Vlora col suo carico di disperati, che abbandonavano un Paese schiacciato da una dittatura. A Lampedusa c’è stata stanotte l’ennesima operazione di soccorso e un neonato di cinque mesi è caduto in acqua, è morto proprio mentre i volontari cercavano di trarlo in salvo con la madre. Ma basta guardare l’ultimora per rendersi conto che ogni giorno ci sono naufragi con decine e decine di vittime: uno stillicidio a cui bisogna porre rimedio al più presto. Come hanno detto gli attori del film di Matteo Garrone, ringraziando una ong di Caserta che si mobilita per i migranti, bisogna al più presto rilasciare i visti d’ingresso e permettere alla gente di viaggiare liberamente senza che ricorrano agli scafisti e alla clandestinità di barche malsicure, che affondano con facilità. Molte di queste barche stanno arrivando dalla Tunisia, vanificando l’accordo che il governo Meloni ha tanto glorificato con il suo omologo a Tunisi; addirittura si ostacolano, con sotterfugi davvero meschini, le navi di soccorso, imponendo di privarsi dei mezzi di aiuto.
     
    Ebbene a Venezia, è stato premiato con il Leone d’argento per la miglior regia il film di Matteo Garrone che proprio di questo tratta:“Io capitano”, in sala dal 7, racconta l’odissea di due senegalesi, Seydou e Moussa, attraverso il deserto e l’orrore dei centri detentivi libici. I protagonisti erano presenti, sono stati premiati a loro volta e hanno tenuto discorsi molto toccanti, in perfetto italiano tra l’altro. Garrone ha poi rivolto un pensiero al Marocco, dove si sono svolte molte riprese, colpito da un terribile terremoto l’8 settembre,  la notte della vigilia della premiazione.
     
    E non era il solo perché anche “Green border” della regista polacca Agnieszska Holland, che ha avuto il premio speciale della Giuria, si sofferma sull’incontro tra una famiglia siriana in fuga, un insegnante afgano e una guardia di frontiera in quel terribile confine tra Polonia e Bielorussia (come quello diventato tristemente famoso anni fa per la scena, davvero impietosa, di una reporter che faceva lo sgambetto a un migrante in fuga dalla carica della polizia di confine). Holland, molto sdegnata, ha ricordato come proprio mentre si stava in sala grande, ad assistere ai film e alla premiazione, moltissime persone cercavano rifugio e salvezza sulle nostre sponde, senza trovarli. E ha ricordato che solo dal 2014 sono 60mila, secondo stime approssimative, i migranti che hanno perso la vita in mare nel loro disperato tentativo di fuga. Occorre rimediare, bisogna che le persone viaggino liberamente come le merci, come le armi, in tutto il mondo, senza più frontiere.
     
    Anche il film di apertura di questa ottantesima edizione, “Comandante” di Edoardo De Angelis, pur trattando di un episodio della Seconda guerra mondiale, quando il comandante Salvatore Todaro, di Chioggia, ordinò di salvare dei naufraghi belgi, nonostante fossero “nemici”, obbedendo alle leggi del mare e della morale, regole che andrebbero applicate anche oggi, trasgredendo i diktat di governi inani di fronte a tragedie epocali. La coppa Volpi per il miglior attore è andata a  Peter Sarsgaard, uno dei pochi americani presenti, per il film Memory di Michel Franco. Attori e sceneggiatori, ma anche numerose maestranze di Hollywood, sono impegnati infatti in uno sciopero di mesi, contro l’uso dell’Intelligenza artificiale. Ne ha parlato a lungo l’attore nativo dell’Illinois, 52 anni,  in un intervento appassionato, dicendo che la creatività umana non può e non dev’essere sostituita da un mezzo artificiale di questo tipo. In pratica, basta registrare movenze e voce di un attore, perché il computer possa replicarle all’infinito oppure le sceneggiature potrebbero essere scritte automaticamente, con quale ricaduta per il mondo del lavoro è facilmente immaginabile. Ed è per questo che a Hollywood si è scesi sule barricate, con un’adesione di massa forse mai vista negli Stati Uniti.

  • BASTA CON LA VIOLENZA,
    A PARTIRE DAI DUELLI

    data: 22/08/2023 15:36

    Nel film di William Whyler “Il grande paese”, un film che piaceva tanto al presidente Eisenhower che se lo fece proiettare tre volte di seguito alla Casa Bianca, c’è un’interminabile scena fra Gregory Peck e Charlton Heston che si sfidano a  duello nella sconfinata e torrida pianura deserta del New Mexico, senza testimoni, apparentemente per difendere il loro onore, e poi alla fine c’è un duello fra il tenente Henry Grillet  e i suoi accoliti e un proprietario terriero suo confinante, con cui è in lite da sempre. Da questo (come da altri) film si evince facilmente che gli americani non combattevano solo i nativi ma se le davano di santa ragione anche tra di loro. Insomma, violenza gratuita su violenza gratuita: “Che cosa abbiamo dimostrato con ciò?”, chiede Gregory Peck al suo sfidante alla fine della grande lotta, un match di pugilato senza esclusione di colpi fra due macho muscolosi e senza nemmeno guantoni, a mani nude, con la camicia candida l’uno, a quadretti l’altro, finché stremati, decidono di smettere. “Niente” è la scontata risposta.
     
    Ora questo spettacolo, a volerlo chiamare così, si sarebbe dovuto ripetere in Italia, in un’arena alla maniera degli antichi romani, fra i due tycoon dell’informazione mondiale: Mark Zuckerberg ed Elon Musk. Il cinema, che come ogni forma d’arte ha visioni sul futuro, aveva già avuto, 42 anni fa, la premonizione di questa sfida. Nanni Moretti nel suo “Sogni d’oro” inscenava un duello su un vero e proprio ring fra lui, regista d’avanguardia e un sostenitore del modo tradizionale di raccontare, quello che, secondo gli stereotipi, sarebbe piaciuto al bracciante lucano, alla casalinga di Treviso e al pastore abruzzese. I quali poi si presentano alla proiezione del film del regista innovativo, smentendo tutti i luoghi comuni su di loro.
     
    La smentita del ring da svolgersi secondo le regole dell’Mma , una disciplina (sic) di pugni senza esclusione di colpi, è arrivata da parte di Zuckerberg non prima che se ne parlasse diffusamente. E’ stato tutt’un coro di “venghino signori venghino”, da Renzi che li invitava in piazza della Signoria, al sindaco di Lucera che li vedeva bene negli spalti-ruderi del castello voluto da Federico II. Intanto, la cronaca italiana si “arricchiva” di episodi raccapriccianti: dal tizio considerato un gigante buono che accoltella un giovane vicino di casa rumoroso nell’idillio di santa Margherita Ligure, al “bravo ragazzo” che fa fuori uno che lo guarda storto, a un gruppo di giovani che stupra a Palermo una povera ragazza, diffondendo l’azione criminale con video virali, o al barbone massacrato da ragazzini, sempre a Palermo. Sembra di vivere in un paese di pazzi.
     
    Contemporaneamente si diffonde la notizia che la guerra fra Russia e Ucraina ha fatto già mezzo milioni di morti, un dato che non sembra impressionare nessuno e che al confine con lo Yemen le guardie arabe sparano contro migranti già stremati da un lungo viaggio.
     
    In questo contesto orripilante, ecco giungere col caldo ad alta temperatura e tenere banco per giorni, la notizia che due ultraricchi, che potrebbero dare l’esempio di un comportamento non civile ma civilissimo, proprio per la loro posizione di figure-simbolo, iconiche, si volessero picchiare. Mentre la tv, specie la Rai, sevizio pubblico non dimentichiamolo, trasmette “capolavori” di film uno più violento dell’altro, dagli “Intoccabili” di De Palma a “Quei bravi ragazzi” di Scorsese. Per carità, la violenza va anche rappresentata ma non in maniera così ossessiva. Programmatori della rai, non avete programmi, non potete discutere se non la mattina ad Agorà o meglio in radio, ma allora qualche volta trasmettete pure qualcosa di sensato, che abbia attinenza con quanto sta accadendo. Come l’ottima serie spagnola “Sei sorelle” trasmessa da Raiuno il pomeriggio e che ora sarà sospesa, nonostante le proteste degli utenti: una serie che affronta diversi argomenti, che fa pensare, ricca di colpi di scena e dalla recitazione esemplare.
     

    La violenza non si combatte con leggi più severe, le leggi ci sono: la violenza va estirpata dalla società, attiene alla mentalità, al modo di porsi di un popolo. Musk e Zuckerberg, alimentando per giorni questa ipotesi di uno scontro fisico fra di loro, hanno dato un pessimo esempio, così come lo danno quotidianamente tanti altri fattacci. E male hanno fatto tutti coloro che gli sono andati dietro, senza pensare, senza considerare l’effetto-eco che avrebbero potuto provocare. Basta con tutta questa violenza, basta anche con i cavalli che trainano le carrozze per turisti sedentari, basta con i palii, insomma basta con la violenza, da qualunque parte arrivi. 

  • FERMARE GLI OMICIDI,
    DOPO IL CASO TRAMONTANO

    data: 06/07/2023 22:18

    In genere non mi soffermo sulla nera perché ritengo che il delitto appartenga alla storia umana, fin dai tempi di Caino e Abele e non si riesce a trovare una cura. Tuttavia non posso togliermi dalla mente la foto di Giulia Tramontano in avanzato stato di gravidanza in primo piano sul mare di Marbella, trasmessa da tutte le tv insistentemente per giorni, fin quando poi è arrivato il veto governativo: basta col giornalismo d’inchiesta e soprattutto, bisogna che i media incrementino le storie d’amore e di maternità. E questa certamente non lo è: perché la povera Giulia, 29 anni, prossima al parto, è stata uccisa dal suo compagno, Alessandro Impagnatiello, barman e pure di lui s’è visto il video con cui preparava i cocktail non a Senago, dove la coppia abitava, non in un baretto di periferia, no, ma in un prestigioso bar di Milano, il bar che porta la firma di Giorgio Armani addirittura. E appariva un serafico barman, persino un po’ tronfio.

    D’accordo, il delitto non conosce classe sociale, eppure questo ennesimo femminicidio racchiude in sé tanti spunti per un’analisi sociologica e come il timore che certi delitti vengano amplificati dai media, che pure non devono smetterne di parlarne, proprio per avvisare, per mettere in guardia: si parla tanto di donne ammazzate e puntualmente, invece di fermare l’ondata di sangue, il giorno dopo se ne parla ancora. Quindi forse se ne parla male. Addirittura a sant’Antimo, in Campania, il paese di origine di Giulia, pochi giorni dopo un quarantenne ha ucciso un genero e una nuora, sposati a suoi figli diversi, convinto che avessero una relazione e che lui fosse il giustiziere deputato a “mettere ordine” in famiglia, non curandosi nemmeno della presenza dei figlioletti rimasti orfani adesso di madre e padre.

    Giulia faceva l’agente immobiliare, si era trasferita al Nord per cogliere migliori occasioni di lavoro, viveva col compagno e un gatto in un appartamento decente, alle porte di Milano, a Senago. L’assassino aveva alle spalle una convivenza con un figlio di 8 anni: la sua precedente compagna non è stata attinta dai cronisti, segno che si tratta evidentemente di una borghese, perché questi cronisti di nera quando trovano un avvocato di grido o un esponente della borghesia, si fermano, tralasciano senza pensarci due volte. A parlare è quasi sempre il proletariato. Innamoratosi di una sua collega, di cui è trapelato solo il nome (anch’ella molto brava a scansare i cronisti, forse perché inglese e quindi volata via sull’isola ben presto), un nome in feroce contrasto con quanto accaduto che inizia per A, l’assassino non ha messo in atto il civilissimo espediente della separazione, del divorzio, dell’ognuno prosegue per la sua strada, no, ha aspettato che la compagna tornasse a casa, dopo un chiarimento con l’altra di cui era venuta a conoscenza, e l’ha assalita alle spalle uccidendola con un coltello che ha preso dalla cucina (è terribile, che coltelli hanno le persone in casa?). In un primo momento la madre e la sorella della povera vittima si erano rivolte alla trasmissione Chi l’ha visto, ipotizzando un allontanamento volontario della loro congiunta. Addirittura la madre di Giulia aveva chiamato il “genero” sul tardi della domenica successiva alla sparizione (ovvero il telefonino della figlia silenzioso), sabato 27 maggio, per “non disturbarlo sul lavoro”, quel lavoro prestigioso che lui pure aveva, non si capisce come essendo poi di formazione, a quel che si è saputo, ragioniere. E la cronaca ha insistito sulla vittima, si è rivolta tutta al femminile, ha fatto intervenire pure la madre del malfattore, che piangendo in tv chiedeva al figlio perché l’avesse fatto, ma che pure qualcosa poteva sospettare, avendo le chiavi della casa della coppia ed essendoci entrata poco dopo. L’assassino però, a quanto pare, avrebbe subito ripulito tutto, anzi è stato pure visto da tutti mentre puliva le scale condominiali e ancora non si sospettava di lui. In un caso così eclatante, si è arrivati alla verità solo giovedì, ovvero cinque giorni dopo. Dopodiché c’è stato il silenzio più assoluto su questa vicenda, tranne per un piccolo caso in cui Mara Venier a “Domenica in” se l’è presa con la madre dell’assassino, dicendole di aver generato un mostro. Lapalisse sarebbe contento ma, ancora una volta, si parla poco dell’assassino, non si indaga sul suo passato, tranne che sul lavoro gli amici lo chiamavano “il lurido”. Non si dice nulla sulla sua precedente compagna, il padre non è pervenuto. Ed ecco che la cronaca nera, così spesso additata come morbosa, insistita, almeno fin quando sono attive le trasmissioni che se ne occupano, si scopre invece carente, imperfetta, lacunosa. Mai come in questi casi, dovrebbe essere attivo un servizio di prevenzione: conoscere per prevenire. Non però  in trasmissioni come “Amore criminale” dove ci si sofferma sulla ricostruzione sanguinolenta del delitto, ma piuttosto sulla messa in guardia da certe personalità che non spuntano come funghi dopo la pioggia ma vengono fuori da anni di disagio psichico e da contesti disturbati. Quindi andrebbero avvisate le ragazze e anche i ragazzi: studiate bene la persona con cui avete intenzione di fidanzarvi. Ma soprattutto mettendo in guardia le ragazze perché qui c'è da lavorare sulla mentalità: la donna non viene considerata come si deve, il vecchio detto che una donna non si tocca nemmeno con un fiore andrebbe rivalutato. Cosa ci dice la chat dei pubblicitari milanesi in cui si insultano le colleghe? che le donne sono oggetto di pettegolezzo senza freni, e del resto accade anche al Maxxi, in un incontro cosiddetto culturale, che due maschietti discettino delle loro numerose conquiste, vantandosene in un modo che ancor oggi una donna non potrebbe.

    Parlarne dunque, non censurare questi fattacci ma certo non invitando la psicologa che ha lavorato per anni senza batter ciglio (non lo sapeva) con un serial killer senza accorgersene, l’onnipresente Maria Rita Parsi, colei che conduceva “Diario di famiglia” su Rai tre con un consulente familiare, Alessandro Cozzi, ora all’ergastolo per aver ucciso ben due persone. Il programma andò avanti per sette anni e in quel lungo periodo Cozzi, sposato con un figlio, era assolutamente insospettabile agli occhi di tutti, pure della fine psicologa, finché le indagini non lo misero all’angolo…Il che farebbe alla fine annullare qualsiasi ipotesi di prevenzione, purtroppo.  

  • IL TRIONFO DEL DIARIO,
    OPS DEL BLOG

    data: 10/06/2023 20:35

    Vanno molto le biografie, le vite vissute, non solo scritte ma anche, e forse più, filmate. Hanno cominciato le Kardashian, influencer, modelle, comprese in una vasta famiglia di cui si son seguite le vicende per anni. Del resto, chi come me segue giornalmente “Un posto al sole” o “Beautiful”, finisce per considerare familiari personaggi di pura fantasia, anzi fiction. Tornano dei personaggi che si erano persi di vista decenni fa, con gli stessi attori e ci piacerebbe vedere noi all’epoca in cui li avevamo lasciati, in un andirivieni temporale che solo il cinema è capace di fare. Adesso, su Primevideo (che è la televisione di Amazon) è possibile vedere la seconda serie dei Ferragnez, ovvero la vita quotidiana di Chiara Ferragni e di Fedez, e dei loro due bimbi, più i nonni. Va detto che le riprese sono davvero fantastiche: non solo Milano ma anche Cremona sembrano le città più belle del mondo, ma poi la narrazione si svolge come in “Scene da un matrimonio” di Bergman con riprese altrettanto raffinate. La coppia si confida a uno psicologo (che resta in ombra) e ci sono alti e bassi, ognuno fa il suo lavoro (difficilmente imitabile, in quanto Chiara Ferragni ha fatto un business della sua immagine e Fedez è un rapper), i nonni accorrono dai piccoli quando i due sono in giro per il mondo, non necessariamente insieme, lei in Messico a pubblicizzare del caffè, lui a New York a un’iniziativa di beneficienza ed è piacevole vederli. Al punto che quando un’undicenne, recentemente, ha messo in dubbio l’affetto futuro della figlia per la madre che si fotografa in mutande, vien da contestarle che invece, la famiglia funziona, l’amore circola, almeno da quel che vediamo: che poi sia sotto gli occhi di tutti fa parte del gioco, ma insomma gli occhi devono essere pure benevoli. Lei, la Ferragni, ha subito replicato: se è servito a mettere a tacere i bacchettoni, ben venga la sua foto. Sistemando così ogni visione retro, e anche i dubbi femministi, forse relegati in un’epoca arcigna da opposti estremismi: oggi, semplicemente, non usa più. Perché criticare sempre e non considerare, invece, che questa è l’epoca dell’immagine, e in fondo chi non ha filmini di famiglia non ha che da rimpiangerli, specie a lungo termine. Tutti noi, del resto, rimpiangiamo le foto di carta che sono molto più stabili delle mille immagini del telefonino, a meno di non salvarle. E poi non è nemmeno una novità assoluta: la regina Elisabetta, per dire, è stata fotografata in ogni minuto secondo della sua vita e si tratta ora di testimonianze storiche. Ma non solo: il reality impazza ovunque. Anche Sylvester Stallone si è lasciato tentare e su Paramount mostra la sua vita con moglie e tre figlie. Su Raicultura c’è “L’avversario”: a condurre un giornalista dal passato da calciatore, Marco Tardelli che ha firmato un ritratto di Antonio Cassano davvero commovente. Nel romanzo di Beppe Lopez, “Capibranco”, ci sono pagine esemplari dedicate a Fantantonio, il calciatore di Barivecchia.
     
     Il gruppo di registi “Pesci combattenti” ha realizzato con successo “Le ragazze”, storie di donne famose e no, che ricalca altri programmi come “Sconosciuti” o “Non ho l’età”, in cui si riconoscevano magari vicini di casa intervistati in prima persona, la cui vita diventava un romanzo, come in effetti può accadere a chiunque.
     
    Non parliamo poi di Youtube, ci si apre un mondo. Sconfinato. Fabio Volo insegna a fare il pane, memore di suo padre panettiere. Paolo Crepet distribuisce preziosi consigli psicologici. Ci sono le estetiste e le influencer, concentrate sul trucco, ma non solo: una folla proprio, che spesso dimostra una vera inclinazione alla filosofia, per quanto sono serrati e logici i loro ragionamenti, come per esempio la triestina che vive in Olanda Nicole Husel, o le bresciane Cristina Fugazzi (l’estetistacinica, a capo di una impresa cosmetica, VeraLab, di grande successo) e Selvaggia Sostegni (che concilia la passione per la cura di sé con quella per i libri). C’è quella che descrive nel dettaglio il suo matrimonio (Giovanna Lovison), chi rivela una mimica attoriale come Giulia Cova da Parma o la spiritosa Basic Gaia da Torino e ci sono ormai delle star internazionali. Poi c’è anche molta fuffa, d’accordo, e istruzioni per qualunque cosa, anche le più bizzarre, ma la qualità salta sempre agli occhi.
     
    Per esempio Garance Dorè,48 anni,  nom de plume di un’illustratrice e fotografa che, partita dalla Corsica, in una ventina d’anni anni ha rivoluzionato la sua vita: da Parigi prima ha aperto uno studio di moda (fotografia e pr) a New York, poi si è trasferita a Los Angeles, sposandosi con un musicista. Il matrimonio è finito, ma lei non si è persa d’animo: si è trasferita in Nuova Zelanda e poi, sempre mantenendo il suo lavoro e anzi ampliandolo con la creazione di una linea di bellezza eponima dai pochi essenziali prodotti, si è trasferita in Scozia, dove ha sposato Graham McTavish, attore famoso per il suo ruolo nel “Trono di spade”. Quello che è davvero sorprendente in Garance Dorè è il livello di scrittura del suo blog: è bravissima, da premio Nobel. E nel blog ha descritto e descrive tutto, per filo e per segno, anche la difficile ricerca di una maternità che non è arrivata. Ha scritto un libro: “Love.Style.Life”.
     
    Non ti aspetteresti da una giovane donna che crea cosmetici come la parigina Violette Serrat dei ragionamenti sull’accettazione di sé, e che il suo blog sia così ricco di spunti, interessante e letterariamente ineccepibile. Davvero sembra che la via letteraria passi, per queste intrepide imprenditrici e pensatrici, dall’estetica. O dalla danza, com’è il caso della barese Serena Rainò, che ha inventato una tecnica di allenamento a metà fra la classica e il fitness. Con dei corsi da seguire online, previo abbonamento, ma anche un dialogo costante con le sue follower (seguaci) su Instagram. E Viviana Volpicella, stylist barese-milanese, ogni lunedì tiene una “rubrichina”, come la chiama lei, con consigli di moda e arte varia, da qualche tempo anche su Vanity Fair.
     

    In conclusione, comunicare oggi comprende un ampio spettro di manifestazioni e gli steccati fra giornalismo, letteratura e influencer forse sono davvero spariti.  Leggere, vedere e ascoltare per credere. 

  • CHI ASSUME IL COMUNICATORE?

    data: 13/05/2023 17:57

    Ed ecco che giovedì 11 maggio, ad Agorà, è spuntata la figura professionale del “comunicatore”. Finora si erano avuti casi di giornalisti disoccupati che, invitati ogni sera a Lineanotte (Raitre) da Mannoni, un posto l’avevano trovato e pure da direttore: un esempio per tutti, Mario Sechi che, grazie alle ospitate televisive, è diventato prima direttore dell’agenzia Agi e ora portavoce “del” presidente (anche se trattasi di una donna) del Consiglio. Della serie: comunicate, comunicate, qualcosa resterà… Ma si pensava, o almeno io fino a stamattina pensavo così, che questa qualifica fosse appunto un attributo del comunicatore per eccellenza, ovvero il giornalista. Invece anni di Scienza della comunicazione, una facoltà che avrebbe dovuto sfornare giornalisti in quantità e così ha fatto, allargando il campo dei disoccupati in una professione via via sempre più svilita e superflua, hanno alla fine prodotto il “comunicatore”.

     
    E chi lo paga? Chi paga quello che si direbbe un “addetto stampa”? Comunicatore si attaglia infatti a una molteplicità di ruoli: chi urla al mercato i prezzi dell’ortofrutta in vendita li comunica, se telefono a una persona per informarla di qualsiasi cosa mi venga in mente o parlo con un vicino o un passante, automaticamente sono una comunicatrice. Qualsiasi scambio (anche gestuale) comporta una comunicazione, al punto che persino l’Intelligenza artificiale è predisposta al dialogo (pure muto, visto che ci legge nel pensiero, un particolare molto inquietante). Se non si comunica non c’è insomma vita sociale e quindi che cosa fa esattamente un “comunicatore” che non faccia già il giornalista, il dialogante, lo scrittore e via elencando? Fb, per esempio, è una tribuna di comunicatori: con i post tutti gli iscritti al social network che inizialmente avrebbe dovuto collegare un gruppo di amici, si sono ritrovati a scrivere, quando avevano smesso la penna dai tempi dei temi della scuola. E di riflesso a leggere. Un successo replicato con i vari messaggi (da Whatsapp a Telegram), per cui la comunicazione è davvero all’ordine nemmeno del giorno ma del minuto secondo. Con la conseguente minaccia per la carta stampata (che ormai leggono solo i più anziani) e per il giornalismo in generale: tutti comunicatori, nessun comunicatore. Non è che si possa far molto per frenare questa deriva e c’è una moltitudine di nuove professioni che non si capisce bene dove vadano a parare. Il consulente del lavoro per esempio: dovrebbe aiutare a trovare un lavoro, invece spesso viene usato dalle aziende per tagliare posti già occupati. Il rischio qual è? Che in realtà ci si fregi di un titolo, come accade sempre più spesso con la laurea, a cui non corrisponde un lavoro, una retribuzione. E che dietro “comunicatore” si nasconda il nulla oppure la speranza di una ribalta televisiva che conduca a un qualche impiego.

  • TRE SCRITTRICI
    AL PREZZO DI DUE

    data: 26/04/2023 23:19

    Vorrei recensire questo libro riportando un intero capitolo, ma non si può. Vorrei consigliare a tutti la lettura di un libro che apparentemente non avrebbe molto senso leggere, almeno quando l’ho comprato ho pensato che il racconto, la “storia di un’amicizia” (come recita il sottotitolo) potesse essere noioso. Quanto mi sbagliavo! Adesso benedico quel momento in cui, fra le millanta offerte della libreria, ho scelto proprio un volume che parla, certo, di due fra le mie scrittrici preferite: Katherine Mansfield e Virginia Woolf ma che consente pure di scoprire la loro degnissima erede, vale a dire Sara De Simone, che di un lavoro d’archivio, di memoria, ha fatto un capolavoro.

     
    “Nessuna come lei” di Sara De Simone (Neri Pozza, pagg. 432, 22 euro) dunque va letto, e invito caldamente a farlo, soprattutto per la magnifica, esemplare, fantastica prosa dell’autrice. E poi, certo, per quello che racconta di due autrici meravigliose, divise solo da quattro anni ma accomunate da una vera autentica passione per la letteratura. E che non smettono mai di scrivere, anzi hanno fatto della scrittura la loro stessa ragione di vivere. Si consideravano l’una eco dell’altra e in un mondo in cui l’elaborazione intellettuale era esclusivo dominio degli uomini – certo, anche nell’emancipata Inghilterra, anche nel circolo di Bloomsbury tanto decantato – fanno di tutto perché le loro opere siano stampate, lette, diffuse, e non mancano, anche nella solidità della loro simpatia – di criticare, di recensire, di passare al setaccio ogni racconto, ogni romanzo, ogni scritto in sostanza.
     
    Katherine Mansfield (Wellington, 14 ottobre 1888-Fontainebleau, 9 gennaio 1923) ebbe una vita breve, minata dalla tubercolosi: nata in una famiglia benestante in Nuova Zelanda, ben presto era sbarcata in Gran Bretagna, a Londra, attestandosi sia come valente violoncellista che come scrittrice. E la sua vita indica come fosse forte il potere aggregante della cultura anglosassone, sparsa in tanti continenti e paesi quanto il suo potere coloniale. L’ideale di vita della ragazza sarebbe stato in realtà realizzare spettacoli di narrazione. Leggere le sue opere su un palco, come già avevano fatto, riscuotendo un enorme successo, Dickens e Twain. Per una donna era più difficile realizzare questo sogno, per lei in particolare, perseguitata dal pregiudizio di una società fortemente classista ed elitaria, che la indicava come una donna libera, dal passato discutibile. Inoltre, purtroppo, non ne ebbe il tempo, ma il suo metodo tendeva al teatro: “Non scelgo solo la lunghezza di ogni frase, ma anche il suo suono, il crescendo e il calare di ogni paragrafo perché si adatti perfettamente al personaggio, in quel giorno, in quel preciso momento. E dopo aver scritto, leggo ad alta voce – moltissime volte – proprio come si suonerebbe ancora e ancora una composizione musicale”. (pag. 242).
     
    Tuttavia, non era tipo da perdersi d’animo e soprattutto, nonostante un marito egoista e presuntuoso (le cui opere letterarie non hanno retto al tempo) e la lotta strenua contro la malattia, non è mai venuta meno alla sua vocazione. Piena di voglia di vivere, di entusiasmo per la natura, il paesaggio, i fiori, le persone, come Virginia del resto, Mansfield rappresenta la strenua lotta-contro il destino avverso: “Oh, com’è bella la vita, Virginia – scriveva all’amica – è meravigliosamente bella. Anche se vivessimo per sempre, non sarebbe abbastanza. A volte mi siedo sul muretto a guardare il sole e il vento che si agitano sull’erba alta e sulle coppe di orchidee selvatiche e mi sento…semplicemente impotente davanti a questa meraviglia”.
     
    De Simone le segue, lettera dopo lettera, dal 1916 al 1923 e poi salta al 1941, anno in cui Virginia Woolf si lasciò scivolare nel fiume, distrutta da una delle sue crisi depressive (era nata a Londra il 25 gennaio 1882 e la disgrazia avvenne il 28 marzo 1941, in piena guerra). Da tutto ciò che veniamo a sapere su queste due grandi menti, così eccelse nella scrittura così sfortunate nella salute, si traccia anche un severo giudizio sulla medicina dell’epoca: Mansfield viene sottoposta a continue cure e a cambiamenti d’aria, dalla Costa Azzurra alla Liguria alla Svizzera, senza che la sua tubercolosi fosse sconfitta; Woolf veniva invitata per mesi a stare ferma, a non scrivere (quando magari ne avrebbe tratto giovamento) e a prendere antidepressivi che non hanno sortito alcun effetto. Erano così intelligenti, attive, benestanti ma anche si affannavano per ricavare qualche soldo dal lavoro letterario a cui attribuivano somma importanza. Eppure si ha come l’impressione che faticassero il doppio di quello che avrebbero dovuto, stando ai risultati. E che l’ambiente che le circondava, fatto di intellettualoni dall’acribia critica, soprattutto nei loro riguardi, le mettesse spesso e volentieri sotto scacco.
     
    Prendiamo il capitolo “La strana sensazione di essere simili”, relativo al 1920. Le due scrittrici sono consce del loro valore, ma l’una si considera “dull”, noiosa, inetta, a causa della sua malattia e l’altra che va a trovarla all’Elefante (così Mansfield aveva nominato la sua casa londinese che divideva col marito Murry), sempre con quella sua difficoltà a scrivere (tanto da confidare che preferisce fare il pane) e Katherine che la incoraggia: “E’ strana l’impressione che fa Katherine: come di una persona a sé stante, completamente autocentrata e al contempo concentrata sulla sua arte, quasi feroce al riguardo, con me che recitavo un po’ la parte di quella che non ci riesce a scrivere, e lei: “Ma che altro c’è da fare? Dobbiamo scrivere. La vita”. Ricordare, trasfigurare i personaggi delle proprie vicende nei racconti (come nel magnifico “Festa in giardino”, si trova in rete letto da Ioleggo), così esemplari, della Mansfield; tracciare sentieri di parole e di vicende, come nei romanzi spesso intricati (basti solo citare “Orlando”) della Woolf (veri flussi di coscienza, molto migliori di Joyce, subito glorificato), e di questo parlare e analizzare e sceverare, come due amiche che si dichiarano fieramente scrittrici, totalmente al servizio della loro arte e sincere da non doversi risparmiare critiche e suggerimenti (più della Mansfield, molto sicura di sé, nei confronti della Woolf che viceversa).
     
    E’ un libro questo che non si lasceranno sfuggire gli amanti delle due scrittrici, felici di conoscere anche una terza scrittrice, la De Simone, che mi piace immaginare in conversazione con Mansfield e Woolf (l’avrebbero accolta benissimo), sempre qui con noi, con i loro stupendi scritti.

  • LA PARANOIA SECONDO BUNUEL

    data: 11/04/2023 09:31

     E’ un vero peccato che un capolavoro del calibro di “Lui” meglio noto con il suo titolo originale: “El” (recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna) di Luis Bunuel, resti in sala solo un giorno. C’è stato un tempo in cui la Rai mandava in onda rassegne dei maggiori registi ed “El” è passato in tv solo nel 1981. Con scandalo evidentemente della chiesa e del potere maschilista, poiché questa pellicola, adesso settantenne, non ha perso nulla della sua forza innovativa e rivoluzionaria. Dopo quel fugace passaggio, infatti, il film restò una preziosa gemma per intenditori, e in tv anche allora non mancarono le polemiche. Oltre a essere una meraviglia visiva – la fotografia in bianco e nero di Gabriel Figueroa è semplicemente perfetta – è un film didattico: non a caso Lacan lo adoperava per mostrare ai suoi studenti la paranoia, il comportamento ossessivo. Che poi il punto di vista sia spiccatamente femminile, deriva anche dal fatto che sia tratto da un romanzo del 1929 di Mercedes Pinto (“Pensamientos”). Inoltre ci svela magnifici attori – il protagonista somiglia ad Amedeo Nazzari e c’è un’aria alla Matarazzo, un autore napoletano da riscoprire - e un Paese, il Messico, così poco noto ai nostri sguardi cinefili, abituati agli stessi divi, agli stessi scenari (per lo più americani), da costituire una esperienza davvero sorprendente. Bunuel, di cui ricorre il quarantesimo della morte, a 83 anni, girò in Messico diversi film: questo in particolare dev’essere molto piaciuto a Hitchcock che ha ripreso cinque anni dopo pari pari la scena del campanile in “Vertigo”. Bunuel a sua volta si è ispirato al Wells del “Terzo uomo” quando, sempre dall’alto di quel campanile, fa dire frasi sprezzanti sull’umanità al suo protagonista. Infine è un film che andrebbe fatto vedere a scopo preventivo (magari servisse) a tutti quegli uomini che sono afflitti da forme maniacali di gelosia, fino a spingersi al femminicidio. E anche a quelle donne che sopportano tutto in nome dell’amore.

     

    Veniamo alla trama. Francisco Galvan de Montemayor (Arturo de Cordoba) è un possidente di Città del Messico che vive in una splendida casa Liberty fatta costruire dal nonno, di cui lui reclama delle terre evidentemente toltegli, per cui sta in causa e comincia licenziando l’avvocato che non riesce ad accontentarlo. Intanto si vede una cameriera che scappa sconvolta dalla stanza del maggiordomo Pedro; Francisco intuisce cosa possa essere successo ma fa cacciare lei e non il suo fido Pedro. Ricco, galantuomo, stimato da tutti, nullafacente, Francisco va sempre in chiesa: siamo nella settimana santa ed egli assiste alla lavanda dei piedi con sguardo lubrico, finché si sofferma sui piedi, calzati da décolleté nere, di una donna giovane e bellissima. Torna nella stessa chiesa sicuro di rivederla e lei infatti è lì, vestita di bianco (non so chi sia la costumista, ma c’è l’eleganza ineguagliabile degli anni Cinquanta, anche nelle automobili). Si presentano ma lei gli dice di essere fidanzata. Cambio di scena: Francisco va a trovare il suo amico Raoul, che fa l’ingegnere e gli chiede di consigliargli un perito per la questione delle sue terre. L’amico (Luis Beristaìn, attore messicano) gli confessa di stare per sposarsi. Allora Francisco invita l’amico, la fidanzata (Gloria ovvero Delia Garcés) e la madre di lei (Donna Esperanza, Aurora Walker) a una cena nella sua grande casa: come vede la fidanzata dell’amico, riconosce in lei la donna della chiesa, Gloria Milalta. Una volta tutti a tavola, compreso l’amico prete, interrogato dalla madre di lei sul perché non imiti l’amico visto che l’invidia, Francisco spiega che per lui l’amore è colpo di fulmine, attrazione immediata e irrevocabile. Il sacerdote, ospite fisso di Francisco, dichiara il suo colpo di fulmine per il tacchino (sempre ironico Bunuel, specie con la chiesa). Gloria cerca di andar via con il fidanzato, impegnato su una diga, ma evidentemente la storia con Francisco va avanti. Cambio di scena: non vediamo il matrimonio ma Gloria che per strada, smarrita, incontra Raul e accetta un suo passaggio a casa. In auto lei gli dice che Francisco non è quel che sembra, l’uomo integerrimo ed educato che tutti vedono, no, tutt’altro. Sin dal viaggio di nozze a Guadalajara, una splendida città a 1500 metri di altezza, ritratta in modo sublime. Sin da allora, mentre guardano il panorama, un conoscente di Gloria che si avvicina salutandola cordialmente suscita i sospetti di Francisco, fin quando si accorge che l’uomo risiede nel loro stesso albergo, addirittura nella camera accanto. Paranoico, convinto che li stesse spiando, folle di gelosia, infila un ferro da calza nella serratura della camera accanto: se davvero il vicino li avesse spiati in quel momento, lo avrebbe accecato. Francisco è un assassino potenziale e soffre di gelosia anche retroattiva; un pazzo scriteriato protetto dal suo ruolo sociale e dalla religione che lo asseconda. Ma a tratti; in altri momenti si ricorda si essere innamorato di Gloria sicché lei, a sua volta presa, è completamente indecisa sul da farsi, sconcertata. Però Francisco la allontana da tutti i suoi amici, persino dalla madre. A un certo punto, si ricorda che è il compleanno di Gloria e dà una festa, e la prega di essere gentile con il suo nuovo avvocato. Allora Gloria svolge alla perfezione il ruolo di padrona di casa, balla con l’avvocato, suscitando le maldicenze del prete con sua madre. Francisco si vendica la notte stessa, picchiandola: le urla della povera donna giungono alla servitù, che non sa che fare e decide di non intervenire. Ma i soprusi di Francisco non finiscono e Gloria cerca la solidarietà della madre, la quale però viene convinta dal genero che è lei, Gloria, a non essere abbastanza comprensiva con suo marito. Gloria si confida anche con il sacerdote ma questi difende Francisco, uomo di chiesa perfetto. Gloria confessa a Raul che Francisco è arrivato fino al punto di spararle a salve, procurandole uno spavento mortale. Raul, giustamente, protesta: “Scusa, Gloria, ma mi pare che tu ci prenda gusto a queste violenze, non è possibile!”. Infatti a quel punto sembra che Gloria vada via di casa, invece è ancora lì e in una scena di massima tensione, vediamo lui, “el” che le si avvicina mentre dorme con ovatta, lamette, corde, con l’intenzione evidentemente di ucciderla: ma a quel punto Gloria tira fuori tutta la voce che ha, vincendo il panico, e richiamando i camerieri che la salvano. “El” viene arrestato finalmente? No, continua la sua vita di sempre, signorotto rispettato e temuto. Va in chiesa come al solito e qui, il surrealismo di Bunuel raggiunge il vertice per cui questo suo film è famoso: Francisco pensa che tutti, lì tra i banchi, sappiano quello che ha fatto, conoscano la sua insanità mentale e li vede che lo irridono, che lo indicano, mentre la scena che noi vediamo è quella di gente che sta al suo posto ad ascoltare la messa. L’alternanza delle due scene, quello che vede Francisco e quello che vedono tutti, è il tocco magistrale di Bunuel. Quando persino il prete, il suo amico, gli si rivolge toccandosi la tempia con l’indice, nel gesto universale che indica il “loco”, il pazzo, Francisco gli si getta contro, tentando di strangolarlo. Francisco ha raggiunto il culmine della sua follia ma non viene incarcerato no, finisce in convento. Dove, 12 anni dopo, Gloria e Raul vanno a vederlo da lontano, insieme a un bambino che forse è proprio figlio di Francisco, infatti si chiama come lui, a testimonianza che nei momenti di tranquillità Gloria amava quel marito schizofrenico e da buona moglie cattolica non ha mancato il suo dovere. Francisco però non è guarito, a dispetto di quello che lui stesso assicura al priore e all’intuizione che siano stati proprio Gloria e il suo amico di un tempo a guardarlo da una finestra : l’ultima scena, infatti, lo ritrae di spalle (ed è lo stesso Bunuel a interpretarlo) che cammina a zigzag, come nel pieno delle sue crisi. Un film davvero magnifico.

  • IN ARCHIVIO IL BIF&EST N.14

    data: 02/04/2023 22:44

    “Bene, ho preso tutto, corro altrimenti sono in ritardo per il prossimo film!” Nooo, non più, il Bif&est edizione 14-2023, è finito ieri sera e, sebbene, mentre lo seguivo, abbia accusato certo della stanchezza, era talmente tutto così esaltante che adesso mi dispiace sia finito. Quella botta di malinconia che ti prende quando un evento ha termine, beh, sarà un luogo comune ma è realistica, specie ripensando ai magnifici due giorni passati, quando ci s’incrociava per strada, lungo il miglio dei quattro principali teatri baresi, fra sconosciuti fino a qualche giorno prima ma che erano diventati immediatamente sodali e quindi ci si sorrideva, ci si scambiava un rapido saluto e qualche commento sul film appena visto o da vedere. Perché la cinemania è così: non conosce confini, né di spazio né di tempo. Prendiamo la giuria del pubblico, di cui mi onoro di aver fatto parte, scelta dal grande direttore Felice Laudadio: 24 persone, di varia età, professione e cultura, coordinate da Michele Mosca e dalla produttrice palermitana Donatella Palermo, donna autorevole (è una produttrice di capolavori come “Fuocoammare” e “I viaggi del Papa”, che Raiuno trasmetterà venerdì sera, di Gianfranco Rosi e di tanti altri film) ma anche fantasticamente amichevole e affettuosa. Sembro esagerata ma perché è stato davvero questo lo scenario del Bif&st, forse per via del fatto che il Covid si sia finalmente, almeno così speriamo, allontanato e gli assembramenti sono tornati (ieri sera via Sparano era un formicaio).

     
    Pensiamo se tutto ciò sparisse, se Bari dovesse rimanere senza Bif&st: un incubo che pure il direttore Laudadio ha paventato durante la conferenza stampa finale, alla presenza del sindaco Antonio Decaro: “Non pretendiamo chissà cosa, siamo abituati a lavorare con i gadget che abbiamo, i nostri collaboratori non prendono cachet ma se non ci si dà la garanzia che da domani si possa cominciare a lavorare al prossimo Bif&st con tranquillità, temo di non poter garantire che questa manifestazione ci sia ancora”. Parole accorate a cui il sindaco ha risposto laconicamente che il prossimo Bif&est si terrà nel marzo 2024, scorrendo sul suo telefonino tutte le manifestazioni collaterali in città che arricchiscono il programma. Schloendorff (presidente), con gesto teatrale, ha siglato il patto donando la sua sciarpa a Laudadio. Certo, la Regione, la maggior finanziatrice, e pure la Puglia film commission (passata alle cronache come un covo di litigiosi tremendi), non c’erano ma Decaro ha detto che Emiliano, per le note vicende giudiziarie (il pm Caspani di Torino ha chiesto un anno di reclusione per lui per finanziamento illecito), aveva bisogno di riposarsi questo sabato e comunque si è preso l’impegno di parlare anche per lui. Il che ha rasserenato tutti, eccetto i giornalisti.
     
    A prescindere da tutto ciò, l’amore per il cinema ha fatto sì che questo Bif&est, come per gli altri anni, sia stato preso d’assalto da addetti ai lavori e no. Con un entusiasmo che ha stupito persino Volker Schloendorff, il regista tedesco (ma residente a Parigi): “Sono stato a febbraio a Berlino ma vi assicuro che l’entusiasmo non era paragonabile a quello che ho trovato qui”. O meglio ritrovato, perché il maestro, presidente del Bif&st, è stato ospite diverse volte a Bari e venerdì sera al Petruzzelli è stato omaggiato da un corale “Tanti auguri a te”, in quanto il 31 marzo ha compiuto 84 anni. E ieri ha presentato un documentario magnifico: “The Forest Maker”, dedicato all’agronomo australiano Tony Rinaudo che ha vissuto 20 anni in Africa, in Nigeria in particolare, e ha dato avvio a un piano di riforestazione che si sta rivelando vitale per quell’immenso continente dai mille problemi. “E’ vero – ha detto Schloendorff – ma ho anche visto tanta energia, tanto ottimismo in Africa. Pensiamo solo alle donne che restano sole con i figli, dato che i mariti le abbandonano subito: s’industriano in mille modi per mettere un piatto in tavola”. Il cambiamento climatico, è denunciato nel doc, rischia di far spostare – attenti alla cifra - 250 milioni di persone nei prossimi anni perché non avranno le condizioni minime di sussistenza. La muraglia verde che circa trent’anni fa si cominciò a impiantare a sud del Sahara ha cambiato già l’aspetto di molte zone desertiche, rese tali dallo sfruttamento dei pastori. C’è un conflitto (per fortuna non armato, almeno non sempre) fra allevatori di bestiame e agricoltori ma il lavoro di Rinaudo è proprio di fare in modo che questi vadano d’accordo, rispettando comunque la necessità dell’Africa e di tutto il mondo di piantare alberi e ancora alberi. Quello che ripete in Italia Stefano Mancuso. E’ il solo modo che abbiamo di contrastare la minaccia climatica, la desertificazione e la siccità: se mancano verde ed acqua è la fine e questo, fa notare Rinaudo, lo dicevano già gli studiosi della fine dell’800, come scoprì lui da ragazzo aprendo per caso un vecchio libro, che spiegava le cause di siccità, epidemie, migrazioni di massa. Un volume che cambiò la sua vita. Certo, rispetto all’Africa che conosceva, adesso Rinaudo (ha 66 anni, ha avuto 4 figli in Africa, è tornato una ventina d’anni fa in Australia ed è famoso come il “riciclatore di alberi”) ha avvertito maggior tensione, ha avuto bisogno di una scorta laddove prima girava con tranquillità ma i capivillaggio ascoltano ancora i suoi consigli, e lui insegna ai ragazzi (anche di 10-12 anni, maschi e femmine) come potare, come ottenere il massimo da una coltivazione perché, sostiene, “la terra è ricchezza”. L’importante è che non diventi deserto. Un documentario incisivo, interessante, bello (conteneva anche dei cartoni animati), seguito dai ragazzi di varie scuole al Petruzzelli però senza coinvolgimento, a giudicare dall’assenza di domande finali, pur sollecitati da Enrico Magrelli. Eppure ce n’erano da fare, qualcuna da rivolgere anche al sindaco di Bari stesso: come mai, data l’importanza degli alberi, garanzia di vita, non ci si pensa due volte ad abbattere pini secolari? A Bari infatti questo accade spesso e volentieri, per decisione magari di un singolo (ignorante, va sottolineato) giudice. Mentre gli alberi andrebbero tutelati in ogni parte del globo. Rendiamocene conto: saranno costretti a emigrare altrimenti milioni e milioni di abitanti della terra, l’unico pianeta abitabile che abbiamo, come ha dimostrato anche il ciclo scientifico svoltosi ogni mattina al Piccinni.
     
    Venerdì è stata una grande serata, e la giornata era stata inaugurata al Petruzzelli dalla “master class” di Francesco Piccolo che ha illustrato gran parte del suo libro: “La bella confusione”, che doveva essere il titolo di “8 e mezzo”, il film che Federico Fellini (di cui Piccolo si dichiara fan sfegatato fin dai tempi dell’adolescenza) girato nello stesso anno, il 1963, del Gattopardo di Visconti e con la stessa attrice, Claudia Cardinale, che si divideva fra i due set. Piccolo, scrittore, sceneggiatore, amico di Elena Ferrante anche se, dice ,non la conosce di persona, di cui recentemente ha ridotto, insieme a Laura Paolucci, per Netflix: “La vita bugiarda degli adulti”, ha riempito il libro di mille aneddoti sconosciuti, com’è solito fare, per esempio quello dell’improvviso distacco fra Fellini ed Ennio Flaiano, dopo che durante una trasferta a Los Angeles, lo scrittore era stato messo, con suo gran disappunto, “fra i giornalisti”. Un libro di aneddoti sul cinema è anche quello di Alberto Crespi, notissimo ai fan di Hollywood party (Rai radiotre), che lo ha presentato al Margherita ieri: “Short cuts-Il cinema in 12 storie” (editori Laterza).
     
    Dunque venerdì sera c’è stata la premiazione per la miglior regia, il miglior attore e la migliore attrice della giuria del pubblico, ovvero: “L’uomo senza colpa” di Ivan Gergolet, Orlando Angius (attore teatrale sardo di solito comico, qui invece, in “Tutti i cani muoiono soli” di Paolo Pisanu, in un ruolo tragico, tornato a Bari dove aveva fatto il militare 53 anni fa) e Paola Sini, ovvero Fidela nella “Terra delle donne” di Marisa Vallone.
     
    Vallone è una regista barese, che è andata via da Bari a 18 anni per seguire il suo sogno di artista e si è diplomata all’Accademia di belle arti (a Frosinone) e al Centro sperimentale di Cinematografia di Roma: ne è sortita una grande regista che con “La terra delle donne” si può tranquillamente dire sia la rivelazione di questo festival: “Ho avuto l’ispirazione – ha detto – insieme a Paola Sini, anche lei sceneggiatrice oltre che attrice, dalle figure mitiche delle guaritrici sarde: le ho incontrate. Non è facile parlare con loro, molte si vergognano del loro ruolo. Sono le eredi delle streghe, vittime di uno sterminio attuato in nome della religione contro la sapienza delle donne, una persecuzione ancora attuale per cui bisogna essere sempre vigili”. La sua storia, che potrebbe diventare un libro, parla appunto di una donna che subisce una maledizione in quanto settima figlia (non poter avere figli), alla quale, con intelligenza e uno stratagemma, lei, Fidela, riesce a sottrarsi.
     
    Alla fine della serata di venerdì è stato proiettato, in anteprima mondiale (quindi telefonini imbustati) il film di Ben Affleck, che ci ha salutati in collegamento da Los Angeles. “Air-La storia del grande salto”, ovvero la vicenda della scarpa Nike dedicata a Michael Jordan e al contratto miliardario strappato dalla madre (una grande Viola Davis) al ceo-guru della Nike, Sonny Vaccaro (Ben Affleck), con Matt Demon manager d’assalto.
     
    Ieri sera invece c’è stata la premiazione della giuria internazionale: il premio per la miglior regia è andato a Enen Yo (cinese ma vive in Giappone) per l’incantevole “Double Life”; miglior attore è stato decretato l’islandese Brostur Leò Gunnarsson per “Driving Mum” di Hilmar Oddsson e miglior attrice Ane Dahl Torp per “Storm” di Erika Calmeyer. E a seguire “Ludwig”, film-fiume del 1972 di Luchino Visconti dedicato al cugino di Sissi, il re di Baviera che finì annegatosi.
     
    Quanto al gran finale, io avrei riunito le due cerimonie di premiazione, perché in fondo i premiati sono stati solo sei e alla fine avrei trasmesso il documentario di Giuseppe Tornatore. “L’ultimo Gattopardo-Ritratto di Goffredo Lombardo” di Giuseppe Tornatore, proiettato nel pomeriggio di ieri, alla presenza dell’unico superstite della famiglia di Goffredo (moglie e due figli), molto applaudito in sala. Perché “Ludwig”, sebbene siano (siamo) rimasti in molti a vederlo, è davvero un po’ prolisso a quell’ora e dopo una giornata intensa. Per quanto rivederlo o vederlo per la prima volta (per molti giovani) su grande schermo, è stato senz’altro utile. Stanotte poi (rivedibile su Raiplay) ci sarà una puntata di ”Cinematografo” su Raiuno, dedicata all’evento ed era ora.
     
    E poi…dissolvenza. Arrivederci (ma senza pensare alla canzone che chiude un film orribile e che ha rovinato un dolce motivo) all’anno prossimo!

  • DIARIO DI UNA GIURATA:
    CHI VINCE E'...

    data: 31/03/2023 14:38

     Una premessa: qui non cito tutti gli attori, i registi, i film e la Titanus (la casa di produzione premiata quest’anno), presenti al Bif&st edizione 14 (2023), semplicemente perché non ho il dono dell’ubiquità, ho potuto vedere una media di tre film al giorno (e trovo che siano sufficienti anche se nelle scorse edizioni sono stati molti di più, con repliche quanto mai opportune, assenti stavolta. E poi travolti dalla passione per il cinema, durante i festival ci si sottopone a una vera cura della pellicola) e, ultimo ma non per ultimo, sono una giurata del pubblico, molto fiera di esserlo e quindi ho seguito al Piccinni e al Kursaal sette film italiani. Per maggiori dettagli, rivolgersi al sito del Bif&st e a Radiofrequenzalibera (entrambi presenti sui social, specie su Instagram), la radio del Campus di Bari ottimamente condotta dagli universitari del Politecnico.

     
    Sono una giurata tra 24, dunque, ma giudicare non mi piace e, pur non rivelando a chi andranno stasera, al Petruzzelli, i premi di noi, capitanati dalla produttrice Donatella Palermo (colei che ha prodotto, tra l’altro, “Fuocoammare” e “In viaggio”, su papa Francesco, che andrà in onda venerdì prossimo, 7 aprile, su Raiuno di Gianfranco Rosi), posso raccontare invece dei film e della discussione accesa che c’è stata per stabilire la miglior regia, il miglior attore e la migliore attrice. Confortati dalla testimonianza del direttore Felice Laudadio che ha raccontato come una volta a Venezia, si svolse una battaglia in sala a colpi di claque tra il film promosso dalla Gaumont e quello dell’allora quasi sconosciuto Kieslovski, vincente. Per me, sono stati sette film molto belli, che andrei a vedere in sala, ognuno con una sua peculiarità da premiare. Non si potevano dare ex aequo e bisognava pur scegliere, quindi…ma ripeto, per me ogni film della sezione “ItaliaFilmFest” ha ben meritato.
     
    Mercoledì ho visto “Gli altri” di Daniele Salvo, un regista dalla lunga carriera teatrale che esordisce al cinema con un testo tratto dall’omonimo libro di Michele Prisco. Protagonista indiscussa Amelia Jandoli ovvero la bravissima Ida Di Benedetto, un’attrice (e produttrice) lontana dagli schermi per motivi personali (“da brava meridionale, ho aspettato che i problemi di casa si risolvessero e poi ho ripreso a lavorare”), sempre con quella sua voce inconfondibile e il piglio con cui spiccava negli episodi del primo “Un posto al sole”. Meravigliosa la scelta scenografica, con particolari dal Salento: piccole corti, mattoni squadrati di tufo giallo, scalette ornamentali, colonne, ripresi fra Parabita, Nardò, Gallipoli. L’altra comprimaria è pure lei una vecchia conoscenza di Upas, Gioia Spaziani. Il film ha il grande merito di riscoprire un autore troppo presto dimenticato (scomparso nel 2003 a 83 anni, Prisco vinse il premio Strega con “Una spirale di nebbia” e con “Gli altri” sembra Joyce dei “Dubliners”: il romanzo conclude un manoscritto iniziato dall’autore nel 1952 ed è incentrato sulla figura dell’attempata ma sveglia signorina Jandoli insegnante di ricamo e cucito). Lo spostamento della scena dalla Napoli più popolare al misterioso Salento e la recitazione meditata della Di Benedetto rendono il racconto ancora più intrigante.
     
    Al Petruzzelli, mentre la sera veniva premiata con il “Silvana Mangano” Elodie e con l’”Anna Magnani” Barbara Ronchi, è stato proiettato “Driving Mum” dell’islandese Hilmar Oddsson, che ha detto di essere un felliniano di stretta osservanza (e dal suo film si vede bene): figlio di un drammaturgo, abituato fin dall’infanzia al teatro, ammiratore di Beckett e Ionesco, la sua opera è un viaggio con la madre dai toni grotteschi e poetici, una specie di “Posto delle fragole”, bergmaniano anche nell’incantevole bianco e nero. Da segnalare, fra vulcani spenti, desolati campi lunghi, un catorcio immatricolato nel 1975 e un cane delizioso di nome Breznev. In Islanda nelle lunghe sere d’inverno il protagonista lavora a maglia pesanti maglioni da pastore. Appassionato di fotografia, si lascia sfuggire la cometa che tutti attendono semplicemente perché le volge inconsapevolmente le spalle. E ci sono altri tocchi di questo sottile umorismo. Il regista, una volta fuori, era visibilmente contento di fotografare il Petruzzelli e la Bari in gran spolvero primaverile e, avendo visto il suo film, lo capiamo bene: avrà pure colori e una natura incontaminata l’Islanda ma è pur sempre un paesaggio estremo.
     
    Un delizioso cagnolino è il compagno anche del ragazzo gay e per questo ridotto in fin di vita da delinquenti che circuiscono pure il protagonista, boxeur allenato dal padre (Tim Roth), suo grande amico, in “Punch”, film del neozelandese Welby Ings. Intrappolato da un contratto ricattatorio e costretto a un incontro disastroso, quando vede il padre cacciato dal ring, il protagonista getta i guantoni e se ne va col genitore, preferendo dignità e affetto alla ricchezza, mentre il suo amico si trasferisce a Sidney dove ha successo come cantautore.
     
    La giovane Erika Calmeyer, 33enne di Oslo, già regista di una serie per adolescenti: “Young Royals”, con “Storm” firma un originale thriller. Una madre single un brutto giorno va in gita al cottage di campagna e chiede alla figlia di otto anni, la Storm del titolo, di badare al fratellino Ulrik ma purtroppo lo perderà e lo ritroverà annegato nel fiume, dove lei si getta nel tentativo vano di salvarlo. Ma un compagno di scuola di Storm la accusa di aver spinto lei il fratellino nell’acqua e pian piano viene fuori che anche la madre ha visto questa scena, che però la bambina nega, ribaltando l’accusa proprio sulla madre. Solo che ci sono altri indizi di un carattere violento della bambina (come quando aggredì un compagno ficcandogli della neve in bocca fin quasi a soffocarlo) e il film termina con lei che armeggia col telefonino, forse alle prese con una denuncia della madre. Pellicola inquietante che getta una luce sinistra sull’infanzia e sull’indole umana. Prima di questo film, in collegamento video, è stato premiato con il Giuseppe Rotunno-miglior autore della fotografia (per “Caravaggio” di Michele Placido) Michele D’Attanasio, pescarese 46enne, che ha ricordato il suo primo incontro con il compianto Rotunno: “Gli chiesi un appuntamento con la scusa di una tesi di laurea e lui mi accolse molto semplicemente a casa sua, dandomi subito preziosi consigli, anzi schermando una finestra dato che il sole mi arrivava in faccia con un gesto che avrà fatto per chissà quanti film”.
     
    Colori mediterranei, tinte forti anche nei personaggi, uno svolgimento fra il tradizionale e il leggendario (ma senza cedere al folkloristico, anzi) travolgono lo spettatore, tanto da fargli desiderare di correre in Sardegna ne “La terra delle donne”, della regista Marisa Vallone, pugliese peraltro. Fidela (Paola Sini, anche sceneggiatrice) come settima figlia è destinata a essere strega e a trasformarsi in qualsiasi animale: si pensa subito a un realismo magico che senz’altro c’è ma insieme a uno spaccato storico nel secondo dopoguerra, tra una donna che desidera la maternità e non ci riesce (Valentina Lodovini, sempre in parte) e le credenze inossidabili della Sardegna arcaica. Le pratiche magico-mediche di Fidela, che aiuta le donne a partorire ma non può a sua volta farlo anche se resta incinta da parte di un inglese sbarcato nell’isola (siamo in provincia di Alghero) con uno studioso belga-nipponico (Hal Yamanouchi), si risolvono in un finale poetico con protagonista la “bastarda” bionda (Syanna Rayner). Non ci sarà, non può esserci la nascita per Fidela che muore ma che si manifesterà sotto specie di farfalle, come voleva la sua “maledizione” di settima figlia. Un lavoro davvero sorprendente, di grande impatto, Vallone un nome da declinare stavolta al femminile contemporaneo (oltre ai ben noti Raf e figli). Il film può essere visto oggi al Piccinni alle 18.30 e sempre al Piccinni alle 9.30 c’è la rassegna scientifica dedicata oggi ad Alieni nel Mediterraneo.
     
    Il premio Mario Monicelli per il miglior regista è stato ieri sera per Roberto Andò (che poi era al Kursaal per “La stranezza”). Le anteprime internazionali prevedevano:“Couleurs de l’incendie” di Clovis Cornillac, con Fanny Ardant, sempre al Bif&st col suo inconfondibile chic e ieri sera “Le Torrent” di Anne Le Ny. Stasera invece c’è il momento clou per la Giuria del pubblico! Prima un film francese: “Les engagés” di Emilie Frèche, poi il premio Morricone per il miglior compositore a Franco Piersanti (il mitico romano spesso scelto da Nanni Moretti, “Sogni d’oro” per esempio ma già da “Ecce bombo” e poi tantissimi altri film, fino all’ultimo di Virzì, “Siccità”, che presenterà egli stesso al Kursaal alle 22 sempre stasera), alle 18, poi c’è “Roxy” di Dito Tsintsadze e infine la premiazione dell’Italia Film Fest. I film in gara sono, in ordine di apparizione: “Scordato” di Rocco Papaleo; “Percoco-Il primo mostro d’Italia”; “Le mie ragazze di carta” di Luca Lucini; “L’uomo senza colpa” di Ivan Gergolet; “Gli altri” di Daniele Salvo”, “Tutti i cani muoiono soli” di Paolo Pisanu e “La terra delle donne” di Marisa Vallone. I giurati saranno presenti con emozione, forse pari a quella dei premiati (ebbè, quando ci vuole ci vuole). Per tutta la giornata, inoltre, sarà di scena al Petruzzelli Francesco Piccolo.
     
    E per concludere “Air” di Ben Affleck. Chissà che il regista-attore non riservi una sorpresa.
     
     

  • DIARIO DI UNA GIURATA
    QUARTO E QUINTO GIORNO

    data: 29/03/2023 16:07

    Il lunedì s’ingrana decisamente meglio, almeno per quanto riguarda gli autobus che riprendono le loro corse regolarmente, a differenza della disastrosa domenica, e dunque sono più invogliata a seguire il Bif&st. Al Piccinni c’è stato un bellissimo documentario sullo Stretto di Messina, Mare di leggende, per la rassegna scientifica curata da Orsetta Gregoretti e Silvia Mattoni. Poi di corsa al Petruzzelli per incontrare Sonia Bergamasco, in margine alla proiezione del film “Riccardo va all’inferno” di Roberta Torre. La Bergamasco, premiata poi la sera con il Federico Fellini Platinum Award, è un’artista a tutto tondo: attrice, scrittrice, pianista, sposata con il collega Fabrizio Gifuni, insomma una garanzia per il cinema e per il teatro. Il film è del 2017 (non tanto noto, dunque giusto ripescaggio), e vi recitano molti attori che s’incrociano per strada in questi giorni, come Gianluca Gori, Mirko Frezza, Ivan Franek e anche Roberta Torre stessa, regista e scrittrice, che per Bari è una conoscenza di lunga data sin dai tempi del Levante film festival.
     
    Nel pomeriggio ho visto uno splendido film giapponese, di un regista cinese ma che vive e lavora in Giappone, Enen Yo. E’ la storia, raccontata con estrema delicatezza ed eleganza, di una ballerina che per un infortunio, segue un corso di fisioterapia che invita alla riscoperta del proprio equilibrio, anche con il tocco leggero del corpo. L’esercizio dovrebbe svolgersi in coppia ma il marito della donna non ha tempo, così dice, ma lei, seguendolo, scopre che lo tradisce con la bibliotecaria del rione. Allora lei affitta un marito, il quale risulta un ragazzo, una specie di escort (ma non vediamo scene di sesso), per fare questo esercizio, solo che s’innamora di lui: glielo dice e lui la rifiuta, in quanto già felicemente sposato. Però la protagonista capisce che con il marito non c’è più amore e quindi i due divorziano: grida, pianti, scene di gelosia? Niente di tutto questo. Una gelida ma anche delicata impassibilità nipponica e le note suadenti di un pianoforte. Una visione rara, un altro modo di concepire la vita. Una meraviglia!
     
    Un quarto d’ora di strada ed eccomi al Piccinni, per la proiezione del film italiano, su cui però non mi posso pronunciare, in quanto appunto giurata popolare, insieme ad altri 23 più la presidente, la produttrice Donatella Palermo. Così però mi perdo “Kaymak”, di Milcho Manchevski, un regista macedone che ritengo fra i migliori in circolazione: il suo “Prima della pioggia” è semplicemente un capolavoro che andrebbe diffuso e meditato di più (all’epoca ebbe il Leone d’oro, ma non lo si replica spesso in tv, come ci vorrebbe). Quest’ultimo, come ho letto in varie recensioni, non è piaciuto tanto, essendo un film scioccante che mescola alto e basso con gran disinvoltura. Ma stavolta non ci sono repliche al Galleria (non compreso nei teatri delle proiezioni, tutt’e quattro racchiusi nel famoso miglio), come gli altri anni, anche a tarda notte: questo Bif&est è decisamente più a misura umana, però le repliche erano utili per chi perdeva un film. Si punta tutto piuttosto sull’incontro con gli autori, ma anche lì, bisogna essere al Margherita per le 13, un orario non proprio comodo. Ma sia, non si può avere tutto e poi per una settimana si può fare, ringraziando Laudadio che ha fatto di Bari una seconda Cannes. Nessuna replica nemmeno per il film di Margarethe von Trotta, dedicato alla scrittrice Ingeborg Bachmann, che non vedo l’ora di vedere perché la von Trotta è una grande (presidente onoraria qui), e come biografa poi non la batte nessuno.
     
    Al Piccinni dunque lunedì c’era “Le mie ragazze di carta” di Luca Lucini con Andrea Pennacchi, attore che gli spettatori di "Propaganda" conoscono bene, Maya Sansa (gran protagonista il martedì al Petruzzelli), Neri Marcorè, Giuseppe Zeno, e il bellissimo Cristiano Caccamo. Lucini descrive il coming of age, l’uscita dall’infanzia di due ragazzini, Tiberio (l’attore in erba è di Belluno) e Giacomo, alle prese con il passaggio dalla campagna alla città (“appena lasciato quel mondo venni aggredito da un sentimento fino ad allora sconosciuto: la nostalgia”), in quel di Treviso (con inquadratura insistita dell’edicola dall’insegna Il gazzettino, il mio primo giornale), e la musica di Nicola Piovani, etichetta romantica. Si possono immaginare, ma è sempre bene rivederle, le vicissitudini di una famigliola che dalla campagna passa in città perché il padre ha accettato il posto fisso di postino, superando l’esame di licenza elementare solo grazie alla sua affiliazione alla Dc, potente allora nella regione. Gli aneddoti fioccano anche fra noi giurati: una ragazza ha raccontato per esempio che quando la sua famiglia si trasferì in città, cambiarono ovviamente gli obiettivi e tornando in paese, le sembrava strano sentire dalle sue coetanee contente per aver avuto in dono, per esempio, un cavallo, regalo inimmaginabile in città. Con tutti gli inconvenienti ma anche i pregi del caso, e una casalinga sveglia che impara presto a giocare a scacchi, battendo anche il marito che aveva appreso a sua volta il gioco da un travestito. Il prete Marcorè, allenatore di rugby, lascia la tonaca perché ha moglie e figli in Brasile dov’era stato missionario. Un film tenero che ha strappato non poche risate ai presenti, compreso Marco Bellocchio che non lascia mai soli per così dire i suoi attori, fra cui la fida Maya. La quale, padre iraniano e madre romana, è stata protagonista della mattina successiva, il 28 marzo al Petruzzelli, quando si è tenuta una manifestazione in favore degli iraniani liberi, al grido di Donna Vita Libertà, presenti tre registi iraniani: Saeed Roustaee, Hassan Nazer e Nader Saeivar. La sera è stato premiato anche il regista Jafar Panahi che però non ha potuto allontanarsi da Teheran perché il regime degli ayatollah glielo impedisce, e al suo posto c’era il presidente di questo 14esimo Bif&st, Volker Schloendorff. La serata al Petruzzelli ha visto protagonisti lunedì Walter Veltroni con il suo “Quando” storia di un ragazzo che entra in coma per risvegliarsi trent’anni dopo e trovare l’Italia cambiata (ispirato da “Goddby Lenin!”) e quella di martedì “Kysset-Il bacio”, di Bille August, autore danese di tanti film fra cui il più celebre è “La casa degli spiriti” dal romanzo di Isabel Allende ma che ha girato anche, fra gli altri, “Pelle alla conquista del mondo” (con cui ha vinto un Oscar), “Il senso di Smilla per la neve” e “Treno di notte per Lisbona”. Con “Il bacio” siamo nel 1914 quando un ufficiale di stanza in una zona bellica, frequenta la casa di un barone con una figlia giovane e paralitica: sarà amore?
     
    Il premio Alida Valli miglior attrice è andato a Lidia Vitale. Continuo con i film italiani al Piccinni, ignorando un po’ le serie al Kursaal, che riscuotono comunque molto successo perché i beniamini televisivi sono conosciuti e inseguiti da tutti. Torno alla “mia sezione”. In una città che ha subito la presenza della Fibronit, con il suo carico di malati e morti causa amianto letale per i polmoni, il film di Ivan Gergolet “L’uomo senza colpa”, ambientato a Monfalcone, è emblematico. Si racconta la storia di tre amici dalla gioventù, solo che due sono diventati operai nella fabbrica del terzo, e sono morti per l’amianto che proprio in fabbrica hanno respirato. Per cui ora, essendo il padrone immobilizzato da un ictus, le due vedove meditano vendetta. Valentina Carnelutti (che avevo lasciata magistrata in “Milano-Palermo-squadra antimafia) fa una parte dal realismo estremo dei nostri giorni: mamma incompresa e lavoro di badante.
     
    Intanto la mattina al Piccini si era parlato di “Ghiacci in fusione”, mentre oggi, mercoledì, di “Cacciatori di tornado”.
     
    Ieri ancora al Petruzzelli, per la rassegna mondiale (dove saluto il presidente della giuria internazionale, Jean A. Gili che, come tutti i grandi, rivolge a me, della giuria del pubblico, un cordiale buon lavoro) ho visto un intenso film di Laura Mora Ortega: non a caso una regista perché pur trattando di ragazzi di strada col coltello sempre pronto, ha un tocco  gentile. “Los Reyes del mundo” si traduce con “I Re del mondo” ma in effetti suona come i reietti della terra. Storia di una ragazzo colombiano (paesaggio lussureggiante in contrasto con la crudeltà umana) di un ragazzo che riceve dalla nonna in eredità un terreno ma non può averlo, perché se ne sono già impossessati i padroni-predoni dell’oro; la fine è molto brutta ma si sentono, (e non si vedono ) solo i colpi di pistola.
     
    Mi ritiro verso le 21, e trovo ancora una panetteria aperta, per un saporito pezzo di focaccia davvero minuscolo per un euro: va bene che gli altri panifici sono tutti chiusi, ma non capisco, l’altra sera per lo stesso pezzo avevo pagato 45 centesimi. Prezzi in libertà proprio…Arrivo a casa e mi arrabbio a sentire Mauro Corona a "Cartabianca" che straparla di “reddito di cittadinanza dato ai soliti furbetti”: io furbetta non sono affatto e di quel reddito avevo davvero bisogno… 

  • DIARIO DI UNA GIURATA:
    IRROMPE LA CRONACA NERA

    data: 27/03/2023 15:08

    Dire come mi sono sentita, specie nella parte finale di “Percoco-Il primo mostro d’Italia”, beh, un pugno nello stomaco non mi avrebbe fatto peggio, ecco. Un film che mette bene in evidenza la cautela con cui i conoscenti, i vicini di casa, si fanno i fatti propri e non indagano su che cosa mai possa succedere nelle altre case, anche se sentono grida spaventose: “Mio marito stava per chiamare i carabinieri” ma non l’ha fatto perché il ragazzo Giulio, il fratello del mostro Franco, fino al 27 maggio 1950 nient’altro che un “bravo ragazzo”, potrebbe solo aver avuto un incubo, come spiega il ventiseienne ai vicini attoniti. Riassumiamo, anche se i fatti sono noti, da manuale di criminologia: a Bari, in pieno centro, in uno stabile che è stato poi abbattuto, un giovane di 26 anni, Franco Percoco appunto, uccise a coltellate padre madre e fratello minore, mentre il maggiore, Vittorio, era in carcere per furto. La partenza dei genitori, non per Montecatini, come dice il figlio a coloro che via via cercano i genitori, ma per l’altro mondo e per mano (ferita gravemente) sua, avviene in una notte di tregenda, col mare che infuria e la pioggia battente. Già questo insospettisce la portinaia: ma come, partire con quel tempo? Le note di Christian Lindbergh sottolineano bene, quasi una tromba del giudizio, la tragedia che sottende ai fatti che non si vedranno che alla fine. Finché arriva una vicina che dice: “Ma non è possibile perché stavolta i tuoi avevano detto di voler cambiare, di andare a Chianciano e non a Montecatini” e poi arriva la collega di chiesa di Eresvida, la madre, che l’aspettava per celebrare i riti di giugno. E poi il collega del padre, ormai in pensione (interpretato da Pinuccio Sinisi, efficacissimo), funzionario delle Ferrovie dello Stato, che ritiene di disturbare, anche se il giovane ha lasciato la porta di casa aperta ma poi…poi,la puzza (che fortunatamente al cinema non si sente!) e una crepa nel muro, rivelano ciò che non avremmo mai voluto vedere, sapere ma che pure è accaduto. Colpisce la netta separazione fra le case chiuse dove i giovani del tempo andavano per un sesso che nelle loro famiglie sessuofobiche (bigotte e conformiste) era vietato e la casa dei genitori (chiusi morti ormai da giorni nella stanza da letto) aperta ai bagordi con le fidanzate che potevano accedere al sesso ma solo se c’era già la promessa del matrimonio, ragazze ingenue come la fidanzata di Percoco che manco s’insospettisce più di tanto per la grave ferita di lui alla mano destra. Un delitto così eclatante e così mostruoso, così interamente già scritto da rendere quasi superflui e il libro e il film (leggere la storia su Wikipedia, perfetta, per credere). Tanto si censurava un delitto simile (così sotto gli occhi di tutti, che però non vedevano!) che all’epoca il direttore e il cronista della Gazzetta del Mezzogiorno furono condannati per aver spettacolarizzato un’efferatezza simile (pensiamo oggi, a tutti quei programmi televisivi sui delitti…). E il giornale dell’11 giugno 1956 (dopo la cattura di Percoco a Ischia) venne ritirato, copia per copia, dagli abbonati! Un altro mondo, proprio. Ieri sera al Piccinni era tutt’un complimentarsi e un applauso, c’era il sindaco, l’appassionata claque degli attori (con il coraggioso protagonista, Gianluca Vicari), la Puglia film commissione al gran completo. Per un personaggio che, scontata la sua pena, si è trasferito al Nord e si è persino sposato, morendo poi libero a 69 anni. Ma che nella memoria dei settantenni baresi, allora bambini, è rimasto come un baubau terribile, giustamente, e figuriamoci nei genitori. Il fantasma dell’eccidio si riverbera nel fortunale che ha investito stamane Bari, con tanto di tuoni. 

    Al Petruzzelli invece, tornando a ieri sera, la regista Anais Barbeau Lavalette ha adattato il libro di Romain Gary “Chien blanc”, la vera storia di un cane adottato dallo scrittore e dalla sua compagna, l’attrice Jean Seberg, che si accorgono poi che il cane era addestrato ad aggredire i neri e dunque lo sottopongono a una tenace e opportuna rieducazione. E poi ancora Mia, storia di un manipolatore che assoggetta una ragazza, e quando questa finalmente si libera, si vendica finché è il padre della ragazza a vendicarsi su di lui.La regia è di Ivano De Matteo. Premio per il miglior attore attore a Fabrizio Gifuni, originario di Lucera, mentre oggi è di scena sua moglie, Sonia Bergamasco (con lezione magistrale o master class), con il film “Riccardo va all’inferno” di Roberta Torre. Per il panorama internazionale due film al Petruzzelli: “Double life” di Enen Yo e “Kaymak” di Milcho Manchevski. Al Kursaal è di scena Riccardo Donna con “Cuori”, una fiction di successo su Raiuno, con protagonista Daniele Pecci che sarà in sala.  E poi ci sarà “Il metodo femoglio” con Alessio Boni, fiction dai romanzi di Gianrico Carofiglio.
     
    Al Piccinni la giuria popolare è chiamata dal film di Luca Lucini: “Le mie ragazze di carta”, insieme al pubblico ovviamente, che sta riempiendo le sale. Il cinema qui a bari sembra stare ottimamente.

  • DIARIO DI UNA GIURATA

    data: 26/03/2023 18:14

     Essere selezionata come giurata fra oltre 250 domande, per finire in un gruppo di 24 appassionati di cinema di varia età (il più giovane ha 18 anni, ma ci sono anche anziani dall’età indefinita)), è una bella soddisfazione, non c’è dubbio. E’ quello che mi è capitato (dietro regolare richiesta, ovvio) quest’anno con il Bif&st, il festival del cinema che si svolge a Bari ormai da 14 anni, con regolarità, anche durante il periodo di pandemia, sotto la direzione del vulcanico Felice Laudadio. Ovviamente essendo giurata sui film in concorso (la selezione italiana, per quella internazionale c’è un’altra giuria presieduta dal critico francese Jean Gili mentre la presidenza del Festival va al regista tedesco Volker Schloendorff) non posso esprimere qui giudizi ma cercherò di essere obiettiva con trame e particolari di cronaca.

     
    La sensazione è quella di trovarsi a sfogliare delle riviste di attori, registi e cantanti, solo che qui si può incontrarli, parlarci, farci un selfie insieme, come avviene ogni giorno alle 13 al Margherita quando i protagonisti dei vari film dialogano con la stampa e il pubblico. Il primo giorno, scegliendo fra i numerosi eventi, si è annunciato al Piccinni con un blog sulla terra minacciata, prendendo spunto-dai film catastrofici. Realizzato da tre studenti di Scienze della comunicazione dell’università di Lecce, il film peccava di lentezza – il blog è veloce, non si sofferma molto sulle immagini scelte ma le varia con grande abilità – tuttavia i ragazzi presenti al Piccinni, uno dei quattro teatri del famoso miglio che Bari ha il vanto di racchiudere, -studenti del liceo artistico, si sono mostrati molto interessati al dibattito che ne è seguito. Anche perché sfidati da Ferdinando Boero, zoologo di origine genovese ma che ha insegnato per anni negli atenei meridionali, in particolare a Lecce. Boero ha voluto sapere dai ragazzi quanti libri leggano in un anno o in un mese, li ha invitati ad andare al cinema perché vedere un film sul grande schermo è molto diverso che farlo a casa propria, e in più li ha incitati al dialogo, ad alzare la mano per dire una frase semplice: “Non ho capito” e  farsi spiegare meglio concetti difficili, come lui stesso si ripromette di di fare la prossima volta che qualcuno gli parlerà dei buchi bianchi.
     
    Intanto al Petruzzelli si svolgeva la master class di Gabriele Salvatores che ha presentato il suo film: “Il ritorno di Casanova” con Toni Servillo e Fabrizio Bentivoglio, una tematica che si può capire con l’avanzare dell’età dello stesso Salvatores, malinconica il giusto. Si tratta di un regista che gira un film su Casanova e si trova invischiato in una vicenda simile, un film a incastro dunque, che risulta molto piaciuto.
     
     In una splendida giornata di mare scintillante ci si può chiudere al cinema? Si può come no, per vedere “Tutti i cani muoiono soli” di Paolo Pisanu, che descrive un ambiente di racket e malavita a Sassari ma anche l’amore del protagonista dallo sguardo fulminante per la figlia aggredita da una paralisi degenerativa. Un film corredato da una fotografia ineccepibile e dalle musiche originali di Riccardo Gasparini.  
     
    Sono arrivata appena in tempo al Kursaal partendo dal mio rione che si trova a 4 chilometri di distanza, perché l’autobus cittadino è più raro che un’oasi nel deserto e salta spesso le corse, di domenica, nonostante poi mi veda sfilare sotto gli occhi tante auto con una sola persona a bordo. Al ritorno sono più fortunata ma solo perché vado in cerca dell’autobus più affidabile, camminando sempre parecchio. Intanto incontro Margarethe von Trotta, la grande regista tedesca e la saluto velocemente. Ovviamente non si ricorda di me, anche se ci feci un selfie insieme, ma le rinnovo la mia ammirazione per i suoi bellissimi film, a sfondo sempre femminista. Per continuare la maratona, oggi alle 16 c’è "Roma" di Fellini (omaggiato come sempre accade durante il festival che ha un logo a lui dedicato) e poi “Percoco-Il primo mostro d’Italia” del giovane regista barese Pierluigi Ferrandini che ha tratto spunto da un libro di Marcello Introna (barese pure lui)a ricavato da un'agghiacciante storia vera, purtroppo, svoltasi proprio a Bari, in via Celentano 12: correva il maggio 1956 quando Franco Percoco uccise a coltellate i genitori e il fratellino, e continuando a stare per dieci giorni in casa prima di essere scoperto e arrestato. Allora il criminale aveva 26 anni, ha scontato la sua pena, si è addirittura sposato a Torino, dov'è morto nel 2001.
     
    Così mi perdo i miei beniamini del Posto al sole, in trasferta al Kursaal, ma non ho il dono dell’ubiquità, anche se Raffaele e Ornella non vorrei proprio perderli e so che comunque erano già in giro stamattina. Mi converrà fermarmi in centro i prossimi giorni, ci saranno tutti gli attori di grido, ma anche cantanti come ieri sera al Piccinni per "Scordato", film di Rocco Papaleo con Giorgia non solo cantante e tanti attori, anche in erba, tutti da tenere d'occhio. Papaleo è lo scordato del titolo alle prese con la crisi d’età (anche lui) che dialoga con un ventenne riccioluto in viaggio fra Salerno, Lauria e Lagonegro, fra paesaggi mozzafiato e un divertente sipario fra un potentino e lo "scordato" filomaterano..
     
    Ma chi è questo suo alter ego? Non è altri che lui, lo stesso protagonista che si chiama Orlando, che vede e parla col sé stesso ventenne (un po’ come la Ferragni con la sua “bimba” a sanremo), risultando anche ridicolo in certi momenti a chi non vede con chi stia parlando. Orlando, a Salerno, accorda pianoforti, anche al Conservatorio, dove c’è un ragazzo che suona ma pure è un po’ suonato, Di Fazio (ovvero un attore giovane dal volto delicato); poi ci sono storie varie, e l’incontro con Giorgia, che qui interpreta una fisioterapista e cantante ("bisogna saper suonare uno strumento perché la musica ci riconnette con l'armonia dell'universo") che dalla postura di Orlando intuisce che c’è qualcosa che non va nella sua vita. Ed è vero: gli chiede perciò di andare a Lauria, il paese da cui proviene lo stesso regista, per cercare delle foto da giovane, per vedere come si è evoluta la sua figura nel corso del tempo. Di qui tutt’una serie di avventure e il ricordo della sorella Rosanna, in carcere per terrorismo, una tematica affrontata finora da Marco Bellocchio, Daniele Luchetti (“Mio fratello è figlio unico”) e Francesca Marciano nel romanzo “La casa rossa”, almeno che io ricordi. 
     
    E ora basta, devo correre al Bif&st, devo essere al Piccinni per le 18 e sono già le 17, il tempo vola con l'ora legale...

  • BARI, A TUTTO CINEMA.
    COMINCIA IL BIF&ST.

    data: 24/03/2023 17:30

     I festival del cinema si assomigliano tutti ma sono anche tutti diversi e per la 14esima edizione del Bif&st, che da oggi fino a sabato I Aprile, si svolge a Bari, c’è un aspetto inedito: il coinvolgimento di tutta la città con una serie di eventi collaterali che festeggiano l’uscita dall’allarme Covid. Infatti, dopo tre edizioni, purtuttavia svolte con tenacia dall’ideatore e direttore di questo ormai accorsato Festival, Felice Laudadio, edizioni impostate alla massima cautela (spettacoli con mascherina obbligatoria, all’aperto invece che nei teatri), si torna finalmente alla normalità. Sia pure con uno sguardo preoccupato alla situazione internazionale e anche se non mancano, nel programma come al solito molto intenso, film problematici, questa volta c’è un aspetto ludico in più, da non trascurare, perché il cinema, la settima arte non dimentichiamolo, è soprattutto spettacolo, cultura e anche svago, perché no. Per esempio stamattina in una boutique del centro si tiene una vera “Colazione da Tiffany”; ci sono poi mostre d’arte (pittura e fotografia) diffuse un po’ in tutti i quartieri (eccezion fatta per la solita negletta periferia, ma stavolta davvero si è ampliato il raggio di coinvolgimento), incontri su libri a tema in varie librerie e menu cinematografici in bar e ristoranti. Mercoledì prossimo si terrà in via Venezia, l’antica muraglia sul mare, la registrazione di un podcast in quattro puntate aperto a tutti, che si ripeterà anche il 30 marzo.

    Ovviamente però, il protagonista del Bif&st è il cinema; dedicato al regista iraniano Jafar Panahai, più volte incarcerato per la sua opposizione al regime degli ayatollah. Il 28 marzo al Petruzzelli ci sarà una manifestazione a sostegno dei cineasti iraniani, al grido di “Donna, vita, libertà”, dopo la proiezione del film, alle 9, di Saeed Roustaee: “Leila e i suoi fratelli”.
    Incontri e proiezioni, a ritmo serrato fin dal mattino (alle 8.30) si svolgono nel miglio dei teatri barese: Petruzzelli, Piccinni e Margherita ma pure al Van Westerhout di Mola di Bari (dove Laudadio è di casa), mentre il quartier generale per i numerosi giornalisti accorsi da ogni dove è all’Oriente, che adesso è un bell’hotel in corso Cavour ma che è stato anche una celebre sala cinematografica. 
    Ci sono anteprime mondiali (le schede si trovano in www.bifest.it), c’è una sezione speciale inaugurata l’anno scorso con gli attori e i registi del “Paradiso delle signore”: “BariFictionF&st” che quest’anno ospiterà gli amati protagonisti di “Un posto al sole”. Le serie televisive sono ormai parte integrante del discorso cinematografico e questa sezione, prevede il direttore Laudadio “potrebbe diventare un festival a sé capace in autunno di mettere in vetrina la produzione mondiale”. Appuntamento al Kursaal domenica 26 marzo, alle 18.30 per incontrare Gina Amarante, Marina Giulia Cavalli (la dottoressa Ornella), Samuele Cavallo, Mauro Racanati e Patrizio Rispo (il veterano Raffaele, presente fin dagli esordi della soap partenopea, in onda dal 21 ottobre 1996, ogni sera dal lunedì al venerdì su Raitre).
    La presidenza del Bif&st 14 stavolta è affidata al grande regista tedesco Volker Schlondorff, Oscar come Salvatores e August (entrambi presenti), il che fa 23 dei registi premiati dall’Academy Award che si sono succeduti a Bari. Provincialismo nel sottolinearlo? Certo, spiega Laudadio nella prefazione al prezioso catalogo, ma anche perché dicendo Oscar si muovono tutti, per scoprire poi che Bari, pian pianino, non ha nulla da invidiare, anzi il contrario, a eventi più storici e acclamati. 
    Inutile qui fare l’elenco dei presenti, si rischia di dimenticare qualcuno. Certo, ci sono degli aficionados, come Margarethe von Trotta che ogni anno presenta un suo nuovo, magnifico, film, stavolta la biografia di “Ingeborg Bachman-Viaggio nel deserto”, domani al Petruzzelli alle 18; inutile perché si trovano tutti i nomi sul sito su indicato e perché davvero il programma è così intenso da prevedere un lavoro stremante per gli addetti (giornalisti ma anche i numerosi spettatori). Stremante ma appagante: perché il cinema è così, è una passione che ti travolge. La giuria internazionale comprende critici, produttori e giornalisti italiani, francesi polacchi, tedeschi, presieduta da Jean A. Gili, anch’egli un habituè del Bif&st. La giuria del pubblico è presieduta dalla produttrice siciliana Donatella Palermo, che, tra l’altro (film di Citto Maselli, scomparso da poco, dei fratelli Taviani, di Roberta Torre), ha prodotto Fuocoammare di Gianfranco Rosi.
     Insomma, gettiamoci nella visione. Che il Festival cominci!

  • UN MESE SENZA BEPPE

    data: 18/03/2023 23:42

     E’ già passato un mese dalla scomparsa a Roma, a 75 anni, di Beppe Lopez. La sua morte ha avuto poca eco nella ribalta nazionale, eppure Lopez è (usiamo apposta il presente) uno scrittore grandissimo, che va letto e riscoperto. Ultimamente è uscita la “Trilogia del quartiere Libertà di Bari”, la sua città natale, che comprende tre romanzi: “Capatosta”, con cui assurse alla celebrità all’inizio del millennio, “La scordanza” e “Capibranco”. Si tratta di tre romanzi nel senso più classico della parola, della commedia umana da lui elaborata alla maniera di Balzac, scritti in italiano finissimo seppur rielaborato nel dialetto locale, ma comprensibile. 

    Si tratta del celebre idioletto ideato da Lopez, per cui è stato paragonato a Camilleri, per quanto in Lopez il dialetto barese non è una veste ironica o sardonica da applicare ai vari personaggi che negli anni, dall’inizio del Novecento in poi, svolgono la loro vicenda, ma fa parte proprio del loro pensiero, della loro identità. Purtroppo si dice che san Nicola, patrono di Bari, ami i forestieri e Lopez, che pure ha vissuto a Roma gran parte della sua vita - infatti è stato anche un eccellente giornalista - non ha avuto se non nell’immediata uscita dei romanzi, soprattutto il primo, Capatosta, il successo che merita. Si può rimediare oggi, anzi si consiglia vivamente di farlo, riscoprendo questa recente trilogia, edita da Besa Muci, che si trova facilmente in libreria ma anche leggendo tutte le altre opere di Lopez, che sono tante e di vario genere.
    Riepilogando: Beppe Lopez si è fatto da solo, rispondendo a una sola esigenza: la sua umanità, la sete di giustizia e la lotta contro qualsiasi prevaricazione. Proveniva appunto dal quartiere Libertà, un rione molto popolare di Bari, a metà fra città e campagna. Ha fatto da capofamiglia del piccolo nucleo costituito dalla madre (la Capatosta della prima parte della trilogia) e del fratello più piccolo di dieci anni. E fin da giovane ha voluto una sola cosa: fare il giornalista, scrivere, scalare quell’ascensore sociale a cui stava dedicando la sua ultima opera, ancora inedita. Ci è riuscito grazie alla sua tenacia e alla sua genialità. A nemmeno 20 anni era già giornalista professionista e poi a Roma, è stato tra i fondatori di Repubblica, in quanto Scalfari capì subito la sua bravura e lo assunse come notista politico. Subito dopo ha fondato un giornale suo, il Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto, che ancora esce in edicola dal 1979, è stato in Basilicata (dove i giornali non esistevano o quasi), ha diretto poi a Roma per oltre dieci anni un’agenzia di stampa, ha fatto televisione, teatro, insomma Beppe Lopez era un vulcano di idee e di attivismo, sempre nel segno della democrazia e della passione per la letteratura, la politica, l’informazione. Dirigeva il blog “Infodem.it”, leggendo sempre con attenzione e tanti consigli di cui purtroppo ora resteranno privi, gli scritti dei suoi collaboratori e lui stesso, fino all’ultimo, non ha smesso di scrivere. Una personalità rinascimentale, si dice in questi casi, ricalcando quello che si è detto di Giorgio Ruffolo, scomparso tre giorni prima di lui a un’età molto più avanzata e che gli fu sodale socialista (di area lombardiana, sia chiaro). E lui rivendicava il suo eclettismo sia per la formazione di formidabile autodidatta sia per indole: curioso, partecipe, critico dell’eccesso di specializzazione che rischia di diventare sterile nozionismo. Sempre dalla parte degli ultimi, su fb s’impegnava anche per la salvaguardia degli animali, sottolineando l’ingiusta crudeltà a cui vengono sottoposti, l’immane sofferenza di queste creature portate al macello e l’importanza di essere vegetariano.
    Quindi oltre ai tre romanzi della trilogia, ha scritto elaborati storici come “Mascherata reale”, “Il principe nel groviglio”, “La bestia!” (che Barberi Squarotti definì un capolavoro) ma anche saggi, come “La casta dei giornali”, “Gli indecenti”, “Giornali e democrazia”, e pure la biografia dell’ultimo dei cantastorie, Matteo Salvatore (edito da Aliberti). Ha firmato anche un’opera teatrale su Moro, che assume una veste quasi divinatoria in quanto è antecedente al sequestro Moro che lui riteneva lo spartiacque fra l’Italia progressista che col miracolo economico e le istanze libertarie del 68 e anni seguenti stava diventando moderna e la mazzata inflitta dai terroristi e da quell’eccidio di via Fani e successiva uccisione del leader democristiano, che quel processo ha bloccato in modo indelebile. Nei suoi libri non ci sono indagini, commissari: ironicamente diceva che leggendo gli autori baresi di oggi Bari sembrerebbe la Chicago degli anni Trenta, e non è così. A lui interessava piuttosto scoprire l’umanità dei suoi personaggi, convinto com’era che ognuno di noi sia un miscuglio inestricabile di bene e male, di voglia di riscatto e di tentazione di lasciar perdere. E questo intreccio psicologico, freudiano, si rivela molto bene in “Capibranco” (la novità della trilogia) che per certi versi somiglia a un romanzo del massimo autore svizzero, Max Frisch, “Homo faber”, che lui non conosceva ma che testimonia, ancora una volta, della grandezza di Beppe Lopez, un autore che vive oggi nelle sue opere e che ci manca tanto. Non dimentichiamolo.

  • IL CHIACCHIERICCIO, NO
    MA LA PAROLA
    SERVE, ECCOME!

    data: 02/02/2023 18:28

    “La mafia uccide, il silenzio pure” (Peppino Impastato). Ebbene, in questa società si parla sempre meno eppure la parola rappresenta il tratto distintivo degli umani rispetto agli altri esseri che popolano questo sventurato pianeta. O meglio, anche gli animali hanno i loro versi che non siamo ancora riusciti a decifrare, per non contare alcune specie di uccelli che riescono ad articolare parole proprio come noi.

    Un esempio lampante del sempre minor uso delle parole ci viene dalle chat; non so se avete notato ma sono pochissimi ormai coloro che si telefonano, preferendo affidare il loro pensiero alle applicazioni escogitate apposta (come whatsapp), che hanno anche messaggi vocali. Un mezzo che però ha i suoi inconvenienti perché, specie per qualcosa di urgente, spesso il messaggio viene letto o ascoltato in ritardo o non è detto che lo smart sia sempre a portata di mano, per quanto la sua consultazione diventi via via sempre più frequente.

    Ha colpito tuttavia, a fronte delle polemiche suscitate in Vaticano subito dopo la morte del papa emerito, come siano state proprio le intercettazioni a svelare ulteriori altarini sulla circostanza, non certo pacifica, in cui si sono svolte le dimissioni nel 2013 di Benedetto XVI, bollate da papa Francesco con “chiacchiericcio”. Il potere eversivo della parola (le parole sono pietre, scrisse Carlo Levi) viene snaturato dal pettegolezzo, dalle illazioni, dalle polemiche seguite all’uso indiscriminato delle intercettazioni che tuttavia restano un potente mezzo d’indagine e l’arresto del superlatitante da 30 anni boss di mafia Matteo Messina Denaro il 16 gennaio lo ha dimostrato: c’erano frenetiche telefonate nel suo giro e in tutte si accennava a una malattia, per cui, almeno così è stato riferito, le indagini si sono indirizzate nella famosa clinica di Palermo.
    Ma si possono citare migliaia di casi via via fino a quelli di minor risonanza ma non meno importanti. Come nella vicenda di Aiello del Sabato, paese di 4mila abitanti nei pressi di Avellino, dove una madre degenere ha tenuto incatenata in casa una figlia alla mercè delle violenze dei fratelli. E nessuno si era accorto di nulla, per quanto, quando andava a scuola, la ragazzina fosse stata segnalata ai servizi sociali perché si presentava sporca e malvestita. La madre di una sua compagna di classe, che avrebbe voluto farne denuncia, è stata rassicurata e zittita da preside e professori col dirle che se ne stessero occupando i servizi sociali. I quali non hanno fatto nulla, pur essendo in maggioranza donne, e un’assistente sociale, col volto mascherato però, quella che il giornalista ha potuto trovare, a Mattino 5 (il programma Mediaset condotto per questi fatti da Federica Panicucci), ha detto di non “dover dar conto a un giornalista”. Gli assistenti sociali sono peggio dei servizi segreti, lo si vede anche a Chi l’ha visto (condotto da un’altra Federica, Sciarelli, altrettanto brava della prima): impossibile, o quasi, intervistarli. Il parroco del paese, regolarmente chiamato in causa, ha detto “che parlare è male”. Invece no, tant’è che una sorella finalmente ha potuto allertare i carabinieri e adesso la madre e un fratello (che del resto terrorizzava il paese col suo fare da bullo) sono in galera.

    A Campobello di Mazara, il paese del boss, un cittadino ha detto, con evidente ossimoro: “Eh, qui siamo un paese di muti”.
    Il pettegolezzo, d’accordo, non è da apprezzare e la calunnia, si sa, è un venticello, eppure senza di loro non sarebbe nato il “metoo”, quel movimento con cui le donne hanno cominciato a denunciare episodi di violenza e di molestia sessuale che avevano scelto di tenere nascosti o non detti per il fatto che riguardano uomini importanti per la loro carriera. C’è vergogna, paura, indignazione, ci sono tanti motivi che spingono al silenzio ma è bene che si sappia che ci sono certi uomini (e anche donne che adottano gli stessi metodi di prevaricazione) che, a dispetto del femminismo, delle regole di convivenza, della semplice buona educazione in fondo, si comportano in modo davvero ripugnante. I casi raccolti dal movimento italiano Amleta ha consentito di indicare per esempio un critico cinematografico che ricatterebbe le attrici inviando loro foto di sé nudo; se le malcapitate avessero poi parlato, ne avrebbe stroncato la carriera con critiche al vetriolo. Il che apre uno squarcio sull’uso distorto della stampa e getta inutilmente discredito su una categoria di studiosi e studiose della settima arte. Bene dunque non farne il nome, perché poi il rischio qui è che si scateni una caccia agli stregoni che nessuno si auspica. Del resto questi casi non si limitano solo al mondo dello spettacolo, e c’è da chiedersi se lo scarso numero di occupate in Italia, sia dovuto anche a questo malcostume.

    L’uso della parola inoltre dovrebbe scoraggiare quello, ben più letale, delle armi e purtroppo, in questi ultimi tempi, ci sono stati episodi in cui persone dall’evidente e certificato stato di insanità mentale, hanno avuto tranquillamente il porto d’armi e addirittura potuto procurarsi una o più armi, come Claudio Campiti che ha ucciso quattro donne in un’assemblea di condominio a Roma. O Sandro Mugnai che vicino ad Arezzo ha ucciso a fucilate il vicino che gli stava distruggendo casa con la ruspa e dire che i due erano amici fino a poco tempo prima. O ancora a Roma, Costantino Bonaiuti ha sparato a sangue freddo all’uscita di un ristorante la sua ex, la giovane avvocata di diritto di famiglia Martina Scialdone che il fratello aveva tentato invano di separare da lui, nel corso di una discussione. Insomma, saranno pure casi estremi ma segnalano pur sempre un disagio, una mancanza, uno svilimento dei rapporti umani (mi chiedo da quali psichiatri o psicologi fossero seguiti questi soggetti) e il pericoloso passaggio dall’uso della parola a quello delle armi (che poi tutto può diventare arma, il problema è la violenza). Sempre più afasici, soli, inesperti della stessa lingua, non vorremmo certo essere circondati da immusoniti, silenziosi e armati individui…

     

  • THE FABELMANS: SPIELBERG
    SFOGLIA IL PROPRIO DIARIO

    data: 04/01/2023 22:07

    Con “The Fabelmans” Steven Spielberg firma il suo film più personale, per quanto tracce della sua biografia si trovino in tutti i suoi lavori. Si tratta di un film meraviglioso, anche un po’ eccentrico rispetto alla sua produzione, a eccezione del “Ponte delle spie”, dove si trova un padre sempre lontano da casa per lavoro, proprio come il vero padre del regista americano, magnificamente interpretato qui dal giovane Paul Dano. La famiglia Spielberg, i Fabelman del titolo, era composta da un padre ingegnere elettronico, Arnold, che è morto a 103 anni nel 2020 e che è stato un importante inventore nel campo dei microprocessori, trasferendosi dunque in vari Stati degli immensi Usa, dall’Arizona alla California, dove il piccolo Steven ha avuto modo di seguire la sua passione per il cinema, frequentato da amatori, con costose cineprese ultimo modello, anche da un padre del primo filarino e pazienza se fosse un’accanita cattolica, con una stanza che sembrava una sagrestia. Sua madre, Mitzi (nel film un’ottima Michelle Williams) se n’è andata nel 2017 a 97 anni, riconciliata col marito dopo averlo lasciato e aver vissuto anni con l’amico di famiglia Bennie, che i ragazzi, Steven primogenito e tre sorelle, chiamavano zio.

    La coppia aveva una sua intesa, ed era fortemente coesa (infatti poi si è ritrovata), al di là delle circostanze: la madre eccentrica, fantasiosa, pianista, per niente casalinga frustrata; il padre più inquadrato, concentrato sul suo lavoro ma mai giudicante sulle “follie” della moglie, sempre dalla parte dei figli, come quando, capendo che per Sammy (così si chiama lo straordinario alter ego del regista, Gabriel La Belle) andare all’università è uno strazio, lo incita a seguire la sua strada. Come aveva fatto del resto anni prima lo zio della madre, un incredibile Judd Hirsch che a 86 anni recita alla grande la parte dello zio Boris, il quale suggerisce al ragazzo di lasciar perdere tutto il resto, di non considerare il cinema come hobby perché invece è la sua passione e quella dovrà seguire. Fin da quando, portato al cinema a vedere “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. De Mille, il piccolo Sammy rimette in scena con il trenino che gli è stato regalato per Annukah, la festa delle luci ebraica che precede il Natale cristiano, la stessa scena dello scontro fra i vagoni, e il padre gli spiega com’è possibile che tanti fotogrammi al secondo diano vita a un movimento che in realtà è fittizio. Ci sono parenti come l’amata nonna, e sembra quasi di essere in un film di Woody Allen, in “Radio days” per esempio. Ci sono i californiani, “figli delle sequoie giganti”, razzisti contro gli ebrei e che fanno di Sammy la vittima scolastica predestinata fin quando lui, girando il film della festa di fine anno sulla spiaggia (la “marinata”), punta l’obiettivo sul bello della classe e ne rivela così il fatuo narcisismo, come si rende conto il fino a lì persecutore e adesso, rinsavito, amico di Sammy.

    Il film è tutto pervaso da una forte nostalgia per i genitori ancora giovani, pieni di curiosità e intensità, come quando la madre carica i quattro figli sull’auto e li porta a vedere l’occhio del ciclone, rischiando ma facendogli vivere comunque un’esperienza memorabile. La famiglia in cui i figli sono ancora piccoli, le tre sorelle complici e ammirate del maggiore che organizza visioni dei suoi primi film, in cui recitano i suoi compagni di scuola e gli amici; quegli anni che sembrano lunghissimi e che invece, retrospettivamente, sono passati in un lampo, Spielberg ce li restituisce con poesia, un po’ come ha fatto Malick nell’”Albero della vita”. Lo zio eccentrico, che ha lavorato al circo e al cinema, è una nota di colore che lascia una traccia indelebile nel vissuto del ragazzo e anche il padre, così formale, quando va in campeggio si lascia andare all’avventura, quasi un Indiana Jones. E la madre cresce i figli al suono di Mozart e Beethoven (ma c’è un accenno anche a White Christmas, con le sue note ascendenti e discendenti e la colonna sonora è del fidato John Wlilliams) e organizza anche concerti, a costo che i suoi le taglino le unghie laccate di rosso e troppo lunghe per suonare. La fotografia di Janusz Kaminski completa lo script perfetto di Spielberg stesso e del suo sceneggiatore di fiducia, Tony Kushner: non c’è un colore seppiato no, ma sembra lo stesso di sfogliare un vecchio album di fotografie, l’aria del tempo circola nel film come un confortevole venticello di empatia. La stessa solidarietà che evoca Steven Spielberg in persona all’inizio del film, ringraziando gli spettatori di essere venuti al cinema a vedere il suo film, “in sala, l’unico modo di condividere delle emozioni con perfetti sconosciuti”. Un appello pacifista, di fiducia, che, alla luce delle ultime cronache, e non solo belliche (penso al giovane accoltellatore alla stazione Termini), è quanto mai opportuno. Grazie ancora, Steven Spielberg, creatore di sogni!


     

  • "DALLA PARTE DELLE BAMBINE"
    TESTO FONDAMENTALE
    DOPO QUASI CINQUANT'ANNI

    data: 28/12/2022 13:00

    Stupisce pensare che “Dalla parte delle bambine” sia stato pubblicato da Feltrinelli nel lontano 1973, abbia quindi quasi 50 anni. Stupisce perché della sua autrice, Elena Gianini Belotti, morta sabato scorso a Roma, la sua città (vi era nata il 2 dicembre 1929), non si sentiva più parlare da tempo eppure aveva scritto tanto, anche romanzi, premiati ma non molto divulgati. Il libro a cui il suo nome resterà sempre legato ebbe un successo straordinario, arrivò quasi a un milione di copie, fu tradotto in tutto il mondo, segnò un’epoca, fu la bibbia del femminismo degli anni Settanta del secolo scorso. Ma vien da chiedersi, oggi, a fronte di un numero di femminicidi sempre più alto e di donne che non hanno reddito, patiscono l’inferiorità economica e dunque sociale, quale sia stata l’effettiva ricaduta di un testo che sarebbe dovuto entrare di diritto nelle scuole come lettura fondante e che di fatto ha rivoluzionato le basi della relazione uomo-donna. E’ un saggio, certo, ma anche un romanzo, si legge ammirando la sua prosa. Si basa sulla didattica montessoriana; infatti la Gianini Belotti, di formazione maestra, diresse dal 1960 al 1980 il Centro Nascita Montessori nella capitale.

    Che cosa insegna questo libro? Che se i primi anni di vita sono fondamentali per l’educazione, è proprio fin dal colore scelto per il corredino (rosa e celeste) che s’impostano differenze che non hanno motivo di esistere. Se al libro in epoca fascista si associava il moschetto, la Gianini Belotti spiega che non è affatto necessario regalare fucili ai bambini e bambole alle bambine e che se la matematica viene considerata la bestia nera per “il sesso debole o gentile”, la colpa va imputata a una credenza diffusa che vuole le donne più portate per le materie letterarie. Può sembrare un fattore superato, eppure mi è capitato di assistere giorni fa a questa scena: una giovane fruttivendola che segna su un foglio i numeri ma non sa sommarli, cosicché chiede al marito di farlo. E poi ci si stupisce che dal lontano Afganistan giunga la notizia che le università siano adesso proibite alle donne. Sapere è potere, questo si intuisce bene dal libro della Gianini Belotti, in cui si esamina metodicamente tutto ciò che contribuisce a consolidare gli stereotipi di genere: dai giocattoli appunto ai modi di dire, dalle favole (sempre studiatissime perché ancestrali e veritiere) al ruolo dei vari componenti della famiglia (non solo madri e padri) all’analisi dei libri di testo, specialmente dei sussidiari delle elementari.

    Certo, dal 1973 sono cambiate tante cose. Non si tratta dell’unico libro femminista. Basti ricordare “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf ; il “Secondo sesso” di Simone de Beauvoir (1949), ma possiamo risalire ancora più indietro a Sibilla Aleramo che nel 1906 scrisse “Una donna” da cui fu tratto nel 1976 uno sceneggiato Rai di gran successo interpretato da Giuliana De Sio fino a “Il gruppo”, di Mary McCarthy, romanzo del secondo dopoguerra meritoriamente ripubblicato tre anni fa da minimumfax, ma anche a “Revolutionary road” di Richard Yeats. Robert Benton diresse nel 1980 “Kramer contro Kramer” in cui una donna abbandona di punto in bianco marito e figlioletto per cercare sé stessa e cambiare tutta la sua vita. Senza arrivare a questo estremo, sono tanti adesso i padri che collaborano alla crescita dei figli; si è arrivati, sia pure con fatica, alla richiesta di congedi per paternità e non solo per maternità, e così via, tanto che Loredana Lipperini, nel 2007, ha scritto “Ancora dalla parte delle bambine”, un aggiornamento del testo primigenio con la supervisione della stessa Gianini Belotti. E c’è una letteratura sterminata al riguardo ormai sulla sua scia ma resta il fatto che quando fu scritto, “dalla parte delle bambine” c’era ben poco. E soprattutto era raro che un saggio di tipo sostanzialmente pedagogico si presentasse in forma quasi di romanzo, tanto che la sua lettura risulta avvincente e coinvolgente, e si confida che lo sia ancor oggi per le nuove generazioni, specie di genitori. Ai quali è una lettura sicuramente consigliata. ​ ​ ​ ​
     

  • IL SANTO NATALE DI DESTRA
    IN DIRETTA DALLA CAMERA
    CON MOGOL GESÙ BAMBINO

    data: 22/12/2022 20:57

    No, non è possibile, mi dicevo ascoltando e vedendo quanto stava succedendo, in diretta, sotto i miei occhi dalla Camera, ripreso dalla rete ammiraglia della Rai, Raiuno: no, non può essere questo il concerto di Natale. Avranno sbagliato intestazione. Non che mi aspettassi – ma anzi sì – una miscellanea di canti natalizi, diciamo da Bianco Natale a Let’s snow, da Jingle Bells a Tu scendi dalle stelle. Questi sono i primi canti natalizi che mi vengono in mente ma ce ne sono tantissimi altri, e un’orchestra come quella che la Rai riprende ogni anno per l’impegnativa cerimonia, sa ben scegliere il repertorio più adatto alla circostanza.

    Quand’ecco che no, non ci sono echi delle cornamuse e delle fisarmoniche dei pastori di natalizia memoria, no: c’è uno, Gianmarco Carroccia, che canta, con Mogol a fianco che sembra suggerirgli le sue parole, di lui, l’autore, e quell’uno pare proprio Lucio Battisti redivivo e sta salmodiando “Acqua azzurra acqua chiara” e il presidente della Camera Lorenzo Fontana accompagna tutto il testo e Maurizio Gasparri batte il tempo con la manina… Del resto si tratta della “Emozioni orchestra” diretta da un allievo del Mogol medesimo, Angelo Valori.

    Va bene, c‘è Mogol, riconosciuto paroliere della canzone italiana, cara soprattutto al governo attuale di destra-centro (con tutte le polemiche che ne seguirono ai tempi, se Battisti fosse di destra o di sinistra. Di certo litigò con Mogol e scelse Panella per l’lp “Don Giovanni”, indubbio capolavoro). D’accordo, si sa che Mogol piace al governo in carica e in un certo modo lo si è voluto celebrare. Ma proprio a Natale? Proprio in un concerto alla Camera con tanto di scolaresche ospiti che si saranno chieste: Battisti, chi era costui? E sì che gli hanno intitolato diverse piazze; ah no, quello era Cesare, non Lucio, ma un domani chissà. Pensavo ci si fermasse a un brano: ma no, tutto il concerto è andato avanti così, con voce fuori campo che spiegava il senso delle canzoni, di cui una trattava anche l’annoso problema della fine di un amore quando ci si intromette un terzo incomodo. Canzoni che la generazione dei sessantenni conosce bene, ma che vadano a far parte di un patrimonio natalizio, mi pare esagerato, ma soprattutto non congruo. “Le trecce bionde gli occhi azzurri e poi…una dooonna”. Ma chi canta? Cos’è? Si fa cenno alla natalità in questo modo? “Cosa vuol dir sono una donna ormai”; ah quindi la Madonna…e il Bambin Gesù si preannuncia in questo modo, un po’ indiretto ma ci sta, certo un’avventura, una maternità non prevista. Io credevo che questa canzone, che del resto si chiama “La canzone del sole”, andasse bene per le schitarrate di comitive ormai fanè in riva al mare di Ferragosto. Qui c’è il chitarrista, c’è lo stesso coretto dei rimpatriati ma giustamente che giorno è e soprattutto che anno è? Siamo a Natale. E’ come se per il concerto di Capodanno, non fossero previsti i valzer di Strauss, no, troppo vetusti, ma “con le pinne fucile ed occhiali, mentre il mare è una tavola blu” di Edoardo Vianello. Peccato che a tarda notte, poche sere fa, Ambrogio Sparagna, che di canti popolari e di musica antica se ne intende, avesse spiegato come i più antichi canti natalizi abbiano avuto origine proprio da noi. In fondo, però, che ci vuole a riscrivere una cultura? Basta che lo ordini il governo in carica e apprenderemo tutti che a scuola si deve andare per imparare un mestiere (lo ha detto il ministro Giuseppe Valditara, quello dell’umiliazione a scopo didattico), che Mogol è un grande poeta, e occhio ai libri di testo che probabilmente si adegueranno molto presto. La Cultura del resto è sempre stata un grimaldello del potere, anche se invece dovrebbe essere la sua anima critica.

     


     

  • CHE GRANDE ROMANZO
    "LE NOTTI DELLA PESTE"
    DI ORAN PAMUK

    data: 26/11/2022 18:13

    Non parla nessuno dell’ultimo romanzo di Oran Pamuk, scrittore turco premio Nobel: “Le notti della peste”, forse perché, a dispetto della cornice storica, è una lettura quanto mai attuale e dolorosa. Infatti, come si può facilmente evincere dal titolo, si parla proprio di peste in queste circa settecento pagine di prosa perfetta, di un’epidemia che si è vissuta sull’isola di Mingher al limitare dell’impero ottomano che deflaglerà di lì a poco. La scena si svolge nel 1901 e l’impero ottomano, di cui viene tracciata la storia fingendo di aver ritrovato delle lettere alla sorella della principessa Pakize. In queste missive, la principessa, sposata col dottor Nuri, descrive ciò che accade nella pittoresca isoletta di fronte a Smirne e a Rodi, che quasi per caso ritrova un mattino di giugno la sua libertà e indipendenza (un binomio da allora inscindibile, chiosa la voce narrante: “Due principii che d’ora in poi sarebbero stati citati quasi sempre insieme”).

    Bisogna arrivare a due capitoli di snodo per trovare un po’ di azione in quella che finora è la descrizione, certo in una prosa sontuosa, della malattia e del suo inesorabile diffondersi, con gran copia di lutti, ratti morti, spargimento di lisolo e case incendiate. “Con le ingombranti maschere, gli scafandri di tela cerata e le pompe in spalla, le squadre di decontaminazione erano uno spettacolo inquietante”: ricorda qualcosa? Prima c’è l’uccisione del dottor Bonkowski (di origine polacca) che era stato inviato dal sultano per verificare lo stato delle cose e prendere i necessari provvedimenti. C’è il tentativo di eliminare con dei pasticcini avvelenati la guarnigione antiepidemia, ci sono i prigionieri nella torre veneziana. Sembra davvero di visitare l’isola, per come viene illustrato ogni suo scorcio.

    Poi, al capitolo 51, pagg. 416 e seguenti, si verifica il golpe inatteso, improvvisato, che si svolge nel palazzo del governo per mano del maggiore Kamil, nato a Mingher ma residente da tempo a Istanbul, che proprio durante la sua missione ha sposato Zeynep, la ragazza amata anche dal bandito islamico Ramiz. I ribelli, capeggiati appunto da Ramiz, fratellastro dello sceicco Hamdullah, vengono sconfitti e il nuovo governatore, appena arrivato, viene ucciso, così che Mingher dichiara la sua indipendenza, sia pure sotto il governo di Samir Pascià, un fedelissimo del sultano e Kamil diventa un eroe nazionale. Da qui, per altre duecento pagine (in totale sono 713, impreziosite da belle cartine dello stesso Pamuk e nella traduzione di Barbara La Rosa Salim; l’editore è Einaudi, 25 euro), si narra un’altra storia ma sempre dal punto di vista della principessa Pakize che a pag. 5 spiega: “Sono d’accordo con il più femminile dei romanzieri maschi, il grande Henry James, secondo cui, perché un romanzo sia veramente convincente, ogni particolare e ogni evento devono disporsi intorno alla prospettiva di un singolo personaggio”. Restiamo però sempre a Mingher, quest’isola incantevole e magistralmente descritta.

    Ora, sono molte e ben note le pagine nella letteratura mondiale dedicate alla peste, fra tutte le più famose quelle che Alessandro Manzoni scrive nei Promessi Sposi di cui tutt’una parte, la Storia della colonna infame (in origine proprio Quarantana), sorta di romanzo nel romanzo, è dedicata in particolare alla terribile epidemia che flagellò Milano nel 1630. Ma forse non tutti hanno letto - pure si dovrebbe - le magnifiche e commoventi pagine introduttive al Decameron di Giovanni Boccaccio, nelle quali lo scrittore fiorentino si trasforma nel più efficace cronista di una situazione drammatica al sommo grado, descrivendo ciò che successe in Toscana due secoli prima dello scenario scelto da Manzoni. E poi ovviamente c’è Camus che illustra con altrettanto verismo nell’eponima “Peste” il terribile flagello che sconvolse l’algerina Orano (ambientato nel 1943).

    La descrizione di Pamuk parte da un’isola che potrebbe essere una sorta di Capri turca, il cui panorama viene intaccato dalla peste, con descrizioni di morti e disperazione, con i provvedimenti che i medici tengono a imporre alla popolazione, divisa fra greci ortodossi, cristiani, romei e musulmani, la quale spesso è preda di superstizioni religiose piuttosto che di prescrizioni mediche. La sfida con i suoi tre illustri predecessori viene sostenuta facilmente da Pamuk ma la lettura è forse un po’ faticosa, sulla scorta di quello che tutti abbiamo passato e stiamo vivendo col Covid ma anche per una certa ripetitività dell’argomento stesso. Anche se, in prospettiva, quando lo stesso autore (o meglio, colui che esamina le lettere della principessa Pakize), nei panni di uno storico che esamini dei documenti storici, interviene, si lancia uno sguardo indagatore sulla Turchia di ieri, non tanto dissimile da quella odierna.

    Non mancano infatti i riferimenti ad avvenimenti realmente accaduti e questo fa delle “Notti della peste” un documento prezioso: consideriamo che l’impero ottomano cadde il I novembre del 1922 ma qui, con un’indagine alla Sherlock Holmes, molto amato dal sultano Abdul Hamid (che si faceva leggere romanzi occidentali prima di addormentarsi), si lascia intendere che la decadenza risalisse a molti anni prima, fin da quando i sultani eredi eliminavano con crudeltà tutti i numerosi pretendenti al trono oppure isolavano i cadetti in palazzi principeschi che nulla avevano da invidiare a Versailles. Niente di strano del resto, considerando che il Sultanato risaliva addirittura al 1299 e si diffuse con una grande rete parentale e il sostegno dei capi religiosi. A pagina 255, per esempio, c’è una mirabile descrizione della vita da principesse ottomane: “Hatice e Fehime, le sorelle di Pakize, avevano entrambe lasciato la casa paterna prima di lei ed erano entrate nell’harem del Palazzo di Yildiz (nella grafia turca la i non ha il puntino, ndr), dove avevano fatto amicizia con le figlie nubili dei loro zii e avevano visto i principi, anche se da lontano. Le principesse della dinastia reale in età da marito sparlavano liberamente di loro, così come dei figli dei pascià e dei visir. Dopo la presunta abolizione della schiavitù e sulla scia della graduale occidentalizzazione dei costumi della corte ottomana e della vita nell’harem, questi principi e potenziali sultani in genere non erano più interessati alla secolare tradizione che prevedeva di sposare una schiava circassa o ucraina condotta da qualche provincia lontana: si aspettavano invece di unirsi a donne che avevano ricevuto lezioni di piano in stile europeo negli harem di palazzo, parlavano francese e leggevano romanzi”. Di conseguenza, a fronte dell’ignoranza dei principi, le donne di corte preferivano sposare dei borghesi, come Pakize aveva fatto con il dottor Nuri.

    D’altra parte “dare una formazione ai principi era molto difficile; era impensabile ferire l’orgoglio di un giovane che un giorno avrebbe potuto sedere sul torno ottomano diventando il califfo di quattrocento milioni di musulmani”.

    Dunque “Le notti della peste” è un romanzo d’avventura dalle mille sfaccettature che ci fa scoprire un mondo e di cui si consiglia la lettura.

     

     

  • ARGENTINA, NUNCA MAS
    IRAN, POLIZIA MORALE

    data: 09/11/2022 22:35

    Nunca mas! Mai più! E’ il grido che riecheggia alla fine delle due ore del film “Argentina 1985”, un film indispensabile, meraviglioso, firmato da​ Santiago Mitre (che era bambino quando finì la dittatura militare), ​sceneggiato da Mariano Llinàs, prodotto, tra gli altri, dallo stesso Ricardo Darin che interpreta come meglio non si potrebbe il procuratore Julio Strassera, ovvero colui che ha messo alla sbarra i generali argentini che si sono macchiati di crimini inauditi, pari a quelli dei nazifascisti. Molto più recentemente, dal 1975 al 1983, sei anni in cui l’Argentina è precipitata all’inferno.

    Non che non sapessimo ciò che hanno fatto Videla e i suoi complici, autentici delinquenti: il Paese, dopo il governo peroniano, era agitato da proteste soprattutto studentesche e allora i generali, ascesi al potere, hanno represso a suon di manganelli, hanno distrutto famiglie, hanno rapito giovani e li hanno torturati e uccisi, lanciati addirittura dagli aerei; hanno compiuto atrocità contro donne incinte e i loro neonati, hanno poi lasciato che bambini ormai orfani crescessero con i carnefici dei loro genitori. Si sa tutto ciò, sono anni che sappiamo, abbiamo visto anche il processo in cui le madri di Plaza de Mayo hanno testimoniato, a centinaia di migliaia, gridando a gran voce il nome dei loro figli fatti sparire (“desaparacidos”) dalla polizia argentina eppure ogni volta è come se un nuovo tassello si aggiunga al mosaico dell’orrore, perché al peggio non c’è mai fine.

    ​E’ una tragedia, quella argentina, ma pure cilena, brasiliana, che non vanno dimenticate. Ci sono i libri (“Argentina 1976-2001-filmare la violenza sotterranea”, Ubulibri) e i film di Marco Bechis (“Garage Olimpo” del 1999, “Figli” del 2000), moltissimi altri documentari e ricostruzioni storiche, il film di José Campanella, con protagonista sempre Darin, uno dei massimi attori mondiali,​ “Il segreto dei suoi occhi”, in cui si riprende lo stesso tribunale di Buenos Aires che fa da scena anche in questa pellicola, ma ecco che si aggiunge alla lista il film di Mitre, indispensabile, che corre sugli schermi televisivi di Prime video. E’ uscito in sala solo in Argentina, una decisione che ha causato polemiche, comunque un solo consiglio posso dare: vedetelo. Occorre vederlo, è necessario. Il film racconta ciò che è accaduto dopo il 1983. Si tratta di una transizione quasi inavvertita dal regime cruento a quello democratico, con tutto l’apparato burocratico, specie nella giustizia e nelle forze militari, che resta sostanzialmente immutato (come del resto avvenne in Italia dopo il fascismo). La corte marziale si rifiutò di giudicare nove esponenti della giunta, fra cui il generale Videla e allora toccò alla giustizia civile farlo. Con Strassera che, nominato procuratore capo, ha attraversato gli anni bui da semplice “funzionario”: da pauroso dei servizi segreti e della macchina repressiva lo vediamo trasformarsi in un eroe, aiutato anche dal suo giovane collaboratore Moreno-Ocampo, discendente di una famiglia di militari, la cui madre andava a messa con Videla e che, dopo aver ascoltato alla radio l’escussione dei testi, telefona sconvolta al figlio. Aiutato, il procuratore che ama la musica di Wagner, anche dalla sua coraggiosa moglie Silvia e dai due figli. Strassera mette insieme un pool di giovani avvocati che inchiodano i colpevoli alle loro responsabilità e va avanti, pur ricevendo minacce terribili, rivolte a lui e alla sua famiglia, tra cui un vispo ragazzino che collabora col padre nella stesura della declamatoria finale con cui Strassera passa alla storia. In sostanza, un film che è quasi una cronaca familiare, che racconta bene come si possa scivolare inavvertitamente dalla democrazia alla repressione.

    Nunca mas, si diceva, mai più, eppure oggi, in questo momento, c’è un altro popolo che sta vivendo la stessa brutale violenza dell’Argentina nel secolo scorso: l’Iran. Ogni giorno ci sono manifestazioni contro la “Polizia morale” che obbliga le donne a portare l’hijab, uomini e donne sono uccisi a manganellate, si decapitano dissidenti, si frustano persone che hanno la sola colpa di ribellarsi ai diktat religiosi. In questo momento non sappiamo nulla di Alessia Piperno, una ragazza romana che aveva partecipato alle manifestazioni dopo l’uccisione di ragazze da parte della polizia (tra cui anche poliziotte) e che è stata arrestata a Teheran. Chiediamo la sua liberazione immediata a gran voce così come vogliamo il ripristino della legalità e della giustizia vera in un Paese che invece viene omaggiato, in nome del petrolio, da numerose “democrazie”. Tanto che le loro rappresentanti, quando vanno a Teheran, corrono a mettersi il velo “per rispettare gli usi locali”. Ma quali tradizioni? Costumi imposti da capi religiosi rozzi e violenti, con evidenti problemi sessuali. Su Raiuno, domenica sera, è passato, per lo Speciale Tg1, un magnifico film, anche questo necessario, da recuperare: “Be my voice” della regista iraniana Nahid Persson che segue la protesta, in esilio, di Masih Alinejad, una straordinaria giornalista, poeta e scrittrice che da New York registra e diffonde la voce della protesta corale degli iraniani democratici, una voce che noi abbiamo il dovere di raccogliere. Una madre denuncia che la figlia, per una ciocca fuori posto, è stata condannata a 20 anni di prigione? La polizia arresta pure la madre. Un fratello corre in difesa della sorella? Giù decine di frustate. Le donne coraggiosamente scendono in piazza? Si tolgono il velo, capelli al vento? Vengono colpite senza pietà. Non possiamo ignorare tutto ciò, nunca mas, mai più, vale oggi più che mai per l’Iran. Facciamo qualcosa, anche solo seguendo la coraggiosa Masih, che ha scritto “The wind in my hair” ed è la protagonista di questo documentario.


     

  • COME LA COMUNE?
    ABITAZIONE COLLETTIVA?
    ORA SI CHIAMA COHOUSING

    data: 19/10/2022 20:31

    Lo spot di Alessandro Piva, il regista barese prediletto dal Comune, fa vedere per prima cosa una ragazza dall’accento settentrionale (e dunque non porta orecchiette) con un gran pacco di pasta fresca, che sale le scale di un condominio parlando col padre al telefonino: “Sì, ne ho preso due chili di tortellini, francamente mi pare eccessivo…ché tu uno sei” ma quando arriva a casa del padre, evidentemente vedovo o separato, la figlia la trova piena di fricchettoni, capelli lunghi e aria da reduci della “big Sunday” californiana in versione pugliese, coetanei dell’anziano, over 65 comunque, tutti in stato di ebbrezza si direbbe vista l’allegria dilagante e molto affamati. Stanno seguendo una partita “della Bari”, con birra e panzerotti ed esultano al gol della loro squadra. “Che sta succedendo qua?” “Viviamo insieme!” risponde il padre, gran barbone bianco, ingolla una fetta di mortadella, subito redarguito da un suo amico che fa “Si dice cohousing!”; i suoi amici, maschi e femmine, stanno lì insieme e ben presto anche la figlia, si lascia coinvolgere dal clima di generale contentezza. E’ il “Cohousing”, iniziativa dell’assessorato barese al Welfare, tutto rigorosamente in inglese, e chi vuol aderire può consultare il sito “coabitare.it” che tuttavia risulta insicuro.

    Dunque siamo passati dall’isolamento pandemico causa Covid 19 a proposte di abitazione collettiva in stile “grande fratello”, naturalmente con una schiera di consulenti, dagli assistenti sociali agli immancabili psicologi, che dovranno assicurarsi che tutto vada bene. Per adesso sono tre i soggetti che, in un appartamento affittato dal Comune, andranno a vivere insieme, col fine di risparmiare sulle spese, ridurre le bollette, ecc. Ma lo scopo è più ampio: case private possono essere aperte all’iniziativa, su richiesta, e si auspica che gruppi di amici vadano a vivere insieme risolvendo non solo problemi economici ma anche, se non soprattutto, psicologici. In prospettiva si torna alla comune, di quelle che andavano di moda fra i giovani, dopo il 68, per sfuggire all’oppressione familiare e che non hanno avuto un gran futuro, come dimostra la vicenda narrata da Elena Ferrante nell’Amica geniale, quando descrive un appartamento milanese in cui la figlia della professoressa di Lila e Lenù passa da una condivisione collettiva a un fiero isolamento. Altro contesto, altra temperie generazionale, non si possono fare paragoni, si deve partire dall’esperienza di ognuno.

    L’esperimento ha indubbiamente i suoi lati positivi: stare insieme non solo per motivi economici ma anche per aiutarsi vicendevolmente in un’età in cui insorgono difficoltà di vario tipo, per quanto ci si limiti qui agli “autosufficienti”, è un’idea da non scartare, anzi. Eppure non convince del tutto: la gran parte delle persone si abitua alla solitudine, vuole star sola e vivrebbe questa condivisione come una limitazione alla propria libertà. Ovviamente l’esperienza è su base volontaria. Alcuni hanno espresso pubblicamente il desiderio di trascorrere la propria vita con altri, come Benedetta Barzini, fotografa, scrittrice ed ex top model, che, in un film molto toccante diretto dal figlio Beniamino Barrese, ”Disparing mother” (si trova su Raiplay, è bellissimo), mostra di cavarsela alla grande nel suo appartamento nel cuore di Milano: ma recentemente persino lei ha manifestato l’intenzione di avere con sé degli amici. Ecco, appunto amici, conoscenti, forse anche parenti. A Bari per esempio, ma credo non solo qui, fra le famiglie più facoltose, era invalso l’uso di comprare interi appartamenti (basta scorrere i cognomi sul citofono: sono tutti incrociati fra di loro) per dividere una socialità parentale molto più stretta di quanto sia in voga adesso. L’avvocato Augusto lo ha spiegato in un recente articolo: la sua famiglia e quella dei cugini Vernola, divisi da differenti idee politiche (gli Augusto comunisti, i Vernola democristiani), ma uniti da un grande affetto, abitavano a due passi da via Sparano, in pieno centro, tutti in uno stesso condominio per cui era facile passare dalla zia per un pranzo, farsi aiutare nei compiti da una cugina, organizzare una gita tutti insieme: si viveva insomma in una sorta di abitazione collettiva di quelle ipotizzate da Fourier nella sua utopia socialista, alla fine dell’Ottocento. Dove le riunioni di condominio si suppone fossero più pacifiche di quelle odierne fra vicini che spesso si detestano.

    Però la coabitazione non è possibile se non si è amici, se non ci si fida l’uno dell’altro, se non si dialoga, se non ci sono gli spazi giusti. Senza ricordare i casi estremi e certamente non indicativi, vere e proprie tragedie che purtroppo fanno parte della casistica. Fu un ex inquilino il 29 settembre 2020 a scuotere la pacifica Lecce: un ventenne che aveva affittato una stanza in una casa dove una coppia di fidanzati era andata a vivere proprio quella sera, smettendo quindi di vendere le stanze, si presentò all’ora di cena con le chiavi che ancora aveva e accoltellò selvaggiamente i due poveretti: “erano troppo felici”, disse il mostro che fino a quel momento era parso a tutti un ragazzo tranquillo, come si afferma sempre in questi casi. Per fortuna, si tratta di casi isolati però ce ne sono (come il delitto di Perugia che vide coinvolti coinquilini studenti e la vittima fu una povera ragazza inglese; i sospetti caddero subito sui suoi coinquilini). Certo non dobbiamo pensare a questi estremi, la coabitazione può anche essere una splendida iniziativa e lo scenario effervescente ipotizzato da Piva lascia ben sperare. Di sicuro sarebbe bello. Molti hanno superato l’emergenza Covid con la riscoperta dei rapporti umani. Chissà cosa ha comportato la convivenza forzata dello smartworking, andrebbe studiato meglio dato che ci sono pareri discordanti al merito. Bando al pessimismo, dunque, proviamola la “cohousing”, ovvero la coabitazione. E giustamente Piva ha iniziato dal pranzo collettivo, perché, come si dice a Bari, non sei veramente amico di qualcuno se non hai pranzato insieme con lui almeno una volta.

     

     

     

  • ANCORA TROPPO POCHE
    LE DONNE IN POLITICA

    data: 14/10/2022 15:51

    E’ stato importante e commovente il discorso della senatrice Liliana Segre all’inaugurazione, in Senato, della XIX legislatura. “Uno strano destino” ha detto Segre, l’ha fatta ritrovare a presiedere il nuovo Senato proprio nel mese di ottobre in cui, un secolo fa, si ebbe l’ascesa del fascismo in Italia e che nel 1938 la vide, bambina spaurita e terrorizzata, cacciata dalla scuola elementare di Milano che frequentava (la scuola cominciava allora in ottobre) a seguito delle leggi razziste emanate da Mussolini in quello stesso anno, “ed è impossibile per me ora non provare una specie di vertigine”. Un discorso che è continuato esaltando la Costituzione, a cui il popolo italiano è rimasto sempre legato, e che è stato applaudito dal centrosinistra, laddove la destra è rimasta a mani conserte, quando Segre ha ricordato che la Costituzione può essere certo emendata ma deve rimanere nel suo impianto principale costituito dai “nostri fratelli e sorelle”, anche perché tutto l’impegno che si è profuso per cambiarla era meglio si fosse impiegato per attuarla, a cominciare dall’articolo 3, uno dei più importanti, quello che invoca il superamento di ogni ostacolo “di sesso, di razza, di lingua, di religione,di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, per un completo sviluppo del cittadino.

    Un discorso di chiara impronta antifascista, commovente nel ricordare in più punti la precarietà della democrazia (a cento anni, ancora un anniversario ottobrino, dalla marcia su Roma, e un “brivido” scuote Segre, scampata per puro caso alla morte ad Auschwitz), e cominciato con un accenno fondante al clima di guerra che si va diffondendo dall’Ucraina sottoposta a un attacco russo che sta causando morti e distruzione ormai da ben otto mesi. Ha riportato all’inizio il saluto del senatore a vita ed ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, indisposto, augurandogli di ristabilirsi al più presto, e ha concluso, questa sua prolusione intensa, molto toccante in più punti, con la necessità di superare le divisioni, la politica “urlata” (e l’allusione ai proclami spagnoli alla Vox di Meloni sembra chiara), i contrasti dovuti all’appartenenza nel nome del comune interesse di governo. Un invito raccolto anche dal neoeletto presidente del Senato, Ignazio La Russa (che fa collezione di busti del duce e che non ha mai rinnegato il suo essere fascista), che ha detto che cercherà di essere il presidente di tutti. Una rassicurazione che fu anche nelle prime parole del 26 settembre di Giorgia Meloni ma che non sembrano affatto così conciliatorie come si annunciano.

    La senatrice Segre ha anche sottolineato la necessità che, oltre alla Costituzione, si riconoscano come date importantissime per l’Italia: il 25 Aprile, il I Maggio e il 2 Giugno.

    Nel disbrigo poi delle procedure rituali, la senatrice Segre ha letto il saluto della presidente della Corte Costituzionale, la barese Silvana Sciarra (allieva di Gino Giugni, il padre dello Statuto dei lavoratori), seconda donna a ricoprire una tale importante carica dopo Marta Cartabia.

    Intanto, in un Parlamento dimezzato rispetto alle altre legislature, in seguito alla norma desunta da referendum che ha ridotto il numero dei rappresentanti degli elettori, e con una maggioranza dettata però da un forte astensionismo che ne riduce molto la portata di valore collettivo (e del resto sommando i voti del centrosinistra, purtroppo diviso, si ottiene una maggioranza che fa ben sperare in una decisa opposizione) le donne non sono mai state così poche da vent’anni a questa parte, essendo il 31 per cento del totale rispetto al 35 per cento eletto nel 2018. Per stare a una regione come la Puglia, che prendo come esempio, su 27 parlamentari ne sono risultate elette solo 9. L’astensionismo è stato più delle donne che degli uomini ma quelle che si sono decise al voto, hanno votato per il 27% per Giorgia Meloni e i suoi Fratelli (indicativo il nome del partito: oltre alla leader le sorelle sono pochine, e una di queste è Isabella Rauti, un cognome una storia). Su 119 parlamentari del Pd, le donne sono solo 36, il che ha dato luogo a un dibattito molto serrato sulle pagine della “Repubblica”, da cui la filosofa Michela Marzano eccepisce sul fatto che sia meglio avere la libertà che il potere. Al che però si può ribattere che senza potere, il più delle volte, non c’è nemmeno libertà. Ciò si evince anche dal fatto che molte donne vivono in condizioni di povertà, non hanno lavoro. Come rileva Linda Laura Sabbadini: “Oggi 15 milioni di persone sono a rischio povertà o esclusione sociale. Il 25% della popolazione. Il 40% delle persone che vivono al Sud. Quando è stato confermato il reddito di cittadinanza da parte del governo Draghi, perché non è stato recepito almeno qualche suggerimento della Commissione Saraceno? Metà delle donne di questo Paese non sono indipendenti economicamente, siamo in fondo alla graduatoria europea per il tasso di occupazione femminile. E non mi venite a dire che nel Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) c’è la clausola di salvaguardia, ottenuta dal Pd, che garantirà che almeno un terzo degli assunti con il Pnrr saranno donne o giovani. Lo sapete voi stessi che non funzionerà, perché scritta in modo da non poter essere applicata”.

    A Bari il Pd aveva candidato la chimica Luisa Torsi, una scienziata di fama internazionale, che non è stata eletta. Intervistata dalla Gazzetta del Mezzogiorno, ecco che cosa ha dichiarato dopo il 25 settembre: “Sfortunatamente il Pd è un altro esempio, come se ne possono annoverare diversi, in cui la leadership maschile ha la preponderanza e non ci si pone il problema di creare le condizioni nelle quali alle donne siano offerte opportunità”. E che una donna, sia pure giunta a livello apicale, non faccia primavera, Torsi lo deduce dalla sua esperienza anche lavorativa: “Mi è capitato spesso di parlare con donne che hanno raggiunto posizioni di vertice, dicendo che sono spettate a loro e non ad altre perché hanno le competenze ed è stato riconosciuto. Questo è vero ma non si tiene conto del fatto che nel momento in cui una donna ha raggiunto una posizione apicale, a mio avviso, ha il dovere morale di adoperarsi perché quell’opportunità diventi tale per altre donne”.

    In questa giornata così importante, al netto del silenzio stampa chiesto dalla famiglia, mi sarebbe piaciuto almeno un accenno alla nostra connazionale Alessia Piperno, imprigionata in Iran perché ha condiviso la lotta delle donne contro “la polizia morale” iraniana che ha ammazzato donne per il solo fatto che una ciocca di capelli era sfuggita dal loro velo nero. Velo che coraggiosamente le iraniane stanno bruciando in piazza. Non lasciamole sole. E liberiamo subito Alessia!

     

     

  • DISAGIO GIOVANILE
    E SUICIDI: QUANDO
    SE NE OCCUPA LA TV

    data: 24/09/2022 15:32

    Peccato per l’orario (si può comunque rivedere su Raiplay), ma "Scialla", andato in onda giovedì sera in seconda serata su Raitre, è davvero un programma innovativo, insieme a La torre e il cavallo di Damilano che nella stesso giorno ha dato voce a Vera Politovskaja, la figlia di Anna, la giornalista dissidente uccisa dai servizi mica tanto segreti di Putin, anch’ella giornalista, che vive all’estero e che ha detto che il giornalismo oggi in Russia non esiste più. Non mi risulta che mai nessuno in tv prima di Damilano abbia intervistato Vera Politovskaja.

    Il programma "Scialla", prodotto da Stand by me di Simona Ercolani, e già questa è una garanzia, ha esplorato il disagio giovanile più acuto, dando la parola ai diretti protagonisti che hanno raccontato esperienze di vita vissuta sconvolgenti, come bulimia, attacchi di follia: come spaccare tutto e con pezzi di piatti rotti tentare il suicidio; i genitori hanno chiamato il 118, ci sono stati ricoveri in psichiatria.
    Fino al caso più estremo, il suicidio di un giovane che apparentemente non aveva alcun problema, era ben inserito nel suo contesto sociale, aveva una bella famiglia con cui dialogava serenamente, giocava a rugby (e i suoi compagni di gioco ancora non se ne fanno una ragione come i familiari del resto) ma era segretamente in contatto con un sito inglese che istiga al suicidio – e non si capisce come mai questi siti non siano oscurati oppure operano nelle retrovie nere del web – di cui ha seguito le “istruzioni” e gli incitamenti fino in fondo. Straziante la testimonianza finale del padre del ragazzo che ha detto che suo figlio ha lasciato pure un messaggio in cui diceva loro di stare tranquilli ma che questo non è assolutamente possibile, che lui, agendo così, ha gettato nel dolore più cupo i genitori e la sorella: “Ha fatto tutto in modo da non farsi accorgere ma ha sbagliato nello scrivere che noi non avremmo dovuto star male, perché il male che proviamo è atroce e non passerà mai”. Anche i suoi amici, ovviamente, sono sconvolti e non si danno pace.

    Testimonianze dunque forti, sconvolgenti ma raccolte – ed è questo ciò che mi ha colpito nel programma – non con quella lacrima appesa della “tv del dolore”, quando chi intervista si fa fintamente partecipe del dramma dell’intervistato (“Non si parla mai della malattia mentale – diceva a viso aperto la ragazza dei cocci di vetro, ora aiutata molto anche dai genitori – ma gli aiuti ci sono, bisogna parlarne, chiedere aiuto, confrontarsi”), ma con la partecipe attenzione di quella che mi è parsa subito una straordinaria comunicatrice, la veneziana appena ventenne Nicki Passarella che, ho scoperto, è una grande influencer di Tiktok con seguaci a bizzeffe. Passarella è stata anche premiata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, insieme alla sua amica Sofia Mesini, quando aveva 13 anni per un dipinto sulla maternità. Non solo, anche l’anno prima Nicki era stata insignita in un'analoga manifestazione, quando al Quirinale c’era Giorgio Napolitano. E ora, l’approdo in tv. La giovane di Mira, un paesino vicino a Venezia, ha condotto con grande esperienza e autentica partecipazione (il padre intervistato alla fine è proprio di Mira) un programma difficile che si è rivelato davvero prezioso e che andrebbe visto per rifletterci, per meditare, in questo periodo di vuoti proclami.

     

     

     

  • MA QUANTO E' PIACIUTA
    L'IMMAGINE DELLA REGINA
    LAVATRICE DI PIATTI

    data: 15/09/2022 13:48

    Ed è stato al Gr1 delle 8 del 13 settembre, ovvero cinque giorni dopo la fatal dipartita, che ho ascoltato ancora l’intervista al maggiordomo della regina, che avevo già letto pari pari sulla Repubbica. E che cosa dice costui che era al servizio privilegiato della Queen dal lontano 1982, e ora ha 82 anni? Dice con molte parole, con allusioni anche piccanti che lasciano intravvedere, ma è solo un’allusione, per carità, a una storia alla Lady Chatterley, che una volta “mi disse di andare alla capanna”; e che cosa fecero una volta arrivati fin lì? La Regina gli riferì, pensate un po’, che voleva lavarli lei i piatti, e lui li avrebbe asciugati.

    Ed è qui che mi cascano le braccia: puoi essere regina, una che a 14 anni ha tenuto il suo primo discorso ufficiale, una che ha fatto millanta volte il giro del mondo, una che ha ricevuto e osservato la politica di ben 15 primi ministri, una che parlava correntemente diverse lingue (anche se, per la verità, ha parlato poco), una a capo di un’impero mondiale che sotto i suoi 70 anni di regno si è man mano sgretolato e democratizzato, una che ha affrontato crisi da paura (pensiamo solo alle Falkland o all’Irlanda) e della chiesa anglicana, una che poi certo ha avuto quattro figli con annessi e connessi ma, per la nostra emerita stampa, va comunque ridimensionata al ruolo casalingo di lavatrice di piatti, un’attività che bene o male abbiamo fatti tutti, maschi compresi, e dunque dov’è la notizia? Che poi all’intervistato sia parso straordinario che la Queen, che certo quel giorno ebbe uno sghiribizzo domestico, probabilmente mai ripetuto vista la folla di domestici e di lavastoviglie che certamente l’attorniavano, va bene, ci sta, è un aneddoto ma proprio piccolo piccolo e possibile che non gli sia venuto in mente altro da raccontare? O ai giornalisti di raccogliere proprio questa testimonianza, nella foga di ramazzare qualsiasi piccolo particolare che potesse contribuire a costruire il puzzle di un personaggio che comunque, e questo, sì, va detto, impose a un marito compiacente (del resto compensato da un ruolo tutt’altro che misero) di starle sempre un passo indietro? No, ci è toccata un buon quarto d’ora d’intervista sulla regina che lavava i piatti. Così impara a stare al suo posto che evidentemente, per la cultura media italiana, è ancora la cucina. Seppure imperiale.

    Piuttosto io vorrei vedere un bel servizio sui cerimoniali, sui magnifici costumi dell’esercito britannico, non tanto per lo scontato fascino della divisa ma proprio per la ricchezza, i colori, la varietà, la fantasia, uno spettacolo assolutamente hollywoodiano che spiega forse anche il “miracolo” del Cinema di là dall’oceano. Non dimentichiamo che la grande industria della Settima arte fu quasi tutta opera di fuorusciti ebrei dell’impero asburgico (arresosi senza protesta alla furia nazista e ancor prima abbattuto dalla prima guerra mondiale) che, quanto a coreografie, non doveva essere inferiore a quello britannico. E che, certo, ha avuto anche le sue derive, basti pensare alle oceaniche manifestazioni nazifasciste o staliniste e che ancora si vedono nella Corea del Nord. Masse e potere, ci conviene rileggere Elias Canetti. Comunque è bastata la diretta, senza commenti, le immagini in questo caso parlano da sole. Ed è stato bello ammirare Edimburgo, una splendida città che non compare certo spesso nei telegiornali.

     

     

     

     


     

     


     

  • MA PRIMA DEL '68
    ECCO LA RIVOLTA GLI EDILI
    A BARI, CITTA' DELL'EDILIZIA

    data: 27/08/2022 20:09

    Oltre 60 anni fa la nuova Bari inaugurata nel 1813 da Gioacchino Murat, il cognato di Napoleone, ancor oggi chiamata murattiana, cambiava di nuovo volto. Si dava inizio allora alla Bari “moderna” che è quella che vediamo ancor oggi: speculazione edilizia a mille, casermoni alti e gelidi nella vasta periferia, laddove una volta, come si dice nel “ragazzo della via Gluck” parlando di Milano, c’erano campi sterminati di ortaggi. Il terreno barese è incredibilmente fertile, spuntano fichi e piante varie ovunque, addirittura dalla focaccia lasciata per strada dai semi dei pomodori crescono presto spontaneamente piantine. E un tempo, ormai lontano, la città era appunto circondata da orti incredibili, con cui si potevano rifornire i mercati locali, dove adesso si trovano prodotti provenienti da ogni parte della regione e del mondo ma non da Bari stessa.

    I costruttori edili, diventati presto miliardari, trasformarono dunque il centro murattiano (e non solo) in una selva di cemento. Al posto di decorosi palazzi novecenteschi, di cui ancora qualche traccia Liberty c’è in corso Cavour, nell’Umbertino (un quartiere prospiciente il mare), e in piazza Garibaldi, sono stati costruiti palazzi di almeno sei piani, angusti, dall’ingresso ridicolo. Non importa che ci siano le firme di grandi architetti, cosa volete che abbiano costruito se il loro passaggio comporta scale strette, ascensore ridicolo (niente montacarichi, né altro) un ridicolo ingresso piccolo scuro e angusto, laddove prima sui tre piani massimo, era sempre previsto un giardino interno, che faceva di Bari una città con una dignitosa percentuale di verde? Quei cortili furono utilizzati caso mai per le macchine, le stesse che occupano ogni centimetro quadrato e che corrono a velocità proibite un po’ ovunque (quest’estate ci sono stati tre tragici investimenti sulle strisce…).

    Non ci sono nemmeno troppe testimonianze fotografiche di quell’epoca. Si favoleggia di giardini di limoni e oleandri, di pini e camomilla, di distese di papaveri ma fotografie non se ne trovano se non rarissime. Vestigia della Bari che fu restano in alcune strade, come corso Sicilia (ora de Gasperi), punteggiato di alberi secolari che vengono abbattuti nel giro di poche ore con la sola ordinanza di un giudice. Risultato? Bari è una città in cui il verde stenta a crescere e in cui vengono inaugurati con gran clamore “parchi” che si rivelano semplicemente giardinetti, in gran parte asfaltati. Per non parlare di via Sparano dove, per ottenere l’effetto cannocchiale (cioè una visuale tanto libera quanto inutile dalla stazione alla cittrà antica) si sono tolte le vasche che contenevano alberi, loro sì di grande effetto. La via è stata sistemata in un modo anonimo, simile alle strade centrali di tante altre città, così com’è stato snaturato il giardino accanto alle ex Poste, disseminato poi di blocchi di cemento di cui non si capisce la funzione. La sistemazione della costa con Pane e pomodoro e Torre Quetta è stata sì meritoria ma per arrivarci è necessaria sempre la macchina e, tanto per fare un esempio recente, un concerto di due ore in riva al mare ha comportato un flusso di auto (entrate con parcheggio a pagamento) di almeno tre ore, con quanto vantaggio per l’inquinamento si può ben immaginare. Anche perché a Bari le auto viaggiano (e sfrecciano, incuranti del limite di velocità) con massimo due passeggeri, anche quando i posti sono di più.

    Dunque 60 anni fa anni fa Bari era un pullulare di cantieri, ci lavoravano, provenienti dalla provincia e dalla città stessa, molti edili, i muratori, protetti solo da un cappellino di carta. Toti eTata ne hanno tratto gag memorabili, interpretando così, come fossero muratori, i fratelli Matarrese, tra gli artefici del boom edilizio. Un lavoro ad alto tasso occupazionale, anche se temporaneo, ma pur sempre un volano efficace e allora che si fa? Si demolisce e si costruisce, occupando sempre più spazio, anche se la quantità di cemento impiegato non corrisponde alla popolazione e molti appartamenti rimangono sfitti e vuoti. Ma che importa? L’economia, almeno temporaneamente, è salva. Le licenze vengono rilasciate quasi senza controllare nulla (il caso di Punta Perotti, appartamenti costruiti quasi in riva al mare, dove non si poteva, nel 1995, e poi abbattuti nel 2006, è emblematico). A prescindere da contratti di lavoro, rischi connessi alle altezze e alla scarsità o assenza di prevenzione degli infortuni, purtroppo nel settore ancor oggi frequentissimi, e a tutto ciò che l’edilizia selvaggia comporta.

    E proprio 60 anni fa, a Bari, il 23 agosto, ci fu la rivolta degli edili, pagati pochissimo, sedata brutalmente dalle forze di polizia ma per fortuna senza vittime, non come accadde a Reggio Emilia, sebbene si contassero cento feriti. Ben ha fatto la Repubblica-Bari a ricordarlo, con un bell’articolo di Nicola Signorile, lo scorso martedì. Perché si tratta di una storia che merita di essere citata e che segna un punto a favore di quella Bari civile e democratica che meno di vent’anni prima aveva cacciato i tedeschi da Barivecchia, la città nella città che dà la misura della tenuta democratica dell’intero abitato.

    Li chiamarono “i ragazzi del twist”, perché di fronte alla polizia del governo Fanfani (e del questore spalleggiato dai costruttori) schierata in forze, anche in borghese, quella polizia che aveva sequestrato le loro biciclette ammucchiate a migliaia nella Questura e che li prese a manganellate, gli edili, tutti in gran parte giovani, si misero a ballare il twist, strafottenti e protestatari, sei anni prima del 68 e non erano studenti lavoratori. Si potrebbe dire che il 23 agosto 1962 barese ha anticipato il maggio francese. Certo, c’era stato già il luglio di scioperi alla Fiat, a Torino, con molti scontri. La rivolta barese durò qualche giorno e in generale è passata sotto silenzio, nella città che abbatte edifici storici come la sede della Gazzetta del Mezzogiorno in piazza Moro dalla sera alla mattina (nell’estate 1980) e che in generale non vuol ricordare. La memoria invece, in molti casi, è un dovere e i guasti edilizi a Bari sono sotto gli occhi di tutti. Allora lo sciopero durò una settimana e fruttò un aumento di 220 lire sulla paga giornaliera.


     

  • RILEGGERE FIELDING
    E FORSTER. ATTUALISSIMI

    data: 12/08/2022 21:11

    Prendiamo un classico, come “Tom Jones”, di Henry Fielding e mentre lo leggiamo, capitolo dopo capitolo, con lentezza perché non ci va di finirlo per quanto è bello, ci scorrono negli occhi le immagini di “Barry Lindon” di Kubrik, forse la rappresentazione più efficace di un romanzo picaresco come questo e come quello (eponimo) da cui Kubrik ha tratto il suo magnifico film. Con le avventure di Tom Jones, giovane, bello, avventuroso, orfano senza ascendenza che invece si scoprirà essere il vero nipote di Allworthy, il possidente che pure lo ha cresciuto ma poi rinnegato, si ha uno spaccato unico e imperituro della nazione inglese, ma non solo. La rivelazione e l’agnizione, così tipiche di ogni trama avventurosa che si rispetti, avvengono come di consueto solo alla fine, dopo che l’autore ci ha fornito un’analisi della società del suo tempo variegata e mutevole. Si tratta qui, come annuncia l’autore, di “natura umana”, il che vede il libro solcare piacevolmente le onde dei secoli e renderlo attuale e divertente ancor oggi. Non solo, per quelle alchimie che si verificano anche tra i libri, oggetti sensibili e dotati di vita autonoma, essendomi capitato di leggerlo insieme a “Casa Howard” di Edward M. Forster, ecco che tutt’una serie di paralleli mi si sono intrecciati, a raffigurare la nascita e l’evoluzione della Gran Bretagna e dell’economia occidentale stessa, con un balzo di circa duecento anni.

    Quel che accomuna Fielding e Forster è la gran quantità di digressioni che fanno del loro un racconto filosofico. Fielding scrive subito che di queste divagazioni “son certo giudice migliore di qualsiasi critico; pregherò quindi tutti questi critici di badare ai fatti propri, non immischiandosi in cose e opere che non li riguardano, ché sino a quando non avranno dimostrato in base a quale autorità s’ergono a giudici, non mi sento disposto ad accettare il loro giudizio”. Il signor Allworthy (ogni valore) è un vedovo che ha ereditato una grande fortuna, dunque è un possidente. Non ha più figli; ha una sorella, Bridget, “che aveva da poco superato i trent’anni, età in cui, a detta dei maligni, una donna ben può essere definita zitella”. Sarà lei a partorire Jones, in segreto ovviamente, poiché non ha autonomia economica, non è sposata e dall’alto del suo falso puritanesimo, giudica “sgualdrine” coloro che hanno figli al di fuori del matrimonio, pur dicendosi una donna molto caritatevole. Le donne qui sono spietate nei confronti delle loro simili e Fielding non manca di sfoderare la sua misogina ironia al riguardo. “Madamigella Bridget era sempre pronta a compiacere il fratello e assai di rado, se pur era mai accaduto, osava contraddirlo. Osservava a volte, è vero, che gli uomini son testardi e vogliono fare a modo loro, e che avrebbe voluto non dover dipendere da nessuno; ma erano osservazioni che esprimeva a bassa voce, con un sommesso mormorio”. La voce dell’autore si fa sentire spesso, non fa sconti a nessuno, però, non solo alle donne: ci sono faccendieri, osti, imbroglioni di ogni tipo, nobili, curati, nipoti che aspirano all’eredità, mantenuti e mantenute, parvenu, il quadro è davvero completo. Il trovatello Tom è insidiato da un altro nipote, il perfido Blifil che ha trafugato la lettera in cui Bridget rivelava al fratello, in punto di morte, la vera identità di Tom. Dopo aver descritto la casa in stile gotico del possidente, immersa in un paesaggio incantevole: “Attento lettore – scrive Fielding - Senza pensarci, t’ho condotto in cima a un colle altissimo, come quello rappresentato da Allworthy e non so come riportarti in basso senza farti rompere il collo. Ma proviamo a scendere insieme. Madamigella Bridget suona il campanello e il signor Allworthy è chiamato a colazione; io debbo naturalmente assistervi e se vuoi esserci anche tu, saremo lieti d’aver la tua compagnia”.

    Sembra proprio il regista di un film! Questo quadro tranquillo poi si dissolverà, e col tempo tutta la vicenda si snoderà sull’amore contrastato fra Sofia Western, figlia di un vicino di casa di Allworthy, uno che urla sempre, che va a caccia, che si è arricchito smodatamente e vuole per la figlia un matrimonio con tutti i crismi e carismi e Tom Jones, cacciato di casa, scapestrato, preda di donne avide e corrotte, che rischia di essere rapito per essere arruolato a forza nelle navi corsare (anche e soprattutto quelle della corona, intesa come grande rapinatrice legalizzata), finché, come nei Promessi sposi, non si arriva al lieto fine. Curioso che l’epoca narrata sia all’incirca la stessa che nel Manzoni, ma qui siamo nel Settecento, però Fielding è forse più accurato cronista, in quanto più vicino egli stesso ai fatti narrati. Una sottile vena umoristica accomuna comunque questi due grandi romanzieri.
    Anche in Forster – siamo nei primi anni del Novecento - hanno molta importanza le figure femminili e ci sono due sorelle, Helen e Margaret Schlesinger, la passione e la razionalità, una opposta dell’altra eppure molto complici e affini, e tutto sorge dall’incontro con la famiglia Wilcox e soprattutto con Ruth che ha una casa in campagna, con un grande olmo, che decide di lasciare alla sua amica Margaret ma Henry e i figli, alla sua morte, non le danno retta, non è possibile che si lasci una casa a una sconosciuta. E poi, dopo mille peripezie, anche queste abbastanza picaresche, simili a quelle di Tom Jones nell’impianto narrativo, guarda caso, la villa finirà proprio alla saggia Margaret che finisce per sposare Henry Wilcox, il vedovo capofamiglia, esponente di quella borghesia predatoria, colonialista ma anche fattiva e risoluta che lei aveva avversato tutta la vita, traendone certo vantaggi ma anche apportandone, smussando un carattere soltanto utilitaristico e compreso nel suo pragmatismo. Anche qui c’è un figlio fuori dal matrimonio, quello che Helen avrà da un giovane ingabbiato in una vita non consona al suo carattere che le sorelle Schlesinger eleggono a loro protetto, determinandone però anche la sua rovina, perché il poveretto morirà in conseguenza delle botte avute dal futuro cognato acquisito che si sente così di difendere l’onore di Helen. E meno male che erano inglesi e non siciliani: ci sono usi e costumi che travalicano epoche e luoghi, anche se per pigrizia o ignoranza li si addebita solo a certi posti e non ad altri.
    Anche Forster, come Fielding, interviene spesso nella narrazione. “Margaret si rendeva conto della natura caotica della nostra vita quotidiana, e di quanto questa differisca dalla ordinata sequenza fabbricata dagli storici. La vita reale è piena di falsi indizi e di indicazioni che non conducono in alcun luogo. Con infinito sforzo, prepariamo i nostri nervi per una crisi che non viene mai. La carriera di maggior successo deve far mostra di uno spreco di forza che avrebbe potuto muovere montagne, e la carriera di minor successo non è quella dell’uomo che è colto alla sprovvista, ma quella di colui che si è preparato inutilmente. Su una tragedia di questo genere la morale del nostro paese mantiene il debito silenzio. Essa presume che la preparazione contro il pericolo sia in sé stessa un bene, e che gli uomini, come le nazioni, sono in miglior condizione se vanno brancolando nella vita completamente armati. La tragedia dell’essere preparati è stata scarsamente trattata, salvo che dai greci. La vita è davvero pericolosa, ma non nel modo in cui ci vorrebbe far credere la morale. E’ davvero indomabile, ma la sua essenza non è una battaglia. E’ indomabile perché è romantica, e la sua essenza è bellezza romantica. Margaret sperava di essere, in avvenire, meno e non più prudente di quanto era stata in passato”.
    Ci sono insomma delle affinità elettive fra autori così distanti nel tempo e questi due romanzi sono da leggere in ogni epoca, com’è tipico degli autentici capolavori.

  • SCALFARI, LA REPUBBLICA
    E I LORO EPIGONI

    data: 17/07/2022 11:51

    Grazie al ritratto che del grande giornalista (e scrittore, filosofo e poeta) Eugenio Scalfari, scomparso giovedì 14 luglio, hanno fatto le figlie Enrica e Donata (con Anna Migotto) nel bel documentario “A sentimental journey” e allo psicologo Recalcati che commentava, si è appreso che i figli unici (come lui, ma anche gli altri, se è per questo) riescono a tenere unite le coppie grazie all’affetto dei genitori per loro e poi sono condannati a riproporre, nella vita adulta, l’eterno triangolo. Amoroso, affettivo ed è stato quasi ovvio che la prima con cui scambiare la moglie, visto che passava più tempo al giornale che a casa, fosse proprio la segretaria, poi diventata moglie alla vedovanza. All’epoca, altro che consenziente triangolo: dovevano aver sofferto tutte moltissimo, come ammettono le stesse figlie, legate alla loro mamma, non lui che, per sua stessa ammissione, non era al vertice di quel triangolo, ma caso mai ne godeva gli effetti, non potendo per sua stessa ammissione sopportare la solitudine. In una profusione di amicizie “benedette”: da Arrigo Benedetti al Mondo a De Benedetti, direttore della Stampa e poi suo suocero, avendo egli sposato la figlia Simonetta, fotografa, madre delle sue due figlie, fino all’editore Carlo De Benedetti e quasi a confermare la rima, la seconda moglie, Serena Rossetti.

    Non ci fu divorzio, per quanto L’Espresso scalfariano si battesse per averlo nel 1974, ma una divisione del tempo e ora le sue ceneri riposano a Torino, vicino alla moglie. Del resto, come osserva dal canto suo l’ammirata Natalia Aspesi, l’alter ego milanese del gran direttore, nessuna donna “avrebbe rinunciato a Eugenio”. E dunque si trasferivano a Milano da Roma segretarie quasi stalking nei confronti del loro direttore e a Roma la direzione si trasformava in una sorta di fucina matrimoniale, scrive Aspesi. Ora, Scalfari come celebrante di matrimoni non me lo vedo, e nemmeno come Cupido ma a Natalia, data l’età e la onorata lunghissima carriera alle spalle, nonché l’amicizia con il suo Direttore, va dato credito. Aspesi che non ha mai diretto Repubblica, lei che pure ne avrebbe avuto diritto. Perché Scalfari, e il principe Caracciolo, come più volte dichiarò e lo si ricorda nel film delle figlie, non avevano “successori”. Le figlie sono entrambe giornaliste e fotografe, nipoti e pronipoti di giornalisti per parte di madre, e opportunamente indirizzate avrebbero potuto raccogliere l’eredità paterna, al giornale. Ma no; i due, Eugenio e Carlo, volevano un maschio erede del loro regno e trovarono Ezio Mauro. Adesso in Italia c’è una sola direttrice di quotidiano (quello nazionale) piuttosto in vista, Agnese Pini, non ha nemmeno 40 anni, è molto citata per questo. Per le figlie Scalfari avrebbe visto piuttosto un ruolo di stenografe. O magari dimafoniste: tra i necrologi più lunghi e affettuosi spicca proprio quello dei dimafonisti, coloro che raccoglievano le riflessioni domenicali di Scalfari. Però va dato atto che Scalfari ha avuto sempre una redazione che alle donne ha riservato un ruolo di spicco, dall’indimenticabile Rosellina Balbi che dirigeva la cultura a Miriam Mafai, notista politica come pochi, a Simonetta Fiori (figlia del biografo di Gramsci, Giuseppe), ancora firma di punta, a Irene Bignardi (ora in pensione), a Barbara Spinell (che ha abbandonato la testata in polemica per Il fatto quotidiano, qualche anno fa) fino alle numerosissime croniste di oggi.

    Fu una rivoluzione La Repubblica, il 14 gennaio 1976. E creò epigoni, non solo in casa sua con Il Tirreno, La nuova Venezia, e poi le varie affiliate cittadine, ma con un giornalista che di quella innovazione era stato testimone e solerte e attivo partecipante. Vale a dire Beppe Lopez che arrivò nel Salento e fondò, nel giugno del 1979, il Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto, una testata che ancora adesso raccoglie consensi e lettori. Il Salento, che fino a quel momento aveva solo la redazione locale della Gazzetta del Mezzogiorno, e a Lecce un periodico, "La tribuna del Salento", che faceva capo al docente universitario e parlamentare del Pli Ennio Bonea, e a Taranto “Il corriere del giorno” e le prime esperienze di tv locali, si trovò ad avere la sua versione di Repubblica. Un manipolo di giornalisti giovani e no, ancora i tipografi (e le tipografe, oltre a una prota bravissima, Carmelina) e “Il quotidiano” prese il via e guadagnò copie, avendo avuto l’ottimo imprinting di Lopez, con altri direttori, sino alla vendita a Caltagirone e all'attuale direzione di Rosario Tornesello, cresciuto nella fucina leccese di questo giornale tabloid sorto sulla scia della Repubblica. Così, se a Roma si faceva riferimento a piazza Indipendenza, prima della nuova sede, così a Lecce si lavorava in viale degli Studenti e la sera ci si vedeva non in via Veneto ma al Roxy bar.

    Si faceva vita di redazione, si stava sempre al giornale, senza magari i benefit dei giornaloni (niente mensa o bar aziendali, al massimo il boccione d’acqua gelata). Si stava sempre a discutere cosa mettere in pagina, nel paginone, nel primo piano, nelle cronache. Ogni idea veniva sezionata, vagliata, passata al setaccio del piano dirigenziale, essendo il giornale una forma di gestione in fondo autoritaria: direttore al vertice, capiredattori, capiservizi e, in fondo, l’amanuense, il redattore ordinario, colui o colei che scrive e scrive come la Aspesi, che della Repubblica adesso è tra le fondatrici ma che scrive ancora e fino a un decennio fa veniva inviata a seguire la qualunque in giro per l’Italia, oltre alla Mostra del cinema di Venezia appuntamento fisso per lei, Irene Bignardi (che sulle pagine del ricordo non si è vista) e Lietta Tornabuoni buonanima. Cinema allora roba da donne, adesso ci sono molte firme femminili a Filmtv, c’è Piera De Tassis ma insomma uno che scegliesse e commentasse rassegne di film (per esempio Bergman o i classici in bianco e nero), come Vieri Razzini, pure scomparso in questo luglio, non c’è. Come sono poche le donne in posizioni apicali in Rai e se Angelo Guglielmi, ricordato da Blob di cui è stato artefice con Enrico Ghezzi, come l’Angelo necessario, ha proposto quel tesoro di ironia che è stata La tv delle ragazze, resta il fatto che i talk show o le riflessioni politiche sono, tranne qualche eccezione, affidati agli uomini.

    Inserto speciale di tante pagine per “Grazie Direttore”, venerdì 15 sulla Repubblica: un giornale corposo, così scritto, ma le edicole sono sempre più disertate e i giovani leggono le notizie sullo smartphone. Chissà che non sia proprio la fine di un’epoca, un viaggio sentimentale giunto al capolinea.
     

  • CRONACA
    DI UN ALBERICIDIO
    A BARI, CITTA'
    INDIFFERENTE

    data: 02/07/2022 12:38

    Si è consumato un albericidio a Bari. Un albero, un grande pino secolare, è stato abbattuto in poche ore, e sì che ci aveva messo tanto per prosperare e tanto ossigeno aveva regalato ai baresi. E’ stato buttato giù dal Comune, che dunque ha demolito un suo bene, un bene comune in ottima salute, di tutti i cittadini, per obbedire alla volontà di uno sparuto gruppo di abitanti di un condominio limitrofo. Abitanti evidentemente con voce in capitolo in tribunale e in Comune. E’ avvenuto una mattina, senza consultare nessuno, pare per un’ordinanza di un giudice che non può essere letta adesso, devono passare trenta giorni. Intanto l’albero è sparito. Sfrattati migliaia di uccelli, la strada più brutta. In un viale di pini, peraltro, il che fa temere per il futuro dei suoi vicini. In piena città, in una strada, viale De Gasperi, già corso Sicilia e corso Croce, che adesso, pur non essendo larga, è a doppia corsia, dunque ad alta intensità di traffico. Ma un tempo, passandoci più spesso solo la filovia e non la marea di auto di oggi, questo viale era costellato di ville, ora sostituite da ben più redditizi condominii, e da un filare di pini che arrivavano fino al quartiere Carbonara.

    Certo, una pensa all’Ucraina, ai missili russi che centrano case con centinaia di abitanti e fanno vittime e allora cosa sarà mai un albero? Fatte le debite proporzioni, però, veder demolire un albero di quel tipo, in tempo di pace da noi almeno, è un delitto. Ciò che indigna ancor di più è stato non solo il dispiegamento di forze della polizia urbana, che ovviamente non ha bloccato il traffico ma che era lì per evitare manifestazioni che non ci sono state perché i pochi presenti, intervistati da un giornalista che ha documentato in rete tutto il misfatto, che cosa hanno detto? “Beh, ma le radici davano fastidio, erano diventate troppo grandi, non si poteva nemmeno camminare, poi le macchine…” Ora, le radici non davano nessun fastidio, posso testimoniarlo io che ci passo spesso di lì e se la strada presentava qualche dosso, era un motivo in più per rallentare la corsa di auto che a Bari spesso e volentieri superano i 50 chilometri imposti in città e fanno strage di gatti e colombi, senza che nessuno protesti. Anzi, investono pure le persone.

    Non solo, questa obiezione dimostra una grande ignoranza e il fatto che non si conoscano altre città. A Milano, per esempio, una delle vie centrali più chic è via dei Giardini, caratterizzata da magnifici alberi secolari che con la loro chioma creano una stupenda galleria verde. Non sono pini, tipicamente mediterranei, ma le radici si vedono sotto i marciapiedi e nessuno se ne lamenta, considerando invece il magnifico panorama che quegli alberi, rispettati e amati, garantiscono. A Bari invece basta la protesta di alcuni inquilini che escono con difficoltà da un garage magari pure abusivo, per demolire un maestoso albero, che garantisce (garantiva) una preziosa riserva di ossigeno per migliaia di baresi.

    Il sindaco De Caro continua imperterrito a inaugurare giardini che chiama parchi solo perché per il barese un cespuglietto va bene, basta che non intralci la sacra macchina e rotonde spartitraffico coltivate a piantine che nessuno può godere, in quanto certo non ci si ferma lì. Ma intanto si demolisce senza criterio, e d’autorità, un pino secolare e si teme per la sorte degli altri. Con tutto quel che c’è da fare, l’amministrazione non aveva altro pensiero che sbrigare in poche ore questa faccenda: forse non si sa che cosa far fare agli operai. Già qualche settimana prima era stato abbattuta un’intera pineta a Japigia, rione periferico che di bello ha solo gli alberi. Alberi che evidentemente danno fastidio: vedremo quando respireremo solo i gas di scarico delle sacrosante automobili…

     


     

  • RICORDIAMO TRINTIGNANT
    DI "UN UOMO UNA DONNA",
    NON IL TRUCE SICARIO...

    data: 18/06/2022 15:58

    Muore un grande attore, a 91 anni, Jean Louis Trintignant e per una volta, la Rai cambia il film in programma e, come tributo, manda “Il conformista”, film del 1970 di Bernardo Bertolucci, in cui l’attore interpreta un sicario fascista. Un film crudele, in cui il personaggio di Dominique Sanda viene ucciso in maniera brutale, in una specie di caccia fra gli alberi; un film, per carità, notevole, interessante, che spiega anche bene, come la pellicola di Florestano Vancini (“La lunga notte del 43”), la violenza del fascismo, ma inadeguato, a mio parere, per un omaggio all’attore che tutti ricordiamo come il biondino Roberto cooptato dal brutale Bruno in una gita fuori porta dalle conseguenze tragiche, nel Sorpasso di Dino Risi. O per tanti altri ruoli, più adatti alla circostanza finale, definitiva.

    Certo, la scena del ballo circolare in cui il sicario viene circondato dagli amici del professore esiliato a Parigi che deve uccidere, è magistrale, certo “Il conformista” è un film da antologia del cinema. Ma per un omaggio, meglio sarebbe stato trasmettere qualcuno dei suoi numerosi film francesi, in cui Trintignant ha raffigurato dolenti magistrati in pensione (come in “Film rosso” di Kieslovski) o giovani romantici, certo “Un uomo una donna” su tutti, il manifesto del romanticismo di Lelouch. Perché no? E’ un film d’amore che danno molto raramente se non mai e che solo per la colonna sonora di Francis Lai (girato nel 1966, se ne fece un remake nel 1986), meriterebbe più di qualche passaggio, senza che si raccomandi ogni minuto la vietata visione ai minori, necessaria per un film come “Il conformista”. E non certo perché un film di Bertolucci, grande maestro, non possa passare in tv e ieri era del resto la prima volta, ma per l’occasione in cui lo si trasmetteva.

    Tra tantissimi film che Trintignant ha girato, se ne è scelto proprio il più feroce. E’ come se, volendo ricordare Gregory Peck, non si ricorresse al giornalista ironico di “Vacanze romane” o all’avvocato del “Buio oltre alla siepe”, ma al trucido nazista Mengele dei “Ragazzi venuti dal Brasile”. Gli omaggi vanno tributati, è giusto, e tantissimi attori e registi scomparsi ultimamente, non sono stati ricordati dalla Rai, per cui questa volta la tempestività è stata apprezzata. La scelta, un po’ meno.

     

  • E L'ORA DI PALERMO
    ACCESE I RIFLETTORI
    SULLA MAFIA

    data: 08/06/2022 18:36

    E’ un vero peccato che Letizia Battaglia se ne sia andata proprio alla vigilia della messa in onda del bel film che Roberto Andò le ha dedicato e che si può rivedere su Raiplay, “Solo per passione” e mentre le librerie sono piene di libri che parlano di lei, l’indomita battagliera fotografa che ha testimoniato la Palermo degli “ammazzamenti”, la Palermo di sangue e mafia, in una lunga catena che ha rischiato più volte di mandarla in depressione. Il film raccontava anche con efficacia l’epopea dell’Ora, il giornale diretto da Vittorio Nisticò che tanta parte ha avuto nel guidare il capoluogo siciliano nella lenta risalita dal buio dell’orrore alla luce del riscatto.

    Nell'onda di quel film, stavolta è Mediaset a ricordare un giornale che ha fatto epoca. “L’Ora-Inchiostro contro piombo” s’intitola lo sceneggiato che ha inizio stasera (8 giugno) su Canale 5 e andrà avanti per cinque prime serate, diretto da Piero Messina e in cui il direttore, Antonio Nicastro (ovvero Nisticò), viene interpretato da Claudio Santamaria mentre nel film di Andò lo fa il bravissimo Fausto Russo Alesi. “Quando mi hanno proposto questo soggetto – dice Claudio Santamaria in un post su Instagram – sono saltato sulla sedia, un brivido mi ha attraversato il corpo: perché questa è la storia di un gruppo di eroi, è grazie a loro che si è acceso il riflettore sulla mafia”.

    E’ il 1954 quando Amerigo Terenzi, eminenza grigia dell’editoria di sinistra e del Pci in particolare, manda a Palermo a rivitalizzare quel quotidiano della sera fondato dalla dinastia borghese della città, i Florio, nel Novecento, proprio Vittorio Nisticò, che allora aveva 35 anni ed era un famoso notista politico di Paese Sera. Si era laureato in Lettere a Roma ma era calabrese di Cardinale, un paese vicino a Soverato (Catanzaro): figlio di una possidente terriera e di un medico condotto, aveva vissuto agiatamente fino a scegliere di diventare giornalista una volta a Roma, dove aveva sposato Anna (Silvia D'Amico nella fiction). Ma ancor prima, proprio agli esordi della sua professione, Nisticò era stato nel capoluogo pugliese, alla Voce di Bari, in occasione del referendum del 2 giugno 1946, decisivo per la Repubblica. Quando il 4 novembre 1954 arriva a Palermo, dunque, Nisticò è già un giornalista di un certo successo ma si ritrova in un giornale che non ha nerbo, che sembra quasi un bollettino di partito, e decide di rivitalizzarlo. Ci riuscì anche grazie a una grande squadra: Marcello Grisanti (interpretato da Maurizio Lombardi, in realtà Felice Chilanti, origini venete, ex partigiano); Nino Sorgi (padre di Marcello, che si firmava con uno pseudonimo); Michele Pantaleone, Enzo Lucchi (che poi nel 1979 sarà a Lecce nella squadra del Quotidiano di Beppe Lopez), Enzo Perrone, Mino Bonsangue, Mario Farinella, Claudia Mirto.

    Individuato in Luciano Liggio un capoclan sanguinario, nonostante fosse corteggiato dalle autorità e ben inserito nelle clientele politiche locali, Nisticò cosa fa? Pubblica la sua foto in prima, a tutta pagina, con la scritta: “Pericoloso!” Naturalmente il clamore è notevole e la risposta della mafia non si fa attendere: “La mafia ci minaccia l’inchiesta continua”, titolava a nove colonne L’ora all’indomani dell’attentato che con 5 chili di tritolo aveva pressoché distrutto la sede del giornale, in piazzetta Napoli 5 (proprio accanto una stradina è ora intitolata a Nisticò). Il presidente della repubblica, Giuseppe Saragat, commentò. “Ci voleva l’attentato all’Ora per scoprire che in Sicilia c’è la mafia”. A quel tempo non se ne parlava, erano anni di mani sulla città, di speculazione edilizia, di traffici di droga fra l’America e la Sicilia, la “piovra” si stava organizzando. Poi arrivarono i delitti, una serie impressionante di assassinii. Una vera guerra. E L’Ora, con Nisticò, ha testimoniato tutto per 20 anni, per tre generazioni di giornalisti. Ma non solo: anche la repressione del governo Tambroni ai moti operai del 1960 che fecero morti in molte città (quattro a Palermo) e il giornale finì sotto processo per vilipendio dello Stato. Lavorava al giornale, Mauro de Mauro, quando fu rapito il 16 settembre 1970 e di lui non si seppe più nulla.

    Insomma sono stati anni gloriosi ma poi le vendite calarono, il giornale lo si volle trasformare in quotidiano del mattino, il Pci anticipò a Palermo quella che sarebbe stata la fine dell’Unità: l’operazione-salvataggio non riuscì. L’Ora fu chiusa nel 1979. Una cooperativa di giornalisti tentò di tenerla in vita con lo stesso direttore come presidente, mentre la direzione del tabloid passò al barese Nicola Cattedra per un altro lustro. Poi seguirono altri tentativi (nel frattempo Nisticò tornò a Roma a Paese Sera, e morì nel 2009, non senza per fortuna aver prima scritto un bel memoriale, anche online. Ma insomma L’Ora e la sua splendida stagione non ci sono più. La sede fu venduta nel 2004. Tuttavia la sua epopea merita di essere raccontata e Mediaset aveva già prodotto agli inizi del Duemila una serie “Giornalisti”, in cui si raccontava bene la vita in redazione. Di certo questa fiction merita attenzione così come la memoria di un grande quotidiano.

     

     

     


     

  • FALCONE, ASPETTARE
    ALTRI TRENT'ANNI
    PER CONOSCERE LA VERITA'?

    data: 23/05/2022 17:25

    Scolpito nella memoria: quel sabato di 30 anni fa, sembra ieri, quando verso le 18 la televisione annunciò che c’era stato un attentato e dalle lettere in sovrimpressione si leggeva che il magistrato Giovanni Falcone era ferito a una spalla. Si capì subito che non c’era nulla da fare, quando poi si vide la devastazione dell’autostrada che da Capaci porta a Palermo, tutto quel tritolo… un orrore, un agguato inimmaginabile, e invece no. Quella strage era annunciata, fin quasi da tre anni prima (giugno 1989), da quella bomba all’Addaura nascosta in uno zaino, che per un puro caso non esplose. E non era finita. Nemmeno due mesi dopo, domenica 19 luglio 1992, fu la volta del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta, come per Falcone e i suoi agenti, quelli che nulla poterono fare per difenderlo, per difenderli.

    Una guerra di mafia che ha fatto 700 morti (ben documentati da Letizia Battaglia, la fotografa dell’Ora di Palermo, morta da poco) e che ha trovato in quell’anno maledetto il suo culmine. Come dice Maria Falcone: “La mafia non è finita, sta acquattata, potrebbe ricominciare se non stiamo attenti”. Le preoccupazioni aumentano in vista del piano di ricostruzione e resilienza che porterà in Italia un mare di miliardi e si sa che la mafia e gli appalti vanno di pari passo. Infatti in questi giorni, più che ricordare gli eroici magistrati e le loro scorte (il che va fatto sempre, al di là delle ricorrenze), val la pena di esaminare che cosa fu al centro delle loro indagini. L’Espresso lo ha fatto, nello speciale della scorsa settimana: “Perché loro”. La Repubblica e altri quotidiani si preparano a un grande riassunto per oggi, la data fatidica, ci sono speciali in tv (ieri sera il dossier del Tg1), sulle varie reti, non manca insomma l’informazione ma intanto questo numero dell’Espresso, il 19, diretto dal siciliano Lirio Abbate, lo spiega sin dall’editoriale: “L’etica sporca nel paese smemorato”. Che comincia così: “Dice bene il magistrato Alfredo Morvillo, il fratello di Francesca, uccisa insieme con il marito Giovanni Falcone il 23 maggio 1992: ‘A trent’anni dalle stragi la Sicilia è in mano a condannati per mafia’. Non è una frase buttata lì per caso. E’ purtroppo lo specchio di un’attualità politica che non guarda al sacrificio delle vittime degli attentati di Capaci e di via D’Amelio ma riflette dopo tre decenni l’etica ancora sporca di politici che in Sicilia non riescono a tenere lontana la mafia e i suoi portatori d’acqua”. Molte candidature alle prossime amministrative si svolgono sul filo di trattative tessute da personaggi implicati con la mafia, come Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, con liste civiche dalla dubbia composizione, come se nulla fosse accaduto e nel pieno delle cerimonie commemorative. Non solo in Sicilia, e non solo al Sud. Anzi. “L’estate che cambiò la storia”, il dossier raccolto dall’Espresso, mostra come tutti gli attentati di mafia siano collegati, anche a distanza di anni, l’uno all’altro e con ramificazioni insospettabili, pensiamo solo al traffico di droga e armi che spazia dalla Colombia alla Siria.

    57 giorni da Capaci a via D’Amelio e poi, il 1993, la reazione: Riina che viene arrestato ma il suo casolare non è perquisito, nel gennaio del 1994 arrestano i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, che accusano i loro referenti politici, senza essere creduti. In questo speciale dell’Espresso leggiamo un articolo firmato nel 2017 dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha visto ucciso il fratello Piersanti il 6 gennaio 1980, a 44 anni mentre era presidente della Regione e che qui spiega quale era il “metodo Falcone” che portò al maxiprocesso, vero spartiacque nel modo di agire della magistratura. Francesco La Licata, nel suo “Capaci, il cratere della Repubblica”, spiega che le “menti raffinatissime” denunciate dallo stesso Falcone al momento del fallito attentato dell’Addaura (dove Falcone aveva invitato per un bagno due colleghi svizzeri con cui conduceva delle indagini sul riciclaggio di denaro), siano rimaste sostanzialmente nell’ombra. “Falcone è un pericolo per l’economia: lo dicono tutti, lo scrivono sui giornali, ne fanno dibattito politico, come quando il giudice alzerà il tiro affermando, durante un convegno a Villa Igiea, che ‘la mafia è entrata in Borsa’ alludendo alle penetrazioni mafiose dentro la holding di Raul Gardini’”, il manager che si suiciderà l’anno dopo, nel 1993. Provarono a delegittimare l’azione di Falcone, gli misero ostacoli gli stessi servizi segreti italiani (l’implicazione dello Stato è sempre molto misteriosa, poco indagata), fino a negargli il ruolo di capo della procura nazionale antimafia. Arrivò solo fino alla direzione Affari penali: “A gennaio 1992, dopo il trionfo per la sentenza della Cassazione che gli diede ragione su tutto, la sua fedele amica, Liliana Ferraro, organizzò un brindisi: ‘Abbiamo vinto’. Falcone sorrise malinconico, lasciandosi sfuggire: ‘Adesso viene il peggio’. Aveva capito che quella sentenza avrebbe fatto da detonatore a una reazione che nessuno avrebbe potuto controllare.

    Era bravo, il giudice, a prevedere le ‘coincidenze’. Intuì pure cosa si sarebbe scatenato dopo l’assassinio dell’ex sindaco di Palermo, Salvo Lima. ‘Ora – spiegò all’amico magistrato Giannicola Sinisi – può accadere veramente di tutto’”. E nell’articolo di Enrico Bellavia, “Strage Borsellino. La grande impostura”, si insegue sempre il filo economico: Borsellino infatti “riprende in mano l’indagine sugli appalti che ha già portato Falcone a ipotizzare una finanziarizzazione della mafia con l’ingresso in Borsa dietro il paravento di colossi dell’imprenditoria nazionale, come la Calcestruzzi di Raul Gardini (…) Poco prima di morire, nell’intervista ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo insabbiata per anni – la cui trascrizione è stata pubblicata dall’Espresso nel 1994 e la cui sintesi video, sepolta in Rai, sotto montagne di nastri, è rispuntata solo nel 2001 – Borsellino parla a lungo di un semisconosciuto Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore e del fratello di Marcello Dell’Utri, il braccio destro di Silvio Berlusconi, ancora solo un magnate televisivo”. Quindi c’è l’enorme depistaggio seguito alla strage di via D’Amelio, “basato sulle invenzioni di un balordo di periferia, Vincenzo Scarantino”, con undici innocenti che finiscono al 41 bis senza che sapessero niente, una delle figure più incredibili che la magistratura abbia fatto, imbeccata da inquirenti collusi coi servizi segreti e la mafia stessa. Che mascheravano ancora una volta i mandanti: ecco, i mandanti.

    Chi sono, dove sono, dove si acquattano, come dice Maria Falcone? E allora leggiamo Paolo Biondani e il suo interessante “La pista bresciana porta all’Addaura” dove si spiega che l’esplosivo Brixia utilizzato per il fallito attentato era identico a quello utilizzato per la strage di Pizzolungo (è tutto collegato!). Ovvero quell’attentato del 2 aprile 1985, in provincia di Trapani, destinato al giudice Carlo Palermo, ferito, mentre morirono Barbara Rizzo e i suoi gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe, passati dalla stessa strada. E Palermo indagava sui traffici di droga e armi su cui per primo aveva acceso il riflettore Giangiacomo Ciaccio Montalto, magistrato ucciso il 25 gennaio 1983 (poco dopo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela, settembre 1982). Si tratta in questo articolo di Bellavia dei finanziamenti della Finbrescia che finanziava la fabbrica del Brixia, l’esplosivo usato due volte, come si è visto, in stragi mafiose. Ma la Finbrescia è fallita nel 1990 e molte aziende sono passate di mano. Comunque i collegamenti ci sono. Fino alla morte annunciata di Borsellino, con quel tritolo che era arrivato a Palermo e di cui il pentito Spatuzza aveva avvisato il giudice (come si è visto in parecchie fiction dedicate a questa tragedia), sempre mentre gli alti vertici politici e di comando non facevano nulla per prevenire, per salvare quella che era una vittima predestinata.

    Ed eccoci, sempre nelle pagine dell’Espresso dell’altra settimana, all’atto di accusa della figlia di Borsellino, Fiammetta (ribadito anche ieri sera da Fabio Fazio, Raitre): “L’omertà è nello Stato. Questa è una certezza”: “Nonostante l’encomiabile sforzo di pochi, pochissimi, magistrati come Stefano Luciani e Gabriele Paci, la verità giudiziaria non potrà dar conto dell’omertà di Stato che ha coperto e copre chi ha lavorato nelle istituzioni per inquinare tutto. Più mi addentro in questa melma e più il marcio risulta evidente (…). Ho incontrato i Graviano, loro negano perfino la loro stessa esistenza, negano l’evidenza (…). E’ inaccettabile però constatare il silenzio di pezzi dello Stato. I ‘non ricordo’ di magistrati e poliziotti. L’ostinata negazione delle loro omissioni e delle loro manipolazioni. Per queste, non solo non hanno pagato ma, al contrario, sono stati premiati con riconoscimenti di carriera. Sono tutti giunti all’apice dei loro uffici. (…) Nessuno può veramente credere che solo un manipolo di poliziotti abbia depistato le indagini sulla strage senza avalli e coperture da parte di chi ha orchestrato tutto. Senza connivenze di poteri istituzionali e della magistratura. Perché in definitiva è per questa gente che mio padre è morto. Sono le stesse persone, gli stessi settori delle istituzioni che hanno ostacolato, isolato e mandato a morire un uomo che aveva una incrollabile fede nello Stato. (…) Ho ricevuto nei giorni scorsi l’invito a partecipare a un evento da parte del procuratore generale della Cassazione. Quando mi ha cercato, credevo volesse darmi conto delle numerose iniziative istituzionali adottate per sanzionare chi ha permesso che nelle istituzioni si lavorasse contro la verità. Mi ha spiegato che la prescrizione impedisce qualsiasi intervento. Ho ribattuto che dovrebbe sentire la responsabilità di spiegarlo al Paese che ha il diritto di sapere.”

    Parole molto severe, che rispecchiano una triste realtà: la verità non è stata ancora svelata. Non vorremmo mica aspettare altri 30 anni per conoscerla? Il rischio però c’è.

     

  • "ATTENZIONE ALLA DISINFORMAZIONE"
    MA FORSE LO SPOT RAI
    SVALUTA TUTTO IL SISTEMA

    data: 16/05/2022 16:53

    Clickbait è il nuovo termine che impazza nel mondo dell’informazione. Vuol dire acchiappaclick: ovvero si tratta di un titolo clamoroso - spesso nell’informazione online più che sull’ormai sempre più in declino carta stampata - che attiri il lettore, anzi il visualizzante, colui che guarda. Più clicchi e più il sito su cui il titolo appare riceve fama, ne guadagna in termini di pubblicità e così via. Per esempio si può titolare una di quelle notizie che appaiono sullo smartphone (non si capisce selezionate da chi) su un attore famoso, con: “Non c’è stato nulla da fare. La situazione è disperata” e poi, dopo aver letto il pezzo, di solito dopo molte frasi (e intanto la visualizzazione acquista secondi se non minuti) si arriva alla conclusione che si tratta della sorte del personaggio che l’attore interpreta in quel momento.

    Tutto ciò è molto deleterio per il mondo della comunicazione in generale ma non è nuovo: ci sono sempre stati i giornali scandalistici e il fatto che una notizia sia “fake”, come si usa dire oggi, ovvero falsa, non rappresenta certo una novità. In teoria l’utente dovrebbe essere avvertito su ciò che sta vedendo o su ciò che ascolta. Per esempio sull’attuale guerra in Ucraina, cioè sull’aggressione che la Russia dal 24 febbraio scorso sta attuando su uno stato sovrano ancorché giovane come il suo ex satellite, molto meglio guardare e leggere i resoconti degli inviati (ce ne sono tanti, con i loro cameramen, le immagini poi parlano da sole: va apprezzato il loro lavoro) invece dei talk show in cui spesso, com’è accaduto di recente, ci sono traduttori (e sorvoliamo sulla loro dizione, spesso inascoltabile) che litigano sul senso da dare alle frasi degli intervenuti, col risultato che non si capisce nulla. E d’altra parte, proprio la sempre maggior disponibilità di mezzi tecnici ci permette, com’è accaduto, di ascoltare il tragico appello dei marinai del “Mosca”, l’incrociatore russo affondato da missili ucraini al largo di Odessa.

    Ma da un po’ di giorni, con un fare martellante, la Rai manda in onda uno spot piuttosto eclatante (voce altisonante, colori vistosi) con questo richiamo: “Attenzione alla disinformazione”, ideato da un sito che appare brevemente alla fine e in accordo con l’Unione europea. Apparentemente, lo spot, della durata di qualche minuto, dovrebbe mettere in guardia contro la cattiva informazione appunto; in pratica, ritengo che ottenga l’effetto contrario e che svilisca, mettendo tutto nello stesso calderone, l’enorme sforzo che i giornali compiono per mandare in edicola ogni giorno la loro copia, certo con diverse impostazioni che sta al lettore scegliere e valutare. Al contrario, se dall’alto (“l’ha detto la televisione”, ammesso che abbia ancora l’autorevolezza di un tempo), con una sorta di appello demagogico, si avverte che in giro c’è molta disinformazione, si finisce per svalutare tutto il lavoro dell’informazione. L’Ordine dei giornalisti dovrebbe intervenire, invece di badare solo al pagamento delle quote annuali, ne va dell’etica stessa della professione. E’ da ministero della cultura popolare (il famigerato Minculpop fascista) indicare al potenziale utente cosa deve guardare e cosa no, come se fosse incapace di scegliere. E magari incapace lo è davvero, ma non è certo con uno spot del genere, che parla di disinformazione in generale, con termini che non tutti poi capiscono, come appunto “clickbait”, che lo si mette sulla via dell’informazione corretta, anzi si finisce per sviarlo del tutto. In ogni caso, sa tutto di censura non voluta, preventiva quasi. E di sfiducia nei confronti dei cittadini, individuati come poveri creduloni.

    Tempo fa sui giornali uscì questa pubblicità: “I sindaci ti invitano in edicola”. Ecco, ora le edicole sono già abbastanza disertate, se poi diventano, per questo spot privato con la benedizione europea, chioschi di disinformazione, cosa sarà di loro?
     

  • LA TV, DA NUOVO FOCOLARE
    A PUBBLICO CONFESSIONALE

    data: 05/05/2022 16:43

    La Tv è diventata un enorme, continuo confessionale e, specialmente in Rai, di netta impronta cattolica. In Rai, se non è cattolico, non parla nessuno. Persino i quiz sono infarciti di quesiti biblici o dottrinali. Sembrava un grande scoop l’intervista di Fabio Fazio a Papa Francesco, ma questa è stata seguita subito dopo da diverse altre da parte di Lorena Bianchetti e da numerosi interventi, del resto resisi necessari dal tentativo del Papa di fermare l’assurda guerra in corso in Ucraina, con giuste parole di pace. E senza contraddittorio, perché l’intervista serve a far risaltare il pensiero dell’intervistato (o no? Draghi non la pensa così, vedi il caso Lavrov.). Altrimenti diventa talk show.

    Ma prendiamo per esempio proprio i talk show; un uomo di fede non può mancare mai, anche in programmi “trasgressivi” per autodefinizione e mandati in onda a tarda notte. Del resto che trasgressioni ci si può mai attendere dall’ex ministra Nunzia De Girolamo, a cui è stato affidato uno spazio di quasi due ore il sabato sera (si dirà, va a tarda ora, d’accordo, ma due ore sono due ore, un tempo incredibile in televisione)? Nello stile di Massimo Giletti, dalla cui “Non è l’Arena” è migrata, il programma di De Girolamo, che s’intitola: “Ciao maschio”, ha una formula prestabilita. S’invitano tre ospiti: un intellettuale (giornalista, scrittore) e due uomini di spettacolo variamente assortiti, a cui la garrula moderatrice pone dei giochi di società e, man mano che l’ora scorre, domande che vorrebbero essere imbarazzanti: “Preferisci farlo a luce spenta o accesa?” (non certo leggere, un po’ di fantasia) oppure si pratica la bibliomanzia, si apre un libro a caso su cui però è scritta una sola parola. Giochini così, senza costrutto. Naturalmente il successo della conversazione dipende dalla sostanza degli ospiti. E poi alla fine ci sono le due Karma B (drag queen gemelle, alias i siciliani Carmelo Pappalardo e Mauro Leonardi), che ironizzano sulla puntata con pungenti osservazioni sul look o altro della stessa De Girolamo e sugli ospiti, molto acute, brave cantanti, giuste insomma.

    Sabato scorso si assisteva alla prevaricazione di Alessandro Greco, presentatore tarantino che non fa mistero della sua devozione, il quale recita con forza ogni giorno il rosario e la De Girolamo, che a quel punto gli si avvicina, esclama: “Ti invidio!”. “Io no”, replica Shel Shapiro, controbilanciando meno male tanta sicumera, invitato a rievocare sempre la sua estate rock, anche se è andato oltre i Rokes, e lo dimostra sfornando nuove canzoni. Il discorso si fa interessante con lui, che alla fine dice di essersi trovato bene, perché infatti il tono del programma l’ha equilibrato molto bene. Il giornalista Federico Ruffo, invece, forse involontariamente, ha da parte sua dato spettacolo con la rievocazione del matrimonio andato male, della storia tragica di una sua amica d’infanzia e della sua crisi di panico dopo aver riaccompagnato a casa una donna con cui era uscito una sera (e meno male che non ha fatto nome e cognome della malcapitata), il tutto mentre la madre, più grande di lui di 18 anni, lo stava guardando, come ha detto. Insomma, un confessionale in piena regola.

    Ma non solo qui. In un altro programma in onda anche su Raipremium, “Uniche”, Maddalena Crippa, celebre attrice, rivela occhi negli occhi a Diego della Palma, truccatore ma anche disegnatore e psicologo, il suo rammarico di non aver avuto figli.

    Il colmo comunque lo si è visto a “Domenica in”, dove un Teo Teocoli in disarmo, avvilito, depresso, ammette di essere stato fatto fuori dalla tv per volontà di Maurizio Costanzo, padre nobile del piccolo schermo intero (pubblico e privato). La “zia Mara” strabuzza gli occhi: ma sei sicuro? Ma hai provato a chiamarlo? E ci pensa lei, chiama Costanzo con il suo smartphone, in diretta (ma tutti i media riporteranno poco dopo che è stato Costanzo a chiamare) e Teocoli rinasce quando Costanzo gli assicura di non avercela con lui ma anzi lo invita al Costanzo show, il che vuol dire ripresa assicurata.

    Tutto in piazza, tutto sotto confessione altrimenti il programma non funziona: e “Da noi…a ruota libera” Fialdini svela il finale tanto atteso del “Paradiso delle signore”, e da Diaco (Raidue) Arisa scoppia in lacrime e dalla “belva” Francesca Fagnani un‘attrice come Monica Guerritore (45 anni di onorata carriera teatrale) deve rintuzzare le insistite accuse di “radical-chic” della cinica intervistatrice, ben fidanzata con Enrico Mentana.

    Non ne parliamo poi dei gialli, altro gran tormentone televisivo: abbiamo visto per tutto il 2021 i protagonisti della sparizione di Denise Pipitone, la bimbetta di Mazara del Vallo fatta sparire davanti a casa della nonna nel settembre 2004 di cui non si è saputo più nulla, come se non ci fossero stati i processi (peraltro risolti in niente) e ora assistiamo al rimpallo di accuse fra marito e amante di una povera donna trovata morta a Trieste nel gennaio scorso. Una domanda sorge spontanea: ma gli inquirenti che cosa fanno?

    Insomma, quel che accade sui social, dove ognuno rivela i fatti suoi, si sta trasmettendo alla tv, mai così manifesta come in questo periodo.

     

  • GUERRA CONTRO L'UCRAINA
    DEVE INTERVENIRE L'ONU

    data: 13/04/2022 19:13

    I giorni si susseguono ai giorni, ormai si è superato abbondantemente il mese e non si vede uno spiraglio per la guerra scatenata da Putin contro i “fratelli” ucraini. E l’Onu cosa fa? Se ne sta a guardare, organizza gite premio per liceali, come un qualsiasi circolo dopolavoro, fa sentire flebilmente la sua voce quando dovrebbe scendere in campo, ma non su quello di battaglia bensì su quello della trattativa. Sono perfettamente d’accordo su quanto ha scritto il 12 aprile sulla Gazzetta del Mezzogiorno Ennio Triggiani: “E’ necessario uno sforzo di fantasia diplomatica per rendere molto più forti e incisivi i tentativi, da più parti posti in essere, per ottenere almeno il cessate il fuoco”. Perché si può avere tutta l’ammirazione che si vuole, e molti (come fossero ciechi) ce l’hanno, per i resistenti ucraini ma un Paese che vede un flusso ininterrotto di anziani, donne e bambini che vanno via dalle loro case distrutte dalle bombe russe, senza voler contare i morti, non resiste, ha già perso checché ne pensino Zelenski e i suoi sostenitori. Per quante armi Zelenski possa avere, sempre di più perché non sarebbero mai sufficienti, questa spirale di violenza non potrà che concludersi, se non la si ferma in qualche modo, con un’immane tragedia, già in atto del resto. “E allora per sfuggire alla certificazione di una conclamata inutilità - continua Triggiani - l’Assemblea generale dovrebbe convocarsi in sessione speciale, come previsto dall’art. 20 della Carta delle Nazioni Unite, ma non a New York e probabilmente nemmeno a Ginevra nel Palais des Nations dell’ufficio europeo bensì in vicinanza dei luoghi del conflitto. Preferibilmente nella stessa Ucraina o almeno in uno degli stati confinanti, dalla Bielorussia alla Polonia”. Inoltre “l’Assemblea generale dovrebbe riunirsi in permanenza, ma anche con un suo organo sussidiario (art. 22 della Carta), non per operare un’ulteriore condanna della Russia, incontrovertibile però già avvenuta e superflua sul piano pratico, bensì per porsi come diretto soggetto di mediazione. Probabilmente non avverrà nulla e invece l’Onu avrebbe disperato bisogno di un atto di vitalità nella salvaguardia del bene supremo della pace, dopo anni di inutili tentativi di riforma, per sopravvivere”.

    Qui siamo al punto che di pace parla quasi solo il Papa. In un qualsiasi talkshow si discetta con noncuranza della necessità per l’Unione europea, altra latitante nell’ambito delle trattative, di esercito europeo da dotare di bombe atomiche. Eh sì, sfidiamo la Russia a un duello all’atomica, vedremo cosa resterà del pianeta… E’ agghiacciante tutto ciò.

     

    Se scoppia una rissa in strada o se ho un’incursione in casa, chiamo la polizia. Uno Stato chiama l’Onu. Che non c’è, si è inabissato. Ma si dirà: la Carta delle Nazioni Unite prevede all’articolo 51 la legittima difesa. L’articolo 2 vieta l’uso della forza (come la nostra Costituzione nell’articolo 11) ma poi l’articolo 51 in un certo senso lo smentisce perché consente il diritto naturale alla legittima difesa quando si è vittime di un’aggressione armata. Ma fino a quando? Come testimonia l’inviata del Tg1 Stefania Battistini, ormai nel Donbass, a Mariupol, una città di mezzo milione di abitanti, si è alla barbarie: l’esercito russo spara a vista contro civili, non c’è distinzione fra soldati e semplici passanti. Ecco che sempre l’articolo 51 stabilisce che la legittima difesa è consentita fino a quando però il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite “non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali. Ma ecco l’intoppo, nel consiglio di sicurezza c’è la Russia e dunque l’Onu non fa nulla. Con il veto russo, resta a guardare. Questo è assurdo. Bisognerebbe fare un’eccezione, trovare un’escamotage diplomatico per consentire comunque ai caschi blu dell’Onu di intervenire subito, altrimenti l’Onu non ha più senso.

  • ECCO A VOI L'ISTITUTO
    DI BELLEZZA PER UNDER 13
    MA I BIMBI NON ERANO
    BELLI A PRESCINDERE?

    data: 23/03/2022 12:00

    Non sono inopportune, fin dai tempi dello Zecchino d’oro, le esibizioni dei bambini alla televisione: vi ricorre spesso “Oggi è un altro giorno”, il programma pomeridiano di Serena Bortone su Raiuno. Per esempio lunedì 21 marzo, con l’intervista a Michele Zarrillo, c'è stata l’esibizione alla chitarra di sua figlia novenne, che ha cantato e suonato accompagnandosi alla chitarra Zombie dei Cranberries. Un brano difficile, diventato un inno pacifista, che è stato interpretato agevolmente dalla bravissima Alice; così come si è visto al pianoforte il figlio dodicenne Luca. Giorni prima una bimba profuga dall’Ucraina, di nove anni pure lei, ha suonato Chopin al pianoforte e danzato con grande maestria. Allora, i bambini alle prese con l’immagine, sia che si tratti di tv che di instagram, inflazionatissimo dai bimbi (così come dai micini e dai cagnolini), vanno bene, fanno parte ormai della rappresentazione dell’immaginario collettivo. I genitori li ritraggono, li filmano e li diffondono, spesso ignari o almeno con una certa superficialità sui rischi insiti nella rete, nella diffusione mondiale di questi ritratti.

    Ma ciò che non va invece è l’apertura di un istituto di bellezza per bambine dai 3 ai 13 anni. E’ successo a Nardò, in provincia di Lecce e il salone sta ottenendo un successo non tanto imprevedibile, al punto che la titolare ha intenzione di aprirne altri. E di estendere la cura dell’immagine anche ai maschietti. Ora, ci sono state vibrate proteste, da parte di locali e no. Il cantantautore Nandu Popu, ad esempio, leader dei Sud Sound System, celebre gruppo salentino, ha detto: “Tutti i bambini sono belli a prescindere. Semmai di brutto possono avere i genitori, se questi sono incapaci di accettarsi e di vivere come esseri umani. Il disagio di non sentirsi belli e quindi di non sentirsi accettati ha vari significati, tra questi il più devastante è quello di sentirsi talmente inferiore da dover elemosinare un giudizio altrui. La bellezza va ricercata soprattutto nell’umanità di cui siamo pregni. Ergo, i genitori dovrebbero mantenere la purezza spensierata di ogni fanciullo e non farlo invecchiare troppo precocemente. Ps: lasciate stare i saloni di bellezza e raccontate ai vostri figli una favola, sarete più belli anche voi”.

    Come non essere d’accordo con Nandu Popu? “La bellezza dell’asino” si diceva una volta, è quella bellezza che proviene dall’essere come si è, come si nasce, senza artifici e che la gioventù garantisce da sola, senza bisogno d’altro. Il bullismo, una tematica affrontata anche dallo sceneggiato tv “Noi”, il “body shaming”, lo svilimento del corpo, possono avere conseguenze molto gravi. Ma poi cos’è la bellezza? Uniformarsi a un canone alla moda, fare del proprio aspetto una divisa, un modello indicato da chi detta o influenza di volta in volta i caratteri da seguire oppure lasciare libero spazio alla libertà, alla varietà, alla spontaneità che dovrebbe essere poi prerogativa dell’infanzia? Inutile dire che io propendo per la seconda ipotesi e rifuggo da qualsiasi conformismo.

    Anni fa, diciamo ai tempi del primo femminismo, di Elena Gianini Belotti e del suo fondamentale “Dalla parte delle bambine”, che evidentemente non è stato letto da tutti e che invece andrebbe adottato come libro di testo, questa notizia avrebbe suscitato ben altro scalpore. Ma oggi no e vediamo perché: se una madre o un padre decide di passarsi uno smalto colorato alle unghie, nel figli@ (qui ci vuole la schwa, particella utile) scatta l’identificazione e vuol farlo pure lui o lei, a prescindere se accada in istituto o no. Certo in casa o farlo così alla buona è ben diverso che andare in istituto ma del resto non si va dal barbiere o dal parrucchiere? L’istituto di bellezza per piccoli è un’americanata, un’aberrazione (cosa vuoi ricostruire le unghie a otto anni?) ma in fondo rientra semplicemente e amaramente nella logica del mercato. Anni fa la scrittrice Flavia Piccinni svolse un’inchiesta sul mondo dei piccoli modelli, che guadagnano cifre considerevoli sfilando in passerella proprio come i loro omologhi grandi e mostrava, anche in un documentario trasmesso in tv, come la concorrenza sia, nel settore, spietata. S’intitola, quella inchiesta, “Bellissime” (Fandango, 2017), con ovvio riferimento all’imprescindibile film di Luchino Visconti del 1951, con la grande Anna Magnani che porta la figlioletta a un’audizione convinta di farne un’attrice di successo con la cocente delusione che sappiamo.

    Ci sono valanghe di prodotti di bellezza per ogni tasca e per ogni età, dunque una madre che frequenti un istituto di bellezza troverà normale che sua figlia faccia lo stesso in vista, per esempio, di una festa. Al servizio del dio mercato, ribadiamo. Dipende dunque tutto dai genitori. C’è chi porta i figli a lezione di piano (Zarrillo è un musicista e i figli seguono le sue orme) e chi invece butta all’aria secoli ormai di femminismo portandoli all’istituto di bellezza. Quando non li affida addirittura al chirurgo per assurdi e precoci ritocchi, qualcosa che dovrebbe essere proibito. Nella bufera finì tempo fa la soubrette (termine antiquato) e opinionista alla “Vita in diretta” e a “Non è l’arena”) Maria Monsè, per aver fatto rifare un naso peraltro normalissimo alla figlia quattordicenne. Oppure ci furono polemiche quando Alessandro Michele, stilista di Gucci, fece sfilare una modella non conforme al tipo solito di riferimento occidentalizzante, wasp (bionda con occhi azzurri) ma dal volto particolare, l’iraniana Armine Harutyunyar, a suo modo bella perché la bellezza è nella varietà, nella non omologazione, è negli occhi di chi guarda e chi guarda è diverso l’uno dall’altro.

    In nome della consuetudine si è sdoganato perfino quell’anticaglia del concorso di miss Italia. Sull’Avvenire Eraldo Affinati esaltava il fatto che quest’anno a vincere il concorso, che dovrebbe essere stato accantonato da anni, sia stata eletta una ragazza di Scampia, Zeudi Di Palma, 20 anni, che studia sociologia all’università. La madre, Maria Rosaria, l’ha cresciuta da sola insieme ad altri tre figli, e ha anche fondato un’associazione, “La lampada di Scampia” per la difesa e il recupero dei ragazzi a rischio di quel quartiere napoletano reso noto da Gomorra. E la ragazza stessa inanella questo titolo di miss con gli altri che ha raggiunto; per Affinati ella rappresenta addirittura un simbolo di riscatto dell’intero quartiere napoletano, di solito associato alla malavita. Che l’ha accolta, una volta eletta Miss, con gran festeggiamenti. Del resto, guardando il curriculum di molte presentatrici, intrattenitrici e in sostanza giornaliste televisive, spesso c’è tra i loro titoli anche il concorso di miss Italia che a quanto pare rappresenta quasi una garanzia in vista di un futuro nello showbusiness. Ma già parliamo di un’altra fascia di età. I bambini no, non hanno proprio bisogno della beauty farm.

     

     

     

     

  • LA BATTAGLIA DEI "PANINI"
    NELLE EDICOLE DI BARI

    data: 20/03/2022 17:00

    Nonostante la congiuntura nettamente sfavorevole – il dominio informativo della Rete, i quotidiani visti come un "oggetto obsoleto" dalle giovani generazioni e l’alto costo della carta – la stampa sta vivendo un momento di singolare vivacità e gloria in Puglia e in particolare a Bari. Grazie però al "panino", ovvero alla vendita di due o più giornali al prezzo di uno.

    Dopo sette mesi di assenza, da luglio fino al 19 febbraio, è tornata in edicola la Gazzetta del Mezzogiorno, testata storica, da 135 anni, per Puglia e Basilicata. Con il panino della Gazzetta dello Sport, il che ha provocato una protesta nella redazione del Corriere del Mezzogiorno, inserto locale del Corriere della Sera, edito da Cairo, ovvero lo stesso editore della Gazzetta dello Sport che in questo modo va effettivamente a favorire un concorrente. La Gazzetta è stata acquistata dall’Edime (che fa capo a una società di trasporti di Castellana Grotte, Miccolis e alla società di riciclaggio dei rifiuti di Antonio Albanese di Massafra), con amministratrice delegata Aurelia Maria Miccolis e presidente del consiglio di amministrazione Fabio Ficarella. La cessione della proprietà da parte del catanese Ciancio Sanfilippo è stata molto travagliata, con un periodo di curatela fallimentare (per cui ci sono ancora debiti consistenti), con il passaggio all'imprenditore Ladisa (ristorazione) che ha dovuto lasciare e ha fondato un altro quotidiano, con una ipotesi di cooperativa di giornalisti subito decaduta e infine con l’attuale proprietà che ha mantenuto i 140 dipendenti (alcuni hanno abbandonato, altri sono in cassa integrazione, ma in sostanza la forza-lavoro è rimasta più o meno inalterata). La foliazione prevede 20 pagine di nazionale più 16 di cronaca locale (Bari e provincia, le altre province pugliesi molto ridimensionate e, in Basilicata, Potenza e Matera). E in più, appunto, il panino con la Gazzetta dello Sport.
    "E' chiaro che i baresi ci tengono al loro giornale – conferma Raffaele Macina, edicolante di Poggiofranco, - anche se di giovani qui non ne vedo molti. Delle cinquanta copie al giorno che ricevo, vanno via quasi tutte”. Il direttore è Oscar Iarussi, critico cinematografico ma anche redattore di lungo corso alla stessa Gazzetta. L’impronta culturale c’è e si vede, dalla controcopertina dedicata ai cent’anni della nascita di Pier Paolo Pasolini al ricordo di Carmelo Bene affidato a Giancarlo De Cataldo. Innovativi la posta del cuore affidata ogni sabato alla scrittrice Lisa Ginzburg (nipote di Natalia) e gli itinerari gastronomici di Bianca Tricarico. Alberto Selvaggi, con la sua penna irriverente, ogni sabato descrive le strade di Bari, non solo quelle più importanti ma anche, per esempio, viale Europa del San Paolo o via Re David a San Pasquale. Per attrarre i giovani c’è spotify e i podcast, il giornale da scaricare e ascoltare con contenuti diversi da quelli stampati sul telefonino. E ogni giorno in prima pagina il "telegramma" di Gianrico Carofiglio, che però, dopo l'effetto-novità dei primi giorni, sembra più evidenziare la lontananza del bestsellerista barese dal formato di scrittura fulminante propria di una rubrichetta di poche righe. Del resto, a parte questo innesto di innovazioni culturali, meno decisi sembrano il rinnovo e la razionalizzazione del vecchio formato-Gazzetta.

    La sosta della Gazzetta del Mezzogiorno, molto più lunga delle pause che ogni tanto, in coincidenza con il cambio di proprietà, i giornali subiscono, ha propiziato nella scorsa estate l’arrivo a Bari del salentino Nuovo Quotidiano di Puglia (edito da Caltagirone), in doppio abbinamento col Messaggero e con il Corriere dello Sport. Si tratta di una testata che ha oltre 40 anni di attività, che fu fondata nel 1979 da Beppe Lopez a Lecce e che poi si è radicata molto bene nel Salento. Aveva provato lo sbarco a Bari già dal 2000 al 2003, poi sfumato. E adesso non sono chiare le prospettive di questa iniziativa, nata d'emblée per sfruttare l'improvvisa scomparsa dalle edicole della storica Gazzetta barese e quando non erano ancora sorte le altre iniziative che hanno improvvisamente animato il mercato locale. Infatti, oltre al caltagironiano Nuovo Quotidiano di Puglia (che poi ha una testata simile al Quotidiano del Sud, edito in Molise) e al Quotidiano di Foggia, la scorsa estate ha visto anche la nascita dell’Edicola del Sud, edito da Ladisa. Nata fra lo scetticismo generale, perché attribuito più a un incaponimento del mancato editore della Gazzetta e perché estranea al background e alla tradizionale professionalità dell'imprenditore (mense e affini), l'Edicola sta mostrando una sorprendente modernità e maturità d'impostazione, sotto la dinamica direzione di Annamaria Ferretti. E da lunedì 21, per fronteggiare appunto una concorrenza che era attesa ma forse non in questi termini, anche l’Edicola del Sud avrà il panino con il Sole 24ore, che il mercoledì dedica al Sud un paginone dei suoi (è uno dei pochi giornali a mantenere il formato tradizionale, non tabloid) e che la domenica ha un inserto culturale molto seguito.

    A tutto questo non va dimenticato che si aggiungono - con l'eccezione del lunedì - le pagine locali della Repubblica e del Corriere della Sera. Qui i panini non servono: non solo perché queste due testate sono esse stesse di fatto un "panino" (anche se con le pagine locali materialmente incorporate nella foliazione del giornale nazionale) ma anche perché entrambe sono arricchite da una esuberante attività editoriale di periodici e allegati. Il Corriere della Sera e La Repubblica, infatti, hanno in edicola tutt’una serie di libri, dai romanzi ai saggi storici (particolarmente interessante è il ritratto di società urbane ai tempi della rivoluzione francese, dell’impressionismo, ecc.), ovviamente a pagamento, oppure degli inserti molto corposi, come quello economico del lunedì o speciali sulla cucina, sulla bellezza, oltre alle riviste settimanali, il Sette il giovedì e il Venerdì, e Donna e Io donna il sabato, oltre a Robinson e alla Lettura. Ce n’è in abbondanza per leggere.

    E' difficile prevedere cosa e quanto potrà mettere radici, in tutto questo dinamismo, e capire quanto in esso ci sia di solido. E' appena il caso di ricordare che, prima della chiusura e prima ancora della estemporanea sortita delle nuove testate, le vendite quotidiane di un giornale ultracentenario come la Gazzetta - in tutt'e due le regioni di competenza - erano valutate attorno alle ottomila copie. Un'autentica miseria rispetto alla tradizione (nei momenti più felici la Gazzetta era arrivata alle ottantamila copie) e al dinamismo sociale, culturale e produttivo di una regione come la Puglia e in particolare di una città come Bari. Se son rose, fioriranno.

     

  • PERCHE' L'UCRAINA
    "DEVE" ARRENDERSI

    data: 10/03/2022 16:10

    Via tutti i giornalisti stranieri dalla Russia e dall’Ucraina (dove però sono rimasti). I giornalisti hanno già pagato un alto tributo alla follia del despota russo. Nel ricordo di Anna Politovskaja, uccisa dal regime mentre rincasava. Il papa ha pubblicamente ringraziato i giornalisti per il loro lavoro. Stefania Battistini è stata minacciata in Ucraina e scambiata per una spia, con grave pericolo. Il tg Rai (solo Raidue) ha lasciato a Kiev Piergiorgio Giacovazzo e Leonardo Zellino. Via i corrispondenti da Mosca. Ma sono rimasti ancora qualche giorno i vari inviati (soprattutto donne) sparsi per l’Ucraina. Andrea Vianello, direttore dei Gr-radioRai, è volato a Leopoli per occuparsi soprattutto dei bambini - ha detto – colpiti da questa immane tragedia e da lì ha trasmesso i giornali-radio principali del Gr1, delle 8, delle 13 e delle 19. L’assalto continua, con perdite anche tra i giovani soldati russi che sono mandati a morire senza pietà e da Blob vedo un appello di una donna ucraina che chiede un corridoio speciale per questo pietoso compito di raccolta dei caduti. I russi avanzano contro le città ucraine. Assurda poi la polemica per il corrispondente di lungo corso Marc Innaro che è stato accusato di filorussismo, quando le sue corrispondenze sono state sempre, almeno per me, puntuali e obiettive, e poi in questi giorni è necessario conoscere le mosse di Putin. E assurde e ingiuste sono state le censure per tutto ciò che riguarda la Russia, per esempio di scrittori come Dostoevskji, che appartiene all’800 ma è sempre attuale.

    Ripassiamo un po’ di geografia. Karkhiv ha un milione e mezzo di abitanti. Non sono villaggi, non sono paesi, sono grandi città sebbene i loro nomi ci fossero fino a ieri sconosciuti. Mariupol non è mai nominata nei film, nei telefilm, nei libri (perché non abbiamo familiarità con la produzione artistica ucraina o russa), ma Mariupol è una città di 446mila abitanti. Sappiamo, o piuttosto sapevamo poco di quel che avviene in quelle contrade. Adesso sapremo molto meno, perché Mosca fa calare un’ulteriore censura su questa guerra maledetta (come tutte le guerre) e anche la Rai, come le altre emittenti di tutto il mondo, ha deciso sabato, al nono giorno d’invasione, di ritirare tutti i giornalisti e i cameramen: troppo pericoloso farli restare in Ucraina e dintorni. Gli abitanti di Mariupol sono costretti ad abbandonare le loro case e sono stati predisposti dei corridoi umanitari di poche ore, dalle 7 alle 15, per allontanarsi: ma questi corridoi, ha fatto sapere l’invasore russo, sono andati deserti, il che vuol dire che gli abitanti di Mariupol restano in città, pur sapendo cosa li aspetta. Non credo ci sia qualcosa di più crudele che abbandonare la propria casa. Lo sa bene chi è dovuto andare di corsa in ospedale, nella speranza di guarire e tornare. I traslochi sono catalogati al secondo posto dopo il lutto come fonte di stress emotivo. Ora, la tragedia immane che è stata scatenata da Putin il 24 febbraio scorso, toglie il fiato. La guerra provoca subito questo: le merci, gli alimentari per prima cosa, spariscono, tutto si ferma ma non le persone, che devono trovare rifugio lontano, e non i militari che purtroppo obbediscono sempre a ordini ingiusti e disumani e avanzano, continuano ad avanzare.

    A chilometri di distanza, nemmeno troppi (otto ore di auto da loro) si può anche tentare di essere imparziali e comprendere le ragioni dei russi e degli ucraini, fratelli-coltelli. Ma una volta che Putin ha scelto la via della forza, dell’invasione armata, della guerra, è passato automaticamente dalla parte del torto. Chernobyl non ha insegnato nulla: addirittura le quattro centrali nucleari che l’Ucraina possiede, sono diventate obiettivi di questa “operazione militare speciale”. Così chiamano a Mosca quella che è una guerra, una semplice e primitiva – ma con armi ultramoderne – guerra. Ci hanno imbrogliato, quando parlavano di disarmo, di trattati, quando pensavamo di avere a che fare solo con un microscopico e letale virus, appena pochi mesi fa. Adesso la minaccia è ancora peggiore, perché l’arma nucleare distrugge tutto, tutto, come si fa a non capirlo?

    La violenza chiama violenza, questo non va dimenticato. Mandare armi non fa altro che incrementare, aizzare lo scontro che invece va fermato, subito. Fa specie vedere in tv gli ucraini che pensano di difendersi con le bottiglie molotov o con le pillole di iodio contro la radioattività. Quindi bisogna rafforzare la diplomazia, bisogna moltiplicare le manifestazioni pacifiste, va bene tutto, “Give peace a chance” da ogni radio e tv, manifestazioni, campane, preghiere a San Nicola di Bari sperando in un miracolo, una marcia in massa verso Mosca, anche la resa se è necessaria con tutte le garanzie per gli ucraini: tutto pur di evitare un’escalation che non si può nemmeno nominare tanto fa schifo. Certo, bastava aver visto "Cargo 2000",un film che mi è rimasto impresso sulla guerra in Cecenia, violentissimo. La guerra non è stata mai ferma, ma finché si svolgeva in territori sconosciuti, nascosti, si poteva, colpevolmente certo, ignorarla. Ora no, non si può. Non si deve. Si deve fermarla. Onu e diplomazia devono allertarsi senza sosta. Anche perché Putin sembra sordo a ogni iniziativa ma non bisogna stancarsi di trattare senza esacerbare una situazione che è già tremenda. Gli ucraini citano Garibaldi quando disse: “Qui si fa l’Italia o si muore”. A parte il fatto che anche fra i garibaldini ci furono molte vittime, non facciamo paragoni assurdi. Allora non c’era l’atomica. L’Ucraina deve arrendersi; alla violenza non si può e non si deve rispondere con la violenza. Mai e poi mai.

     

     

     

     

  • L'ALBA, SCOTELLARO,
    IL MERIDIONALISMO:
    LA GAZZETTA E' TORNATA

    data: 19/02/2022 18:39

    "Sempre nuova è l'alba", il titolo di una poesia del 1948 di Rocco Scotellaro, risalta a tutta pagina sulla prima della nuova Gazzetta del Mezzogiorno con il fondo del direttore, Oscar Iarussi e una grande foto del lungomare di Bari appunto alla luce rosata di un nuovo giorno. Quella poesia termina con parole che ben si attagliano a un quotidiano: “perché lungo il perire dei tempi/ l’alba è nuova, è nuova”.

    Un nuovo giorno è qui (come nella sigla della sitcom napoletana “Un posto al sole”) ad annunciare da oggi, 19 febbraio 2022, una nuova era per la testata storica di Puglia e Basilicata che aveva cessato le pubblicazioni lo scorso 2 agosto. La Gazzetta è tornata in edicola (in tandem con la Gazzetta dello Sport) dopo dunque circa sette mesi di sospensione, un tempo notevole, esagerato, per un quotidiano che dal lontano 1887 aveva sempre garantito la sua presenza in edicola e principalmente tra i lettori pugliesi e lucani.

    Sono state stampate 25mila copie. Ma nonostante una distribuzione media di circa 70 copie per rivendita, è andata esaurita molto presto e in alcuni centri, come Castellaneta (Taranto) è finita prestissimo, risultando introvabile.

    L’importante comunque è che la Gazzetta sia ripartita, compreso il sito web. A dirigerla Oscar Iarussi, classe 1959, un critico cinematografico e questa è una novità per un quotidiano, ma anche giornalista di lungo corso che ha ricoperto vari incarichi dirigenziali con la vecchia proprietà – inizialmente la Gazzetta era del barese Gorjoux, poi passò al catanese Ciancio Sanfilippo, mentre adesso fa capo a imprenditori di Castellana Grotte (Miccolis, autobus) e di Massafra (Albanese, smaltimento rifiuti).

    “L’idea dell’alba per noi è decisiva, fondamentale – ha detto Iarussi nel suo intervento sul web e nel suo editoriale – perché appunto afferisce a una tradizione, a una grande storia come quella di Scotellaro, Levi e altri grandi protagonisti del meridionalismo ma è anche un’idea fortemente innovativa su cui noi puntiamo. Il cardine principale della Gazzetta del Mezzogiorno che da oggi è tornata in edicola e sul web sarà l’idea di comunità. Noi proveremo a costruire una comunità intorno alla testata, una testata che ricordo ha quasi 135 anni di vita, li compiremo fra qualche mese, una comunità delle nostre regioni, della Puglia e della Basilicata. Comunità significa interazione, servizi, cronaca, storia, reportage, inchieste, racconti ma anche occasione d’incontro, eventi, possibilità di creare delle occasioni di dibattito insieme ai lettori e tutto questo ci servirà a mettere in primo piano, a fare il focus sulle comunità meridionali della Puglia e della Basilicata. In uno scenario ampio che ha bisogno di un ruolo primario da parte del Sud. Siamo dunque un giornale meridionalistico, un giornale comunitario, un giornale di servizio. Una nuova alba. Bentornata Gazzetta e grazie a tutti voi per il fatto che ci seguirete, che ci acquisterete e che ci leggerete”.
     

  • BELL'ARIA, BUON PANE
    MA DA CASTELNUOVO
    DELLA DAUNIA SI VA VIA

    data: 17/02/2022 18:14

    Cronache da un tempo lontano e da un paese lontano. Che riaffiora alla memoria per il fatto che il suo sindaco attuale, Guerino De Luca, invita con un editto i suoi compaesani a lasciare a casa fucili e pistole prima di recarsi in Comune a protestare per le tasse. Potrebbe essere iI Far West e De Luca uno sceriffo. In un certo senso è così. Ma anche no. Castelnuovo della Daunia è un paesino abbarbicato lassù in alto - sì, proprio come il “paese mio che stai su una collina” di canzonettara memoria – ai confini fra Puglia e Molise, circondato da boschi e dal clima ameno, tranne che nel periodo in cui soffia il vento. Non un vento qualsiasi ma di quei venti che ulululano, fischiano, superano i tre giorni canonici, non si “pascono” facilmente, che t’innervosiscono e infatti c’è da credere che gli abitanti di Castelnuovo, un tempo 5mila ora meno di 1400, siano in quel periodo piuttosto nervosi. Un vento che fa o almeno faceva gridare una madre – solo lei però - che richiamava il figlio in ritardo per il pranzo con un urlo terribile: “Te pòzzano accide”, “ti possano uccidere”, che non è esattamente un augurio…

    Ovvio che quella madre volesse al contrario un bene dell’anima al proprio figlio ma l’imprecazione era quella, come probabilmente una minaccia simile era indirizzata alla volta di un impiegato assunto da poco, proveniente da Campobasso, non pratico del luogo, da quattro e diconsi quattro cittadini esagitati. Il sindaco infatti così si è giustificato: il castelnuovese abbaia ma non morde, dice così per dire ma qui vive solo gente bonaria. Infatti non si è mai dato un caso di cronaca nera. Per che cosa si era sentito nominare questo paese che solo all’inizio del secolo scorso aveva aggiunto “della Daunia” al nome originario, peraltro non avvalorato da alcun castello, almeno visibile? Per il soggiorno dei confinati politici, al tempo del fascismo. Niente di meglio che confinare gli avversari politici in un posto lontano da Lucera (il centro più simile a una cittadina) e raggiungibile con una strada tutta curve e in salita, peraltro anche franosa. Oppure per la costruzione della grande diga di Occhito, che richiamò in zona tecnici e ingegneri da ogni dove. Furono 15 anni circa di prospezioni, di analisi, di scavi di gallerie, con quartier generale nella più antica e suggestiva costruzione del paese, la Corte della Vigna, che i locali accolsero con molto scetticismo. Quella diga avrà pure portato l’acqua alla piana di Foggia, dicevano, ma ci ha tolto la neve, il clima qui è cambiato, ci piaceva di più prima. Del resto, molti emigravano, lasciando in paese i figli che vivevano con i nonni in povere case riscaldate dai bracieri e dai camini e tornando per la festa patronale, il 15 settembre, non solo dall’alta Italia ma anche dalla Germania e dalla Svizzera soprattutto. E si può facilmente immaginare che, giunti alla terza e successive generazioni di emigrati, il paesello si è bello che svuotato, non ci sia stato più ritorno.

    Beh, qualche guizzo turistico si è registrato, ma è durato poco: furono inaugurate delle terme e una volta ci venne in vacanza niente meno che Ornella Muti. Ma si trattò di un’eccezione. Il paese è sovrastato da un’abetaia che termina con un vecchio mulino a vento poi trasformata in cappellina, circondato dalle pale eoliche e dall’altra parte dell’abitato c’è una valle circondata da fitti cespugli di rose canine e di ginestre in cui sgorga una fonte di acqua purissima, che diede origine anche a uno stabilimento di acque minerali, la Cavallina.

    Non manca la chiesa madre, sulla piazza principale, accanto al monumento ai Caduti, e qualche altra parrocchia con l’unico cinema annesso, compreso un convento di suore che avevano un asilo. Un ufficio postale, la stazione dei carabinieri, un’edicola rifornita, il municipio, il campo sportivo, un emporio (ai tempi quello delle mitiche sorelle Cinicola), qualche alimentare con il pavimento con assi di legno, il medico condotto (ora della mutua) e stop. Niente stazione, tutto qua. Cosa si fa in un posto simile? C’è la scuola elementare e le scuole medie, in un vecchio edificio dalle spesse mura bianche, sul corso principale. Vi arrivavano ogni mattina professori eroi, in macchina, da Foggia, Cerignola, San Severo, Lucera: cercavano di fare di quella scuola un luogo di cultura e didattica all’avanguardia e ci riuscivano bene. Poco oltre c’è il belvedere con la statua bronzea di una gazzella che ammira un panorama davvero degno di nota. Appezzamenti di terreno si stendono sotto le nuvole come una coperta variopinta, con tutte le sfumature dal marrone al verde al giallo. Gli occhi sono appagati ma anche l’olfatto: impagabile il profumo dei campi di grano subito dopo la pioggia. E del pane appena sfornato in gigantesche ruote. A Castelnuovo facevano e fanno ancora un magnifico pane. E quando il pane è buono, si è già a un buon punto.

    In un posto così, agricoltura scarsa, allevamento di animali, tante galline e i poveri maiali, cosa si fa? Si va via, adeguando il celebre detto “Da Foggia fuggi”. Figuriamoci dalla sua provincia. Resta davvero poco ma chissà, industriandosi, e di certo lasciando a casa fucili e pistole, si può sempre migliorare. "Mettete dei fiori nei vostri cannoni", piuttosto: e i fiori a Castelnuovo non mancano. Chissà che non siano le serre il suo futuro.

     

  • QUANTE SVOLTE E PROBLEMI
    NELLA FICTION "LA SPOSA"

    data: 05/02/2022 15:48

    Tra un’occasione importante e l’altra, seguite in modo quasi sovrapponibile - la rielezione di un presidente della Repubblica auspicabilmente nuovo ma poi è stato un bis, acclamato come all’Ariston e il 72esimo Festival di Sanremo - Raiuno ha mandato in onda una fiction (ovvero uno sceneggiato) che ha avuto come protagonista colei che avrebbe potuto ben essere nominata “la” presidente, non fosse che di personaggio immaginario si trattasse. La sposa.

    “La sposa” scritta principalmente dalla napoletana pluripremiata ancorché sconosciuta ai non addetti ai lavori Valia Santella, girata da Giacomo Campiotti (Braccialetti rossi), con grande maestria e interpretata al meglio da Serena Rossi, dimostra come, per avvincere, siano necessari colpi di scena a ripetizione che ribaltino soprattutto i luoghi comuni. Sono talmente tante le tematiche affrontate in tre puntate che si poteva benissimo ricavare una serie e forse lo si farà. Nella Sposa succede tutto e il contrario di tutto, personaggi accattivanti si trasformano in cattivi e beceri figuri in fondo hanno pure loro un cuore.

    Dunque, partiamo dal personaggio principale, la sposa. Ancora nel 1967, in un’Italia che già da qualche anno era in pieno boom ma non nell’osso (come chiamavano i meridionalisti il versante appenninico), una ragazza sui 25 anni, quindi già in ritardo sull’età da marito, rimasta orfana di padre, accetta di sposare tramite sensale un veneto, il cui zio, Vittorio Bassi, è sceso apposta dal Vicentino al fine di trovare una sposa per il nipote Italo, rimasto senza moglie sparita chissà dove, e c’è l’ombra di un femminicidio ma poi si rivelerà che non è così. Maria, questo l’emblematico nome della nostra eroina, accetta di essere comprata. Perché di questo si tratta: un contratto il matrimonio (come sempre, oltre a essere uno statys symbol), al prezzo del mantenimento della famiglia d’origine. Ed ecco che parte alla volta di un paese sperduto nel profondo Nord nebbioso per salvare la famiglia sua, consistente in una madre, una sorella Luisa, in procinto, lei sì di sposarsi col fidanzatino con cui ha fatto la “fuitina” e un fratello, Giuseppe, a cui lei raccomanda di studiare perché, chissà, potrebbe anche diventare il presidente della Repubblica. Questa figura iconica, che non piange mai per principio, viene quindi sballottata in un paese dove trova: un “vedovo”, Italo che ancora non sa di esserlo, isterico e distrutto dal dolore, in quanto la moglie Giorgia, madre del loro Paolino, è sparita chissà dove e su di lui pesa l’ombra del femminicidio, come da accusa del cognato Giulio, solo che poi la si troverà in fondo al fiume per un malore avuto mentre era incinta e Paolino lo sapeva ma per lo spavento non parlava più. Il bambino, sui dieci anni, vive nella stalla con mucche e maialini, ignorato da tutti, padre e prozio compresi, e sarà Maria a salvarlo. Una situazione di povertà estrema di braccianti che vengono presi la mattina al lavoro dai caporali o dallo zio padrone e poi una ragazza emancipata, Carla, che chiama “maschilista” zio Vittorio, ma che è a sua volta succube del fidanzato sindacalista che si rivelerà, una volta trasferitasi a Roma con lui, “traditore e puttaniere”.

    Quindi, prima tematica: matrimonio combinato, essendo in fondo il matrimonio, ancora oggi, la possibilità di sopravvivenza più comune per le donne che infatti lavorano poco e male, onde l’appello ancora ieri di Draghi ad assumerne di più. Il lavoro per le donne sta diventando una chimera e la sponda di essere delle mantenute tramite sposalizio sembra tornare in auge.

    Seconda tematica: il lavoro. Maria non faceva la contadina al paese ma si adatta molto bene a questa vita rurale, contratta con i contadini, apprende i ritmi del lavoro agricolo con tutti i suoi rischi e incertezze dal rozzo zio Vittorio che la osteggia in tutti i modi ma poi alla fine si rivela un buon uomo. Che volete, ha avuto anche lui i suoi dolori, apparteneva a quella generazione che ha fatto le guerre coloniali fasciste, dove ha perso pure il fratello maggiore che era partito con lui, come spiega a Maria, che è una sorta di Alice nel paese delle meraviglie non tanto meravigliose del decantato boom.

    Terza tematica: l’istruzione. Per Maria è molto importante, da sedicenne sognava per sé un matrimonio con il bell’Antonio (rivelatosi poi un mascalzone) che però parte per il Belgio facendosi promettere di aspettarlo, mentre lei, non analfabeta comunque, vuole che a studiare sia il fratello Giuseppe. Quando questi viene colpito dal tifo, Maria torna in Calabria (l’Africa come la chiama lo zio Vittorio) e vi ritrova Antonio, nel frattempo diventato un costruttore affermato. Infatti la porta a vedere il villaggio turistico che sta costruendo vicino al paese (in realtà si tratta del Gargano, ma va bene così, del resto anche il veneto è in realtà il Piemonte). Solo che lei, pur tentata, nel frattempo ha riportato a scuola Paolino che, grazie a una maestra alleata, si rimette a studiare e si è anche innamorata di Italo, quindi non cede alle lusinghe di Antonio che però la segue anche al Nord e da personaggio in fondo positivo si trasforma in un pericoloso stalker, che darà fuoco alla stalla del casale, col rischio di uccidere Paolino e ammazzando di fatto il suo rivale Italo, come scoprirà Maria ritrovando la sua catenina del battesimo bruciacchiata e denunciandolo. Fino al processo in cui sarà condannato e dove si scoprirà che Antonio aveva già fatto cinque mesi di galera in Belgio ed era un farabutto che faceva trasportare capitali in Svizzera da Giuseppe che per far fronte allo stress si drogherà e finirà in overdose, venendo salvato. Da chi? Sempre da Maria, ovviamente. Proprio mentre, vedendo lo zio Vittorio che pasticciava con la polenta, ci si figurava che al Sud fosse rimasto un residuo di educazione da Magna Grecia, e ne fa fede lo sguardo di disgusto di Antonio, ecco che la Calabria precipita in quella sacca di brutalità e di “sviluppo” da ‘ndrangheta e sequestratori, come purtroppo siamo abituati a vederla dalle cronache e da film e sceneggiati, come “Anime nere” e la dolorosa storia vera di Lea Garofalo.

    Si è affrontato anche il tema della speculazione e del riscatto: Giuseppe, complice di Antonio nell’incendio della stalla, al processo convalida le parole di Paolino che aveva visto due uomini scappare tra le fiamme, quindi viene arrestato e promette alla sorella che studierà in carcere e chissà, forse diventerà presidente della Repubblica.

    Ma non è finita. Si parla di ambiente. Mentre sta arando uno dei suoi campi, Maria vede Paolino afflosciarsi svenuto. Sono i pesticidi sparsi a piene mani dai contadini ad averlo quasi ucciso e il fidanzato dell’amica, il sindacalista succitato, difende la fabbrica che li produce e non vuole che si torni al più sicuro zolfo, come invoca Maria. Ma una volta che gli svenimenti si moltiplicano, ecco che le danno tutti ragione e diventa pure una leader sindacale.

    La medicina: dall’odiosa figura del medico che visita Maria per attestarne la verginità (e non siamo nell’Afganistan talebano), perché lei è stata comprata come fattrice e bisogna assicurarne la fedeltà (strano, sembrava una pratica da Meridione e invece no. “Sedotta e abbandonata” era ovunque e forse è ancora in certe parti d’Italia), si passa a un bravo dottorino, forse il suo prossimo marito, che accompagna Maria, ormai vedova ma in attesa di una figlia, a visitare Paolino, il quale, in seguito a una crisi epilettica che Maria fronteggiava benissimo, dovendo lei andare in ospedale per un po’ di tempo, è stato portato dall’amica a cui l’aveva consegnato (su incitamento del perfido Antonio), in un istituto psichiatrico dove il dolce bambino che aveva riportato con successo alla socialità, è stato ridotto a pupazzo inerte dagli psicofarmaci. Ma anche qui, Maria ce la fa.

    La speculazione: Vittorio aveva comprato a basso prezzo dei terreni dal cognato di Italo che lo odiava per questo (oltre a sospettarlo con il marito stesso della morte della sorella) ma riconoscendo poi, sempre grazie a Maria, il raggiro, li restituisce comprando nuovi terreni in cui spunta il metano, garantendo a Maria, alla neonata Vittoria e a Paolino, i superstiti, un ricco futuro nel casale che è stato salvato anche dalle ruspe con commovente serrata di Maria ormai in procinto di partorire ma ferma davanti all’immobile pur di non farlo distruggere ed era l’ennesima truffa di Antonio.

    Ecco in sintesi tutto ciò che è successo ne “La Sposa”, girato con magnifiche riprese da Giacomo Campiotti (“Braccialetti rossi”) e con interpreti tutti bravissimi, meritevoli di nota ma citiamo i principali, oltre a Rossi: Giorgio Marchesi (Italo), Maurizio Donadoni (Vittorio Bassi), Mario Sgueglia (Antonio), Antonio Nicolai (Paolino), Gualtiero Burzi (don Fabio), Matteo Valentini (Giuseppe), Antonella Prisco (Nunzia) e Claudia Marchiori (Carla).

     

  • FICTION O REALTA'
    DONNE SEMPRE INDIETRO

    data: 19/01/2022 15:27

    Su Raiuno è andata in onda domenica scorsa (e continuerà con cadenza settimanale per 8 puntate) l’ennesima fiction, un genere che sta acquistando sempre più popolarità, vero romanzo d’appendice dei nostri giorni, nelle televisioni a pagamento sostituita dalle serie che hanno il vantaggio di poter essere viste tutte in una volta, un film lunghissimo che tiene avvinti al televisore per ore, mentre almeno con queste si può rimuginare sulla storia. S’intitola “La sposa”, è interpretata benissimo, scritta magari con qualche incongruenza: difficile nel 1967 che una donna rivolga l’accusa di maschilista a uno zio-padrone come il protagonista interpretato dall’eclettico Maurizio Donadoni. Poi c’è che il paese della Calabria da cui proviene la sposa del titolo si trova in realtà sul Gargano e che lo stesso borgo è pugliese, a testimoniare di quanto la Calabria resti in effetti lontana, “Africa”.

    Nel 1967 si contraevano matrimoni per procura, quando un patriarca scendeva dal Nord (ma non c’erano forse donne in zona?) al Sud per comprare una sposa appunto, o meglio una fattrice per nuove braccia da impiegare in quel mondo contadino così crudele e spietato ben descritto da Bernardo Bertolucci in Novecento e che non pare abbia subito chissà quali cambiamenti nel corso del tempo. Un contadinaccio del profondo Nord, Veneto in particolare, scende dunque in Calabria e acquista una ragazza sui 20 anni che risolve così i debiti della famiglia, rimasta senza padre e con una madre disoccupata e i fratelli ancora piccoli. Su Fb un coro di stupore si è levato: ma come, sembra il primo Novecento non il 1967, non è possibile che negli anni del boom l’Italia fosse così arretrata.

    Invece sì: con una Costituzione tra le più avanzate del mondo, nei mille paesini italiani, c’era chi, per mettere insieme il pranzo con la cena, era costretto alle peggiori condizioni. Partire alla volta di una pericolosa miniera in Belgio, andare in fabbrica in Germania o in Svizzera, trasferirsi in massa a Torino alla Fiat, l’unica vera grande industria nazionale, e lo Stato cosa faceva? Oltre ad avere una massa d’impiegati statali che rappresentavano la principale fonte di lavoro per una media e piccola borghesia sempre più impoverita, lo Stato non aiutava sostanzialmente i suoi abitanti anzi stringeva patti con nazioni estere che, in cambio di carbone, necessario per mandare avanti le fabbriche, chiedevano forza lavoro e così le famiglie si dividevano, i figli restavano in carico ai nonni che rimanevano al paese o, se portati in Svizzera, dovevano essere nascosti. Chi si stupisce della “Sposa”, non sa che cosa è stata l’Italia non delle grandi città, non del chi più o meno stava bene ma l’Italia della fame.

    C’è la condizione della donna, soprattutto: cosa poteva e può fare una donna in un paese? La contadina, ricavando poco e niente, la sartina, idem (mestiere annullato dalla confezione in serie), la maestra elementare mestiere diventato con lo spopolamento dei paesi via via inutile. Cosa resta(va)? I classici lavori da donna, impiegatizi, sono stati soppiantati dall’automatismo: basta andare in una stazione, non c’è più personale non viaggiante, non ci sono edicole, le persone sono sparite! Non rimane(va) altro che il matrimonio, un vero contratto economico, in fondo a pagare il salario era il datore di lavoro domestico, ma non con l’autonomia che un lavoro vero consentirebbe (a meno di non lavorare la maggior parte del giorno, e si sa quante lotte si sono fatte anche solo per ridurre l’orario di lavoro e considerando che la cura della casa è un vero e proprio lavoro).

    Insomma, siamo alle solite. La donna è stata ed è ancor oggi asservita: ora il seguito della fiction ci annuncia che la protagonista troverà in sé stessa la forza di reagire e di trasformare in vantaggio una realtà deleteria. Comunque, arrivano ogni giorno, a ogni latitudine, notizie di donne che vengono barbaramente uccise, come la 23enne Ashling Murphy che è stata strangolata giorni fa mentre correva in un parco del suo paesino in Irlanda: alle 16. Ci sono state manifestazioni ovunque per Ashling, ma l’elenco purtroppo è lungo. Senza contare che nella “civile” Lombardia ragazze sono state aggredite la notte di Capodanno in piazza Duomo a Milano, altre sono state violentate sui treni regionali dei pendolari. Cosa c’entra? C’entra perché il fenomeno va affrontato su larga scala, con interventi psicologici e culturali mirati.

    E per tornare al lavoro: in Italia vige ormai il contrattino, cioè il contratto a tempo determinato, precarissimo. Un italiano su 10 è povero (e qui il discorso è bisex, ma se è disoccupato l’uomo, la donna statisticamente lo è di più), uno su 4 rischia di diventarlo. Nell’ultimo anno pandemico sono stati stipulati 448 mila contratti a termine e si può immaginare dove. Nella ristorazione. In una città come Bari, di circa 330mila abitanti, l’offerta di lavoro riguarda solo bar e ristoranti, attività in cui il riciclo del denaro sporco della malavita va per la maggiore. E per fare la barista o la cameriera non servono titoli di studio eppure si sa che le donne studiano più dei loro coetanei e spesso entrambi, maschi e femmine, hanno un lavoro che non corrisponde al loro titolo di studio. E poi ci meravigliamo della “Sposa”.

     

     

     

  • LE DONNE, IL QUIRINALE,
    NATALIA ASPESI, LA UTET,
    PIAZZA DUOMO...

    data: 11/01/2022 20:15

    Sfoglio l’ultimo numero dell’Espresso, con in copertina Berlusconi e il titolo: Lui no. Sarebbe più che ovvio, lui proprio no come successore di Mattarella. Eppure la sua autocandidatura è la più vociferata, per dir così, e al celebre settimanale occorrono una quarantina di pagine per esplicitare il concetto che va espresso in un monosillabo: no. No, per tante e ovvie ragioni, no e ancora no. Rimando alla lettura dell’Espresso, con accorsate e qualificate firme e alle efficaci vignette di Makkox, per un esaustivo quadro delle motivazioni che sono chiare e immediate a chiunque abbia passato in Italia gli ultimi trent’anni. L’articolo 87 precisa che il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale, inoltre presiede il Consiglio superiore della magistratura e, come chioserebbe Totò: “Ho detto tutto”.

    La Costituzione italiana, nella seconda parte (Ordinamento della Repubblica), spiega al titolo secondo chi è, cosa rappresenta il presidente della Repubblica. Ripasso veloce dell’articolo 84: “Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni di età e goda dei diritti civili e politici”. Cittadino viene inteso anche per cittadina, ovviamente, mentre presidente è un participio presente e ha la desinenza in “e” che va bene per entrambi i generi, maschile e femminile (per esempio, il preside e la preside, lo utente e la utente). Chiaro? Chiarissimo, quindi nulla osta che ci sia una donna candidata: i nomi sono tanti, da Dacia Maraini a Eva Cantarella, da Fabiola Gianotti ad Antonella Viola, da Sandra Bonsanti a Serena Dandini, di nomi papabili ce ne sono tanti. Ma non li fa nessuno, ci si ferma a Marta Cartabia o a Paola Severino e poi ci sono le donne che remano contro. Donne che sorprendentemente hanno obiettato che sì, ma, però, una donna proprio non si può. Mi chiedo cosa pensa una diciottenne, una ragazza, leggendo una novantenne argomentare la sua assurda opposizione all’ipotesi della presidente: “Ma ve la figurate una presidente? Cadrebbe subito preda dei pettegolezzi delle altre donne: non si è mai sposata? E come mai? Ha un brutto carattere? E cosa sono quei capelli, non ha un parrucchiere di fiducia? E quei colori del tailleur, che accozzaglia!”

    Io non sono una ragazza ma nemmeno mia nonna, che era maestra, avrebbe ragionato o sragionato così. Non ne parliamo nemmeno di mia mamma, che aveva un alto concetto della dignità della donna. Eppure questa incredibile opposizione è giunta a sorpresa da Natalia Aspesi, una illustre giornalista anche lei candidabile, pur oltre la novantina, una stimata collega, un modello per tante di noi, una che è stata ed è alfiere dei diritti delle donne, che si è battuta e ancora si batte per l’emancipazione, udite udite, della donna. Adesso, chissà come mai, ha voltato giacchetta e ha firmato un fondo che non sembra nemmeno scritto da lei, che ha lasciato me e non solo me, basita.

    Ma siamo alle solite, per le donne ogni volta è come ballare il valzer: un giro per il progresso, un altro per il regresso, come suonare la fisarmonica, allargamento, restringimento, espirazione, inspirazione; un passo avanti e due indietro e mai, mai un reale progresso. In Francia, dove si voterà per le presidenziali ad aprile, la candidatura di una donna è presa sul serio, mica tanto per fare come da noi. Poi, cara la mia giornalista, come può proprio una giornalista preoccuparsi del pettegolezzo? Le “ciacole” goldoniane sono alla base della democrazia, ne sono il sale, l’essenza, anche di un presidente si può e si deve dire tutto, spettegolare vuol dire non avere censure. E i pettegolezzi li fanno anche gli uomini sui loro colleghi, tranquilla. Piuttosto, come ha scritto su “Domani” Rino Formica, un paese che fa un solo nome per candidarlo a tutto, dal governo al Colle, e cioè Mario Draghi, è un Paese finito.

    Voglio tornare sul tema donna, perché è davvero dirimente: a Capodanno, in piazza Duomo a Milano, almeno nove donne, ma anche di più, sono state assalite da un’orda di uomini che le hanno toccate pesantemente, spintonate, ferite, come accadde a Colonia nella stessa circostanza un po’ di anni fa. Si dà il caso poi che questo branco fosse composto in maggioranza di immigrati nordafricani, per cui la condanna è avvenuta sì ma cautamente, perché non fosse confusa col razzismo. Tra le ragazze assalite c’erano delle turiste che non hanno trovato nemmeno un poliziotto che le capisse, e in genere sono state invitate a soprassedere, il che ha fatto scattare ancor più la denuncia, sia pur tardiva. E’ successo a Milano, in pieno centro. Di notte, un periodo del giorno in cui la donna è sempre in pericolo, si sente sempre una cittadina di serie B. A Napoli un fuori di testa, notizia di oggi, prende a schiaffi le passanti, a casaccio. Non si contano poi i femminicidi, da noi, quasi tutti effettuati in ambito familiare, senza contare i bambini uccisi da squilibrati che per questo, per essere stati riconosciuti come folli fuori controllo e tuttavia non incarcerati, sono lasciati dalle loro donne (ultimo il caso del povero settenne a Varese). Direi che abbiamo un problema. E che l’elezione a rappresentante di tutti noi, di una donna, sarebbe un bel segnale.

    P.S. Oggi a Wikiradio, preziosa trasmissione di Rairadiotre, Marco Ansaldo ha parlato di Clare Hollingworth, una giornalista e scrittrice inglese, morta nel 2017 a 105 anni, che per prima dette la notizia, inviata in Polonia, dello scoppio della seconda guerra mondiale. Non ne avevo mai sentito parlare, colpa mia, almeno da vaghi ricordi dell’esame di stato per diventare giornalista avrei dovuto conoscerla, e invece niente. Così, sfoglio non Wikipedia, dove c’è tutto su di lei, ma il mio vecchio Dizionario enciclopedico Utet a cui ancora, obsoleta, mi rivolgo: niente, neppure una riga, eppure la Hollingworth era nata nel 1911. E’ inutile, la storia la scrivono i vincitori e i vincitori rischiano di essere i veri soli elettori dei loro simili, ovvero uomini come presidenti di tutti.
     

  • E RITORNA LA FILOSOFIA
    NELLA FICTION E IN RADIO

    data: 05/01/2022 15:50

    “Che ci sia ognun lo dice cosa sia nessun lo sa” è solo una battuta da liceali svogliati applicata a una materia di studio fra le più importanti. La filosofia, infatti, è l’antesignana della psicologia e studiarla vale tanto quanto leggere l’opera omnia di Freud. Inoltre, ultimamente, anche grazie ai mass media sta acquistando nuovo fascino. Che a farsene portavoce sia stato Alessandro Gassmann, ovvero il professor Dante Balestra, in uno sceneggiato tv di ben nove puntate, andate in onda su Raiuno (uno dei ricordi migliori del 2021, recuperabile su Raiplay) non può che aver accresciuto l’interesse per questa materia. In realtà il serial, sceneggiato da una garanzia della sceneggiatura italiana come Sandro Petraglia, Valentina Gaddi, Sebastiano Melloni e Fidel Signorile, è un rifacimento della serie spagnola Martì che, assicurano coloro che l’hanno vista, va molto più a fondo nelle tematiche affrontate, in primis quella dell’omosessualità del figlio del professore, Simone.

    Ma anche così, seguendo una classe di un liceo romano, in verità molto sgarrupato (muri scrostati e lavagne antidiluviane), funziona molto bene e soprattutto il professore porta i suoi alunni fuori dall’edificio scolastico. E se tutt’intorno c’è Roma, che vuoi di più? Il Colosseo come sfondo delle lezioni ha sempre un suo innegabile fascino. Ma non si tratta solo di questo. I personaggi sono tratteggiati tutti benissimo, dal professore di latino che s’innamora della madre di Dante - attrice di fama, Bessegato-Engleberth sono una coppia inedita per la tv (anche se lei era nel cast del “Paradiso delle signore” come zia di Stefania Colombo) ma collaudatissima sulle scene - ai giovani tutti bravi, un po’ alla “Compagnia del cigno” (altra serie di successo), oltre ai due antagonisti, Simone e Manuel che hanno a che fare con la malavita della Roma di mezzo, di quel sottobosco che inquieta una capitale sull’orlo della deriva mafiosa. Ma a vigilare sui giovani ci sono gli adulti, tra cui anche Anita, madre di Manuel, una Claudia Pandolfi particolarmente in parte. Per ogni puntata, un filo conduttore: il professore scrive (col gesso!) sulla lavagna il nome di un filosofo, Debord o Stuart Mills e ne dà cenni essenziali, in modo da riportare la morale delle varie vicissitudini alla teoria filosofica da lui elaborata. Si spazia così dalla società dello spettacolo all’influenza dell’ambiente sullo sviluppo personale. Inverosimile è parso solo il punto tragico che segna la vita di Simone, il quale aveva un fratello gemello scomparso a soli due anni per un male inesorabile, e di cui non conserva alcun ricordo. Ma nemmeno una fotografia da vedere? E il padre filosofo, o la madre studiosa emigrata in Scozia, non hanno mai avuto modo di parlargliene? E la nonna attrice, anche nella fiction, abituata al racconto? Forse nella seconda stagione, che il bravo regista Alessandro D’Alatri ha già annunciato, per la gioia dei fan del “Professore”, si scioglieranno anche questi nodi.

    Ma non finisce qui. La filosofia, infatti, fa da filo conduttore anche di un nuovo programma radiofonico che va in onda la domenica mattina, dalle 10.15 alle 10.45 su Rairadiotre, che s’intitola “Zarathustra” ed è condotto da Pietro Del Soldà (giornalista d’inchiesta da “Radio anch’io” a “Tutta la città ne parla”) e Ilaria Gaspari, filosofa. E’ molto interessante scoprire che attualmente ci sono giovani filosofe interpellate per i più svariati motivi, in genere dopo che hanno scritto un manuale di auto-aiuto imperniato sul pensiero dei classici. Era ora! Basta con le criminologhe, avanti le filosofe. Ebbene, il pubblico è chiamato a partecipare attivamente a questo programma. Infatti basta scrivere a radiotre@rai.it ed esporre il proprio caso, come ha fatto la torinese Clara, maestra elementare in pensione, pensionata, la quale è stata aiutata da uno psicoanalista ottantenne a superare la crisi derivatole dalla fine del suo secondo matrimonio, un legame che lei credeva fosse per sempre e che non si sarebbe mai spezzato. Clara parla in prima persona e a commentare ci sono appunto Del Soldà e Gaspari che si sono soffermati, come del resto la stessa Clara, sul concetto d’impermanenza che caratterizza la vita di ogni persona. Da Eraclito, col suo accorsato “Panta rei” all’imperatore stoico Marc’Aurelio, autore di ben 12 volumi di "Colloqui con se stesso" al cantautore Niccolò Fabi, si è sviscerato il problema concludendo con un paradosso tanto triste quanto effettivo: ogni frase che contiene la parola ‘sempre’ è sempre falsa. Clara lo ha imparato in Nepal, dov’è andata a smaltire la cocente delusione d’amore.

    Un programma interessante, tanto quanto lo erano le testimonianze di vita riportate su Rairadiotre in programmi come “Sconosciuti”, quando si riassumeva la vita di persone qualsiasi (tra le quali una volta ho riconosciuto pure un mio vicino di casa) o “Non ho l’età”, su coppie formatesi in zona Cesarini, tristemente ma anche (e non è una contraddizione) con entusiasmo insperato. Storie filosofiche, perché la filosofia riflette sulla vita ed è una pratica accessibile a tutti. Basta non pensare a quello stupido detto...
     

  • "QUARTIERE LIBERTA'"
    PER BEPPE LOPEZ E' COME
    MACONDO PER MARQUEZ

    data: 10/12/2021 15:45

    Un cofanetto che racchiude tre romanzi di Beppe Lopez sotto il titolo “Quartiere Libertà”. E' l’originale e opportuna strenna natalizia che l’editore neretino BesaMuci ha predisposto in onore dello scrittore barese di nascita e formazione, e romano d’adozione. (La trilogia sarà presentata domani, sabato 11, alle 18, nel Museo civico di Bari). Il titolo si riferisce al rione di Bari che fa da sfondo pulsante sia a  “Capatosta”, folgorante esordio del narratore Lopez - dopo mezzo secolo di giornalismo - all’inizio di questo millennio, sia alla “Scordanza”, una sorta di memoria personale e realtà romanzata, sia  all’ultimo romanzo in ordine di tempo, “Capibranco”.

    La straordinarietà di questa saga sta nella fusione perfetta tra cronaca di un’epoca e rielaborazione letteraria di incontri, personaggi, avventure che prendono le mosse da una piccola strada del rione Libertà, via Mirenghi, laddove ha origine la storia di ‘Iangiuasand’, la “capatosta” che attraversa la vita tra miserie e ascese, cadute e riprese.Fulminante l'incipit: una povera bambina che, appena nata e già orfana, viene fasciata di nero. Un’immagine che colpisce come un pugno allo stomaco. Intorno a lei si agitano e vivono altre storie, spesso tragiche, una miriade di personaggi, come l’indimenticabile Marisabella dalla sorte nefasta, simbolo di una condizione femminile davvero ingiusta e crudele, che travalica la lotta di classe (e di genere). Tra pescherie e puzzolenti retrobotteghe, sartorie e modesti sottani alla strada, si snoda la storia di un quartiere senza storia e senza idea di futuro, né città né campagna, né contadino né operaio. Passeranno decenni prima che qualcuno diventi piccolo-borghese e qualcun altro sottoproletario.

    Nella "Scordanza", capita che un giovane nato al Libertà abbia la fissa dei giornali e ne accumuli così tanti da riempire una stanza fino al soffitto, aspirando a diventare giornalista. E' determinato sin dall’adolescenza a fare della scrittura la sua stella polare (sembra proprio l'autobiografia di Lopez). Perciò non gli resta che fuggire, andarsene a Roma, ma senza mai scordare da dove viene, soprattutto senza mai scordare quel dialetto, la lingua madre, che nella sua rielaborazione diventerà una lingua autonoma, un idioletto come venne subito chiamato mentre avveniva l'exploit del siciliano di Camilleri. "Un impasto di italiano e dialetto piacevole e forte come in Camilleri, forse di più”, come capiterà di scrivere a Corrado Augias. Il ragazzo si sottrae dunque al destino di piccolo-borghese o sottoproletario, diventa giornalista a sedici anni e, bruciando tutte le tappe e acculturandosi da solo con una passione vibrante per la politica e il sapere in genere, arriva a dirigere giornali... Niudd - questo il suo nome - viene travolto in un turbinio di esperienze, di passioni, di amori che lo portano ad allontanarsi da una tranquilla vita coniugale e da una figlia, poi ritrovata e persa nel modo più atroce. Sono pagine che scottano, queste, intrise di dolore...

    E vanno avanti i protagonisti della trilogia, con la tenacia e la grinta dei “Capibranco”, due fratelli, avvocati stavolta (non c’è autobiografia qui, ma analogie sì), divisi da dieci anni per nascita ma molto simili nel carattere e nella voglia di riscatto, di farcela anche a scapito di rapporti personali che fanno le spese del successo inseguito e alla fine raggiunto. A quale prezzo? Per saperlo bisogna immergersi nella prosa di Beppe Lopez che non smette di analizzare, con fine acume psicologico, con quella saggezza da accorsato romanziere (vien da pensare ai classici russi) le alterne vicende di caratteri particolari, maschi alfa per dirla alla Lorenz, troppo simili per andare d’accordo e troppo legati per separarsi davvero.

    Alla base della narrazione c’è Bari, non come radici stantie o museali (Lopez si rifà spesso a una famosa massima di Gustav Mahler, per cui “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”) ma come luogo dell’anima, quello da cui si riceve l’imprinting, una città che si porta sempre con sé, che ti resta dentro, come l’Alessandria per Kavafis. E come tutti i baresi, Lopez ha interiorizzato il suono di questa città levantina e sbrigativa, efficiente e sgarbata, accogliente ma anche scontrosa. Non un dialetto stretto, difficile anche da trascrivere, ma una sorta di volgare barese rielaborato da Lopez, così come fece Dante col volgare toscano assurto grazie a lui a lingua nazionale.

    Un paragone non azzardato perché, nel "Quartiere Libertà", inferno, purgatorio e paradiso ci sono tutti in un miscuglio di sentimenti impareggiabile. La nostalgia, il dolore, la gioia, l’amore, il ritorno, la fuga, l’ambizione, il ricordo, il progetto, nel mondo di Lopez rifulgono con una prosa mai esitante, sincera, tranchant ed emozionante sempre. Quartiere Libertà è la Macondo di Lopez, un luogo che esiste, nella realtà c’è, è un quartiere ricco di storie che lui ricostruisce a suo modo e sa rappresentarlo agli occhi di ogni suo lettore con tocchi di universale.

  • ABUSATE DAL GINECOLOGO,
    SPENNATO DA TRUFFATRICI:
    QUANTI CREDULONI...

    data: 04/12/2021 18:08

    E’ possibile, nell’anno di grazia 2021, ma anche in generale se è per questo, fidarsi di un ginecologo che ti espone un metodo quanto meno insolito per guarire da un virus? Evidentemente no, rischiano di fare la figura delle imbecilli, delle credulone, tutte quelle donne che, rivoltesi al dottor Giovanni Miniello - 68 anni, sposato con figlie, ginecologo accademico a Bari con studio in via Sparano, la via principale della città, con alle spalle anni di lavoro al Policlinico cittadino, pubblicazioni scientifiche da lui decantate e che gli hanno comunque valso il titolo universitario - si sono sentite rivolgere proposte decisamente indecenti. Ovvero che sarebbero state bonificate da un temibile virus, il papilloma, che rischia di trasformarsi in tumore, “semplicemente” avendo rapporti sessuali con il medico stesso, vaccinato contro la patologia in questione, peraltro da lui diagnosticata.

    Una donna si è giustamente insospettita dopo la visita, si è rivolta a una ginecologa e così ha scoperto non solo di non avere il virus ma che la terapia prospettatale non ha alcun fondamento scientifico. Una donna sola ha avuto il coraggio di metterci la faccia e di denunciare il fattaccio non alla magistratura ma, come sempre più spesso accade ormai, alle Iene, il noto programma di giornalismo di attacco di Mediaset. Da quella denuncia ne sono scaturite molte altre, fino ad arrivare al provvedimento della magistratura.

    Così il dottor Miniello è stato arrestato (ai domiciliari) con l’accusa di violenza sessuale. Giustissimo perché non solo ha carpito la fiducia delle sue pazienti ma le ha colpite nella salute, prospettando un futuro di operazioni e di malattie incurabili, se solo non avessero fatto ciò che lui suggeriva loro. Molte hanno parlato alle Iene: si sono sentite colpevoli, nude anche se erano vestite, umiliate nella loro condizione di donne, di fronte a questo “accademico” che le trattava come delle perfette imbecilli. Una si è presentata alla visita col fidanzato a cui è stato proposto di vedere, assistere… Altro che pacche sul sedere, sia pur condannabili pure quelle. Non solo, nell’ambiente medico il soggetto era ben conosciuto, si rideva alle sue spalle e lo si citava come se fosse un tipo strambo sì, ma tutto sommato non da esecrare: nessuno che abbia mai messo in dubbio il suo valore di accademico, anche se i soprannomi che ora circolano sulla stampa internazionale, da “flusso magico” a “uccello di padre Pio”, probabilmente erano gli stessi che già avevano libero corso tra i suoi colleghi.

    Del resto, il dottore si spacciava anche per scrittore, autore di romanzi in classifica mondiale, a suo dire, dal titolo: “Aveva le unghie laccate” o “Mela dava pera more”.

    Sembra incredibile che, di questi tempi, in cui basta un’occhiata veloce al proprio smartphone per distinguere la verità da una bugia, ci sia gente che si lasci abbindolare in questo modo, perché non è dato sapere in quante ci siano cascate. Ma, ascoltandolo, come le Iene ha fatto in diretta, si capisce che il dottor Miniello, col suo modo di fare amichevole, tendeva a rassicurare donne disperate per aver perso la propria salute, incapaci d’intendere in quel momento, il che, oltre alla violenza, fa pensare alla circonvenzione.

    Si può a questo punto pensare che le donne siano le solite vittime di malintenzionati ma siccome il mondo della Notizia non fa distinzioni fra i sessi ed è sintonizzato sull’orologio del tempismo, ce n’è anche per i maschi.

    Un giocatore di pallavolo lombardo, Roberto Cazzaniga, ora quarantaduenne, che ha giocato per anni a Gioia del Colle (vicino a Bari guarda caso) ha creduto e affermato per ben 15 anniu, ai quattro venti di essere fidanzato con una bellissima ragazza brasiliana, Maya, per ben 15 anni, però mai vista se non in foto (instragram, fb e chat). In questo lungo periodo di tempo, il giocatore s’è giocato un patrimonio – 700mila euro – a favore della fantomatica Maya, ma in realtà devolvendo il denaro a due sue “amiche” che hanno messo in piedi questa storia che non esiste. Finché i suoi amici – stanchi di sentirsi chiedere soldi per la fidanzata che aveva sempre a che fare con questioni di salute (come si abbocca a questa scusa, è davvero pazzesco) - si sono rivolti, ancora una volta, alle Iene che in poche ore hanno smascherato la megatruffa sentimentale. E hanno intervistato sia l’amica, Emanuela Passero, fidanzata con un carabiniere, che ha negato di conoscere Cazzaniga, sia colei che materialmente gestiva le telefonate, le chat e tutta la storia immaginaria e che si sarebbe spartita con l’altra i proventi di questa proficua truffa ai danni di un innamorato irragionevole, a dir poco. Si tratta di Valeria Satta, che adesso è sparita dalla sua casa in Sardegna e che nega ovviamente di aver ricevuto dei soldi da Cazzaniga che afferma di non conoscere, esattamente come l’altra che pure è fotografata insieme a lui.

    Questa Maya poi aveva le fattezze di Alessandra Ambrosio, famosissima e reale, lei sì, modella brasiliana. Ma è credibile che il truffato non l’abbia mai vista? Come ha potuto credere, tra le altre cose, all’esistenza di una sua sosia? Il mondo della Notizia è davvero incredibile e c’è chi vive già da tempo nel metaverso ipotizzato da Zuckerberg.
     

  • SEGRETI DI VITA FAMILIARE
    SVELATI DA CHIL'HAVISTO?

    data: 22/11/2021 16:06

    “Cara Federica, ti ho sempre stimato ma se non mi dai il nome di questa persona che mi ha calunniata non vedo più il programma”: tutto in diretta, com’è prassi da anni di “Chi l’ha visto?”, una formidabile fucina di storie da cui si trae uno spaccato della provincia profonda italiana davvero inquietante. Il 31 ottobre si allontana da Pontecagnano Faiano, un centro di oltre 25mila abitanti in provincia di Salerno, Filomena Toriello, 45 anni, dunque ben più che maggiorenne, la quale è separata e vive con la madre e il figlio di 15 anni. L’allontanamento pare sia dovuto a una discussione su una bici ma dal primo collegamento non si evince questo: infatti la famiglia Toriello, schierata al completo (escluso il minorenne) davanti alla telecamera come fosse un gruppo di consanguinei che fila d’amore e d’accordo, con le altre due sorelle, i cognati e il padre, rivolge un appello a Filomena che forse è scappata con un calabrese, liberissima per carità di farlo ma non senza far sapere nulla in casa, perché, spiega la sorella, Filomena sta attraversando un brutto momento, è debole psicologicamente (qualunque cosa ciò voglia significare).

    Intanto però, nel corso della trasmissione, arriva quello che l’attenta Sciarelli definisce un “brutto messaggio”: un anonimo scrive che è la madre a maltrattare la figlia e che questo è il vero motivo dell’allontanamento. La madre, fino a quel momento fan della Sciarelli, reagisce molto male, ed evidentemente il ricorso alla trasmissione si trasforma per lei in un boomerang.

    Passano i giorni, nella puntata successiva si sa che la donna è tornata a casa, e si comincia il servizio al riguardo con l’intervistare il padre che ammette che la moglie ha un brutto carattere, infatti lui “per motivi di lavoro”, dice, abita in un’altra casa dove Filomena può raggiungerlo se non si trova bene con la madre. Allora l’inviatata di “Chi l’ha visto?”, Dina Lauricella, una giornalista che ha fatto parte della squadra di Santoro, una siciliana che ha intervistato pericolosi mafiosi e ha scritto libri sulla ‘ndrangheta e di nera in genere, va nella casa da dov’era stato lanciato, toto corde, il primo appello. Viene cacciata via in malo modo, proprio dalla signora Toriello che aveva inizialmente chiamato il programma ma che ora, godendo per dir così di una pessima fama, minaccia tuoni e fulmini e rifiuta di rispondere e pure di farsi vedere.

    Anche una sorella della rientrata, che si avvicina in auto, vuol chiamare i carabinieri: ma come, prima avete accettato di pubblicizzare questa fuga (potevate andare subito dai carabinieri) e poi vi rifiutate? Di conseguenza la giornalista, come del resto gli attoniti spettatori, nutre più di un dubbio sulla serenità del rientro: “Vogliamo solo sapere se Filomena sta bene”… ”Sta bene - risponde la madre inviperita - sta meglio di voi…”. Ah sì?”, replica la giornalista, “e ce lo faccia dire da lei, perché non può dirlo Filomena stessa?”. Allora la sorella, che nel frattempo è entrata in casa (di nascosto dalla Lauricella). fa comparire velocemente Filomena a un balcone spiegando che non può fare di più (Filomena saluta, ha la testa coperta da una sciarpa di lana, come se fosse appunto malata), non può stare oltre perché è influenzata e pregando la giornalista di andarsene. Insomma “Chi l’ha visto?”, che appena una settimana prima si rivelava molto utile nella ricerca della scappata di casa, viene respinto a parolacce. E’ logico che questa scena sia finita su Blob.

    Si diceva dello spaccato di vita, non solo in provincia: queste donne che spariscono, che vanno via di casa, spesso sono senza lavoro. Anche se lavorano, sono sottoposte a terribili vessazioni o lo fanno (come del resto gli uomini) in condizioni di sicurezza precarie. Non ci sono stati solo i femminicidi ma anche tante, tanti sono caduti, quest’anno, sul posto di lavoro.

    Sull’ultimo Espresso c’è un’inchiesta che spiega come “i ricatti e le molestie sul lavoro, cioè quei comportamenti indesiderati che hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità delle lavoratrici e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, si verificano maggiormente nei centri delle aree metropolitane e nei comuni con oltre 50mila abitanti”. Insomma, pare non ci sia scampo: alla base della libertà c’è l’autonomia economica, questo è indiscusso, ma se non si trova lavoro, allora non resta che tornare a vivere tutti sotto lo stesso tetto. In famiglia, anche se si tratta di una famiglia che non sa andare d’accordo. Come “Chi l’ha visto?” spesso dimostra, al di là delle apparenze.
     

  • MILLE MILIARDI DI ALBERI:
    PIANTARLI SUBITO
    SI PUO', SI DEVE

    data: 10/11/2021 21:18

    Una proposta concreta, un rimedio semplice per contrastare il surriscaldamento del pianeta: piantare subito 1000 miliardi di alberi. Può sembrare un’esagerazione ma non lo è per nulla e Stefano Mancuso, biologo ed etologo di fama internazionale, lo va ripetendo da molto prima che lo indicasse il G20 di Roma, appena concluso. Mancuso lo rispiega sulla Repubblica (pag. 34 nel numero di mercoledì 10 novembre) in un articolo in cui spiega che lo spazio per queste nuove piante c’è eccome e del resto basterebbe ridurre la terra utilizzata per l’allevamento del bestiame, che occupa oggi il 77% delle terre agricole: “Una superficie di circa 40 milioni di chilometri quadrati, quattro volte l’area degli Usa, mentre soltanto il 23 per cento è destinato alla produzione di alimenti vegetali”.

    L’alimentazione a base di carne è stato dimostrato che non è salutare, oltre che eticamente orribile: i macelli sono dei luoghi che qualsiasi civiltà dovrebbe abolire se si vuol chiamare “civiltà”. Si disboscano intere foreste (senza fare per forza riferimento all’amazzonica, depredata per far spazio alle mandrie da trasformare in bistecche e hamburger) e basta fare riferimento alla propria città per accorgersi che c’è molto da cambiare.

    Nella mia, per esempio, Bari, non molti anni fa il centro abitato era circondato da una fascia consistente di orti, che fornivano la base della tanto decantata, e a ragione, dieta mediterranea: insalate, finocchi, rape, pomodori, zucchine, tutto a chilometro zero. Ora invece acquisto delle noci al supermercato e mi accorgo che provengono dal Cile (e immagino quanto inquinamento per trasportarle fin qui), quando il noce, come dimostra lo splendido racconto di fra Galdino che Manzoni inserisce nei Promessi sposi, fa parte del nostro panorama. O forse faceva parte, visto che, per restare sempre a Bari, si prorogano i piani casa, ovvero si dà spazio a nuove licenze edilizie per costruire palazzoni che non si capisce come vengano tutti abitati, in quella stessa periferia “una volta tutta campagna”. Si tratta di edifici tirati su senza parchi, senza vie di comunicazione, senza pensare che sono proprio gli alberi a consentirci di respirare. E in provincia di Bari c’è persino un paese che si chiama Noci, che evidentemente ha perso la sua caratteristica principale, di fornitore del prezioso frutto.

    Sostiene ancora Mancuso che piantando alberi “si avrebbe l’indubbio vantaggio di limitare le emissioni di anidride carbonica prodotte dagli allevamenti animali che al momento – lo ricorda la Fao – ammontano al 14,5% di tutte le emissioni antropogeniche”.

    Si obietta inoltre che per piantare tanti alberi occorre molto lavoro: che scoperta, obietta Mancuso. Ma certo, aggiungo io ed è un bene: sempre meglio che mandare in giro operai comunali per lavori socialmente inutili, come togliere con un aggeggio rumorosissimo e scatarrante gas le cosiddette “erbacce” che non fanno altro che abbellire le strade. Altro che estirparle. Anzi, tante volte con i semi dei pomodori della focaccia buttata via, nascono a volte delle piantine piene di invitanti bacche rosse.

    Si obietta infine che non servirebbe piantare mille miliardi di alberi se non si proteggono le foreste esistenti. A parte il fatto che i boschi ogni estate vengono presi di mira da piromani più o meno interessati, Mancuso replica: “Che c’entra? Non ne ho idea”. E’ la famosa tattica del benaltrismo.

    Dunque, ben vengano nuovi alberi. Lo spiega anche un delizioso libretto edito dal Saggiatore: “Piccolo manuale illustrato per cercatori di foglie” (152 pagg., 15 euro, con illustrazioni di Sofia Paravicini e spazio per raccogliere le foglie, si tratta di un erbario infatti). I testi, avvincenti, sono di Giuseppe Zani. Nell’introduzione Zani spiega, per chi ancora non lo avesse capito, l’importanza degli alberi e delle loro foglie: “Sebbene all’apparenza umili e passive, le foglie sono però la sede della tecnologia forse più evoluta del pianeta Terra, di certo la più utile: la fotosintesi clorofilliana. Dentro la foglia, le piante catturano l’anidride carbonica e, con l’energia chimica del sole, la trasformano in carboidrati, liberando ossigeno in abbondanza per tutti. Quando finalmente cadono a terra, le foglie finiscono per decomporsi, regalando ancora una volta al ciclo della vita le sostanze organiche che hanno saputo sintetizzare (…) La vita sul pianeta Terra, mattone dopo mattone, è fatta di carbonio, e il carbonio è messo a disposizione dal silenzioso lavorio delle foglie: la luce delle stelle e la materia del cosmo si trasformano in vita attraversando le foglie e sono loro, insieme ad alghe e batteri, ad aver fatto avanzare la vita fuori dall’acqua, generando un ambiente che gli altri organismi hanno potuto abitare. Potremmo quindi pensare alla comparsa delle foglie nello stesso modo in cui pensiamo al Big Bang o ai miti sulla creazione: le foglie sono un’origine”. (pag. 10). Quindi si passa ai ritratti degli alberi presi in considerazione per il “foliage”: acero, ailanto, albicocco, betulla, biancospino, castagno, ciliegio (con l’indispensabile accenno all’hanami, quando il Giappone si ferma ad ammirarne la fioritura, “quanto di più simile al paradiso occidentale sia stato creato sul nostro pianeta, pur esprimendo l’esatto contrario di ciò che il paradiso dovrebbe garantire: l’eternità”, pag. 57), faggio, fico, frassino, ginkgo (albero magnifico, primitivo), limone, melo, noce, pioppo, platano (quanti ce ne sono a Roma, lungo il Tevere), quercia, salice, siliquastro, ulivo. Tanto per cominciare, ché l’elenco è lungo, ma la passione per gli alberi può benissimo iniziare di qui.
     

  • DECORO PER ORDINANZA?
    MA L'ABITO
    NON FA IL MONACO

    data: 07/11/2021 15:00

    “E’ fatto divieto a chiunque di mantenere un abbigliamento indecoroso e indecente in relazione al luogo ovvero mostrare nudità, ingenerando la convinzione di esercitare la prostituzione”. E’ una parte dell’incredibile ordinanza emessa nei giorni scorsi dal sindaco leghista di Terni, Leonardo Latini. In poche righe, un cumulo di luoghi comuni. L’abito fa il monaco, resta il detto più inossidabile al passare dei tempi. Un’ordinanza del genere però va oltre quel detto, perché insinua nella gente – la vecchia piccola borghesia di lolliana memoria – che un modo di vestirsi insolito e che mostra parti di corpo, questo sconosciuto e per tanti versi odiato corpo, sia automaticamente da abbinare alla prostituzione.

    “Ingenerando la convinzione”, in chi e perché? Davvero questa ossessione per il vestimento e il travestimento, ogni tanto si ripropone, come nelle ordinanze dei presidi e delle presidi, che indulgono su ombelichi in vista e jeans strappati o a vita bassa, per non parlare della “famigerata”, ancor oggi a considerare certe frasi, minigonna.

    Nel caso di Terni, di quell’ordinanza dal tono didattico, non si fa cenno al sesso, si legge che “è fatto divieto a chiunque” ma è un fatto che l’abbigliamento maschile sia ancora molto più limitato di quello femminile. Non si vedono comunemente uomini con la gonna come donne coi pantaloni, sebbene siano adesso frequenti per lui completi di ogni colore e smalto colorato alle unghie. Anche se chi lo fa, come Fedez nel suo ultimo video “Morire morire” - sconvolgente (e per tanti versi incomprensibile, se non con la condanna della violenza che pure mostra) -, rischia la vita, finendo colpito da un prete. E da un sindaco, come si vede anche in una sequenza forte, accomunate queste due figure da un potere censorio che l’ordinanza del sindaco di Terni sembra confermare con uno straordinario tempismo, coincidendo con il video di Fedez. Anche se Fedez, nel testo di questa canzone, ce l’ha pure con una ragazza dispotica nei suoi confronti. Inoltre, qualche sindaco non l’ha presa bene.

    E chi dovrebbe poi controllare? Un vigile urbano? In base a quale criterio? “Lei, signora, è vestita come una prostituta, la multiamo”. E' assurda anche solo pensarla questa scena, oltre che individuare per prostitute e trans una sorta di divisa. D’accordo la critica, eh: ma non collegata a una categoria professionale o altro e certamente non sancita per legge. Ognuno può giudicare, ci mancherebbe, il modo di apparire di un altro ma non certo sindacarlo. Il sindaco si è difeso dicendo che un’ordinanza simile era stata già emessa a Rimini (a guida Pd) senza che nessuno avesse da obiettare e che non si tratta certo di minigonne o scollature ma di ben altro, che quindi è la prostituzione nel mirino (peraltro sempre o quasi accettata dalla parte dei fruitori).

    Eppure, l’Italia non è nuova a questi ostracismi: viene in mente Oscar Luigi Scalfaro, poi presidente della Repubblica, che prese a schiaffi una signora che a teatro aveva una scollatura da lui giudicata eccessiva. Altri tempi.

    Parere personale, non per questo estensibile a tutta la società. Ed ecco che il sindaco di Terni, un 47enne laureato in giurisprudenza, rientra nel filone del malcostume censorio.

     

    “Se ti cade l’occhio non è colpa mia”, avevano scritto le ragazze di un liceo di Roma quando la preside (e sottolineo la) le aveva redarguite per il fatto che la gonna troppo corta potesse distrarre i professori addirittura, i quali dovrebbero essere abituati alla successione delle mode.

    Una volta assistetti a un sermone da parte di un superiore a un apprendista che aveva un orecchino: “Sai, quando andrai in giro non potrai farti vedere così”. Mi sembrò un monito di una rigidità degna di epoca vittoriana, che fu poi smentito dal fatto che ora l’orecchino è assolutamente sdoganato come dovrebbe essere tutto ciò che riguarda l’abbigliamento perché l’abito fa il monaco, è vero, ma fa anche il censore.

    E poi tutti hanno pensato alla gonna. Dunque alla donna, sempre soggetta a censura, come in quei ristoranti dove, nel menu porto a lei, non ci sono i prezzi. Il che dovrebbe indurre a far tornare l’uomo a una galanteria scomparsa, ma è anche un chiaro segnale dei tempi: le donne lavorano sempre meno e dunque non hanno soldi.
     

  • A PROPOSITO
    DELLE DONNE INSICURE
    DEL PROF. BARBERO

    data: 22/10/2021 14:59

    Donne insicure e poco spavalde, ecco perché non fanno carriera. Il professor Barbero, che ha tutta la mia stima – premetto - per aver trattato temi storici in maniera eccellente, spesso su Raistoria ma anche su altri canali Rai, non la ha invece come comunicatore. Per me, è per sguaiatezza la Venier del piccolo schermo “storico”: gesticola troppo, ride senza motivo, accentua la sua cadenza piemontese, mi meraviglio non sia stato ancora preso di mira dai comici come Alberto Angela immortalato da Neri Marcorè. Ma buca lo schermo, come la Venier, non è esente da modi gentili e dunque è adattissimo alla tv, e personalmente lo preferisco a Paolo Mieli secondo il quale la storia si condensa nel confronto fra i due dittatori nazifascisti del secolo scorso di cui trasmette i filmati a ripetizione (e spesso senza commenti).
    Fatta questa premessa, la sua affermazione la trovo decisamente sbagliata, non solo per le donne ma anche per gli uomini. Ingiusta, ma un fondo di verità c’è: le donne per tenersi il posto di lavoro sono sottoposte a maggiori vessazioni e non si ribellano come dovrebbero. E non parliamo poi di dirigenti, ce ne sono ancora pochissime.
    Dunque per fare carriera, trovare lavoro, ecc. secondo Barbero ma anche secondo il pensiero corrente, bisogna essere sicuri e spavaldi. Non basta nemmeno restare in sottoveste, come hanno fatto l’altro giorno le hostess dell’Alitalia che fu, per protestare contro la perdita del loro posto di lavoro. No, evidentemente bisogna prevaricare, imporsi, superare con coraggio chissà quali prove.
    Ed ecco che questa prerogativa, che comunque non garantisce né carriera né maggior guadagno - perché una donna, come un uomo del resto, arrogante, viene spesso accompagnato alla porta - regna sovrana nel piccolo schermo.
    Si è mai vista una donna condurre da sola Sanremo? Interrogare con quiz i concorrenti? Avere un programma culturale tutto per sé a eccezione della sicura e spavalda Licia Troisi che conduce dal 2018 “Terza pagina”, forte del suo curriculum da novella Tolkien, programma che va in onda a ora tardissima con i suoi interlocutori fissi ovvero tre uomini e una donna?
    Stranamente invece, per le vittime di femminicidio, ovvero quel delitto particolare, ma purtroppo diffuso oggi, che vede uomini alle prese con ex che minacciano di lasciarli e loro per tutta risposta controminacciano definitivamente, uccidendole, in questi casi dunque ci sono gentili conduttrici che, agghindate di tutto punto, dal primo mattino (una per tutte, Federica Panicucci fino a Federica Sciarelli) stanno lì a sviscerare i misfatti più atroci. La cronaca nera, insomma, sembra sia appannaggio delle donne. Notato quante criminologhe appaiano recentemente in tv? Come mai sono in tante ad abbracciare questa professione? Manca una statistica, ma è curioso che a parlare di vittime donne siano delle esperte, quando forse sarebbe il caso che gli uomini analizzassero i comportamenti di loro simili.
    Il meccanismo sadico della competizione sul luogo di lavoro che tanto piace a Barbero (in Rai è così? vien da chiedersi) deve originare o viceversa, dal Grande fratello. O da Hobbes, homo homini lupus, non donna Barbero, non vorremmo imitarvi in questo.
    In principio ci fu Giochi senza frontiere, un programma in cui si facevano gare pazzesche imperniate sul pericolo più che sulla competizione sportiva, un po’ come quando le professoresse di ginnastica d’antan facevano saltare su quell’attrezzo della tortura denominato “cavallo”.
    Poi seguirono appunto i Grandi fratelli, le Isole dei famosi, giù giù fino ai Master chef e al Dinner club, tutti programmi in cui la competitività e lo scontro sono stimolati da un conduttore (o, in molti casi una conduttrice, anche qui bella e sorridente, anche quando non ci sarebbe niente da ridere, ma è un riso sadico appunto) che assiste dal comodo studio a esperimenti su cavie. Il sadismo sta appunto nel fatto che chi conduce il gioco se ne sta tranquillo esattamente come lo spettatore. Si arriva all’ultimo caso del Dinner club: sei famosi attori, alla guida di Carlo Cracco, celebre chef dal conto esagerato in Galleria a Milano, viaggiano per l’Italia con qualsiasi mezzo, mangiano, si divertono e li pagano pure, commenta il pubblico a casa.
    Un momento, non è tutto così pacifico. Si dirà, anche la vita è piena d’imprevisti, questi accettano di partecipare ma non sanno cosa li aspetta… Infatti, per vivacizzare il tutto e giustificare il fatto che li pagano pure, si ritrovano abbracciati a Cracco a fare il volo dell’angelo o ad attraversare un lungo ponte tibetano teso sull’abisso. E il tutto si trasforma in un carrozzone da Mangiafuoco: c’è divertimento ma c’è l’incubo dietro l’angolo. E che spavalderia, che audacia. Mette i brividi pensare che certi luoghi di lavoro diventano sempre meno sicuri, chissà se ispirati a questi programmi. Barbero deve aver assimilato tutto ciò. E ha parlato di conseguenza, osservando il mondo televisivo che lo circonda, e non solo quello catodico, a voler spaziare. Ha detto un’ovvietà.
    Anni fa seguivo un programma su Artè in cui una simpatica cuoca, pardon chef, riceveva in una busta gialla degli ordini e andava di luogo in luogo, sempre più ameno, a eseguire delle ricette che potevano essere ravioli o un ragù tipico del posto. Tutto bene finché un giorno ella ricevette l’ordine di uccidere un capriolo, di sparargli e di scuoiarlo. Inorridita, non seguii più quel programma, come in genere ho orrore di tutti questi esperimenti sadici.
    Non ho più seguito la Wiener ma scopro ora che è un’europarlamentare dei Verdi austriaci. Spero che i caprioli siano al sicuro.
     

  • FRANCESCO DEZIO
    CI SPIEGA "LA MECCANICA
    DEL DIVANO"

    data: 19/10/2021 15:44

    “Nicola Rubino è entrato in fabbrica” fu un caso letterario nell’ormai lontano 2004, ed è stato riedito recentemente da Feltrinelli. Non si trattò di un bagliore improvviso e passeggero: Francesco Dezio, infatti, ha continuato a fare lo scrittore e ora, a 50 anni, può a buon diritto iscriversi nel novero, putrroppo ristretto, degli autori che fanno del mondo del lavoro il fulcro della loro opera. Con un lessico decisamente più aggiornato di quello di Volponi o di Faulkner. E un uso consapevole del dialetto, che prende le mosse da “Capatosta”, il capolavoro di Beppe Lopez, uscito nel 2000, “che mi ha decisamente ispirato”. Il suo ultimo romanzo, “La meccanica del divano” (pagg.288, 15 euro), Francesco Dezio l’ha pubblicato con una piccola casa editrice romana, Ensemble, e lo ha presentato al trentatreesimo Salone del libro di Torino lunedì 18 ottobre, alle 16.30 alla sala 1, con Giuseppe Culicchia.

    E’ lì che lo raggiungo, al telefonino, poco prima della presentazione. Il brusio di sottofondo viene confermato dall’entusiasmo che traspare dalla voce di Dezio: “C’è una bellissima atmosfera, c’è vivacità, la gente è interessata. Il Salone in presenza si conferma un’occasione unica per gli scrittori, per tutto il mondo che gravita intorno al libro”. L’incontro andrà bene, Culicchia si è detto entusiasta del romanzo: “Ho cominciato a sottolineare e poi ho smesso perché avrei sottolineato ogni rigo: non ho trovato nulla in questo libro che non meritasse sottolineatura, è perfetto”.

    Dezio è scrittore a tutti gli effetti ma di formazione è un perito tecnico, ha lavorato come operaio alla catena di montaggio in diverse fabbriche con alterne mansioni, poi si è riciclato come disegnatore (non tecnico), illustratore per meglio dire, e adesso disegna copertine di libri: “Un’attività che mi gratifica molto”.

    Quei tempi stretti di fabbrica, quegli infiniti corsi di formazione, gli stage non pagati, che descrive nel suo primo libro, Dezio li ha provati tutti sulla sua pelle (“Madonna, non mi posso capacitare, non può essere che sia questo il lavoro. Non è possibile, non può essere che esistano mestieri così maledettamente monotoni”), ma mai smettendo di scrivere, scrivere comunque, a fine turno, di notte, sempre con in testa il prossimo libro, con le ricerche del linguaggio, da vero appassionato della letteratura perché questa è la sua autentica vocazione.

    Il lavoro è guadagnarsi il pane, ma è via via più difficile trovarlo: restando alla realtà attuale, il lavoro semplicemente non c’è. Spesso lo si perde e poi è molto difficile riacciuffarlo...

    “Ho assistito nelle agenzie interinali alla scena di sessantenni che andavano via piangendo perché gli dicevano: ‘Cosa state a fare qui? Vogliamo gente giovane, già formata, non ci servite, non vi fate più vedere’. E uno a quell’età cosa deve fare? La lotta è impari, non c’è nessuno che sia disposto a formare un dipendente che abbia oltre i 30 anni. Sei come una macchina, diventi presto obsoleto e vieni buttato via, espulso dal mondo produttivo. E’questo che non capiscono coloro che insistono sulla crisi da superare con il lavoro. Il lavoro ormai è un fantasma”.

    Già Nicola Rubino lo definiva “socialmente inutile”.

    ”Sì, certo, basta vedere ciò che è successo nella Murgia. C’è stato il famoso boom, all’inizio del secondo millennio. Tutti a far divani nel triangolo Altamura-Matera-Santeramo e non c’era una tradizione in questo senso, al massimo erano sellai. Poi, quando si sono delocalizzate le produzioni ed è arrivata la concorrenza cinese, il boom si è sgonfiato, all’incirca nel 2008, lasciando dietro di sé macerie di capannoni dove non si produce più niente, inquinando pure col poliuretano avanzato che è difficile da smaltire. In poco tempo si è passati da 500 a 40 salottifici e lo stesso pioniere si è barcamenato, è ricorso alla cassa integrazione, ha delocalizzato, ha subìto anche lui un contraccolpo”.

    Ed ecco “La meccanica del divano” che scaturisce dalla sua precedente opera, “La gente per bene”.

     “Di quel libro mi erano rimasti dei personaggi che sentivo avessero ancora un loro validità e quindi ho voluto rimetterli in gioco. La narrazione sorge dall’osservare i padroncini che hanno scimmiottato il grande iniziatore, da cui tutto ha preso le mosse, nascosto sotto lo pseudonimo di Natalino Manucci di Seduti&Seduti. Ho puntato l’obiettivo su coloro che, in barba a qualsiasi piano regolatore, hanno costellato la Murgia di capannoni poi diventati cattedrali nel deserto ma con nulla delle cattedrali. L’ho strutturato, il romanzo, come una tragedia greca, con tipi come la Vammana, la levatrice, dal forte impatto, che parla il linguaggio locale. E il mio Io l’ho frantumato in una serie di coreuti. Ci sono i Capallegra, gli Influencer, la Stampavversa, gli Spin doctor. C’è il Mercato, con cui i padroncini instaurano un fitto dialogo. Dal Mercato fatto personaggio, coreuta, essi sono stati imbrogliati, per loro si è fermato mentre il Capitalismo non si ferma mai, divora tutto, insaziabile. M’interessava tracciare un quadro composito di varie esperienze ma non un’analisi sociologica, che lascio ad altri. Il Virgilio in questo mondo si chiama, non a caso, Dezio, che spiega termini tipici della nostra lingua, come ‘ama’ fa’ u’ gibillero’ per dire ‘spacchiamo tutto’, una parola, gibillero, tipicamente barese, che risale addirittura a un antico editto papale emanato durante un giubileo”.

    Insomma Dezio come un novello Dante, grande innovatore della lingua italiana a partire dal suo fiorentino. E non è detto che presto uno dei suoi libri non diventi una “graphic novel”, una forma narrativa che sta prendendo sempre più piede.

    Dezio, che risiede sempre nella sua città, Altamura, non lo esclude. Intanto compone sulla pagina un mosaico perfettamente riuscito tra lingua italiana, che padroneggia e che parla senza intonazioni dialettali, e vernacolo.

    Nel romanzo ci sono anche molti brani comici...

    “... Di quella comicità che in realtà è crudele addirittura, come dice Pirandello. Ma non per deridere quel ceto medio, di cui anch’io faccio parte, ma proprio per smitizzare certe occasioni da realismo magico alla De Martino, come le processioni o i matrimoni che contengono sempre qualcosa di arcaico nonostante siano adattati ai tempi e quindi siano ultramoderni. Si va dall’apparolamento al giuramento, con un’evoluzione che non posso rivelare ma che stupirà, nel segno di un certo cinismo che mi caratterizza”.

    Ci sono pagine esilaranti anche su trasmissioni molto popolari come le sit com dell’Anonima Gr e di Toti e Tata.

    “Ho ritenuto fosse giunto il momento di citarle, le loro battute sono idiomatiche, classiche ormai. Così come mi piacciono le traslazioni che dei detti popolari fa Matteo Salvatore”.
     

  • L'intervista impossibile.
    CARLO PISACANE
    SULLA SPIGOLATRICE
    E SU SE STESSO

    data: 07/10/2021 18:09

    Carlo Pisacane, ha saputo della polemica che si è scatenata in questi giorni intorno alla statua che lo scultore locale Emanuele Stifano ha dedicato alla spigolatrice di Sapri, ritratta con i vestiti bagnati?
    "Quale statua? Quale spigolatrice? Non ne solo nulla… Ma quel giorno, il 30 giugno 1857, quando sbarcammo a Vibonati più che a Sapri (per via dei fondali, mi spiegarono) dal Cagliari, la nave che ci aveva messo a disposizione Adriano Lemmi, banchiere livornese, faceva molto caldo. Quindi è possibile che ci fossero bagnanti, si usava anche allora…".
    Sì, ma una spigolatrice che fa il bagno…
    "E perché no? Ah ora ricordo, si riferisce alla nota poesia di Luigi Mercantini... Sa io non potei leggerla, è stata scritta poco dopo la mia dipartita, ma me ne è giunta voce: “Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti". Eh sì, ci è andata proprio male".
    Come mai si decise a quest’impresa disperata? Non sapeva che già 58 anni prima la Repubblica partenopea era stata soffocata nel sangue? Era passato mezzo secolo ma non sembra che la situazione generale fosse molto cambiata.
    "Dimentica l’azione di Guglielmo Pepe nel 1820, un gran comandante che ho conosciuto e che cercò di riportare in auge i fasti di Murat, lui che era stato un napoleonico convinto. Ferdinando I sembrò appoggiarlo ma poi si rimise con i cattolici, l’Austria, il Papa – la Santa alleanza - e lo sconfisse il 7 marzo 1821 a Rieti. Allora fu pure condannato a morte ma riuscì a scappare e nel 1848 ci riprovò con Fedinando II che, e lo dico qui con rammarico, non era peggiore di Carlo Alberto di Savoia, non si creda. Alla fine pure di quella rivolta, Ferdinando II richiamò Pepe ma lui preferì andare a Venezia, che cadde il 23 agosto 1849 e quindi andò a Parigi e poi a Torino dove morì nel 1855. Siamo stati dei bei vagabondi, noi esuli. E dire che Guglielmo era riuscito a ottenere una Costituzione e un esercito, ma non ci fu niente da fare. Quanto a me, forse sono stato impulsivo ma non ne potevo più di tutti quei discorsi. Io del resto avevo esperienza di combattimenti".
    Ci riassuma la sua vita di militare, breve ma intensa.
    "Ho partecipato ai moti del 1848 in Francia contro Filippo d’Orléans, sono stato poi a Brescia nella prima guerra d’indipendenza contro gli austriaci. Quindi l’8 marzo 1849, mi sono trasferito a Roma, a combattere con Garibaldi, Mazzini, Mameli, il mio amico Giovanni Nicotera a cui devo molto, contro i francesi e i papalini. Sono stato anche in prigione, poco tempo per fortuna, a Castel Sant’Angelo".
    In galera era stato anche anni prima, per adulterio ma venne scarcerato subito perché non ci fu denuncia…
    "E per forza! Mica poteva denunciarmi quel lazzarone di Dionisio Lazzari, mio cugino: disse che gli avevo portato via la moglie, la mia adorata Enrichetta Di Lorenzo. Ma lui in compenso ci mandò i sicari che volevano farci fuori entrambi, l’abbiamo scampata per un pelo… Lei aveva 22 anni, due meno di me, e tre figli che quel suo campione di marito non le ha fatto vedere più. Si era sposata per forza a 17 anni, lui era molto più grande di lei. Quando ci conoscemmo fu un colpo di fulmine che travolse tutto e tutti, ma dovemmo fuggire in Francia, in Italia ci perseguitavano da Sud a Nord".
    Da Marsiglia lei si arruolò nella Legione straniera, lasciando sola Enrichetta che intanto aveva avuto la vostra prima figlia, Carolina…
    “Oh sì, povera Carolina, morì di stenti, era una bimbetta… Che dolore, ma io sentivo di dover agire, di fare, fare... Enrichetta era d’accordo eh, mi ha sempre seguito, ha condiviso le mie idee, persino dopo che l’avevo abbandonata ma non volevo veramente lasciarla, solo che, ripeto, avevo bisogno di azione. Sposai per poco la causa algerina. Ce ne andammo poi a Parigi dove partecipammo ai moti del 1848. Di lì ci spostammo a Milano, dove cercai invano di convincere Carlo Alberto che la guerra, come la conduceva lui, sarebbe stata ben presto persa. A Tremosine, il 25 giugno 1848, fui ferito gravemente a un braccio e dovetti lasciare il campo. Anche qui volevo che il popolo si sollevasse ma non c’è stato niente da fare. L’8 marzo 1849 ero a Roma, dove conobbi Mazzini: nacque subito una grande intesa fra noi due e fui nominato capo di stato maggiore dell’esercito della Repubblica romana. Enrichetta la promuovemmo a direttrice delle ambulanze, anche lei non si perdeva mai d’animo, era molto decisa, fu un soggiorno bellissimo".
    Ma breve perché anche quell’esperienza fallì e lei dovette andare in esilio a Losanna, Lugano e Londra, usufruendo delle ferrovie che proprio allora avevano preso gran piede, proprio lei che nell’esercito borbonico era nel corpo del genio e sovrintese ai lavori della prima ferrovia del mondo, la Napoli-Caserta. Poi la fuga con Enrichetta la estromise dall’esercito borbonico, dove invece suo fratello Filippo restò fino alla fine, e venne considerato disertore.
    "Per forza, cercai altre cause all’estero ma non facevano per me, io volevo l’Italia liberata dai monarchi assoluti, io credevo che sarebbe stato possibile, ero d’accordo con Proudhon, la proprietà è un furto, gli ideali anarchici…Ho scritto anche un primo libro allora: La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49”.
    I rapporti con Garibaldi e Mazzini s’incrinarono col tempo, no?
    - Più col primo che con Mazzini, con cui in sostanza sono stato sempre d’accordo. Ma loro erano troppo diplomatici, tendevano a trattare con chi non poteva assolutamente andare bene per i nostri ideali. Io ho sempre combattuto i tiranni e specialmente Garibaldin invece, tendeva loro la mano, come ha fatto a Teano. No, io avrei voluto che il popolo prendesse il potere e invece… Me ne andai a Genova nel 1850 e scrissi i Saggi storici, politici e militari sull’Italia, un’opera che mi ha tenuto impegnato parecchio, ne sono risultati postumi ben quattro volumi. Proprio a Genova, altro bel periodo, nel 1853 ci nacque Silvietta. Conobbi Alexandr Herzen, scrittore e filosofo russo di valore. Finalmente qualcuno che teorizzava la rivolta delle masse. Mi trovai perfettamente concorde con lui. Mazzini parlava di educare il popolo ma fintanto che lo educhi, i regimi lo opprimono. No,  bisogna passare subito ai fatti, alla propaganda del fatto. Però anche Mazzini non era del tutto contrario a che passassimo all’azione. Io il 25 giugno 1857, con Nicotera e altri amici, partii sul Cagliari che il banchiere livornese Adriano Lemmi ci mise a disposizione. Un primo carico di armi ,che dovevamo prendere in mare da una barca, andò disperso per un naufragio, un segno premonitore infausto a voler ben vedere… Ma proseguimmo e arrivammo a Ponza, dove liberammo i detenuti, 323, per la gran parte criminali comuni non politici anche se c’erano anche quelli. Io il 6 giugno ero stato a Napoli vestito da prete in cerca di proseliti ma non ebbi successo. Ecco perché ci decidemmo a svuotare le carceri a Ponza (anche per rifornirci di armi del presidio borbonico). Vi sbarcammo il 26 giugno sventolando il tricolore. Da Sapri andammo a Padula dove pernottai a casa di don Federico Romano, un amico che mi sconsigliò con tutte le sue forze di dar fuoco alle polveri: la gente di qui, mi disse, non è pronta all’insurrezione, ci tiene ai suoi signorotti feudali, odia i borghesi anche se assalta le case dei nobili adesso, ma basta che la chiesa chiami… E così fu purtroppo. Il mattino dopo, il l2 luglio, il parroco Francesco Bianco, fece suonare tutte le campane in segno di pericolo e i contadini, insomma, sì, proprio quel popolo che io volevo liberare, ci inseguì con i forconi e con le vanghe, ci distrussero, scappammo verso Sanza, io fui ferito e preferii tirarmi un colpo di pistola piuttosto che assistere a quella disfatta che poi era la disfatta di tutta la mia vita, di tutto ciò per cui avevo combattuto, invano".
    Peccato, ancora pochi anni… Pensi che il suo amico Giovanni Nicotera si salvò allora fingendosi morto, fu condannato poi alla pena capitale dal re ma gli inglesi intercessero per lui, ebbe salva la vita e pochi anni dopo diventò ministro dell’Interno del regno d’Italia. Inoltre provvide al sostentamento di Enrichetta, che morì nel 1871 e adottò sua figlia Silvia.
    "Ma, a proposito della poesia di cui mi parlava all’inizio, chi era esattamente Mercantini?
    E’ un altro fautore dell’unità d’Italia, un marchigiano che andò esule in Grecia per aver partecipato all’insurrezione di Ancona contro austriaci e Papa. Era quasi suo coetaneo, nacque nel 1821 e morì nel 1871. Fu un letterato, un giornalista e un poeta e alla sua impresa ha dedicato questa poesia per cui resta noto. Nel 1856 diresse pure “La donna”, che si può considerare il primo giornale femminile italiano.
     

  • GRAN MATERIALE EMOTIVO
    E STAR AL BIF&ST DI BARI

    data: 02/10/2021 15:36

    Ha vinto il XII Bif&st, Festival internazionale del cinema che si conclude oggi a Bari: Bruno Reidal: confession of a murderer, film francese di Vincent Le Port, che parla di un seminarista che uccide un ragazzo suo coetaneo. Questa la conclusione della regia internazionale presieduta da Roberto Faenza, la quale ha dato anche una menzione speciale alla regista, ancora francese, Nina Antiko, per Playlist, che ricalca un po’ il recente vincitore di Venezia 78, sempre di una francese, entrambi su ragazze alle prese con scelte difficili. Il premio alla miglior attrice è andato a Charlotte Rampling per un film neozelandese Juniper di Matthew J. Saville, dove interpreta una nonna alcolizzata che fronteggia un nipote adolescente in fase autodistruttiva. Miglior attore è stato nominato Timothy Spall, per il film inglese The last bus di Gillies MacKinnon, su un anziano che visita il suo paese ripercorrendo un antico viaggio. La giuria del pubblico ha premiato come miglior film Querido Fidel della regista Viviana Calò (nata a Pompei nel 1982) e miglior attore Gianfelice Imparato. Leggiamo dal prezioso programma del Bif&st: “1991, Napoli, Emidio (ovvero Imparato, noto al pubblico televisivo come facente parte della squadra di Pizzofalcone) è un vecchio socialista che ha trasformato la sua casa in una fortezza del socialismo reale, mantenendo una pluriennale corrispondenza con Fidel Castro. Il destino di Cuba però sembra chiaro a tutti, ma Emidio non si arrende finché un giorno Fidel non risponde più alle sue lettere e il suo mondo si sgretola”. Miglior attrice per il pubblico è stata Lucia Sardo, siciliana, protagonista con Claudia Gerini di Sulla giostra di Giorgia Cecere.

    Un “materiale emotivo” molto intenso ha caratterizzato a Bari la XII edizione del Bif&st che si conclude oggi dopo i consueti otto giorni. E il prossimo si terrà dal 26 marzo al 2 aprile, dedicato a Pasolini nel centenario della nascita. Un festival del cinema - diretto come sempre da Felice Laudadio, con uno staff alla sua altezza - che celebra, mai come quest’anno, una rinascita culturale nel segno di Ettore Scola, già suo presidente onorario. A lui, che quest’anno avrebbe compiuto 90 anni, è dedicata una mostra fotografica al Margherita che si conclude domani.

    “Conoscere il passato per conoscere il futuro e vivere il presente”: all’insegna di questa massima di Scola c’è stato un convegno su Cinema e Medioevo, con la presenza di Franco Cardini, alla memoria di Raffaele Licinio, insigne medievalista barese. E altri convegni centrati sul contenuto di altrettanti numeri della rivista del Centro sperimentale di cinematografia, Bianco e Nero, dedicati anche a Mariangela Melato e a Scola stesso. Gli appuntamenti sono stati tanti, fin dal mattino per proseguire a notte inoltrata, con presentazione di numerosi film, inediti e no, puntualmente presentati ed elencati in italiano e in inglese nell’efficiente Programma stavolta di 98 pagine, rispetto alle 200 solite.

    Se la selezione è stata gioco forza ristretta, con una media comunque di dieci film al giorno, ci sono stati innumerevoli appuntamenti om questa edizione di una rassegna come sempre molto amata dal pubblico. Rieccoci è titolata la presentazione di Felice Laudadio che ha raccontato l’odissea dell’anno scorso: tutto era ormai pronto per l’undicesima edizione, quando, il 9 marzo 2020, tutto venne sospeso per il lockdown. Eppure anche allora, a fine agosto, con proiezioni pure all’aperto in piazza Prefettura e con la conclusione di Roberto Benigni, il Bif&st non mancò il suo appuntamento con Bari.

    Ormai è un’istituzione, come a Cannes, come a Venezia, a Roma. Merito della caparbietà, della sintonia e del grande amore per la cultura che Laudadio lascia trasparire da ogni suo discorso, non mancando mai di sottolineare come la ricaduta economica del Bif&st coinvolga molti altri settori, dalla ristorazione alle librerie e agli alberghi, per cui – piccola nota polemica - non si vede perché limitare ormai solo i posti dei teatri e dei cinema, a cui si accede comunque col greenpass e la mascherina.
    I luoghi, ecco la grande novità, fra tante, di quest’anno: grazie al restauro completato in dieci anni dalla Regione, si è aggiunto il Kursaal al “Miglio dei teatri” che comprende il Piccinni, il Margherita e il Petruzzelli. E siccome l’ultimo film prima della chiusura al Kursaal fu “Baarìa” di Giuseppe Tornatore, ecco che a inaugurare la dodicesima edizione è stato “Ennio”, un commosso omaggio al maestro di Tornatore stesso, fitto di filmati non solo ufficiali ma anche privati, a testimonianza dell’amicizia che legava i due artisti. La partecipazione di registi, attori e via dicendo, anche considerando che si celebravano i 20 anni della 01 Distribution, diretta dal barese Luigi Lonigro, per cui si fa prima a dire chi non c’era piuttosto che il contrario, è stata davvero straordinaria. Unica assente giustificata, fra gli insigniti del Federico Fellini Platinum Award for cinematic excellence (Leos Carax, Taylor Hackford, Helen Mirren, Luigi Lonigro, Micaela Ramazzotti, Gianfranco Rosi e Carlos Saura) Margherita Buy, impegnata su un set, ma comunque premiata coll’Alida Valli-miglior attrice non protagonista per Tre piani.Per rendersi conto del fitto calendario, basta scorrere su Youtube la pagina dedicata a questo festival, dove sono registrati tutti gli incontri. Fra gli stranieri Timothy Spall, Codaliscia dei film di Harry Potter.

    Il cinema è vita, racchiude tante altre arti, teatro, scrittura, fotografia. Vittorio Storaro, grande direttore della fotografia, ha ricordato di essersi fermato per un anno a studiare i colori e applicare le sue conoscenze a un film di Carlos Saura, il regista spagnolo che era con lui sul palco di una master class al Petruzzelli. Gabriele Lavia, che ha lavorato tanto anche al cinema sia come attore che come regista, non ha rinunciato a dare un saggio della sua abilità teatrale con un monologo al Piccinni: L’uomo senza il fiore in bocca, rivisitazione da Pirandello.
    Il pomeriggio al Margherita si sono tenuti degli incontri su libri a tema. Per esempio Alessio Boni ha presentato il suolibro Mordere la nebbia (Solferino) in cui ha raccontato la terribile esperienza di vedere suoi parenti econcittadini colpiti dal Covid nel Bergamasco e la forte emozione nel contempo di essere diventato padre per la prima volta a 53 anni, lui che è nato il 4 luglio 1966. Ha parlato inoltre dei tanti personaggi interpretati, da Walter Chiari, forse quello che gli è rimasto più impresso, a Walter Bonatti, sottolineando la difficoltà di rendere i contemporanei. “Perché quando faccio Caravaggio nessuno mi può dire: guarda che non camminava così, non parlava in questo modo mentre nel caso di Chiari, aspettavo con ansia il giudizio del figlio Simone”.
    Il Bif&st che l’anno prossimo tornerà alla sua collocazione naturale di fine primavera e che questa volta si è svolto dopo Venezia 78, ha visto la partecipazione entusiasta di: Sergio Castellitto e suo figlio Pietro, Lino Banfi (premio alla carriera insieme al mago della fotografia, Vittorio Storaro),  Paola Cortellesi e Riccardo Milani, Claudia Gerini, Paolo Virzì, Saverio Vallone - che ha assistito alla copia perfettamente restaurata del Cammino della speranza, il film di Pietro Germi che vide nascere l’amore fra i suoi genitori ormai scomparsi Raf Vallone (e lui è identico al padre) ed Elena Varzi -, Marco Risi, i fratelli Manetti, Pif, Matilda De Angelis, Susanna Nicchiarelli e via dicendo. Davvero si fa torto a non citare qualcuno, ma basta andare sul sito per leggere tutti i nomi, senza dimenticare la presidente Margarethe von Trotta. Checco Zalone ha scherzato martedì sera: “Ero andato a prendere un panzerotto, passavo di qui e ho pensato di salutare Helen”, l’attrice inglese Mirren, la sua “vacinada” al Petruzzelli col marito, il regista americano Taylor Hackford, premio Federico Fellini. Checco ha ironizzato sul fatto che Helen, salentina di adozione, abbia scelto un paese sconosciuto come Tiggiano per la sua masseria: “Questo è vero amore, chi lo conosce Tiggiano nel mondo? E’ facile andare a Venezia, a Positano, tu no, hai scelto Tiggiano ed è arrivata la xilella. Ma tu resti lo stesso - ha continuato il comico - e scommetto che se venisse un maremoto, speriamo di no eh, tu rimarresti ugualmente e questo è vero amore, amore puro!”. E ancora laboratori di sceneggiatura (con Silvia Napolitano), di recitazione (con Lina Sastri al castello di Mola di Bari, città d’origine di Laudadio), di montaggio (con Walter Fasano), di critica cinematografica (con Paolo D’Agostini) e di regia cinematografica (con Alessandro Piva).

    Bari, questa città “che voi siete fortunati ad abitare, così bella” ha detto Marco Bellocchio, che ha presentato il suo ultimo Marx può aspettare (oltre alla visione di altri suoi film) ed è stato premiato dalla giuria dei critici per l’eccezionalità dell’impresa cinematografica. Rieccoci come ha scritto Laudadio e rieccoci oggi alla cerimonia finale, presentata da Miriam Leone, che si è sposata sabato scorso e ha interrotto apposta la luna di miele. Al lavoro: la Giuria del Panorama internazionale presieduta dal regista Roberto Faenza (di cui si sono visti molti film), con Martina Apostolova (attrice e regista bulgara), Klaus Eder (critico tedesco), l’attore Vinicio Marchioni e l’attrice, cantante e scrittrice tedesca Katja Rieman; la giuria del pubblico (24 spettatori di varia età candidatisi online) con Antonella Matranga, giornalista, per le anteprime italiane. Infine la giuria dei critici che hanno già scelto e assegnato nel corso delle serate: miglior regista (premio Monicelli) a Mario Martone e miglior produttore (premio Franco Cristaldi) a Indigo film, Rai cinema e Tornasol per Qui rido io; miglior attrice protagonista (premio Anna Magnani) a Teresa Saponangelo per E’ stata la mano di Dio; miglior attore protagonista (premio Vittorio Gassman) a Toni Servillo per Qui rido io, E’ stata la mano di Dio e Ariaferma. Miglior attore non protagonista ha avuto l’Alberto Sordi: Gianfelice Imparato, per Qui rido io e Il bambino nascosto. Miglior autore delle musiche, premio Ennio Morricone: Pasquale Scialò per Ariaferma.
    Peccato davvero che fuori dal miglio dei teatri la delinquenza continui a sparare, com’è successo mercoledì sera al rione San Girolamo, quando è stato ucciso a colpi di pistola un 31enne in monopattino, tra la folla che affollava il nuovo “waterfront” del quartiere popolare. Il che getta una luce sinistra sulle luci della città.

     

  • SOPRAVVIVERE E VIVERE:
    L'ODISSEA
    DI IRENE NEMIROSKY

    data: 03/09/2021 16:03

    Ricordando l’opera geniale dell’editore Roberto Calasso, da poco scomparso, mi è capitato sott’occhio un libro dal titolo Sopravvivere e vivere, dalla tipica copertina colorata di Adelphi (in questo caso rosso fragola). Denise Epstein racconta in questo libro la sua odissea, poco prima di morire a 83 anni, il I aprile 2013. Denise era la maggiore delle due figlie di Irène Némirovsky, la grande scrittrice di origine russa che è stata (ri)scoperta solo dal 2000 in poi grazie appunto al grande lavoro di recupero e di conservazione delle sue opere delle figlie, Denise ed Elisabeth, a sua volta scrittrice, scomparsa a 59 anni nel 1996.

    Ora, la Némirovsky era ebrea e sappiamo a cosa furono sottoposti gli ebrei in quel periodo, ma quando fu presa, una mattina di luglio, dai gendarmi francesi collaborazionisti dei nazisti, nella Francia occupata e complice, il 13 luglio 1942, era anche una scrittrice già molto famosa, che si era convertita sin dal 1939 al cattolicesimo nella speranza di sfuggire alla mattanza. Si trovava in un paesino sul massiccio del Morvan, Issy L’Eveque, dove si era rifugiata con la famiglia, le bambine e Michel Epstein che curava le relazioni internazionali di una banca importante ma che non potè più lavorare con il regime Pétain: l’hanno presa in giardino, mentre scriveva come al suo solito. Lei che era fuggita dalla San Pietroburgo della rivoluzione quella volta non potè farlo e morì ad Auschwitz il 17 agosto successivo, a 39 anni (era nata a Kiev l’11 febbraio 1903 e aveva iniziato con successo a pubblicare romanzi a 20 anni). Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt hanno scritto la sua vita, sempre in collaborazione con Denise Epstein, in un libro pubblicato da noi da Adelphi (che ha in catalogo tutte le opere della scrittrice) nel 2009.

    Il marito cercò disperatamente di riaverla indietro, ma a ottobre venne preso pure lui e morì ad Auschwitz con gran parte dei suoi familiari. Le bambine, pure portate in gendarmeria, pare si siano salvate perché il nazista del commissariato confrontò la foto di sua figlia con loro e trovò una somiglianza o chissà cosa, insomma le lasciò andare.

    Già così è una tragedia ma è molto straziante quello che Denise Epstein nel suo libro racconta anche del dopo: quel trascinarsi la valigia della madre col manoscritto di Suite francese, steso con l’inchiostro azzurro “Mari del Sud” in una fittissima calligrafia; quell’andare alle stazioni, lei e la sorellina, nella speranza di veder tornare i loro genitori, evento sempre più improbabile fino all’ineluttabile certezza; quella pietà finta, carità pelosa, di cui le bambine erano circondate, dalla tutrice che le aveva prese in carico a suon di molto denaro al medico ex amico di famiglia che le sistema in un solaio. Pagine che ricordano molto quelle di Vasilij Grossman, anch’egli un reduce, un testimone che non viene creduto all’inizio e si ritrova spaesato, parla a gente che non vuole ascoltarlo. Finché è arrivata la presa di coscienza, Denise ha finalmente aperto quella valigia passata attraverso tante traversie e ha testimoniato ovunque contro il nazifascismo, ha pubblicato l’ultimo romanzo di sua madre e ha potuto affermare, tanti anni dopo: “Ci è voluto molto tempo prima che venisse riconosciuto che gli ebrei avevano combattuto, sia nella Resistenza, sia all’interno del MOI (la “Main-d’oeuvre immigrée “), e anche nei ghetti e nei campi. Questo percorso io l’ho compiuto attraverso la letteratura, ma in seguito ho incontrato alcuni di loro e ho scoperto di condividere lo stesso stato d’animo, la ribellione, la rivolta contro l’ordine costituito e le sue ingiustizie. (…)”.

    Dopo la shoah sembra impossibile tornare a vivere e, se lo si fa, si afferma la vita, le dice Clémence Boulogne che nel libro la intervista. “Sì, inevitabilmente. Ma bisogna aver smesso di credere che la vita sia un regalo avvelenato ed essere arrivati a guardarla in modo positivo. I figli, i nipoti, gli amici, le lotte cui ci si dedica, la memoria, un raggio di sole, e poi per me aver dato a mia madre la possibilità di rivivere, sono tutte cose che aiutano ad alleviare il senso di colpa per aver vissuto, come è capitato a me, molto più a lungo della breve proroga che mi era stata concessa nel 1942! Il mio cammino è giunto a compimento con la pubblicazione di Suite francese”. (pagg. 113-114). La riscoperta della Némirovskyi fa pensare alla celebre favola di Maerterlinck che la scrittrice raccontava alle figlie quando erano piccole, l’Uccellino azzurro, dove si sottolinea l’importanza della memoria e la vana ricerca della felicità. “Dove si trova, dunque, l’Uccellino azzurro della Felicità? E quando si è trovato, come trattenerlo, perché non fugga?”
     

  • NIENTE FIERA 2021 A BARI
    SOLO RICORDI LEVANTINI

    data: 12/08/2021 20:32

    Questo sarà un articolo nostalgico e pazienza se si capirà la mia età. Un articolo sull’onda della memoria di quello che non c’è più e che non può tornare. Partendo da una notizia: quest’anno la Fiera del Levante a Bari non si farà. Tutto finisce a questo mondo e poi, con una pandemia in atto, è logico che una fiera, con quello che comporta (assembramento soprattutto) non si può e non si deve fare. Probabilmente si tratta di un arrivederci, come per la Gazzetta del Mezzogiorno, il quotidiano della città che dopo 134 anni è stato chiuso, si spera temporaneamente, il primo agosto scorso. Ci sono dunque cambiamenti in corso d’opera e ci saranno ritorni, con modifiche, chissà. Il punto è che la Fiera del Levante per una barese come me è un po’ come il Palio di Siena per i senesi e la Mostra del cinema per i veneziani. E' una tradizione che Bari si è creata sul finire degli anni Venti del secolo scorso con grande tenacia, costruendo un quartiere apposito un po’ orientaleggiante, di fronte al mare. Già questo è una sua bellezza particolare, in una città che pur avendo un lungomare tra i più notevoli d’Europa, non ha molte case affacciate sull’Adriatico.

    Allora, che cosa rappresentava la Fiera del Levante per noi bambini del boom economico, prima dei grandi centri commerciali, prima della globalizzazione, prima dell’omologazione che fa trovare tutto dappertutto? La Fiera segnava il gran finale delle vacanze, perché subito dopo, il I ottobre, ci sarebbe stata la scuola. Deliziosi quei dieci giorni a casa della nonna con gli altri cuginetti, a vedere in tv alle 10 in punto il film che la Rai mandava in onda solo per la zona di Bari e provincia e già ci faceva sentire dei gran privilegiati. Mi piacerebbe sapere chi sceglieva quei film. Abbiamo visto tutta la produzione di Mario Camerini, molti musical, Fred Astaire e Ginger Rogers diventarono nostri amici, ma anche molti italiani dell’epoca dei telefoni bianchi. Dunque si può pensare a qualche selezionatore nostalgico, ma per fortuna non erano film di propaganda, quanto piuttosto film romantici. Lei, di solito commessa in un grande magazzino o telefonista (allora andavano molto le telefoniste perché passavano la linea, e questo ci incuriosiva: quando vedemmo quelle pellicole il telefono era senza mediazione del centralino) incontrava l’amore di solito nei panni di un giovane, magrissimo Vittorio De Sica, galante e timido mentre bionda e affettata nella pronuncia che cercavamo di imitare per scherzo, era Assia Noris, la diva incontrastata che passava un sacco di traversie ma per fortuna a lieto fine.

    Poco dopo ci si preparava per la visita in Fiera, in uno o più di quei pomeriggi dei dieci giorni canonici, poco importandoci del discorso di apertura, anche quello trasmesso in diretta tv, del presidente del Consiglio di turno che certificava come il Mezzogiorno fosse l’assillo principale del governo. E ovviamente, ne eravamo orgogliosi, veniva a dirlo proprio a Bari, in quel giorno inaugurale che rappresentava anche la ripresa della vita politica in generale. A noi interessava soprattutto il mirabolante lunapark di cui la ruota panoramica rappresentava la perla dei giochi. Ci si andava godendo del fresco dei primi temporali che puntualmente si verificavano proprio in quei giorni settembrini. Non era l’unica attrazione, anzi. Appena entrati dall’ingresso principale, sulla sinistra c’era un odore di fieno, di stalla e infatti dopo i macchinari  - e gli attrezzi agricoli e salire sul trattore era un obbligo e i genitori ci accontentavano in tutto - c’erano le stalle, con mucche color sabbia, caffellatte o pezzate, bianche e nere, che venivano dalla Svizzera; galline con pulcini, e cavalli. Anzi una volta ci fu una rassegna dedicata solo a loro. Perché la Fiera si divideva durante l’anno in diversi appuntamenti: c’era il tempo libero, verso maggio, l’Export da visitare uscendo dal vicino liceo, piscine e campeggi soprattutto; c’era Expoarte, appuntamento stupendo con tanti quadri che ha visto poche edizioni mentre Artefiera a Bologna resiste da decenni.

    I viali profumavano di popcorn appena fatti e di zucchero filato, poi di merendine Aida, prodotte sul posto, da prendere in pacchi e consumare oltre che lì anche a colazione, buonissime. Sulla destra, procedendo lungo il viale d’ingresso, si apriva in una grande terrazza il Villaggio arabo. E qui era davvero magnifico vedere arabi con tanto di caffetano e copricapi col velo fermato da un cerchio, proporre prodotti artigianali che poi sono stati copiati dai maggiori stilisti negli anni successivi. Per noi erano già accessibili, molto prima che scoppiasse la moda del made in Italy. Mocassini intrecciati con fili metallici rossi azzurri gialli, babbucce ricamate, borsette decorate, tappeti, tamburelli, incensi, tutto con quell’atmosfera che pareva davvero di stare a Casablanca. E poco oltre la grande attrattiva, la Galleria delle Nazioni, con il tempo inesorabilmente passata di moda, perché qualsiasi ipermercato oggi offre quello che si vedeva lì, anche se non con la stessa suddivisione geografica. Qualcosa di simile l’ho vista solo alla Rinascente, anch’essa sparita dall’orizzonte barese dopo pochi anni (anche se fu uno dei primi magazzini ad approdare a Bari, poi sostituita dall’Upim; ritornò ma durò poco, peccato perché era davvero un bellissimo negozio), quando organizzava le settimane a tema, per esempio sulla Provenza.

    La Galleria delle Nazioni era utile anche per un ripasso di geografia: il Perù con i suoi maglioni d’alpaca e i servizi di tazzine e teiere minuscoli, la Polonia con l’ ambra, tanta ambra per tutto, dagli orecchini agli anelli, il Nepal con la lana cotta con cui artigiani realizzavano pantofole o copertine e foulard originali, oltre a fermagli e lucchetti di ottone che oggi puoi vedere da Feltrinelli ma che un tempo erano appannaggio unicamente della Fiera. Poi ci fu un terremoto in Nepal e non si è visto più nulla, né sappiamo altro di quel Paese sperso fra i monti. Le perle dalle isole spagnole, i kimono dal Vietnam (fonte inesauribile di fantasia con tanti manufatti di seta ricamata, o cartoncini con disegni tridimensionali, servizi da the, bacchette per il riso contenute nell’astuccio di paglia intrecciata, camiciole, vestaglie, cappelli di bambù e tanto altro). Il Madagascar portava pietre preziose e borse e borsellini scozzesi di paglia dai mille colori. Gli africani, nelle varie Nazioni, avevano gioielli bellissimi, anche di vetro oppure borse di coccodrillo e pitone, anche queste straimitate dai brand . L’India col tempo è diventata la più invasiva, quasi l’unica: sciarpe di ogni fantasia e colore, gioielli a poco prezzo, anelli con la foggia delle marche più famose, orecchini, collane, ma anche gioielli autentici e sotto vetro della meravigliosa creatività indiana, con rivenditori che giungevano apposta da lontane regioni e contrattavano nel chiuso di quella che era una vera bottega, sorvegliata all’esterno, perché si trattava di pietre costose e preziose, diamanti smeraldi zaffiri rubini acquemarine.

    Ci si perdeva in quei padiglioni, si sentiva parlare inglese, francese, si scambiavano quattro chiacchiere. I ragazzi baresi in cerca di un primo impiego facevano a gara per essere assunti lì come venditori, e non era facile districarsi in spazi spesso angusti specie il sabato e la domenica, con la folla dei visitatori. Si scatenava la contrattazione da mercato, specie le ultime ore: “Quanto vuoi pagare? Quanto hai?” e da lì la mia passione per il bric à brac, per i mercatini e, ahimè, per gli assembramenti…Ma bastava uscire e tornare all’aperto, per un gelato o una riccia partenopea con la ricotta e i canditi vicino alla fontana e rituffarsi poi ad ammirare l’artigianato pugliese o italiano (gettonatissimi i coralli di Torre del Greco) mentre l’altoparlante diffondeva annunci commerciali a raffica o un’orchestrina piuttosto triste suonava alla maniera cilena.

    E con gli anni, ci sono i ricordi struggenti di quando si andava in Fiera con la mamma, il papà, i fratelli, la zia e magari s’incontrava pure qualche altro parente che non si vedeva da tempo… “Ricordiamo la gentile clientela che la Fiera chiude alle 21” e allora ci si affrettava verso l’uscita, con il rammarico di aver perso questa o quella nazione; ci si riprometteva di tornare e poi magari non accadeva e per tutto l’anno si ammirava il braccialetto o il piatto decorato come se fosse un souvenir del posto, di quella nazione che magari, proprio per averla ammirata in Fiera, si voleva visitare. O anche no, perché noi da Bari il giro del mondo lo avevamo già fatto. E a settembre eravamo puntuali pronti a ripartire di nuovo.
     

  • LA REALTA' E' FATTA
    DI ALTRO E "LE RAGAZZE"
    TE LO FA VEDERE

    data: 08/07/2021 19:06

    La nuova serie delle “Ragazze”, un programma targato “Pesci combattenti”, andata in onda su Raitre e rivedibile su Raiplay, ha consentito ancora una volta di accendere i riflettori su personaggi femminili spesso negletti dalle cronache. Il racconto si dipana con un film, osserviamo la protagonista di turno nella sua casa o in scenari a sua scelta e man mano, specie per le più anziane a cui viene lasciato maggior spazio, si delinea la storia dell’Italia stessa, come per esempio dalla testimonianza di Stefania Casini che nella sua vita ha fatto tante cose, dall’attrice alla scrittrice oppure di Grazia Di Michele, una cantautrice che ha subito anche un attentato fascista nel bar-teatro che aveva a Roma con la sorella. Con grande ironia Di Michele ha ricordato le canzoni in voga negli anni Settanta, quelle di Mina in particolare, che parlavano di un uomo padrone a cui dire la verità nel sonno, prima che si svegliasse e si arrabbiasse (“Grande grande”). Lei che si è riconciliata con suo padre, contrario alla carriera di cantante, con una canzone che gli ha dedicato a Sanremo.

    Diverso il caso di Teresa Procaccini, il cui padre è stato il primo a scoprire il suo talento e a difenderlo contro scettici professori che invece ne dubitavano parecchio. Teresa Procaccini è una compositrice, ha 87 anni,è nata a Cerignola il 23 marzo 1934, ha scritto più di 200 composizioni, è stata la prima direttrice di Conservatorio, a Foggia, ha insegnato pianoforte e organo, eppure, chi la conosce

    Grazie a questo programma, si è visto non solo che Procaccini è un’autorità in campo musicale, una che è stata apprezzata anche in America, che ha conosciuto Nino Rota e tutti gli autori del Novecento, ma anche la si è scoperta come una persona brillante e spiritosa che racconta la sua vita con gran trasporto e una verve incredibile. Guardare la puntata per credere! E ha parlato del rapporto con suo padre. Infanzia a Foggia, famiglia normale e amica di un commerciante di pianoforti: lei quindi comincia a suonare a orecchio in negozio e già compone. Foggia si trovò allora sotto i bombardamenti, terribili, gli alleati avanzavano nell’Italia fascista a suon di attacchi aerei tra il maggio e il settembre del 1943: la famiglia dovette sloggiare a Bovino, il paese di cui era originario il padre e lì apprendere che la loro casa foggiana ormai non esisteva più. La piccola Teresa a Bovino continuava a studiare e a comporre. Il padre stupito faceva sentire i suoi brani a un professore di pianoforte che gli rideva in faccia: “Ma tutti i bambini fanno queste cose…è normale”. Al padre tanto normale non pareva. Così, finita la guerra, iscrisse la figlia al Conservatorio di Napoli dove i suoi lavori vennero giudicati tutt’altro che normali. Ma a Napoli nello stesso tempo fu chiamato a insegnare quel maestro di piano che aveva deriso i lavori della piccola Teresa e allora lei se ne andò a Roma, a Santa Cecilia, andando ad abitare, come si conveniva alle ragazze dell’epoca, in un pensionato di suore. E il direttore di Santa Cecilia volle convocare il padre per dirgli quanto fosse brava sua figlia, al che lei gli rispose: “Lo sa già”. Ed era vero, perché Procaccini padre non aveva mai dubitato, anzi, del valore della figlia e aveva sempre gioito, insieme alla madre, dei suoi successi.

    Oppure c’è la storia tutta al femminile di Anna Fendi, cinque sorelle unite come le dita di una mano, per volere della madre e anche lei, tre figlie e 14 nipoti, una dinastia e un grande impero della moda, ma anche dell’arte, di fondazioni varie, partendo dalla volontà imprenditoriale di una matriarca romana.

    O la storia di una poetessa, Carmelina Rotundo, toscana, una vita a scuola ma anche tante poesie e una depressione giovanile vinta a Roma - dove i suoi, sconfitti nella lotta contro la malattia, l’avevano mandata – grazie a uno sconosciuto, una guida turistica, che la vede così triste e si prende una settimana per far visitare la città eterna solo a lei. Una volta alla stazione, Carmelina salutò Gian Emilio, la sua guida speciale che non ha più rivisto, e buttò tutte le medicine che le avevano assegnato. Era guarita, e da allora si dedicò all’insegnamento e alla poesia, si sposò ed ebbe due figli.

    O vediamo Leonetta Marcotulli, romana, 92 anni, scultrice e in gioventù autista di gare d’auto, protagonista di mostre e rassegne, ma di cui mai in tv si era parlato prima. Perché, ci si chiede, tanta trascuratezza, tanto proporre sempre gli stessi nomi, fino alla noia? L’attualità è fatta anche di altro, tanto altro e “Le ragazze” lo fa vedere, lo mostra agilmente e con bravura. Un documentario davvero bello, che mancava. E che quindi viene opportunamente riproposto.
     

  • Il racconto. NONNA PASQUA, FIGLIA DI UNA RICAMATRICE E DI UN COCCHIERE

    data: 15/06/2021 16:39

    Chissà se a qualcuno può interessare la mia vita, chi lo sa… Sono così antica! Sono nata a Corato il 21 marzo del… non ricordo, forse 1899 o 1900, di primavera e di Pasqua (donde il mio nome) e sono andata via da questo vostro mondo a Bari, nella gelida mattina del 17 febbraio 1970. Adesso mi trovo…non so spiegarlo, come non so dirvi come mi sia ritrovata qui, in un ultraspazio e ultratempo che non capireste. La mia vita è stata molto avventurosa, tormentata, è stato come andare sulle montagne russe, una volta sono stata al culmine della fortuna e subito dopo sono ridiscesa giù a rotta di collo ma almeno ho avuto un grande amore, Michele, cinque figli e 14 nipoti che non vengono mai qui a deporre un fiore, uno dei miei preferiti, una calendula con quel bell’arancione o un anemone, blu rosso o bianco, forse non sanno più dove sono e nemmeno io, ma sono sicura che mi vogliono bene e che qualche volta mi pensano.
    Poi c’è stato il mio lavoro. In pratica io ho sempre insegnato: a 17 anni ero diplomata e l’anno dopo ero già in cattedra. Per forza, i miei genitori erano morti a poca distanza l’uno dall’altra e non avevano che 50 e 51 anni. Cosa dovevamo fare noi figli? Oltre a me, c’erano: Lietta (da Lucia) che studiò a Napoli ostetricia e diventò ostetrica; poi Tonino, una testa calda, sempre in difesa dei più deboli, comunista della prima ora, e che si sposò con una mia cameriera – si può immaginare lo scandalo, non tanto per il fatto in sé quanto perché lui era proprio giovane e senz’arte né parte, come poi è rimasto più o meno sempre, ma lo aiutavo io, avevo un debole per lui, così irruente, e bravo, dalla parte giusta, noi eravamo i garibaldini di casa, scriveva splendidi discorsi per il sindaco rosso barese nel dopoguerra, Papalia; c’era Luigi che morì in Albania in quell’assurda guerra, una delle tante che ci toccò attraversare; Armando che mi fa fatica ricordare, per la sua fine davvero tremenda che mi provoca lo stesso dolore di allora; Arturo, bellissimo, con certi occhi azzurri come il mare; e Gemma, la più piccola, molto somigliante a me, e che poi abbiamo visto poco, perché andò a vivere a Melfi, avendo sposato uno di lì. Mia madre, nota per la sua folta capigliatura, ricamava e mio padre era cocchiere; lei era di una ricca famiglia di Corato, i Sancesario, ma essendo scappata col figlio del fattore, fu diseredata, quindi cosa restavano a fare a Corato? La mia infanzia in paese fu felice ma i miei se ne vennero a Bari e purtroppo morirono a poca distanza l’uno dall’altra che eravamo ancora adolescenti noi sette. E così fu che ci mettemmo a lavorare tutti, tranne Arturo e Gemma. Io ero un fulmine in matematica ma mi dovetti fermare al diploma magistrale. I primi tempi fu dura eh, non crediate. Lietta e io, le maggiori, non facevamo mancare nulla ai nostri fratelli. Ci fu però in agguato un’altra sciagura: Armando, tornando a casa in via Ravanas, dove abitavamo, fu inseguito da dei malavitosi, raggiunse il portone col cuore in gola e finì stramazzato per terra, ricordo ancora l’urlo nell’androne. Non ci fu nulla da fare, povero ragazzo. E pensare che nel rione Libertà ho finito i miei giorni, io che da allora l’avevo sempre evitato.
    La ruota gira, si dice così, no? E trasferendoci in piazza Massari, nel rione murattiano, ci sembrò che le cose dovessero andare meglio. Ma io fui mandata a Udine e fu lì che conobbi l’amore della mia vita, il mio Michele, barese come me, anzi più di me in quanto barivecchiano da generazioni, Martiradonna il suo cognome: quanto era affascinante! Mi ha stregata subito con i suoi profondi occhi blu, la voce suadente, l’eleganza mai vista. Ed era un artista! Dipingeva meravigliosamente: mi fece subito un ritratto, un piccolo tondo dove porto le trecce, una mia nipote deve averlo ancora. A Udine lui era al fronte, in quella maledetta guerra, la Grande guerra: per fortuna scampammo a quel massacro indegno e ce ne tornammo a Bari. Io anzi tornai prima e lui mi scriveva lettere magnifiche, chissà se qualcuno le ha conservate, finché c’ero io erano tutte infiocchettate nella loro scatola. Suo padre Cosimo e sua madre, Chiara Piergiovanni, famiglia d’artisti, erano felicissimi del nostro fidanzamento. Che tipo Chiara! Una donna d’aspetto minuto, ma indomabile, che portava sempre splendidi orecchini (era figlia di armatori, pare, la famiglia aveva conosciuto fasti incredibili ma poi aveva avuto un rovescio di fortuna ) e che non stava mai con le mani in mano, era sempre così attiva. Anch’io non scherzavo ma vederla in azione è stato uno sprone per me: dalle orecchiette al crochet non c’era lavoro che non sapesse fare. Aveva un bar vicino alla cattedrale di San Sabino, un locale che fungeva anche da riscossione delle imposte (allora funzionava così), mentre suo marito Cosimo conduceva, sempre nei paraggi, una barbieria accorsata che funzionava pure da sala di musica. Infatti lui suonava benissimo la fisarmonica e Michele il mandolino. Doti che sono passate ai miei figli, tutti molto musicali. Ci sposammo e avemmo subito il nostro primo figlio, bello come il sole, non per niente lo chiamammo Elio e la nostra prima figlia, stupenda, Ada. I miei trasferimenti però non finirono, ero ancora in rodaggio si vede, perché per due anni fui mandata a Lecce dove nacquero Bianca nel 1927 e l’anno dopo Mario. Michele ovviamente mi seguì, tanto lui poteva dipingere ovunque, e dopo undici anni avemmo l’ultima figlia, Rosa, a Bari.
    Mia suocera reclamava il figlio (era il suo prediletto) e anch’io volevo tornare a Bari, così finalmente ottenni un posto alla scuola Balilla, al rione Madonnella e andammo a vivere in via Michelangelo Signorile, in un bel villino Liberty vicino al mare. Mio marito aveva un posto fisso – uno dei pochi che avesse mai avuto – alla vetreria Pizzirani, vetri artistici, con cui sono decorati molti palazzi della Bari umbertina, e stavamo davvero bene: i miei figli prendevano lezioni di musica, in casa c’erano grammofono, telefono, macchina fotografica, cosa non avevamo… Sembravamo davvero ricchi e lo eravamo ma non è durata molto: io e Michele lavoravamo entrambi, eravamo giovani e pieni di aspettative per il futuro una volta superato l’incubo della guerra ma i venti bellici non si posavano mai ai tempi e nel 1939 Pizzirani fu riconvertita in industria bellica, sicché Michele tornò alla sua pittura. Dovemmo abbandonare la nostra bella casa, gli agi divennero presto un ricordo e ci trasferimmo al di là della ferrovia, in un quartiere emergente, San Pasquale, in una casa umida, dove ci colpì il tifo. Stemmo davvero in ansia per la salute di Ada ma anche e meno male trovammo in quel piccolo caseggiato, un vicinato amichevole, addirittura una mia figlia si è poi sposata con un ragazzo del piano di sopra. Fui trasferita a Triggiano, non so perché, forse per la mia resistenza a indossare la spilla fascista: ogni mattina mi svegliavo all’alba per raggiungere insieme ad altre colleghe la grande scuola di quel comune nelle vicinanze, addirittura con l’omnibus a cavalli… E prima impastavo il pane e compravo il latte d’asina dal lattaio che passava di casa in casa. La vita si fece sempre più difficile, specie dal 1940 in poi, quando quel pazzo decise di buttarci di nuovo in guerra. Le mie classi, numerose all’inverosimile – anche di sessanta scolari – erano sempre le prime e le seconde. Michele mi prendeva in giro, non arrivi mai agli esami, mi diceva. Figli di contadini, con nessun libro a casa, partivano svantaggiati ma con me recuperavano in fretta, non lasciavo nessuno indietro e così sempre e solo prime e seconde, anche quando tornai a Bari: dicevano che nessun’altra maestra sapesse insegnare ai piccoli le basi della grammatica. Quando arrivavano gli ispettori nelle mie aule sapevano tutti leggere e scrivere, era un grande orgoglio per me. Ma che fatica! Quando tornavo a casa, pranzavo (Michele o una delle mie figlie erano bravi in cucina) e poi leggevo la Gazzetta del Mezzogiorno, tutti i pomeriggi, non volevo essere disturbata. Quindi c’erano le ripetizioni, gli incontri con le mie amiche, qualche puntata in centro, qualche cappellino da acquistare (beh, non come quando ero giovane che ne avevo una collezione invidiabile), le relazioni con i parenti che facevano tutti capo a me e io aiutavo tutti, specie chi si ritrovava con una famiglia numerosa. A tavola a cena eravamo sempre in tanti. Seguivo i figli, i primi due erano bravissimi a scuola, gli altri due, si sono trovati nella guerra, a Bari non è stata una passeggiata, a scuola spesso non andavano ma non per colpa loro; la minore invece ha raggiunto il diploma al liceo scientifico ma poi ha avuto fretta di sposarsi e non ha lavorato. Non so come si faccia a non lavorare; io non avrei mai rinunciato alla mia indipendenza economica, anzi mi sarebbe piaciuto guadagnare di più.
    Che brutti quegli anni di guerra, era tutto razionato. Ci furono due bombardamenti davvero spaventosi, oltre agli altri, e sempre correvamo al rifugio al vicino convitto Cirillo. Michele no, non veniva con noi, era fatalista, restava a casa a dipingere con quello che sarebbe diventato il suo consuocero, dicevano che ognuno ha la sua ora… In uno di quei bombardamenti, ricordo, Bianca era andata a prendere il pane dal fornaio all’angolo e quando tornò gridava “Mamma! Mamma!” povera figlia, il lucernaio crollato, per terra un tappeto di cocci di vetro, aveva pensato il peggio, uscimmo di corsa ad abbracciarla, a rassicurarla. Cosa abbiamo passato. E quando il mio primogenito, liceale, si arruolò senza dircelo e non sapemmo più nulla di lui, tranne vedercelo arrivare un anno dopo, dopo l’8 settembre 1943, lacero, sporco, irriconoscibile, lo dovemmo pure nascondere, venivano a cercarlo, perché era considerato un disertore, lui, un ragazzo trascinato da un malinteso amor di patria. Mario no, lui con gli americani a Bari sembrava uno di loro, parlava lo slang, lo presero come mascotte, del resto aveva solo 15 anni, gli regalavano i 78 giri, i dischi di jazz e così seguì la sua grande passione, il canto e dire che io lo pensavo un marinaio, non per niente si era iscritto al nautico in via Trevisani. Ho sempre avuto fiducia in lui, ho sempre saputo che se la sarebbe cavata (magari lui lo avrà rimpianto, mi avrà giudicata un po’ sbrigativa, di certo non sono stata una mamma chioccia, pur amando spassionatamente i miei figli non avevo tempo, il tempo mi è stato sempre troppo stretto), infatti è diventato un cantante famoso col nome d’arte Ray Martino, Ray sì come un raggio di sole: quando ascoltavo i suoi dischi il magone che mi veniva… perché ovviamente per avere successo si era trasferito a Milano, seguendo il fratello che diventò architetto e sposò una milanese, architetta anche lei, eh, quella, tipica nuora che non può vedere la suocera, meridionale, terrona, per giunta. Io andavo lo stesso a Milano, ci vuole tanta pazienza… E comunque lì avevo dei cognati, altri parenti, ci andavo volentieri mentre Michele preferiva Firenze, dove abbiamo anche vissuto per qualche tempo, ebbe un lavoro lì; mio marito era bravissimo anche come arredatore, quanti negozi a Bari ha allestito lui, come Cam in via Piccinni, chissà se c’è ancora… Che gioia andare a votare per la Repubblica, il 2 giugno 1946. Michele si era comprato la Vespa color argento e giravamo per la città come due ragazzini. Avevo anche cambiato scuola, ora andavo alla Carlo Del Prete, in corso Sicilia. Le mie nipotine impazzivano per venire con me, le ho rese fanatiche della scuola, beh almeno con loro ci sono riuscita o dovrei dire piuttosto, anche con loro. Alla Del Prete sono rimasta fino alla pensione che per quanto mi riguarda, è arrivata troppo presto. Ho avuto anche la medaglia d’oro del ministero della Pubblica istruzione, avrei voluto vedere, avevo messo radici nella scuola… Mi ricordo una festa bella sì ma anche tanto malinconica. I figli ormai avevano raggiunto una loro posizione, e io e Michele ci trasferimmo in via Cardassi, in una casetta piccola ma molto moderna, efficiente, luminosa, quanto mi piaceva. Avevamo anche un bel giro di amicizie, mi stavo finalmente rilassando un po’. Purtroppo questa felicità è durata poco perché ho avuto un ictus e così mi sono di nuovo trasferita in via Bavaro, al Libertà, con Michele, e la famiglia di Ada. Non mi sono abbattuta, ho imparato a fare tutto quello che facevo con la destra, con la sinistra, ho rinunciato alle lunghe passeggiate per Bari, la città che ho adorato, con i fuochi a San Nicola, con quelle belle vetrine, col mare cangiante dall’azzurro al verde, come gli occhi della mia Bianca. Mi sono impegnata ma non è servito a molto perché un secondo attacco mi ha stroncata ed è stata la fine. Che consiste in… mi spiace, non posso dirvelo, farei: come dite adesso? spoiler e a quanto pare non è consentito, perché anche qui ci sono cose che si capiscono e altre no, ma in generale queste ultime soverchiano le prime. Ecco, questa è stata la mia vita, chissà se rinascerò… mi piaceva tanto, vivere.
     

  • MATARAZZO, UN REGISTA
    DA RIVALUTARE.
    PER ESEMPIO, "VORTICE"...

    data: 03/05/2021 15:37

    I film di Raffaello Matarazzo all’epoca ebbero molto successo ma rivedendoli oggi su Raimovie – tra la selva di western ripetitivi – mi sono accorta di essere al cospetto di un regista che non ha niente da invidiare a Hitchcock, eppure è molto meno citato. Matarazzo, dunque: un grande della storia del cinema, autore di tantissimi film, romano di famiglia napoletana, nato (e vissuto) a Roma il 17 agosto 1909 e morto il 17 maggio 1966. Ebbe successo soprattutto negli anni Cinquanta del secolo scorso, con drammoni popolari i cui protagonisti furono perlopiù Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. I suoi film, campioni d’incassi, rispecchiano la società dell’epoca e rivederli oggi è come leggere un trattato di sociologia, specie per la condizione della donna.

    Prendiamo “Vortice” del 1953. Qui abbiamo Elena, ovvero Silvana Pampanini sempre molto ben vestita e ingioiellata, che dopo un incontro con il fidanzato Guido (Massimo Girotti) trova il padre esanime a terra salvandolo appena in tempo dal suicidio col gas. Di questo padre si perderanno le tracce nel film ma Elena, parlando con un suo socio, Luigi Moretti ovvero il bravissimo attore Gianni Santuccio, viene a scoprire che il padre, bancario, si era indebitato sempre di più conducendo degli affari spericolati ed era nei guai, anche perché “non poteva permettere che la figlia lavorasse”, testuali parole. Eppure la figlia appare in ottima salute: alta e prestante, potrebbe fare qualsiasi lavoro ma nel film non lavora, legge Epoca o più spesso fotoromanzi e lavora a maglia, non fa nemmeno i servizi perché ha la cameriera. E allora? Un modo per salvare padre e figlia c’è: che Elena accetti l’offerta di matrimonio di Luigi, anche se non lo ama. Elena, un’ultima occhiata al padre languente, acconsente e di punto in bianco lascia il fidanzato, non rispondendo più alle sue giustamente insistenti telefonate. Matrimonio riparatore economico dunque e nasce una figlia, Anna, ma la vita si trascina stancamente senza amore. Finché Luigi, dovendo andare a Firenze, chiede all’amica Clara (Irene Papas, l’unica del cast ancora in vita), conosciuta da scapolo nei night che lui frequentava (e dove c’è sempre un motivo conduttore che trascina il film, qui si tratta di: “Non dimenticar le mie parole”, celeberrimo motivo) di accompagnarlo. Lei, sia pur riluttante, accetta ma il tempo è piovoso, la strada sdrucciolevole, hanno un incidente, Luigi resta lì, lei scappa. Poi Luigi viene portato in ospedale e chi lo opera? Nient’altri che Guido, nel frattempo divenuto chirurgo. E qui viene a informarsi dell’infortunato anche Clara che è rimasta sfregiata nell’incidente e si fa dare soldi, finché alla fine dà a Guido, rimasto paralizzato, una forte dose di sonnifero che lo ammazza. Elena nel frattempo esce una sola volta di casa, vagando disperata, passa da un bar dove ci sono o uomini soli o uomini con donne ma non donne sole e incontra Guido per caso. Però quando torna a casa trova il marito morto e insomma dopo vari interrogatori la condannano, decidono che sia stata lei a ucciderlo.

    Elena finisce in carcere, la bambina in collegio dalle suore dov’è vittima di bullismo da parte delle altre bambine quando queste sanno che è figlia di madre incarcerata. Eppure proprio le suore saranno la chiave di volta della vicenda: la piccola Anna, infatti, offesa dalle compagne, cade in deliquio e solo la madre da lei invocata potrà salvarla quindi la portano in carcere. Il direttore del carcere dice alle suore portatrici di bimba e messaggio psicanalitico: “Anche voi vi fate influenzare dalle moderne teorie psicologiche” ma le suore non recedono dal loro proposito e hanno ragione. Un solo abbraccio materno vale più di mille medicine. Ma a questo punto, riavuta fra le braccia la bambina, Elena non vuol più restituirla, sale impetuosamente le scale e minaccia di buttarsi giù finché arriva Guido appena in tempo a scagionarla e a dirle che è libera, perché lui ha capito conducendo indagini per conto suo il ruolo della ricattatrice Clara. Elena, una placida, rassegnata lacrimosa figura come tutte le protagoniste di Matarazzo, non si batte per la sua innocenza, non fa nulla, accetta passivamente tutto ciò che le viene proposto compreso il matrimonio salvifico (per il padre) ed è tutto merito del suo ex fidanzato (e si suppone nuovo marito) se riesce a uscire dal carcere. Come soluzione, non trovava di meglio che buttarsi dalla tromba delle scale o, in altri film, di farsi suora, non riuscendo a convincere nessuno della sua innocenza e tradita anche dalla cameriera con la sua decisiva testimonianza (“La signora insisteva perché andassi a dormire”, ma solo perché doveva uscire per incontrare Guido, non per uccidere il marito…).
     

  • "IL LIBRAIO DI VENEZIA"
    CHE SALVA I LIBRI
    E LA BIENNALE CHE TORNA

    data: 15/04/2021 19:39

    La Biennale architettura a Venezia si farà. Con le opportune misure del periodo: ci si dovrà prenotare per la visita (sul sito), si dovranno rispettare le distanze di sicurezza, eventualmente si dovrà presentare il passaporto di vaccino ma insomma è tutto pronto per l’apertura, prevista per sabato 22 maggio. La XVII edizione della Biennale andrà avanti, come sempre, fino al 21 novembre e questa volta la cura Hashim Sarkis, architetto presidente della School of Archtecture and Planning del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Il Leone d’oro alla carriera va alla memoria di Lina Bo Bardi (Roma, 5 dicembre 1914-San Paolo, 20 marzo 1992) architetta e designer naturalizzata brasiliana, allieva di Gio Ponti, attivista del Pci, di cui è famosa la “Casa di vetro” a San Paolo del Brasile, dove ha vissuto dalla fine della guerra poiché il marito, Pietro Maria Bardi, critico e giornalista, era stato fascista.

    Il tema della Biennale 2021 è How will we live together?, quanto mai emblematico della contingenza attuale che ci vede tutti chiusi in casa, in cui sono annullate o comunque stanno riprendendo molto lentamente le occasioni di assembramento sociale (a eccezione dei supermercati…). Sette le direzioni del programma, con installazioni, filmati in streaming, eventi collettivi, vari incontri distribuiti fra i Giardini dell’Arsenale e Forte Marghera. Protagonista del padiglione Venezia sarà Michele De Lucchi.

    Venezia dunque si è ripresa da quella che, se non ci fosse stata questa pandemia, sarebbe stata di sicuro la sciagura ambientale più grave verificatasi in Italia negli ultimi tempi: l’acqua alta del 12 novembre del 2019, con livelli di metri 1.87, quasi pari a quelli del 4 novembre 1966, l’anno caratterizzato dall’alluvione (ci fu anche a Firenze). Ca’ Foscari, l’ateneo veneziano, ha organizzato il sito Aquagranda in cui sono raccolte tutte le testimonianze di quei giorni terribili. Una sorta di archivio digitale quanto mai utile e del resto ovvio in una città che ha fatto della stampa e della memoria la sua stessa ragion d’essere. Perché l’acqua, col calare dello scirocco e con il solito gioco delle maree, è lentamente defluita, ma ha lasciato dietro di sé molti danni. L’acqua, quella notte, era “cattiva” e il Mose, che dopo anni di collaudi e di ruberie, è stato messo in moto solo una volta dopo quel novembre, è di nuovo nel gorgo delle polemiche. Il comitato tecnico si è dimesso in blocco denunciando che le paratie della grande diga sono ormai arrugginite e inservibili. Una notizia che passa sotto silenzio, sovrastata dalle altre più urgenti.

    I danni furono molti, alle opere artistiche, ai negozi, ai libri. Ecco, i libri: se si bagna, la carta, questo materiale fantastico, non si può asciugare col calore di un fon o del termosifone, si arriccia… E come hanno fatto le 23 librerie veneziane? Lo spiega molto bene Giovanni Montanaro, giovane ma già accorsato autore veneziano, nel suo romanzo Il libraio di Venezia, instant-book visto che è stato scritto proprio a ridosso di quel 12 novembre e pubblicato da Feltrinelli (pagg. 144, 12 euro) con una magnifica copertina. I librai, come tutti, si sono rimboccati le maniche, come sempre, hanno raccolto ciò che si poteva recuperare, hanno collocato i libri negli scaffali più alti (in città risuona una sirena che preavvisa dell’acqua alta imminente) e attraverso la storia di Vittorio, libraio della Moby Dick, immaginaria bottega nei pressi di campo San Giacomo, Montanaro ci fa rivivere quelle tragiche ore. Alla fine del libro poi c’è un prezioso elenco delle librerie autentiche di Venezia, che si presentano in prima persona, come se fossero dei personaggi. Tali in effetti sono insieme al barista cinese, alla merciaia in pensione che osserva tutto dalla finestra, al vecchio professore che non manca mai di fare acquisti da Vittorio, del prete che gli ordina diverse copie della Bibbia, a Sofia, la ragazza di cui il libraio è innamorato. Non c’è solo l’acqua alta, c’è anche il caro-fitti che costringerà il libraio a sloggiare.

    Dalla cronaca si può fare letteratura e Montanaro c’è riuscito benissimo: leggiamo le pagine in cui Sofia, uscita incautamente nonostante la pioggia battente e il vento e l’acqua che monta e il buio, rischia di cadere nel canale della Giudecca e ci sembra di essere con lei. Un piccolo grande libro che davvero merita di essere diffuso e che dà conto anche della mobilitazione dei giovani, che da tutta la provincia, chiamandosi con whatsapp, hanno effettuato fornendo agli abitanti ogni tipo di aiuto. Come a Firenze, tanti anni fa. Venezia va salvata e amata, anche coi libri.
     

  • VENEZIA, LA PIU' BELLA
    COMPIE OGGI 1.600 ANNI

    data: 25/03/2021 15:39

    E così oggi si celebra il compleanno di Venezia: la Serenissima compie 1600 anni. La data di posa della prima pietra della chiesa di san Giacomo a Rialto viene indicata appunto nel 25 marzo 421 e, sebbene la data, come per Roma del resto, sia alquanto controversa, viene data per buona. La leggenda narra che popolazioni locali, in fuga dagli unni di Attila, si siano rifugiate nella laguna. Il vasto territorio di barena, terra mista a mare, in uno scambio di alta e bassa marea con l’Adriatico, che dalla foce del Po si estende fin quasi a Grado, costituì un ottimo rifugio. Le prime abitazioni furono semplici palafitte, approfittando della vicinanza dei boschi del Cadore e dei fiumi (l’Adige, il Brenta, il Piave), per trasportare a valle i tronchi che servivano da fondamenta alle costruzioni; man mano questi edifici hanno preso forma sempre più precisa e bella. Il luogo stesso è diventato fonte di reddito sia per la pesca, originariamente, ma anche per il ricco entroterra. L’industria del vetro si è avvalsa anch’essa della disponibilità delle materie prime, così come quella delle costruzioni della pietra delle cave istriane (gli schiavoni della famosa riva erano sloveni). Nei secoli sono sopraggiunti un governo particolare, la ricchezza e l’operosità. Con la caduta della Repubblica, nel 1799, Venezia fu ambita da francesi e austriaci, fino all’unione d’Italia, descritta bene in “Senso” di Luchino Visconti (dal racconto di Camillo Boito, con la Fenice in primo piano). Nel corso dei secoli Venezia diventò quel prezioso tesoro, unico al mondo, che l’Italia ha il privilegio di ospitare. I sestieri, i sei settori in cui la città è suddivisa, si snodano intorno al Canal Grande e tutti i rii, i campi e campielli, le fondamenta, i vicoli e i sottoporteghi sfociano in piazza San Marco.

    Oggi alle 11 dalla Basilica di San Marco ci sarà la messa celebrata dal patriarca Francesco Moraglia; alle 16 le campane delle numerose chiese della città suoneranno all’unisono a distesa. Dalle 18.30 ci sarà uno speciale su Raidue in cui si racconterà tutta la storia dei sedici secoli della Repubblica del Leone. Sarà un’occasione per vedere Venezia in tv come accade in diretta il 5 settembre per la Regata storica. Tutto cominciò con l’”aqua granda” del 12 novembre 2019: l’acqua alta invase la città raggiungendo quasi lo stesso livello della tragica alluvione del 1966. Il picco di marea superò i 180 cm e sommerse l’80% per cento della città, provocando ingenti danni. Poi, qualche mese dopo, ci fu l’emergenza Covid che ha colpito tutto il mondo e Venezia si è svuotata dei turisti che l’affollavano quasi tutti i giorni. Sul sito: www.aquagrandainvenice.it, realizzato dall’Università Ca’ Foscari con Science Gallery e Odycceus, è possibile seguire video e testimonianze su quei giorni: una memoria collettiva digitale importante in una città che ha un Archivio di Stato (a campo dei Frari) che si articola per ben 70 chilometri di scaffali, in cui è racchiusa tutta la storia di questa città particolare. Il Mose, la diga che ha richiesto anni e anni di costruzione e che ha sperperato denaro per la corruzione di chi l’ha promosso, si è mostrato efficace poche volte. Lo scirocco ha avuto la meglio sui suoi congegni e l’acqua alta resta un problema. La città, ridotta a poco più di 50mila abitanti, deve approfittare di questa pausa forzata per studiare meglio il delicato equilibrio lagunare, migliorare le tecniche di difesa e impegnare le sue numerose forze per far sì che il mare continui a essere un alleato e non un nemico. Intanto le grandi navi, che aumentavano in modo spaventoso il moto ondoso, non stanno passando più per il bacino di San Marco e nei giorni scorsi si sono visti invece i delfini nuotare in mare. Il turismo frenetico degli ultimi decenni ha comportato la sparizione delle botteghe tradizionali e il moltiplicarsi dei ristoranti da pizze al taglio e dei locali di vetro (cinese in realtà).

    Indietro non si torna, mai. E Venezia rimpiange di certo la folla che faceva anch’essa parte del suo panorama. Quando si sale sul campanile di San Marco e si vedono i tetti rossi che punteggiano il verdazzurro dei canali, ci si rende conto che, al di là di ogni triste retorica, Venezia è bella proprio perché è una Città.

    Ho preso vaporetti affollatissimi in bilico sulla traversata per arrivare al Lido. Ho assistito a un concerto durante un temporale in una chiesa sulla Riva degli Schiavoni; la luce se ne andò ma l’orchestra continuò a suonare Vivaldi. Ho ammirato i dipinti della scuola di San Giorgio, mi sono incantata davanti ai Frari, mi sono stupita dei mosaici dorati di San Marco. Ho scoperto scorci inattesi e perso la strada mille volte, finendo in vicoli ciechi per tornare sui miei passi. Sono stata quasi travolta dalla ressa durante un Carnevale; ho ammirato la lentezza della linea 1, dal cui pontile godere di tutto il paesaggio inimitabile. Mi sono rifocillata con uno spritz e un tramezzino. Ho sentito parlare il dialetto di Carlo Goldoni, come se lui fosse ancora lì. Ho visto film all’aperto in campo Santo Stefano, ho visitato antiche dimore dalle numerose stanze. Santa Marta, San Pantalon, santi Giovanni e Paolo, San Giorgio nell’isola, san Zaccaria, santa Maria Formosa… quanti santi, il Redentore, il ponte di barche e i fuochi d’artificio a luglio. E se fossi stata stanca (ma non lo ero mai) c’erano Burano, Murano e Torcello e la laguna da visitare magari in gommone. Sono scappata vigliaccamente quando ho visto l’acqua dell’Adriatico aggredire un lato del Palazzo ducale come se fosse stata una spiaggia. Una volta mi sono sentita seguita e a disagio alla Biennale e una nuvoletta di vento mi ha portato in salvo leggermente. Venezia è stata una delle poche promesse avveratasi della mia vita: la prima volta che ci andai mi ripromisi di viverci, cosa che si verificò sei anni dopo per pura combinazione. Amo Venezia e non sono certo l’unica, la amo col sole e con la pioggia, con la nebbia di Santa Lucia e col gelo del suo inverno. Ma non resisterei all’acqua alta e capisco chi la evita. Per tutto il resto… che città! Che meraviglia! Eppure hanno cercato di annerirla con i fumi di Marghera, di indebolirla con i transatlantici in pieno bacino.Venezia, patrimonio dell’umanità, salviamola, salviamoci. E oggi festeggiamola!

     

     

     


     

  • "UN POSTO ALTROVE"
    E' VENEZIA E UN BEL FILM
    PER HAMDA E MEHDI

    data: 22/02/2021 17:57

    E’ un film di rara efficacia “Un posto altrove” di Andrea Onori e Luca Sella, un film che andrebbe visto spesso e ovunque, a cominciare dal Parlamento italiano dove siedono ancora impenitenti ex ministri e deputati che hanno tenuto in mare profughi provenienti da viaggi disastrosi come quelli che raccontano i due protagonisti di questo prezioso, indispensabile documento.

    Ogni volta che ascoltiamo distrattamente di qualche bomba a Mogadiscio, dovremmo stare a sentire Hamda Ismail Haybe, una ragazza che non vuol ricordare la sua città “bella e fresca”, Johar, dove viveva fino a pochi anni fa con madre padre e sette fratelli (erano otto ma un fratello è morto da piccolo per mancanza di medicine) fino al bruttissimo giorno in cui una banda armata irrompe nella sua casa e comincia a insultare il padre perché non vuole darle le patate e i pomodori che coltiva per mantenere la famiglia. “Quegli uomini erano armati e da tempo perseguitavano mio padre, io sentivo che sarebbe finita così quella mattina, infatti hanno caricato i mitra e hanno sparato a mio padre subito, lo hanno ucciso!” Da allora per Hamda la vita si trasforma in un incubo, pensa solo a fuggire, vuol venire in Europa: perché in Somalia non c’è un governo, non si hanno documenti, non si va a scuola, ci sono le caste e le faide, c’è questa violenza inaudita, impunita, non si può vivere.

    Lo racconta Hamda con il suo bell’italiano forbito nonostante lo stia studiando da poco, e con la voce sfiatata di chi ha subito tutto dalla vita ma anche con la forza di chi vuol andare avanti. Infatti, sentite cosa ha fatto questa ragazza, altro che odissea: attraversa a piedi il confine con l’Etiopia (otto giorni di viaggio!), poi sempre a piedi raggiunge il Sudan. Quindi deve entrare nel deserto per trovare un passaggio in Libia per l’Italia: le occorrono soldi, perciò si adatta a fare tutti i lavori che le capitano per mettere insieme 1.500 dollari, quanto costa questo passaggio nella sabbia bruciata dal sole. La traversata è atroce: la gente, lei compresa, è debolissima, annientata dal sole, perde sangue dal naso. Il trafficante di uomini che li guida dà loro ogni tanto acqua mista a benzina che brucia lo stomaco: evidentemente, ragiona Hamda, non gli importava farli arrivare vivi in Libia, li avrebbe lasciati morti nel deserto per tornare indietro a prendere altri migranti. Passano venti giorni così…Ma lei, con pochi altri di un gruppo di 120 persone, arriva in Libia, l’inferno in terra. Infatti qui viene imprigionata e picchiata regolarmente; ha preso tante di quelle botte che ancora le duole la schiena. Ancora altri sei mesi così, all’addiaccio in una misera cella, alla mercè di gentaglia, in attesa d’imbarcarsi. Ed ecco, arriva il momento: “Io pensavo che avremmo avuto una barca grande perché eravamo in 50, invece ci danno un gommone piccolo, con un motore debole e, nonostante le previsioni del tempo garantissero mare calmo, scoppia una bufera con ondate spaventose e siamo costretti a tornare indietro”. La povera Hamda a questo punto è del tutto scoraggiata, pensa che il suo sia un brutto destino ma la permanenza in Libia è ancora peggiore di qualsiasi previsione, riesce a scappare e a imbarcarsi di nuovo e stavolta, dopo 4 giorni di viaggio egualmente tempestoso, arriva a Lampedusa. Poi di là passa nel campo profughi di Foggia dove ancora non si fida di nessuno, prende il cibo e scappa a mangiarlo sotto un letto fin quando non viene rassicurata e poi portata a Venezia grazie al progetto Sprac che attua in Italia un sistema di protezione, di cui si parla davvero troppo poco

    La testimonianza di Hamda si alterna con quella di Mehdi Hosseini. Hamna è sulla riva degli Schiavoni a Venezia, scrive il suo nome su un diario che poi dimentica alzandosi e proseguendo per le calli, lei che non pensava mai, dopo tanto mare, di abitare e trovare la nuova vita in una città così piena di mare. Il diario lo raccoglie Mehdi, che spiega subito: straniero ha un duplice significato, di chi viene da un altro paese ma anche di chi non capisce. “Essere libero non significa fare quello che vuoi ma quello che senti”. E Mehdi, poco più che ventenne, in Iran si sentiva teatrante, attore, giornalista e filosofo sufi. Tutto ciò che il regime osteggia ed ecco il suo racconto, in un italiano stentato ma preciso.

    A Esfahan, la città dalla cupola blu, Mehdi ha ancora i genitori, tre sorelle e un fratello, tutti studiosi in materie scientifiche e in matematica. Invece lui ha la passione del teatro, scoperta durante una recita scolastica ad appena dieci anni e quindi, al momento di scegliere l’università, si trasferisce ad Aarak, da solo, con tutto l’entusiasmo dello studente fuori sede, comincia a fare teatro, poi diventa giornalista, partecipa anche a trasmissioni importanti della radiotelevisione iraniana, come “Buongiorno Iran”, poi si appassiona al sufismo, una filosofia più che una religione avversata dal regime islamico, di fatto una tirannia teocratica. Un bruttissimo giorno anche per lui è quello in cui venti bruti armati, poliziotti in borghese, entrano nella loro radio Majzooban e arrestano tutti i presenti, erano in undici. Mehdi si ritrova rinchiuso in una cella piccolissima (cinque passi poteva fare a stento) senza sapere cosa sarà di lui. Quando finalmente esce, matura la decisione di andare via dall’Iran e i genitori sono d’accordo: riescono a comprare per lui un visto per l’Italia, così Mehdi raggiunge Milano in aereo e di lì parte per la Svezia, dove ha un amico che lo accoglie. Deve però tornare in Italia perché il suo visto è limitato (alla faccia di Schengen) e così si trova adesso a Venezia, prima al centro Boa poi integrato in città, perché lui vuol far parte della società locale anche se per vivere fa panini. Si sente vivo, si sente libero, e riscopre la sua passione al teatrino della Murata e seguendo un master di teatro a Ca’ Foscari. Certo, ha passato il primo Capodanno da solo, lontano dalla sua famiglia che sente regolarmente con Skype ma giovane e intelligente com’è, si è anche fidanzato con Giovanna, che l’ha aiutato molto per le infinite pratiche burocratiche. Basti pensare che solo per ottenere lo status di profugo politico qual è a tutti gli effetti, ha dovuto spiegare per cinque ore la sua situazione.

    Mentre Hamda ha seguito un corso per cameriera d’albergo, adesso lavora e vive a Venezia dove segue un corso di studi, partendo da zero, e manda soldi alla sua famiglia, consapevole però di non voler tornare in un paese che le ha fatto tanto male come la Somalia.

    Le musiche di Mauro Martinuz accompagnano malinconicamente questo altrove dei due giovani, in una Venezia brumosa circondata però da verdi prati e alti alberi, tornando nel finale però a quell’acqua della laguna, simbolo di comunicazione e di fratellanza fra i popoli.

    Hamda e Mehdi sono stati accolti dal Progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati a cura di Anci e ministero dell’Interno). I due registi si sono avvalsi della collaborazione anche degli operatori del Centro di accoglienza Darsena delle Opere Riunite Buon Pastore, del Centro Boa di Tessera di Co. Ge. S. don Lorenzo Milani Società Cooperativa sociale, dell’associazione Murata Giovani e della città di Venezia, tutti ringraziati nei titoli di coda.
     

  • TEMPRA D'ACCIAIO
    NE DEVI AVERE
    PER FARE L'EDICOLANTE

    data: 19/02/2021 20:28

    L’ultimo, in ordine di tempo, a chiudere è stato “Garibaldi”: l’avevo soprannominato così per la folta capigliatura e la barba rosse. Aveva anche scritto un libro su Federico II, oltre 600 pagine pubblicate a sue spese: si era spostato da un viale ad alto scorrimento di traffico a piazza Grimoaldo degli Alfaraniti, un po’ appartata, e purtroppo sempre meno frequentata in questi tempi. Il locale era ampio, ben protetto da un tendone ma evidentemente non è bastato. Le ultime notizie danno “Garibaldi” emigrato al Nord, del resto è ancora giovane. Chissà cosa farà. Non è stato il primo: le edicole spariscono così, da un giorno all’altro e temo il momento in cui, come le cabine del telefono, non ce ne saranno più, a sancire la scomparsa di un mondo. A Bari come altrove.

    Mai come in questo periodo, infatti, quando i bar, causa pandemia, chiudono alle 18, proprio le edicole diventano dei centri di scambio e di aggregazione, tipico di ogni commercio se vogliamo, ma in questo caso ancora di più e ben lo sanno gli esercenti che resistono molto spesso solo per passione. Loro potrebbero anche sostituire l’insegna “Giornali e riviste” con “Chiacchiericcio”, in quanto ci sono degli habituèes che non sanno evidentemente con chi parlare e vanno al chiosco. In viale Mazzini, c’è Gigi, con un figlio giornalista fuori Bari, un salto professionale anche se, si badi bene, l’uno non esiste senza l’altro, almeno finché la comunicazione virtuale non prenderà il sopravvento. E’ sempre interessante fermarsi a parlare con lui che purtroppo ha subito anche delle rapine ma non si è lasciato demoralizzare. Cosa sarebbe corso Cavour senza le sue edicole che lo punteggiano quasi a ogni isolato? O le piazze Massari e Risorgimento o il giardino Garibaldi senza i loro bei capanni, con i giornalai sempre gentilissimi, disposti a slegare il pacco della resa se qualcuno chiede la sera il giornale che avrebbe dovuto comprare molte ore prima? E sì che molti, specie in centro devono poi raggiungere case non vicinissime. Tutto il Murattiano è costellato di edicole: via Quintino Sella, via De Rossi, corso Vittorio Emanuele, via Calefati, via Abate Gimma, via Nicolai, via Crisanzio, via Cardassi, Lungomare, ma un tempo erano molte di più.

    Daria stava in viale Giovanni XXIII, quartiere Picone: ha chiuso senza salutare, anche lì gli acquirenti erano in calo, con questa pandemia non ne parliamo, si esce poco di casa. Emblematico ciò che succede anche col teatro e l’edicola in fondo è un piccolo teatro, dove si avvicendano comparse a commentare i fatti del giorno. Dal Petruzzelli l’altra sera un pianista russo ha salutato col tradizionale inchino di fine concerto il pubblico che idealmente gli stava di fronte mentre la platea alle sue spalle era vuota. La serata era molto fredda, prima del 12 marzo 2020 si sarebbe dovuto uscire, cercare parcheggio per tempo, pagare il biglietto ed entrare nel Petruzzelli. Adesso il concerto lo si vede tranquillamente da casa, gratis, in televisione o al pc, e così per tante altre attività. E’ un cambiamento epocale. Le edicole sono nell’occhio del ciclone, come tutto del resto, un luogo tranquillo ma per quanto ancora? Fino a quando il ciclone non le travolgerà? Di certo c’è che a resistere in questo tipo di lavoro sono i più tenaci, i più appassionati, come Lele sotto i portici di via Cirillo, un vero e proprio negozio punto di riferimento per chi colleziona fumetti. Perché ci sono anche i negozi veri e propri, ma anch’essi in pericolo. Nel rione San Pasquale per esempio ha chiuso l’esercizio di via Re David ma resiste quello di via De Gasperi vicino al giardino della Chiesa russa, così come quello antistante parco 2 giugno: solo che adesso giardini e parco sono sempre più disertati.

    Con una tabaccheria alle spalle e piazzetta dei Papi rimessa finalmente a nuovo, a Poggiofranco, rione barese di mista popolazione, un po’ poveri un po’ ricchi (del resto è molto esteso), l’edicola di Francesca invece resiste, grazie alla grande forza di volontà della sua titolare, ora aiutata dai due figli che hanno provato altri impieghi ma hanno preferito aiutare la madre che si era ritrovata da un giorno all’altro a gestire l’esercizio anni fa, quando era rimasta vedova.

    Tempra d’acciaio ne devi avere per fare l’edicolante. C’è tutto un popolo che lavora di notte per divulgare il giornale, il quotidiano e al seguito tutta la carta stampata, per far sì che dal più sperduto borgo montano alle isole così come nelle metropoli, da Patù a Canicattì come a Roma e a Milano, tutti al mattino possano trovare la loro copia del giornale. Basta considerare il gran lavoro che c’è dietro ogni distribuzione dei giornali, senza tralasciare l’apporto fondamentale degli alberi, e ci si accorge che il prezzo medio di due euro è proprio una sciocchezza. Se l’edicola apre alle 6 l’edicolante deve preparare tutto almeno dalle 5, quando arrivano le copie. E come Raffaele, in viale Pio XII, resta lì fino alle 22, perciò lo chiamo Stakanov: i figli aiutano anche lui. Si tratta infatti molto spesso di conduzioni familiari, perché una volta acquisita la licenza la si passa di padre in figlio. Ma purtroppo è un’attività che sta scomparendo: basta sostarvi qualche tempo per accorgersi che sono soprattutto gli anziani a comprare il quotidiano, mentre giungono anche molti bambini con i genitori o più spesso coi nonni, a prendere i giochi che sono esposti in gran quantità, dato che i giocattolai sono via via scomparsi.

    Ci sono quelli che acquistano i grattaevinci in modo compulsivo, ci sono, la maggioranza, coloro che ricaricano il telefonino: insomma l’edicola si deve riciclare per forza in una sorta di cartoleria. Libreria lo è già: ormai libri al di sotto dei 16 euro si trovano in prevalenza solo qui, così come dischi, raccolte fotografiche, calendari, agende, periodici, modellini da costruire (ultimo arrivato l’Orient express), il ricco armamentario che coloro che frequentano le vecchie care botteghe sanno di trovare. Con un gomitolo a settimana si è composta una grande coperta colorata.

    Manca del tutto però l’utenza dei ventenni-cinquantenni, lo sguardo fisso sullo smartphone. Ormai l’edicola è digitale e non da ora. La stazione di Bari è rimasta per anni senza edicola, dopo che quella di Teresa, fornitissima, aveva chiuso i battenti, seguita a ruota da una analoga al primo binario. Quanti libri acquistati al volo prima della partenza. E come si legge bene in treno: ma adesso nel minuscolo spazio dello smartphone sono racchiuse intere enciclopedie. Come sarà il futuro?
     

  • IL "CASO AUSTRIA"
    NELLA GIORNATA
    DELLA MEMORIA

    data: 30/01/2021 18:59

    Da dieci anni a questa parte, si celebra la Giornata della Memoria, che ricorda la strage incredibile che appena pochi decenni fa regimi dittatoriali fuori controllo di ogni razionalità e umanità, partendo da Italia e Germania, hanno effettuato di ebrei, minorati (a loro dire), zingari e oppositori politici. Il 27 gennaio 1945 i soldati dell’Urss spalancarono i cancelli di Auschwitz, enorme campo di sterminio e si trovarono davanti all’inferno in terra. In questo posto orrendo, reso tale dagli uomini, dai nazisti, furono trucidati più di un milione di prigionieri (e in tutto le vittime furono oltre sei milioni, come non si deve smettere di sottolineare). Numerose sono state le iniziative per questa ricorrenza. E i film e i documentari trasmessi dalle varie reti. La scorsa fine settimana Rai5 ha mandato in onda, dal teatro stabile Mercadante di Napoli, “Piazzale degli eroi” di Thomas Bernhard, con la regia di Roberto Andò e la partecipazione di attori bravissimi, i quali alla fine dello spettacolo hanno applaudito la platea, vuota perché a teatro non si può andare, come si usa fare a fine spettacolo in risposta agli applausi del pubblico. Gli applausi comunque ci sono stati, hanno fatto bene gli attori ad applaudire a spettatori invisibili, perché coloro che hanno visto la recita sono rimasti ben contenti di applaudire a loro volta davanti alla tv, per uno spettacolo davvero degno di nota.

    “Piazzale degli eroi” è stato l’opera-testamento del grande scrittore austriaco. Nipote di uno scrittore, figlio di ragazza-madre, nato in Olanda il 9 febbraio 1931 e morto in Austria il 12 febbraio 1989, ha una storia marchiata dall’orrore di quegli anni da cui comunque riuscì a evadere, nonostante gravi problemi di salute. Il padre, che non conobbe, si suicidò in Germania; Thomas visse a Salisburgo e a Monaco conobbe comunque suo padre che era un olandese dissidente del nazismo e si tolse la vita quando lui era piccolo; visse per lo più a Salisburgo e a Monaco, dove in collegio subì un’educazione nazista, poi contrasse la tubercolosi, non stette bene ma insomma riuscì a diventare il grande scrittore che fu. E contestò sempre l’ipocrisia borghese e populista del suo Paese. Questo suo testo teatrale, pubblicato anni fa da Einaudi, è introvabile. Quindi il lavoro di Andò nel recuperarlo è quanto mai opportuno.

    Con quegli anni, gli anni Trenta del secolo scorso, spesso si dice che gli europei, la culla della civiltà, non hanno voluto fare i conti. La Germania sì, ha ripensato molto, si direbbe giocoforza, alle sue perversioni ma quanti altri Paesi, che allora sono stati a guardare se non sono stati parte attiva della dittatura, come l’Italia, lo hanno fatto? Non molti, a giudicare poi dai rigurgiti di certe teorie aberranti o di certi consiglieri comunali che votano con la mano destra tesa, come pochi giorni fa a Cogoleto, in Liguria. Bernhard sì, ha sempre rielaborato questo vulnus, questa enorme ferita nel cuore dell’Europa e in Piazzale degli eroi rivolge un atto d’accusa terribile all’Austria. Infatti alla prima rappresentazione dell’opera fu contestato, gli rivolsero epiteti infamanti, fra cui quella di essere un usurpatore, uno che sputa sul suo nido. Ma un Paese, l’Austria, che ha accolto con grida festose il dittatore, l’imbianchino folle nel senso deteriore del termine, nel 1938, come può questo Paese, lo stesso dell’autore, che infatti lo ripudiò, dirsi civile?

    Dev’essere stato il tormento interiore, la stessa angosciosa domanda che avrà portato al suicidio Stefan Zweig che nel “Mondo di ieri” aveva tracciato un ricordo idilliaco dell’impero austroungarico. Ma lo stesso Zweig, in “Lettera da una sconosciuta”, descriveva il “mattatoio sentimentale” in cui si ritrovavano molte donne austriache, molte viennesi. La condizione della donna è una cartina di tornasole efficace di qualsiasi civiltà. Basta leggere questo racconto di Zweig o i romanzi di Arthur Schnitzler “Verso la libertà” e “Teresa”. Che cosa succedeva spesso infatti nella “civilissima” Austria nell’Ottocento? Che molte donne avevano una relazione clandestina, spesso con ufficiali di carriera o uomini sposati e poi si ritrovavano incinte, abbandonate. Per vivere non avevano altra scelta che “darsi alla vita”, anche perché avevano un figlio da mantenere, di solito lasciato in istituti o in campagna a pigione da contadini. Sembra impossibile ma pare che fosse la norma. La stessa imperatrice Sissi, che passa per un’antesignana del femminismo e che in effetti era una donna molto colta e libera, doveva chiudere un occhio di fronte al fatto che il marito andasse a prostitute e trasmettesse malattie veneree a lei e al figlio Massimiliano.

    Falsità, ipocrisia, servilismo e abiezione morale ed economica: terreno di coltura per ogni dittatura. Antisemitismo come capro espiatorio, come nemico da indicare, con la complicità della chiesa cattolica e il guaio è fatto, dittatore o non dittatore. Ed ecco nel 1938, al momento dell’annessione dell’Austria alla Germania, quelle grida nel piazzale degli Eroi (“Heldenplatz”), quell’acclamare a gran voce il dittatore tanto che 50 anni dopo la moglie di uno dei due fratelli ebrei Schuster appena morto, nella casa affacciata sul piazzale, le sente ancora, le urla, e non riesce a darsi pace. Il professore Schuster che, a differenza del fratello, era andato a rifugiarsi a Oxford, torna e vede un paese per nulla cambiato. Le nipoti gli ricordano il teatro, la musica e lui: “Ma in Austria oltre la musica non c’è niente!” E comincia un monologo chiarificatore: “Mi meraviglia soltanto che tutto il popolo austriaco non si sia suicidato da un pezzo ma gli austriaci nell’insieme in quanto massa oggi sono un popolo brutale e stupido. (…) Quel che è rimasto a questo povero popolo minorenne non è altro che il teatro. L’Austria stessa non è altro che un palcoscenico sul quale tutto è depravato deteriorato e decomposto, una compagine di comparse detestata da se stessa fatta di sei milioni e mezzo di dementi nonché pazzi furiosi che ininterrottamente gridano a squarciagola reclamando un regista. E il regista verrà per spintonarli definitivamente giù nel baratro”. Dice, il professore, che sono tutti servi del populismo, alla mercè di una classe politica ignorante e corrotta che viene seguita perché anche il popolo non le è da meno. Bernhard, con questo suo lavoro urticante, fu fischiato al Burgtheater, il più prestigioso di Vienna, e anche in Italia questa sua opera è misconosciuta. Ecco cosa dice il regista Andò, che ha messo in scena “Piazzale degli eroi” a Napoli (e con la regia televisiva di Barbara Napolitano): “’Piazza degli eroi? è un capolavoro che inspiegabilmente in Italia non è mai stato messo in scena. Se è venuto il tempo di rappresentare questo lavoro di Bernhard è proprio perché a dispetto della inedita precisione realistica dell’autore, per comprendere oggi il senso di questo testo visionario e catastrofico non occorrono indicazioni di luogo e di tempo. I telespettatori che assisteranno a ‘Piazza degli eroi’ capiranno subito che l’azione di svolge in una qualsiasi piazza da comizio, di una qualsiasi città europea”.

     


     

  • CAPITALE DELLA CULTURA
    IN VIDEO TARANTO
    SEMBRA BATTERE BARI

    data: 17/01/2021 12:54

    Lunedì si saprà. C’è grande attesa per la proclamazione, da parte di una commissione di esperti del Ministero dei beni e delle attività culturali (Mibact), presieduta dal professor Stefano Baia Curioni (un economista della Bocconi esperto in cultura metropolitana; ah ecco!), della città vincitrice del titolo di Capitale della cultura 2022. In palio dieci città, tra cui sarà scelta quella a cui passare il testimone da Parma, a sua volta succeduta a Matera: Ancona, Bari, Cerveteri, L’Aquila, Pieve di Soligo (Treviso), Procida, Taranto, Trapani, Verbania e Volterra. Gli scommettitori danno L’Aquila per favorita. Ma vediamo come si sono presentate le due candidate pugliesi.

    Bari lo ha fatto con un video del regista Alessandro Piva, quello de “LaCapaGira” e la capa gira non poco con la girandola di personaggi che ha presentato. Il suo sarebbe una sorta di manuale Cencelli della cultura cittadina: c’era quello e c’era quell’altro, inevitabilmente gli esclusi si sentiranno (giustamente) tali ma soprattutto non si capisce in base a quale criterio, se non il suo personale, Piva abbia scelto i volti della cultura. A parte il fatto che sono anonimi, bisogna conoscerli per riconoscerli e, tranne due o tre, diciamo pure cinque più famosi, della gran parte non si capisce il motivo dell’iscrizione nella categoria culturale, come il ben piantato tizio a mani conserte (un topino? Un bullo?) che precede un primo piano del Petruzzelli. Ma soprattutto c’è un’aria che circola di freddezza, di città “che ascolta”, di “capitale umana” e ci mancherebbe che fosse disumana (come pure a tratti Bari è), c’è quella musica angelica, corale, assordante di sottofondo che stacca sui volti raggelati in un sorriso, che si allontanano, specie di zombie metropolitani, senza le grida, le voci di una città che pure ha un dialetto assordante e spigoloso che ormai parlano in pochi, ma che pure è cultura. Ecco, la città ascolterà pure ma non parla.

    Ci sono cinquanta personaggi, per primo uno che non si sa, il parroco di Japigia, Angelo Cassano, il critico d’arte Pietro Marino (nonché giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, che avrebbe meritato almeno un passaggio fotografico, visto che un giornale fa anche cultura, non si può negare). Alessandro Laterza che più che fare cultura la produce, infatti è un editore ed è anche un esponente della Confindustria. Recentemente si è messo in luce per la sua critica contro le scrittrici italiane, a suo dire ferme alla Ginzburg e alla Morante e sarebbe bastato uno sguardo alla sua libreria (ignorata come le altre della città) per vedere quanto scrivono oggi le donne. Comunque, considerando la commissione giudicante, ci sta. Uno sguardo rapido al Margherita, uno dei teatri, adesso desolatamente vuoti, del Comune che pure aveva appena stabilito un loro itinerario, e sarebbe stato bene far vedere almeno il Piccinni e, di fronte, la statua del compositore settecentesco Niccolò…Ed ecco un pescatore che rammenda le reti, un altro che mostra le sue mani, un altro esibisce una bella rana pescatrice (alla faccia della protezione animali, e meno male che ci è stata risparmiata la solita sbattitura del polpo!). C’è qualcuno vicino al faro (mi spiace, non lo conosco), ecco lo scrittore Nicola Lagioia col mare sullo sfondo, un uomo con la barba, il cappello e gli occhiali scuri, in pieno look da 007 in trasferta (senza mascherina, superflua a ‘sto punto), un’anziana che sfoglia foto, Carlo Bruni e Teresa Ludovico che leggono Brecht (magari qualcosa di più recente e di più barese, no?), il pianista Emanuele Arciuli (ma senza pianoforte), dei ragazzi a scuola con la prof tutti mascherati come d’obbligo, e la musica in sottofondo ne sottolinea l’angoscia dei tempi.

    Ecco la filosofa Recchia Luciani nel cortile dell’Ateneo; sugli spalti del castello lo scrittore Gianrico Carofiglio che scrive qualcosa su un taccuino sorridendo sornione; subito dopo un cuoco con camice nero (sempre in linea con le note in colonna sonora, angoscianti, ancora). Ecco, questa cultura è piuttosto televisiva, perché s’indovinano anche dei personaggi da trasmissioni di Realtime, come la tanto esaltata Nunzia delle orecchiette o il rosticciere dei baracchini. Chi è che si allontana sorridendo in via Venezia? Gianluigi Trevisi, l’artefice di Time Zones, seguito da Nicola Conte, il musicista techno, Vittorino Curci, il poeta, o forse no, forse qualcuno che gli somiglia, piuttosto un ecologista al parco Gargasole (e sarebbe stato bene mostrare i bei murales lungo via Giulio Petroni).

    Una fotografa, un salumiere, la focaccia, un tipo losco con san Nicola tatuato sul braccio extralarge, le cime di rapa…Oh finalmente un po’ di cultura: i mosaici del succorpo della cattedrale di San Sabino e la cripta della basilica di san Nicola, con la statua del santo protettore della città, veloce veloce; ortodossi in preghiera e il pope davanti alla decentrata chiesa russa di Carrassi. Ma allora sarebbe stato opportuno dare uno sguardo anche ad altri quartieri della città e non al solito centro. 8-8-1991; non ricordo a cosa si debba questa data impressa su un edificio color ocra, poi c’è Tarshito, un artista che piace molto alla gente che piace. Seguono altri tre personaggi culturali senza dubbio, un gruppo di lavoro, diciamo che qualche didascalia avrebbe aiutato, tetro come un gruppo di Csi (ancora la tv) ed ecco Paolo Sassanelli davanti a san Sabino, almeno l’attore è noto, riconoscibile. Vito Signorile declama muto davanti alle colonne di Santa Maria del Buon Consiglio a Barivecchia; c’è l’attore-autore Dante Marmone, volo di colombi e due giovincelle in piazza Umberto sotto un ombrello arcobaleno, poi un luminaro (sì, insomma uno che mette le lampadine delle luminarie), una ragazza, Paolo Lepore che dirige un’orchestra immaginaria, che non c’è, sul molo del Barion. Conclude il tutto una ballerina con gli anfibi pesantissimi (!?) e col cappotto in quella via Sparano ridotta dall’architetta romana Guendalina Salimeni a una fotocopia delle strade principali di qualsiasi altra città, omologata al massimo. Ci sono ancora una violoncellista davanti al Petruzzelli ma la sua musica non si sente come quella del violinista al Piccinni appena intravisto sullo sfondo. Ma allora sarebbe stato meglio andare al Conservatorio, dove Nino Rota visse a lungo...

    Almeno il filologo-storico Luciano Canfora compare tra i suoi libri come Paolo Comentale è con i suoi burattini. Poi tutte le facce scompaiono insieme nella “capitale umana” (mica marziana) e con la scritta sulla basilica, sempre a saperlo (ah, saperlo!), del resto è notoriamente famosa: “La cultura vien dal mare”, quello veramente era san Nicola, firmato Alessandro Piva che ovvio, dopo tante, ci mette anche la sua di faccia. Un po' autoreferenzialment. O no? Un commento in rete esprime questo giudizio: “Non fanno vedere sostanzialmente niente di Bari e chi non conosce i volti non capisce nulla”.

    Al contrario il video che il regista Pippo Mezzapesa ha realizzato per Taranto, almeno racconta una storia, qualche emozione in più la trasmette. Infatti qui ci sono due protagonisti, un uomo e una donna, ormai anziani, che riepilogano le tappe della loro vita, una vita da tarantini e dunque in Vespa lungo il Porto vecchio, vicino al mare, con i luoghi salienti della città e i topoi propri del luogo: il ponte girevole, le cozze, le statuine del magnifico Museo archeologico (uno dei più importanti del mondo, il celebre Marta), la processione del Venerdì santo con gli incappucciati e il mare qui è davvero protagonista, perché “l’acqua salata cura ogni cosa”, incoraggiante slogan quando purtroppo per Taranto sappiamo bene che non è così e che le lacrime e il sudore non bastano a sanare i mali di una splendida ex capitale della Magna Grecia, ridotta a ricettacolo di polveri venefiche.

    Anche se non è e non è stata, Taranto, solo Ilva: e i due protagonisti del breve, intenso film, ritratti nel corso del tempo, ce lo ricordano con maggior trasporto dei volti stilizzati baresi. Con quel tocco internazionale che è tipico delle città di mare. Infatti: “La cura per ogni cosa è l’acqua salata: sudore, lacrime o il mare” non è, come si potrebbe pensare, un detto locale ma una frase di Karen Blixen, la scrittrice danese che proprio al mare ha dedicato pagine indimenticabili. E anche questo rende giustizia a Taranto, una città che ha conosciuto in passato panorami molto più rimarchevoli di quelli in cui certa modernità distorta l’ha voluta confinare.
     

  • TORNA L'INCUBO NUCLEARE
    (CHE PER LA VERITA'
    NON SE N'ERA MAI ANDATO)

    data: 10/01/2021 13:02

    Greta dove sei? Mentre la svedesina che ci ha messo tutti sull’attenti riguardo ai danni perpetrati da noi stessi al nostro pianeta, ha deciso di rimettersi a studiare, quest’anno si annuncia male. La Cina rifiuta ispezioni dell’Organizzazione mondiale della sanità sul virus, ancora misterioso per tanti versi, e intanto da noi, non si sta inoperosi

    La notizia infatti che, zitta zitta, è trapelata è che bisogna sistemare i rifiuti nucleari. Ma come, ancora? Ma non avevamo detto No con vari referendum alle centrali nucleari e non c’era stata, nel 2004, una sollevazione popolare contro il bunker che si stava progettando nei pressi di Scanzano Jonico (Matera)? Sì, certo ma la grande Falsa notizia che ci è stata propalata per anni e cioè che l’energia atomica fosse una “energia pulita”, ogni tot anni presenta il suo conto: ci sono le scorie, non solo delle centrali ma di tutto ciò che ha a che fare con l’atomo e non solo di residui italiani si tratta, ma europei.

    C’è chi dice no, e allora si becca una bella multa dall’Europa, che nessuno vuol pagare. Mentre, dato che si aspettano i famosi fondi del Recovery fund, “cosa c’è di meglio” che impiegarne buona parte per piombare (si dice così) rifiuti altamente tossici? Intanto che la gente sta pensando ad altro ovvero al Covid-19, avranno pensato nelle alte sfere, ora li sistemiamo questi rifiuti imbidonati nei fusti metallici con il teschio nero. O col tricolore, come quelli della Sogin (ricordate il generale Carlo Jean?). La mappa, diffusa nei giorni scorsi, un bel regalino della Befana, è stata presentata a Uno mattina (Raiuno) oggi 8 gennaio dal sottosegretario all’Ambiente Roberto Morassut, del Pd, romano, 56 anni: alle 7 di mattina. Di modo che non ci sia tanta gente davanti alla tv.

    Si tratta infatti di trovare ben 67 - dicansi 67 - siti di 150 ettari ciascuno: a conti fatti, almeno a vedere la cartina dove le zone designate erano dipinte di arancione, un terzo del territorio italiano. Distribuiti in otto regioni, i siti da valutare sono ben 22 nel solo Lazio, 14 in Sardegna (già importante sede Nato e Usa), 12 nella piccola e sismica Basilicata. I giornalisti Frittella e Giandotti erano piuttosto stupiti, anche perché questi rifiuti sono da qualche parte adesso. Eh, ma dove si trovano ora non sono sicuri, ha spiegato con volto dolente il sottosegretario Morassut; non solo ma tra 50 anni se ne dovranno trovare altri, di siti, perché a quanto pare queste schifezze non stanno salde da nessuna parte. In Puglia si sarebbe scelta la Murgia, ovvero il grande territorio che da Gravina e Altamura porta alla Basilicata materana, laddove insiste un grande Parco nazionale istituito con gran clamore proprio nel 2004 (Parco nazionale dell’Alta Murgia, 677 chilometri quadri di protezione ambientale), dopo che la magistratura aveva smantellato un traffico clandestino e criminale di rifiuti speciali. In pratica, si scavava appena qualche metro e si trovava di tutto. Un viavai di camion rendevano quelle statali solitarie trafficatissime di notte, con la camorra dalla Campania ex felix a gestire il tutto.

    E adesso che si fa? Si ricomincia? E le manifestazioni contro i siti delle scorie nucleari? E le promesse sul turismo? E Taranto città rovinata dall’Ilva e dalle sue polveri? Eh già, tanto adesso nel Belpaese non circola più nessuno, tanto vale, avranno sempre pensato nelle alte sfere, farne una grande pattumiera. Il tutto sarebbe poi competenza della Sogin (Società gestione impianti nucleari), che ha la sede operativa più famosa a Trisaia della Rotondella, in quel di Matera, il più famigerato sito nucleare insistente ora in Italia insieme a Montalto di Castro. La Sogin, spiega Wikipedia, “è la società dello Stato italiano responsabile dello smantellamento degli impianti nucleari italiani e della gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi prodotti dalle attività industriali, di ricerca e di medicina nucleare, ha sede a Roma e un fatturato di 200 milioni di euro”.

    Dal 12 dicembre scorso suo amministratore delegato è Emanuele Fontani, 48 anni, un rampante senese laureato in ingegneria nucleare, area renziana a quanto si dice (la a di Ciao non è forse Ambiente?), come altri componenti del consiglio di amministrazione, tutto di fresca nomina. E il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa per ora tace. Del resto, si ha la sensazione che sia stato tutto già deciso. Come sempre in questi casi. Col sigillo poi del segreto militare. E dire che proprio a novembre Scanzano Jonico aveva ricordato i 17 anni dalla protesta contro il bunker dei rifiuti: “ScanZiamo le scorie” gridarono allora per due settimane. Ma la minaccia è sempre lì.
     

  • NE USCIREMO MIGLIORI?
    INTANTO, QUANTA
    CRUDELTA' CON GLI ANIMALI

    data: 10/12/2020 14:28

    Quest’anno malefico si è preannunciato sin da gennaio con una strage degli animali in Australia per via degli incendi colossali che hanno devastato gran parte di quel continente: sarebbero morti circa mezzo miliardo di animali tra uccelli, rettili e mammiferi. Talmente tante sono state le vittime (il conto preciso non si saprà mai) nel “bush” che i koala ora rischiano l’estinzione. Lo sottolinea Silvia Ronchey nel bellissimo ciclo di quattro lezioni, recuperabile in podcast, che ha tenuto per “Uomini e profeti” di Rai Radiotre, dal titolo “Queste anime senzienti”, in cui ha tratto spunto da una favola pubblicata recentemente da Einaudi: “Filelfo, l’assemblea degli animali”. Una storia dall’impronta di leggenda, popolata di animali, d’ispirazione ecologista, quanto mai attuale in questo momento. E tra le tante immagini che ci raggiungono d’ogni dove, mi resta impressa quella di un cane, un setter dall’ottimo aspetto, abbandonato nel bosco ma non libero, no, bensì legato a un albero, quindi condannato a morte certa se non ci fosse stato un passante, chi lo sa, forse un cercatore di funghi, che avesse sentito i suoi guaiti consentendo così di salvarlo.

    Oppure la storia di quel cacciatore ultrasettantenne che ha ammazzato l’asinello di Andrea Lo Cicero, ex azzurro di rugby che vive in campagna, nel Lazio, a Nepi. Il cacciatore, raggiunto da Striscialanotizia, non ha nemmeno abbassato il finestrino della sua auto, è scappato e la figlia lo difendeva dicendo che è stato un incidente. Difficile crederle però, visto che l’asino era in una proprietà privata (dove faceva ippoterapia con i bambini), è stato ucciso di proposito, con quella particolare licenza di uccidere che i cacciatori hanno senza che nessuno si sogni di modificare la legge, peraltro regionale, che gli consente di sparare ovunque e comunque.

    Ancora una volta, persino in tempi di Covid, dove s’invitano tutti a restare a casa e ad adottare metodi di vita più riservati (“ne usciremo migliori” un corno), la cattiveria umana si distingue per quel di più che si potrebbe facilmente evitare e che la rende particolarmente odiosa. Nei confronti di tutti gli esseri più deboli e nei confronti degli animali in particolare. Sono fermamente convinta che finché esisteranno i macelli non ci potremo definire evoluti, mai. Se penso alla crudeltà che c’è dietro ogni confezione asettica di carne dei supermercati, mi vengono i brividi.

    A questo proposito, al riguardo del di più di crudeltà inutile e dannosa, mi viene in mente quella volta che Nice scappò e venne portato al canile. Nice era un cane che ebbi tempo fa, un pastore molto comune nelle nostre masserie, con uno straordinario senso dell’orientamento, una spiccata personalità, un magnifico cane. Allora lavoravo a Lecce e tornavo a casa mia, a Bari, il fine settimana, in auto ma anche in treno. Lui veniva con me, se voleva; se non voleva, dato che era nato e cresciuto a Lecce che conosceva come le sue tasche, spariva e poi lo ritrovavo sempre vicino alla mia auto, ovunque l’avessi parcheggiata. Non serviva il guinzaglio, conosceva ogni strada e tutti lo conoscevano; la gente, quando andavo al mare a San Cataldo, si fermava a parlare con lui: scene incredibili che vorrei aver filmato. Era un cane con un grande carisma.

    Quel giorno, appena arrivati a Bari, scesi dal treno, dovevo mettergli per forza il guinzaglio ma lui con uno strattone si liberò e allora io me ne andai a casa dei miei, distante circa 4 chilometri dalla stazione, fiduciosa che sarebbe tornato da solo. L’aveva già fatto altre volte, quindi non mi preoccupai più di tanto. Ma le ore passavano e Nice non tornava. Cominciai a sentirmi inquieta, sempre di più, tanto che telefonai al canile che si trovava proprio nel macello comunale, in un luogo infame che adesso per fortuna ha lasciato il posto alla Biblioteca nazionale, in via Oreste.

    Telefonai, allora non esistevano telefonini, e mi rispose il custode o chi per lui: “Avete preso cani stamattina?”; sì, mi rispose che c’era stata una retata in via Sparano. Allora gli descrissi minutamente Nice, com’era, altezza media, manto biondo, forma e tutto e lui mi rispose che no, un cane così non era stato preso. Ma io sentivo che Nice, se non era tornato, doveva per forza essere prigioniero da qualche parte e per quella telepatia che ci univa, sentivo pure che era lì, così ci andai e lo trovai, rinchiuso in una gabbietta, triste e sconsolato. Come mi arrabbiai! Aveva il collare, era curato, non sembrava proprio un randagio ma anche lo fosse stato… Insomma lo feci liberare, lo riebbi con me e la gioia reciproca, mia e di Nice, fu immensa, offuscata solo dal fatto di lasciare lì altri prigionieri destinati alla morte, sempre per mano umana. Per quel di più di cattiveria che fa davvero rimpiangere di appartenere al genere umano, per quel supplemento di crudeltà che ha fatto mentire quel custode in modo ingiusto e detestabile.
     

  • COSA FACEVI ALLE ORE 19.34
    DI QUELLA DOMENICA
    23 NOVEMBRE 1980?

    data: 23/11/2020 18:45

    Una scrittrice svedese, Elisabeth Asbrink, ha pubblicato qualche anno fa, tradotto da Iperborea con una copertina molto bella, colorata, “1947”, un saggio divulgativo proprio su questo anno, definito dall’autrice quello “in cui tutto si muove in modo vibrante, senza stabilità e senza meta”.Vengono i brividi a pensare invece al nostro 1980: tutto si muove, tutto crolla e sono 40 anni da quella tragica sera. Ore19.34.52 di domenica 23 novembre 1980, “Il terremoto” decimo grado della scala Mercalli, 3mila morti, 10mila feriti, 300mila senza tetto, in Irpinia, fra Basilicata e Campania, le terre dove Cristo si fermò. Ci sono molte commemorazioni oggi, e altre ce ne sono state nei giorni scorsi, come ieri sera il bellissimo “Fate presto-Storia diun terremoto” di Franco Arminio per lo speciale Tg1 su Raiuno, poi stasera alle 23.15 ci sarà un documentario su Raitre, alle 18.15 su Raistoria “E’ una domenica sera di Novembre”, in due parti e sicuramente questa tragedia sarà ricordata in altre reti, basta fare un po’ di zapping. Senza contare quello che c’è in rete.

    Le immagini di ieri sera sembravano provenire da un altro pianeta: fotogrammi sbiaditi di gente smarrita che cercava aiuti che tardavano ad arrivare, fino alla visita del presidente Sandro Pertini e al suo monito: “Il modo migliore di onorare i morti, è di pensare ai vivi”. Il segno tangibile del Destino, del Fato: gruppi familiari che all’ultimo momento si separano, dopo aver trascorso la domenica insieme e solo per essere da una parte dove il sisma ha infierito di meno, si ritrovano fra i superstiti invece che fra le vittime. Sant’Angelo dei Lombardi, Conza, Potenza che si riversò per strada, la provincia di Avellino fino a tutta la Puglia, dove certamente la scossa fece meno danni ma fu comunque avvertita. Dovunque la scossa seminò, se non l’orrore come nell’epicentro, il panico, come ho potuto velocemente riscontrare con un breve giro di testimonianze raccolte su Fb, questo straordinario mezzo di comunicazione. E fa niente se così si rivela la propria età: in fondo, in questa nostra fragile esistenza, siamo tutti dei sopravvissuti. Ci sono delle date marcatempo, delle date che restano nella memoria.

    Senza dimenticare che nel 1980 era già successo di tutto: il giornalista Walter Tobagi fu ammazzato a Milano il 28 maggio; il 23 giugno alla fermata dell’autobus a Roma, fascisti spararono, uccidendolo, al giudice Mario Amato; ci furono altri attentati, facile ricostruirli con Wikipedia. Il 27 giugno precipitò un aereo Dc9 Itavia a Ustica, pieno di passeggeri partiti da Bologna e diretti a Palermo (81 morti); sabato 2 agosto, alle 10.25, ci furono 85 morti e 200 feriti per la bomba fascista alla stazione di Bologna. Cosa aspettarsi ancora? Anno bisesto, anno funesto, sarà superstizione ma…

    Un terremoto così non si vedeva dal 6 maggio 1976, quando aveva flagellato il Friuli (990 morti e 45mila sfollati). Vedo in tv quasi le stesse espressioni sconsolate oggi da Crotone invasa dalle acque. “E la Protezione civile?” “Qui non s’è visto nessuno”, replica un signore con la casa allagata.

    Ma torniamo a quella tragica domenica, a cosa si ricorda, a cosa ci ricordiamo. A Bari, per esempio, molti erano andati al cinema. Antonella si trovava all’Oriente, una sala di corso Cavour che adesso non c’è più: “Non rammento cosa stessimo vedendo, io e il mio fidanzato, so solo che a un certo punto qualcuno gridò forse al fuoco, e la gente si alzò ma fu impressionante perché lo fece all’unisono, si accalcarono tutti alle uscite sebbene senza isterismi, in un silenzio impressionante”. Massimo: “Ero in centro con la mia ragazza: a un tratto sentimmo perfettamente uno strano movimento sotto i piedi seguito da un netto boato e da qualche grido improvviso uscito dai balconi. Non capimmo cosa stesse accadendo. Rimanemmo stupiti, mano nella mano, e con poca preoccupazione, ma soprattutto anche con una notevole dose di curiosità tipicamente adolescenziale, decidemmo di tornare verso le nostre case”. “Leonardo: “Ero al cinema Esedra, con la mia ragazza…davano American gigolò…restammo in quatyto al cinema, che continuò la proiezione…quando uscimmo ci rendemmo conto”. Manuela: “A casa con zio Gianni e zia Maria, vedevamo una partita di calcio, tremò tutto e scappammo in strada”. Valeria: “Io con mamma a casa di zia Nina al sesto piano, mi stavano accomodando un cappotto. Scendemmo di corsa le scale, io ancora con il cappotto con gli spilli. Rimanemmo giù, col fiato sospeso, ad aspettare che scendesse lentamente anche nonna Teresa, la quale ci esortò a scappare senza di lei dicendo ‘Andate, pensate ai bambini’”. Maria Teresa: “Io al Cellar, un locale molto in voga all’epoca, i genitori preoccupati vennero a prenderci, noi non sentimmo nulla”.

    Tinta Anna, con lei ci spostiamo alla Selva di Fasano: “Eravamo tutti a cena quando la terra tremò. Rientrammo di corsa a Bari. Io abitavo al settimo piano ma avevamo paura a salire. Così ci accampammo tutti a casa di parenti che stavano al piano rialzato. Eravamo tutti piccoli e i nostri parenti più giovani: fu l’occasione per stare tutti insieme.”

    Andiamo più a Sud, sempre in Puglia. Dov’eravate quella sera? Da Lecce, Bruno ricorda: “Ero in casa dei suoceri e guardavo in tv una partita di calcio. All’epoca, dopo 90mo minuto, trasmettevano un tempo di una partita di serie A. L’abitazione era posta al pianoterra, nonostante ciò, tremò tutto”. Da Novoli, Rosanna: “Con mia madre, una sua amica e una mia amica davanti al caminetto. Sentimmo muoversi tutto e ci fu un fuggi fuggi generale… Mio padre si precipitò in casa per tranquillizzarci. Il giorno dopo mi offrii di andare in Irpinia per fare la cronaca ma l’allora direttore di Quotidiano non volle. Ero precaria e dunque senza alcuna copertura. Ci rimasi malissimo. Allora non capii e mi arrabbiai molto. Ma aveva ragione”.

    E ora addirittura una testimonianza da un altro continente: “E’ incredibile ma vero: mi trovavo in Giappone (il Paese dei terremoti) in una situazione di assoluta tranquillità. Quando si dice il caso!”

    Quanto a me, avendo vinto una borsa di studio Fieg/Fnsi, stavo lavorando, o meglio facevo uno stage al Gazzettino di Venezia, dal lunedì al sabato. In realtà passavo gran parte del mio tempo a Venezia, dove scappavo appena potevo. Tranne quella domenica, in cui decisi di andare a trovare degli zii che abitavano a Milano ed era la prima volta che ci andavo. Milano, fin dall’arrivo nella magnifica galleria della Stazione centrale, mi parve magnifica, del resto me l’ero sempre immaginata grandiosa, però faceva un freddo incredibile. Mia cugina Titti mi fece visitare la città, salimmo fra le guglie del Duomo, fu una splendida giornata. Alle 19.34 ero in treno, di ritorno nella casa dove stavo. Ricordo che, come ogni sera, volevo sentire i miei, al telefono: ero sempre fornita di gettoni (nemmeno la scheda, i gettoni!) e la cabina era proprio a fianco al mio portone. Ma niente, per quanto provassi e riprovassi, la linea dava sempre occupato, non c’era proprio. Risalii sconsolata, volevo raccontare della mia fantastica gita, anche loro del resto cercavano di mettersi in contatto con me a casa, senza riuscirci, senza telefonini come potevamo mai andare avanti? Mi chiedo adesso io, come? Poi sapemmo. Come tutti.
     

  • Il racconto
    INFANZIA SOTTO
    LA DIGA DI OCCHITO
    IN COSTRUZIONE

    data: 16/11/2020 14:45

    Qualche giorno fa, leggo un trafiletto, sulla Gazzetta del Mezzogiorno. Occhiello: In provincia di Foggia. Titolo: Diga di Occhito il collaudo termina dopo 56 anni. “Dopo un iter di 56 anni è stato firmato il certificato di collaudo della diga di Occhito, realizzata fra il 1958 e il 1966 a Carlantino, nel Foggiano, per la raccolta a fini irrigui, delle acque del fiume Fortore. Il collaudo cominciò durante la costruzione dell’opera nel 1964 e la notevole durata della sperimentazione è stata causata da problemi tecnici, riguardanti inizialmente la funzionalità dello scarico di superficie (danneggiato da eventi di piena) e poi di quello di fondo (interessato da interrimenti) oltre ad un lungo periodo intermedio di controlli strumentali e di scarsi afflussi. Nel frattempo, la diga, un’opera ingegneristica di vitale importanza per tutta la provincia di Foggia, ha subito alluvioni e terremoti, continuamente monitorata e mantenuta in esercizio. ‘La gestione dei grandi invasi – spiega il presidente del Consorzio di bonifica della Capitanata, Giuseppe De Filippo, ‘necessita di un’attenzione continua da parte delle istituzioni per il finanziamento degli interventi di manutenzione’”.

    Questa notizia, così tecnica, apparentemente neutra - a parte la reazione all’oggettiva lunghezza del collaudo - smuove grandi sentimenti in me: perché io quella diga l’ho vista nascere. Perché io, con i miei tre fratelli, due bambine e un bambino, ho corso per lo sterminato invaso che doveva racchiudere l’acqua di quella che sarebbe diventata la più grande diga d’Europa. Perché mio padre, Pietro Gabriele, che lavorava all’Ente irrigazione, per seguire quei lavori, nel corso di circa un quindicennio in tutto, spostò per sei anni la sua giovane famiglia (35 anni avevano allora i miei genitori) da Bari a Castelnuovo della Daunia. Un paesino in collina, 543 metri di altezza, che contava allora circa cinquemila abitanti e ora supera di poco il migliaio. Un paesino da cui, il primo anno che ci andammo, non potemmo scendere a Bari per le feste di Natale, bloccati dalla neve alta un metro e mezzo. Durante quegli anni, mio padre che era geometra, s’industriò a prendere la laurea in Geologia a Napoli dove correva da solo per fare gli esami e qualche volta si portava appresso pure noi, così come lo aiutammo a colorare con i pastelli le mappe che corredavano la sua tesi di laurea.

    Fu un cambio di scena davvero incredibile: mia madre, appena arrivata, aveva il suo da fare con quattro bambini alle prese con la tosse convulsiva, dato il gran freddo mai provato. Per fortuna l’estate arrivò presto, con il grano sparso sull’aia, paperelle e pulcini che correvano per casa e che ci venivano regalati dalla contadina che abitava nell’attigua una casa con stalla annessa, da dove il marito usciva ogni mattina a dorso del suo mulo per raccogliere non si sa bene cosa, visto che intorno non c’erano che campi di grano e boschi, mentre lei preparava ottime focacce, ma senza pomodoro come la nostra barese, nel forno a legna. La signora la soprannominammo Favonia, in onore del vento che soffiava furioso come mai a Bari avevamo sentito. Un vento che trascinava anche le persone e una volta io e una mia sorella, di ritorno da scuola, fummo prese dalla madre di una nostra compagna e trascinate nel suo portone, prima che le forti raffiche ci sollevassero per aria, il che ci sarebbe piaciuto provare. Quel vento, però, alla fine innervosiva, perché ululava, era sinistro almeno quanto le leggende di fantasmi che i bambini del posto si raccontavano per farsi reciprocamente paura. Molto meglio l’odore del grano in maturazione che si spandeva meraviglioso dopo ogni pioggia. E del pane appena sfornato in grandi forme rotonde.

    Appena arrivata, vedevo dei manifesti verdi un po’ ovunque con la scritta “E’ morto Palmiro”, così mi convinsi che questo Palmiro dovesse essere un personaggio molto importante in paese, tanto più che Palmira si chiamava anche qualche alunna della mia classe. La maestra a quei tempi era unica e fu una brava maestra. Alle medie, poi, i professori, considerando che ogni mattina facevano chilometri per venire a farci lezione, li considero addirittura eroici e molto competenti. Certo, il professore di francese era inavvicinabile per quanto ormai fosse una sigaretta vivente, ma il suo “bonjour hirondelle, tu viens de l’azur le printemps aux ailes” è ben impresso nella memoria. Come ammiravamo Filomena, che alla lavagna dimostrò di sapere francese e tedesco alla perfezione. Per forza, era cresciuta in Svizzera e adesso stava dai nonni, come molti lì: i genitori in gran parte erano in Germania e in Svizzera a lavorare, il paese era abitato soprattutto da vecchi, come mi resi conto andando a visitarli in certe stanze alla van Gogh per un’inchiesta commissionata dal professore di Lettere, Alfonso Piemonte, sui residenti. La cui ricchezza si misurava dalle collane di salsicce che erano messe a essiccare nei solai. E dalla grandezza delle case, certo, con enormi camini e gatto pacioso sulle seggiole. Lo spaccio alimentare aveva il pavimento a doghe di legno come nel Far West, almeno a desumere dai film che vedevamo nel piccolo televisore in bianco e nero. “Tre quindici quarantacinque”, ripeteva il professore di matematica, mentre Italia, docente di applicazioni tecniche, ci faceva preparare, a tutti maschi e femmine senza distinzione, un pranzo, anticipando la fissa odierna per la cucina. La domenica la 1100 Fiat celeste di mio padre sfrecciava intrepida dovunque nei dintorni, su strade tutte curve e nemmeno asfaltate: dal monte Sambuco dov’era il ripetitore della Rai al bosco di San Cristoforo, al confine col Molise, un luogo fantastico, ricco di vallate fiorite, decorato con panchine a mosaico con le dediche dei migranti, dal Canada ad altri Paesi europei, che le avevano donate. Certo, era assurdo che si emigrasse, ma come, pensavamo noi, la Germania ha fatto quel che ha fatto prima e durante la seconda guerra mondiale e adesso diventa meta di tanti meridionali? Mia madre non se ne capacitava e leggevamo il Diario di Anna Frank appena uscito.

    Ma cosa c’era da fare lì? La diga di Occhito ha certo impiegato degli operai ma per un tempo determinato e, come sottolineava con orgoglio mio padre, senza vittime, perché quando ci si trovava davanti a qualche infiltrazione d’acqua, ci si fermava e si studiava bene il problema, tanto che sempre lui, mio padre, un genio matematico, escogitò anche un nuovo rivestimento per le gallerie, di cui ebbe il brevetto. La diga trovò anche i suoi oppositori, dicevano che cambiasse il clima della zona, prima molto più rigido e poi temperato, ma c’è da considerare che la Puglia è quasi priva di acqua, dipende per le sue forniture ovviamente dall’Acquedotto pugliese, opera fondamentale, che raccoglie le acque del Sele, fiume campano di 64 km che sfocia nel Tirreno. Il Fortore, con i suoi 110 km, fra Campania, Molise e Puglia, non ha grande portata d‘acqua e poi ci sono i pozzi artesiani, che raccolgono acqua sotterranea. Senza dimenticare, sempre nel Foggiano, l’Ofanto, 134 km, foce nei pressi di Barletta e celebre, quando si chiamava Aufidus per la battaglia di Canne (2 agosto 216 a.C.) in cui i romani presero una sonora batosta dai cartaginesi di Annibale (seconda guerra punica), spesso in secca e lungo il cui corso sono stati costruiti comunque degli invasi come quelli di Conza e del Locone. Utili soprattutto alla piana di Foggia, il “tavoliere delle Puglie” e di un’agricoltura che costituisce comunque una forte voce del bilancio regionale. Altro che la vetusta e trita battuta per cui la Cassa per il Mezzogiorno ha dato più da mangiare che da bere…si è tratto invece di un’istituzione pari almeno ai successivi Fondi europei.

    Sostanzialmente la Puglia è per tradizione “sitibonda” e se non fosse stato per queste grandi opere, i suoi abitanti sarebbero stati costretti a emigrare. Come emigravano da Castelnuovo dove però una sorgente d’acqua autentica, limpida, sorgiva, c’è ed è stata denominata “La Cavallina”. La fonte si trova al fondo di una valle contornata di delicate rose canine e di rovi e raggiungerla è una bellissima gita, così come andare alla Cappellina, al colmo di un bosco di pini e abeti. Le donne andavano a rifornirsi d’acqua con gli orci di terracotta e dovevano avere delle teste dure, perché si caricavano di tutto sulla testa. Ma ovviamente questa è “preistoria”, come il banditore che annunciava urlando le novità del comune: non credo che oggi se ne vedano più di questi personaggi… Già all’epoca era invece attivo un impianto di acqua minerale, meta obbligata delle nostre escursioni scolastiche, con il nastro che scorreva con le bottiglie in vetro verde, e le Terme, per cui il paese ha acquistato una nuova notorietà, risultando, leggo ora sul web, “uno tra i primi dieci paesi al mondo fra turismo, centri benessere e terme”.I l “Global wellness economy monitor” di Cesena che ha affermato ciò nel 2018 avrà pure esagerato ma quel paesino merita almeno una visita. Di sicuro, per quel che vale, un posto nel mio cuore ce l’ha.
     

  • LE 300 PAGINE
    DELL'IRRESISTIBILE
    ZIA MAME

    data: 26/10/2020 16:08

    Elena Ferrante non è l’unica autrice di successo a mascherarsi dietro uno pseudonimo. E’ una storia vecchia. Basta citare il più famoso degli eteronimi, quel Pessoa che di falsi nomi ne ebbe ben 38 e che trasformò il suo vero nome in Pessoa, che in portoghese vuol dire “persona” ma anche nessuno, come appunto il famoso titolo pirandelliano, “Uno nessuno e centomila”. E veniamo al nostro pseudonimo: Patrick Dennis. Il celebrato autore di “Zia Mame”, uscito nel 1954 e rimasto in testa alla classifica americana dei libri più venduti per ben due anni di fila, si chiamava in realtà Edward Everett Tanner III. Era nato a Chicago, come l’io narrante, Patrick, del suo più celebre romanzo, il 18 maggio 1921 e morì a New York il 6 novembre 1976. Fisicamente ricordava un po’ Roald Dahl, l'inglese  autore di magnifici romanzi non solo per ragazzi. Come lui era biondo, alto, con una barbetta donchisciottesca. Tanner o Dennis o qualche altro nome ancora, è stato autore anche di “Little me”, “The loving couple” (primo esperimento di una storia raccontata in doppia persona, dalla parte di lei e dalla parte di lui, un vezzo che ultimamente ha preso molto piede nella letteratura, specie americana), “Genius”, per concludere con “3-D”, tutti successi in Italia pubblicati da Adelphi. Ne hanno tratto anche dei film e dei musical che hanno sbancato il botteghino a Broadway.

    Tanner ha avuto una vita molto tormentata, segnata dall’alcol e dall’omosessualità da tenere nascosta, com’era norma in quegli anni, dietro lo schermo di un matrimonio e due figli. Fu sottoposto addirittura a elettroshock dopo un tentativo di suicidio e per la sua mania di spogliarsi in pubblico. Morì svolgendo negli ultimi anni, con molto talento del resto, la professione di maggiordomo, senza dire ai suoi datori di lavoro che era un celebre autore. Un po’ come Vivian Mayer, che fu una grande fotografa ma per vivere fece per tutta la vita la baby sitter, pure un po’ stramba. I libri preferiti di Dennis erano il Galateo, manuali di enigmistica e “La Fiera delle vanità” di William Thackeray, librone in cui i rovesci di fortuna sono all’ordine del giorno per l’eroina Rebecca detta Becky.

    Tutte queste notizie si ricavano dalla postfazione (Adelphi) di Matteo Codignola all’edizione del 2011 di “Zia Mame”, da cui è stato tratto anche un film “La signora mia zia”, del 1958,  di Morton DaCosta, candidato all’Oscar. Un film che vede come zia Mame Rosalind Russell che nel 1955 aveva fatto una zitella svampita e alcolizzata in “Picnic” (di Joshua Logan), dove però l’ambiente era tutt’altro. Qui invece siamo nell’alta società newyorchese analizzata come un trattato di sociologia nei suoi anni migliori fino al crollo di Wall Street il 29 ottobre 1929, 91 anni fa. Fu un crac economico che ebbe ripercussioni in tutto il mondo e colpì anche i ricchi come zia Mame e suo nipote undicenne, orfano del fratello e di sua moglie, quindi affidato a lei anche se passa la maggior parte del tempo in un collegio, almeno per la prima parte del romanzo.

    Il capitolo 3 s’intitola: “Zia Mame nel tempio di Mammona”, ovvero come fa una donna a guadagnarsi da vivere in tempi di crisi. Vediamo come se la cava, visto che l’unica sua esperienza era stata come ballerina di fila di una rivista, finita presto in quanto la famiglia le aveva imposto il ritiro dalle scene. “Questi qui cercano solo cameriere, commesse, operaie, stenografe. Non è pane per i miei denti, ecco. Però vedi tesoro, in questa città non conta cosa sai fare, ma a chi puoi arrivare e grazie al cielo io posso arrivare a un sacco di gente (…) Devo solo far sapere che sono su piazza” (pag. 62). E infatti riceve una serie di dinieghi nel mondo finanziario, riesce a farsi assumere a Vanity fair come copy ovvero giornalista. Dura solo un mese. “Allo scadere dell’ultima settimana i signori Crowninshield e Nast la invitarono a una colazione nel corso della quale le comunicarono che trovavano i suoi pezzi molto particolari ma meno documentati di quanto pretendesse la tradizione della rivista.” (pag 63) e quando se ne andò l’editore non capiva come mai una donna affascinante come lei dovesse arrabattarsi in quel modo, consigliandole di trovare un marito e sistemarsi.

    Poi diventa lettrice per un altro editore ma perde un importante manoscritto e anche questo lavoro. Tenta come decoratrice d’interni e le va molto bene finché, volendo riadattare il gusto dell’epoca a quello moderno della Bauhaus di Dessau, fu mandata via in malo modo e allora aprì la “Maison Moderne” sulla 54esima, via centrale di New York. Gli affari andavano a gonfie vele ma una sera il locale va in fumo e lei è contenta perché aveva spedito la polizza antincendio, o almeno così le pareva fin quando frugando nella borsetta scopre che la lettera era rimasta lì, non era stata inviata, quindi le restavano solo i danni. Ingenti. Passa a fare la commessa presso un’alta casa di moda ma qui, indirizzando una taglia forte ad altra sartoria, zia Mame era stata invitata, dopo aver messo alla porta la cliente taglia forte a uscire dalla stessa porta, non senza prima aver ricevuto a sua volta dalla padrona un consiglio amichevole, e cioè – indovinate un po’? - quello di trovarsi alla svelta un marito. Ricco, dati i conti ancora da pagare (pag 70). Zia Mame apre poi uno “speakeasy”, un piccolo bar, dimenticando di pagare il pizzo agli sbirri che infatti lo chiudono in poco tempo (pag, 72), poi vende pentole a porta a porta; a ogni buon conto il suo datore di lavoro cerca di sedurla, lei gli allunga un ceffone e alla porta ci finisce di nuovo (pag. 73). Tenta anche col mercato immobiliare ma vende alcuni improbabili appartamenti e ci rinuncia. Infine c’è l’esilarante descrizione della sua esperienza teatrale, con braccialetti che s’impigliano nel vestito della protagonista, con ilarità generale da buttar giù il teatro, una scena che va letta perché è veramente irresistibile. Insomma è un’autentica pasticciona, zia Mame, e le sue avventure reggono al meglio sulla pagina così come in teatro, com’è realmente accaduto. Una volta a casa dal teatro, come viene consolata dalla governante? Nel solito modo: “Sst cara, zitta adesso, basta piangere. A una signora così bella serve una cosa sola, un brav’uomo, una persona ammodo che pensi a tutto. Vedrà che adesso lo troviamo” (pag.81)… E infatti poco dopo arriverà un petroliere che la conosce nel grande magazzino dove è andata a lavorare non sapendo compilare che contrassegni.

    Questo romanzo, che in principio era una collezione di racconti - difatti i capitoli si possono leggere indipendentemente l’uno dall’altro - è tutta una delizia. Nel capitolo 8: “Zia Mame e la mia infelice storia d’amore”, gli anni sono passati, Patrick ha ormai 23 anni e vuole sposarsi con una ricca ragazza, Gloria Upson, la cui famiglia però è razzista, contro gli ebrei. Tutto ciò si rivela durante il pranzo di presentazione dei fidanzati, in cui davvero zia Mame è memorabile, prende posizione a favore dei suoi amici ebrei, rintuzza le tesi deliranti di Mr Upson e manda tutto all’aria. Giustamente. Vorrei vederla recitata questa scena. Il modo in cui zia Mame prende in giro i pregiudizi razziali degli Upson è semplicemente magistrale. La protagonista dispiega poi tutta la sua competenza psicologica nell’indurre il nipote a sposare una ragazza irlandese, Pegeen, che gestisce un bar e nello stesso tempo insegna francese, in un’isola in cui tre pretenziose sorelle, in teoria ottimo partito ma in pratica no, si dimostrano, guarda un po’, razziste. Il razzismo resta il peccato originale degli Stati Uniti e il libro, che castiga ridendo i costumi, funziona benissimo anche oggi, purtroppo. E’ stata una tattica, spiega l’Inimitabile, sempre lei, zia Mame: finalmente l’adorato nipote, per la legge dei contrari, si sarebbe reso conto come l’irlandese Pegeen fosse molto più sposabile delle altezzose sorelle Maddox.
    Il romanzo, che copre un arco temporale di circa 40 anni, termina con il figlio di Patrick, otto anni, in partenza sempre con zia Mame per l’India. Sono circa 300 pagine ma riassumere questo memorabile personaggio non vale il modo in cui viene descritto, in un tono vivace, spiritoso ottimamente tradotto, tutte qualità che ne fanno una lettura imperdibile e stupenda. Un grado di comicità che lascerebbe senza fiato Woody Allen e che in Italia somiglia un po’ a “Parenti lontani” di Gaetano Cappelli. Indubbiamente un libro che merita tutto il successo che ha avuto e che presumibilmente continuerà ad avere.

  • "IL DIRITTO DI CONTARE"
    UN FILM DA VEDERE, OGGI

    data: 09/09/2020 19:23

    Non è una prima assoluta ma val sempre la pena di rivederlo o di vederlo, per chi ancora non l’abbia fatto, “Il diritto di contare”, il film in prima serata su Raiuno, questa sera. Il film di Theodor Melfi risale al 2016 ma davvero andrebbe visto in tutte le scuole perché racconta, come meglio non si potrebbe, la storia vera della matematica e fisica Katherine Johnson, afroamericana come le sue colleghe Dorothy Vaughan e Mary Jackson. Margot Lee Shetterly, scrittrice, è l’autrice di Hidden Figures, ovvero Figure nascoste, da cui la pellicola è tratta. Preferisco tuttavia il titolo italiano, “Il diritto di contare” perché riassume alla perfezione le varie tematiche affrontate: il ruolo delle donne, il loro lavoro scientifico e in casa, la segregazione razziale che nel 1961 affliggeva gli Stati Uniti – e sembra che non sia cambiato niente da allora, specie dalle parti della polizia americana - il tutto nella Nasa, al Langley research Center di Hampton, Virginia, la città della stessa Shetterly.
    Nasa, per chi ha vissuto quegli anni, vuol dire soprattutto corsa alla Luna: la scrittrice è nata proprio nel 1969, l’anno dello sbarco dell’uomo sul territorio ovattato dalle riprese al rallentatore del nostro satellite.

    Cape Canaveral, lanci spaziali, astronauti, ingegneri: un mondo tutto al maschile, credevamo, almeno fino a quando in Italia non è arrivata Samantha Cristoforetti. Ci sbagliavamo però perché alle imprese spaziali hanno contribuito eccome anche le donne, matematiche di vaglia che calcolavano tutto a mano (i computer non erano ancora operativi) e naturalmente, come in tutte le vicende, ci sono stati capi e cape lungimiranti che hanno saputo riconoscere e apprezzare il valore di ognuna. Questo sia il libro sia il film lo descrivono molto bene. Si prepara la missione del programma Mercury, con cui John Glenn andò per la prima volta in orbita intorno alla Terra (dalle 14.47 alle 19.43 del 20 febbraio 1962, ammaraggio previsto grazie ai calcoli della Johnson in un determinato punto dell’oceano Atlantico). La tensione c’è, s’intuisce: Vivian Mitchell però sa che Katherine Johnson, un vero genio che ci ha lasciati il 24 febbraio scorso a 101 anni, può risolvere molti dei problemi che Al Harrison (Kevin Costner) ha nella sua squadra di calcolo analitico, anche se non si mostra altrettanto equa nei confronti delle altre collaboratrici della matematica. Un uomo lungimirante e alieno da razzismi o favoritismi di sorta, Harrison, che mette alla prova con equazioni matematiche sempre più complesse la nuova arrivata nel suo staff, si rende conto subito del suo valore e risolve pragmaticamente tutti gli ostacoli che la segregazione razziale interpone a che lei lavori in tutta tranquillità.
    Taraji P. Henson, attrice e cantante, è magnifica nell’interpretare la Johnson. Non sono da meno Octavia Spencer nel ruolo di Dorothy Vaughan, che sostituisce un revisore dei conti ma a metà della sua paga, e Janelle Monàe che interpreta Mary Jackson, futura ingegnere. Johnson aveva studiato, si era sposata, aveva avuto tre figlie ed era rimasta vedova sui 40 anni, ma incontrò un altro uomo, un ufficiale della Guardia nazionale inizialmente scettico sulle sue capacità matematiche, ma poi l’unione andrà benissimo, a riprova che l’intelligenza aiuta anche nel sentimento.
    E’ tutto descritto molto bene nel film; le tre colleghe vanno d’accordo, hanno una vita personale nonostante la gran mole di lavoro. Nonostante gli ostacoli oggettivi: può sembrare ripetitiva la scena di quando la Jonhson deve raggiungere il bagno ma i bagni vicini erano solo per bianchi e l’unico per neri distava un chilometro dal suo ufficio…fin quando Harrison mette fine a questa banale ma assurda ingiustizia, togliendo semplicemente il cartello di divieto. E poi permise alla Johnson di partecipare alle riunioni riservate e fu lei a calcolare i tempi esatti di rientro della capsula spaziale di Glenn.
    Intanto l’Ibm, sempre a Langley, comincia a sperimentare i primi enormi elaboratori elettronici. Dorothy Vaughan capisce che per le matematiche non ci sarà futuro se non impareranno a usarli, così studia per suo conto informatica e addestra le sue impiegate che sbaraglieranno qualsiasi concorrenza. Mary Jackson, da parte sua, riesce a ottenere da un giudice il permesso di assistere alle lezioni serali di un liceo riservate a uomini bianchi e la scena è memorabile, in quanto lei tiene testa al giudice e poi otterrà la laurea, festeggiatissima da tutti.
    Insegna davvero tanto questo film didascalico il giusto e in un periodo in cui purtroppo c’è una recrudescenza di violenza, razziale e no negli Stati Uniti e non solo. Ricordando il povero Willy Monteiro Duarte ucciso di botte a Colleferro (Roma) domenica scorsa, è un film che riconcilia con la vita, la società, il mondo. Magari bastasse. 

  • UNDICESIMO BIF&ST
    LAUDADIO E VON TROTTA
    CE L'HANNO FATTA

    data: 28/08/2020 14:56

    Qui Bari. E così il Bif&st, undicesima edizione, ce l’ha fatta. Anche se non registra i numeri degli anni scorsi (70mila spettatori di media in 8 giorni), anche se le retrospettive come l’unica, stavolta, dedicata al maestro Mario Monicelli, sono dimezzate (ingresso libero al cinema Galleria), Bari ha potuto celebrare anche quest’anno la sua festa-festival del Cinema, sotto la guida del direttore Felice Laudadio, della presidente Margarethe von Trotta e di un nutrito e collaudato staff. Distanziamento calcolato, posti alternati nella platea del restaurato teatro Piccinni, molti posti sotto le stelle nella vasta piazza Prefettura/Petrone, davanti a uno schermo davvero gigantesco e stupendo, altrettanti nell’arena allestita nel magico cortile del Castello svevo; mostre e presentazioni di libri alla fine di corso Vittorio Emanuele, in quella sede magnifica, affacciata sull’Adriatico, che è il teatro Margherita. E sabato sera, l’ospite tanto atteso, dopo altri molto prestigiosi come il pittore e regista Lorenzo Mattotti o la cantattrice Lina Sastri: Roberto Benigni, mentre il 30, domenica, alle 12.30, al Piccinni, ci sarà la conferenza stampa finale e la sera sarà proiettato un classico ormai, “LaCapaGira” di Alessandro Piva. Tutta l’ampia zona, il corso praticamente, è stato reso pedonabile per l’occasione.

    Non è stato facile ma la sfida è stata vinta: allestire questo Bif&st che negli anni scorsi si svolgeva fra aprile e maggio, a ridosso della Mostra di Venezia che s’inaugurerà il 2 settembre, rappresenta per Bari sicuramente una rinascita, anche se, per esempio, il Petruzzelli ha già visto qualche concerto (di soli archi e non fiati…). La gente, piano piano, ha ripreso a circolare; mascherina sempre sul viso (anche se qualche eccezione c’è stata ma comunque c’è distanziamento), non ha mancato di partecipare. La frotta di amatori e di critici che Laudadio, che a Roma dirige anche il Centro sperimentale di cinematografia, riesce a convogliare in città, si mostra contenta di questa rinascita. Le riprese della pagina Fb che segue costantemente ogni iniziativa, rendono le strade dell’evento baciate dal sole al tramonto molto suggestive, secondo il motto felliniano, riportato nell’esaurientissimo catalogo: il cinema è luce. Contemporaneamente si sta tenendo, dal 22 al 30 agosto, anche il Bari Piano Festival, diretto dal maestro Emanuele Arciuli, in sintonia dunque con il Bif&st. Si è dovuto aspettare il Gr di Radiotre di giovedì 27 per sentire un’intervista a Laudadio; sul piano nazionale c’è un po’ di trascuratezza ma comunque ci sono servizi giornalieri sia su TeleNorba che sulla rete regionale Rai. Oltre che in rete, sul sito del Bif&st.

    Si sono visti film molto recenti, alcuni dei quali recuperabili sulla piattaforma Raiplay come “L’immortale” di Marco D’Amore, un protagonista di Gomorra, e altri siglati da registi pugliesi.La giuria non avrà compito facile, anche se la selezione ha già scremato, su oltre 400 film, il meglio della produzione recente, spaziando da film inglesi, tedeschi, brasiliani a molte coproduzioni, con titoli che avranno successo. Il panorama internazionale è davvero allettante. Si va da Free Countries, tedesco, un giallo-thriller che vede la partecipazione di Tristan Putter, 40 anni a dicembre, già visto in Kudamm 56 dunque un beniamino della tv (bello ritrovare nei film gli attori che si seguono), a The German Lesson, dal romanzo di Siegfried Lenz, con Tobias Moretti (l’ispettore del primo, indimenticabile Rex), a Nematoma (Invisibile), un film prodotto da Ucraina, Lituania, Lettonia e Spagna, la storia di un ballerino: americano è Un giorno sbagliato dove Russel Crowe, irriconoscibile, dà vita a un personaggio incrudelito all’inverosimile per una semplice ingiuria stradale (lanciatagli da una donna poi..); The song of name tratto dal romanzo di Norman Lebrecht, è la ricerca di un geniale violinista ebreo, da parte del fratello molti anni dopo la misteriosa scomparsa; Rose plays Julie, di Christine Molloy, si sofferma sulla ricerca di genitori biologici con tutto ciò che ne consegue; Muscle indaga su quel che può accadere a chi si dedica al suocorpo in maniera maniacale, Simpathie pour le diable, da un celebre libro di Paul Marchand, tratta di Sarajevo sotto le bombe. Regis Roinsard ha diretto I traduttori con Lambert Wilson e Riccardo Scamarcio, su un caso di spionaggio letterario. Si sono visti il brasiliano Tre estati di Sandra Kogut e ancora il film inglese Il concorso di Philippa Lowthorpe, che osserva Miss Mondo dal punto di vista del Movimento di liberazione delle donne.

    E questo per limitarsi soltanto all’offerta internazionale ma naturalmente c’è stato tanto spazio anche per i film italiani, da Figli a 18 regali ad A mano disarmata (sulla giornalista Federica Angeli). Insomma, davvero per i sei giurati lavoro ce n’è ma comunque ogni altra informazione si trova sul sito e nel catalogo che si avvale anche di tre saggi sull’opera di Mario Monicelli (Roma, 16 maggio 1915-29 novembre 2010, cieco e malato si buttò da una finestra in ospedale) di cui è stato possibile rivedere tanti film, tra cui quel Vogliamo i colonnelli, unico film sul tentato golpe di De Lorenzo del 1964, girato appena nove anni dopo, film che in tv non passa quasi mai lasciando il passo al molto più disimpegnato I soliti ignoti. Dalla Grande guerra ad Amici miei all’Armata Brancaleone, Monicelli è stato un grande della cimematografia italiana, di cui si sono visti qui 19 film dei 48 preventivati.

    Del resto stavolta non c’è stata nemmeno la giuria popolare e neanche ci sono state le tante sezioni degli altri anni. Non è detto che sia stato un male però: oggettivamente era impossibile seguire tutto, stavolta ci si è potuti orientare meglio attraverso la selezione, sempre di qualità. A patto però di essere in centro: perché seguire un film che inizia alle 22.30 al Piccinni o alle arene per poi tornare verso mezzanotte in un quartiere lontano, con i bus urbani che finiscono le corse a quell’ora, vuol dire avere per forza un’auto. E anche l’autobus, con lo spettro del virus, non lo si prende volentieri. Siamo alle solite: ogni città, mica solo Bari, si rianima solo in centro.
     

  • ALLARME DEGLI STUDIOSI
    LA PANDEMIA HA TRAVOLTO
    I PRINCIPI DEL LIBERALISMO

    data: 14/08/2020 16:39

    Il Covid 19 sta causando pesanti strascichi economici. C’era da prevederlo. Eppure lascia basiti che si metta in gioco, con tanta facilità e con la scusa dell’epidemia globale, la libertà di licenziamento. E’ passato infatti come un successo del governo l’aver prorogato a novembre un “diritto” completamente ribaltato rispetto a quello che fino a poco tempo fa passava per un sopruso: il diritto del datore di lavoro di licenziare, appunto. Le vetrerie di Murano rischiano di chiudere, gli altiforni di Taranto probabilmente bruceranno plastica con un ciclo ancor più inquinante, se possibile, del solito, e sfogliando i giornali purtroppo le morti “bianche”, gli incidenti sul lavoro, sono all’ordine del giorno.

    L’altra sera, a tarda ora, su Raidue, è passato un documentario sulla costruzione del nuovo ponte di Genova, il San Giorgio, che ha sostituito il famigerato Morandi: ebbene, per questo nuovo ponte si è lavorato 24 ore su 24, anche di notte, sotto la luce di riflettori. Blocchi prefabbricati venivano issati con le gru, una folla di operai lavorava nel buio interrotto dalle fotoelettriche. E qualche giorno dopo, in una lettera alla Repubblica, una lettrice informava che, sempre a Genova, si lavorava anche di notte, ancora, a un nuovo, enorme, molto probabilmente superfluo ipermercato. Con il fragore che una simile opera comporta, da togliere il sonno. Quindi da una parte il lavoro non c’è, dall’altra s’intensifica con il solito volano di ogni economia in difficoltà: l’edilizia, con la legge ad hoc che autorizza il cemento selvaggio. Con turni di lavoro inspiegabili e fino a qualche tempo fa sconosciuti: le costruzioni notturne…Il tutto coronato dall’insopportabile retorica di far ripartire la locomotiva dell’Italia, ovvero il Nord, dimenticando che proprio da lì, per la frenesia industrialistica, per la superbia del “Noi non ci fermiamo”, si è propagato il temibile virus.

    Cosa sta succedendo? Il Covid 19 potrebbe essere solo un pretesto per il capitalismo e la sua straordinaria capacità di trarre il massimo profitto con il minimo costo. La delocalizzazione delle fabbriche non l’ha certo decisa la pandemia. Il lavoro sta sparendo dallo scenario locale (prende la via della Cina) e l’intervento dello Stato si rende sempre più indispensabile. A questo proposito Donald Sassoon, illustre storico inglese intervistato mercoledì scorso sulla Repubblica da Simonetta Fiori (“Marx ha finito le risposte”), interpreta l’attualità in modo decisamente interessante. Sassoon, peraltro, è autore di un libro: “Sintomi morbosi”, edito l’anno scorso da Garzanti, profetico sin dal titolo, come spesso accade a chi studia attentamente la società. E dice che quel titolo gli è stato ispirato da Antonio Gramsci che nel 1930, nel carcere fascista di Turi (a una quarantina di chilometri da Bari) “scriveva che la malattia nasce sempre nell’interregno, quando il vecchio muore e il nuovo non può nascere”.

    Gli scenari cambiano, siamo alle prese non con il capitalismo ma con i capitalismi. La pandemia, precisa Sassoon, ha completamente travolto i principi base del liberalismo. Lo Stato è chiamato fortemente in causa, anche con sussidi che servono alla sopravvivenza stessa dei cittadini, al di là dei soliti furbastri che, esperti di cavilli, ottengono dalle leggi ciò che le stesse non consentirebbero e s’impadroniscono di soldi che non gli spettano. E’ un trionfo del più forte che mette ansia, come Sassoon ha titolato il suo ultimo lavoro, non ancora tradotto da noi: “The Anxious Triumph. A global story of capitalism”. Crescono, a livello esponenziale, le disuguaglianze, le quali “si ereditano dai genitori. E anche l’accesso alla ricerca universitaria resta molto squilibrato. I salari dei giovani professori sono più bassi di quelli dei loro coetanei medici e avvocati. E con il prezzo delle case alle stelle, può venire a insegnare a Londra solo chi è nato in una famiglia benestante. Così avremo élite intellettuali figlie delle élite del denaro”.Come sempre, vien da dire, ma forse non in Italia dove la scuola resta sempre una grande opportunità di lavoro, almeno a giudicare dalle centinaia di migliaia di domande per le supplenze del prossimo anno scolastico. Insomma, la situazione è sempre più complessa e intricata, ma la sfida di storici e studiosi è quella di aiutarci a sbrogliare la matassa.
     

  • DIOR, BAROCCO E PIZZICA
    FRA LUMINARIE E OMBRE

    data: 25/07/2020 18:31

    E’ provinciale esaltarsi per una sfilata di moda di una delle più celebri maison al mondo dalle nostre parti? Io ritengo di no. A me la sfilata Dior a Lecce è piaciuta, anche se ho qualcosa da eccepire sullo spettacolo che ha fatto da contorno alla passerella delle 45 modelle che indossavano una novantina di abiti firmati Maria Grazia Chiuri. Che è la prima stilista donna della casa di alta moda fondata da Christian Dior a Parigi nel 1947. Per 28 minuti, l’altra sera, piazza Duomo a Lecce è diventata scenario di una sfilata della collezione Cruise, quella intermedia fra le stagionali, prevista all’inizio di maggio e spostata, a causa del Covid 19, al 22 luglio. Avrebbe potuto rinunciarvi, la Chiuri: dopo tutto questa trasferta, sia pure supportata dalla Regione Puglia e avvalorata dal fatto che il presidente della regione, Michele Emiliano, l’abbia nominata consulente per il rilancio della Puglia stessa, comportava numerose difficoltà.

    Intanto spostare abiti e tutto il contorno (make up, fotografi, modelle, ecc. ecc. e i Ferragnez a fare da indiscutibili araldi della manifestazione) da Parigi fin qui, non è stato semplice. Piazza Duomo doveva essere chiusa al pubblico onde evitare assembramenti. Ma si è visto tutto in diretta streaming comodamente da casa propria. Si sono collocate le luminarie disegnate dall’artista Marinella Senatore con le scritte a tema femminista e rivoluzionarie che tanto piacciono a Chiuri che indossa spesso una t-shirt con la scritta “We should all be feminists”. Non per niente Maria Grazia Chiuri, che ha ricevuto in Francia la Legion d’onore, e si divide fra Roma e Parigi, ben conscia del proprio valore, ha voluto che l’evento si realizzasse, oltre tutte le critiche e le eccezioni. Perché lei, che ha ereditato dalla madre sarta romana il suo mestiere, dal padre Antonio (classe 1931), trasferitosi nella capitale a 18 anni, ha imparato ad amare il Salento: ogni estate è venuta in vacanza nel paese paterno, Tricase.

    E in questo mesi di chiusura forzata, ha esplorato via web l’artigianato salentino, soffermandosi sulle tessitrici e ricamatrici delle Costantine, una fondazione di Corigliano d’Otranto che ha fatto del lavoro specialmente femminile la sua caratteristica. Così, con le sue lavoranti, ha messo a punto questa collezione molto giovanile, agile, fresca, colorata, che ricorda il mondo contadino, a cui si ispira. Ed ecco, immancabile, la pizzica: nel suo aspetto più cupo. Non è la prima volta che Chiuri utilizza la danza nelle sue sfilate. Ma stavolta, vedere le luci delle luminarie e il maestro Paolo Buonvino che (finalmente!) dirigeva l’orchestra nella cassa armonica, con i cantanti e i ballerini di una pizzica che da festosa diventava inspiegabilmente tragica, è stato particolarmente stridente. Lo spettacolo, una mezzora circa, proprio per questo non è riuscito.

    Quanto alla filata in sé, nulla di stravolgente, anche nell’uso della piazza: per anni Trinità dei Monti ha fatto da scenario a eventi simili, pure in diretta tv, senza che nessuno avesse da ridire. Qui si sono lamentati per le luminarie che coprivano il barocco ma, a parte il fatto che le decorazioni di piazza Duomo sono in alto, le strutture sono mobili, già oggi non ci sono più e non rovinano alcunché. Molto peggio sono state alcune scritte anonime contro il presunto sfruttamento che hanno deturpato muri secolari.

    Gli abiti erano belli, le modelle avevano quell’aspetto loro così truce che non si capisce come mai, son vestite bene, sono giovani, un sorrisetto dai, cosa vi costa? Ma soprattutto c’era da rimanere allibiti di fronte alla tragedia mimata da uomini e donne, ballerini e cantanti, vestiti in bianco e nero, battenti i tacchi manco fossero andalusi. Si parte con la tarantella, si finisce col mimare uno svenimento se non peggio e le modelle passano ancheggiando con stile ma indifferenti a ciò che accade accanto a loro. Cosa strillava quella donna vestita di nero? Si è avuta l’impressione insomma non di una festa ma di un dramma e a nulla è valso che poi Sangiorgi cantasse in smoking “Meraviglioso”.

    La pizzica, slegata dal suo vero significato folkloristico, ormai perso nella notte dei tempi, qui mi è parsa fuori tema. Avrei preferito una festa e basta. Per il resto, è vero, donne, pensate alla prima volta che avete visto il vostro nome, come si leggeva in inglese su un cornicione di luminaria. Oggi leggo Chiuri e ne sono orgogliosa.  

  • IL GIORNALISTA SCAVO
    E IL FACCENDIERE GAFA'

    data: 30/06/2020 21:18

    Si moltiplicano gli attestati di solidarietà e si auspica che si rafforzi la vigilanza intorno a un giornalista che con le sue inchieste non lascia nulla di segreto nelle trame che circondano le rotte degli immigrati nel Mediterraneo. Nello Scavo, giornalista dell’Avvenire, è stato infatti minacciato pesantemente da Neville Gafà, un faccendiere che fino a qualche mese fa era direttore dell’ufficio del primo ministro di Malta e tuttora consulente del governo della Valletta, retto dal laburista Robert Abela. Immediata la solidarietà per il giornalista che sabato scorso è stato intimidito via Twitter da Gafà in questi termini: “Fermate i vostri affari sporchi. Altrimenti vi fermiamo noi”. Una minaccia davvero inquietante soprattutto se pensiamo al ruolo svolto da Gafà anche nel precedente governo maltese, guidato da Joseph Muscat, che cadde proprio perché fortemente coinvolto nell’attentato dinamitardo costato la vita alla giornalista Daphne Caruana Galizia, morta nell’esplosione della sua auto il 16 ottobre 2017.

    Ecco cosa ha scritto in prima pagina oggi, martedì 30 giugno, il direttore dell’Avvenire, Marco Tarquinio, titolando Affari sporchi e cronache pulite: “E’ capitato di sentire definire in molti modi il nostro lavoro di cronisti in questo giornale di limpida ispirazione e tradizione, ma l’espressione ‘sporchi affari’ nessuno aveva mai osato usarla. Ora è stata scagliata in un post minaccioso anche contro il nostro inviato Nello Scavo da un personaggio maltese, Neville Gafà, indiziato di traffici, essi sì, sporchie accusato di aver orchestrato la campagna contro Daphne Caruana Galizia, giornalista sua connazionale assassinata a causa del coraggioso lavoro di inchiesta che conduceva. Posso solo dire che sui social Gafà si è mostrato uomo senza scrupoli. Che da Malta, nazione amica e vicina per cultura e geografia, ci aspettiamo chiarezza e fermezza. Che continuiamo le nostre cronache pulite. E che Nello è tutti noi”.

     

     

    Nello scorso aprile Gafà ha organizzato il respingimento di un gruppo di migranti che sono naufragati il giorno di Pasquetta. Dodici le vittime accertate; altri 51 naufraghi furono riportati in Libia da pescherecci senza bandiera, ingaggiati da Rafà, in violazione alle convenzioni internazionali. Una prassi a quanto pare consolidata da anni ma che solo nello scorso aprile era stata individuata e smascherata, come Scavo ha puntualmente documentato. Nel twitter Gafà minaccia anche Watch The Med-Alarmphone, l’organizzazione umanitaria che il 26 giugno ha ricevuto l’Sos di 95 persone che avrebbero potuto essere salvate dalla nave Mar Jonio della ong Mediterranea Saving humans ma che sono state invece intercettate dai guardiacoste libici, al largo di Misurata: ci sono stati 6 morti e tutti gli altri, compreso un neonato venuto alla luce proprio in quelle ore in acqua, di nuovo risospinti in Libia. Val la pena di sottolineare, ancora una volta, che i campi di prigionia libici sono delle strutture fuorilegge che detengono innocenti che hanno solo il desiderio di fuggire verso una vita migliore. Mediterranea ha anche lanciato una precisa accusa alla Marina italiana: la fregata De La Penne avrebbe potuto raggiungere il gommone in avaria e invece, non sarebbe intervenuta.

    C’è stato uno scambio di precisazioni tra Nello Scavo e Antonello de Renzis Sonnino, capitano di vascello e capufficio della pubblica informazione della Marina sull’Avvenire di domenica 28 giugno: la fregata si sarebbe trovata distante dal luogo del naufragio, ha precisato il capitano Sonnino. I superstiti sono stati portati via dalle guardie costiere libiche, le quali poi sfuggono ai radar e agiscono in violazione delle attività di Search and rescue (Sar), in quanto porto sicuro di sbarco la Libia non è. Il nodo dell’immigrazione resta ancora uno dei più gravi che la diplomazia internazionale si trovi a dover sciogliere. Basta leggere le splendide cronache di Bernard Henry Levy sulla Repubblica: domenica il suo reportage dall’isola di Lesbo (Grecia) faceva davvero accapponare la pelle. Un campo-profughi di siriani, per lo più, in quelle condizioni, è una vergogna non solo per l’Europa ma per tutta l’umanità.

     


     

  • TRUFFE IN COOPERATIVA?
    CLAMOROSO SE AL SUD
    MENO CLAMORE SE AL NORD

    data: 19/06/2020 11:36

    C’è sempre grande clamore intorno alle truffe attuate dalle cooperative che aiutano i migranti, ai danni dei loro ospiti e dello Stato. Di solito la notizia rimbalza sui telegiornali se la coperativa in questione è meridionale – ricordo una del Molise. Meno clamore invece si nota se l’imbroglio riguarda una del Nord. La notizia riportata giovedì dal Corriere della sera nelle Cronache (pag. 22), a firma di Maddalena Berbenni e Giuliana Ubbiali, ha del clamoroso non solo perché riguarda l’area di Bergamo, come si sa nella tempesta per l’emergenza pandemica, ma anche perché il filone d’indagine porta dritto dritto alla Caritas, una delle più grandi associazioni cattoliche.

    Sono finiti agli arresti (sia pure domiciliari) padre Antonio Zanotti, 73 anni, fondatore e guida spirituale della cooperativa Rinnovamento con sede a Romano di Lombardia, accusato già nel 2018 di abusi sessuali da parte di un ragazzo che aveva aiutato; la presidente Annamaria Preceruti, 58 anni, di Antegnate e l’economo Giovanni Trezzi, 49 anni, di Crema. L’accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla truffa allo Stato. Sequestrati anche 126 mila euro di contributi pubblici, intascati in maniera illecita. Si tratta di 35 euro al giorno che i cooperanti avrebbero continuato a intascare anche quando l’immigrato di turno lasciava la struttura e, naturalmente, si lucrava anche con il cibo scaduto. Oltre alla Ruah, si trova coinvolta – grazie alle intercettazioni telefoniche - pure l’associazione Diakonia, legata direttamente alla Caritas, anche se qui non ci sono stati arresti. "I reati ipotizzati sono gli stessi: associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata, allo sfruttamento del lavoro, alla turbativa d’asta e all’inadempimento delle pubbliche forniture. Nel ruolo del presunto promotore, don Claudio Visconti, 56 anni, direttore per 20 anni della Caritas di Bergamo, dal settembre 2018 alla Pastorale italiana di Bruxelles”. Gli inquirenti avevano voluto vederci chiaro dopo lo stupro, nel settembre del 2017, di un’educatrice di un centro di accoglienza a Fontanella, sempre nella Bergamasca. L’immigrato colpevole era stato subito arrestato, ma le indagini hanno investito altri settori delle cooperative. Non solo contributi pubblici…

    Infatti sempre nel numero di ieri del Corriere della Sera, a pag. 7, tutta la pagina è occupata dalla pubblicità della Porsche in cui la celebre auto sportiva, verniciata in verde, bianco e rosso, i colori dell’Italia, annuncia: “Questa volta per vincere non dobbiamo lasciare indietro nessuno”. Alla Porsche hanno un ufficio pubblicità davvero originale, tutto teso a giustificare il possesso di un’auto di lusso con il coronamento di un più che legittimo sogno (una variopinta pubblicità tempo fa recitava: “Il tuo sogno è possibile, non ucciderlo, è la cosa più importante per te”). Infatti: “Acquistando l’auto dei tuoi sogni combatti insieme a Porsche la povertà alimentare ed educativa nel tuo territorio”. In che modo? Con donazioni proprio alla Caritas per ogni auto consegnata dal primo giugno scorso al 10 luglio prossimo. “Porsche Italia e i concessionari della rete italiana aiuteranno attraverso Caritas 40 famiglie e 10 ragazzi”. Peccato che, voltando pagina…  

  • DELL'INTITOLAZIONE
    AD ALBA DE CESPEDES
    DI UNA STRADA A BARI

    data: 08/06/2020 11:00

    La notizia non è tanto che il Comune di Bari abbia deciso di sostituire il nome di una strada, finalmente togliendo l’intestazione a Nicola Pende (nonno della giornalista Stella), endocrinologo e politico fascista che firmò il Manifesto della razza, per darla ad Alba de Cespedes. E’ un risultato importante certo, ma la notizia è piuttosto: “Alla buon’ora!”. Perché la scrittrice, nata a Roma l’11 marzo 1911 e morta a Parigi il 14 novembre 1997, finita ingiustamente nel dimenticatoio, non solo ha scritto, fra i tanti, un romanzo: “Nessuno torna indietro” che risale al 1938, che fu censurato dal fascismo perché non aderiva certo all’immagine tradizionale della donna tutta figli-casa-cucina e che ha anticipato “Il gruppo” che Mary McCarthy scriverà solo negli anni Sessanta, ma è stata un personaggio importante per Bari. Quel romanzo, che narra le vicende di 8 ragazze, fra cui una ragazza madre (quel in fondo fu lei stessa), sarebbe dovuto andare al macero, ma Arnoldo Mondadori si oppose e fu tradotto in tutto il mondo. Quindi prima di quella breve ma intensa stagione che risponde al nome di “Radio Bari”. Quando Alba vi giunge, ha già una consolidata fama di antifascista. Intendiamoci, Bari è stata sede di uno dei primi esperimenti radiofonici di Guglielmo Marconi, tant’è vero che un intero quartiere è dedicato all’inventore dello straordinario mezzo di comunicazione, vicino al faro.

    La sede radiofonica cittadina era in via Putignani (dove, al civico 247, da due anni una pietra d’inciampo ricorda la gloriosa sede, trasferita nel 1959), in pieno centro, una stazione radio fino a poco tempo prima strumento della propaganda della dittatura, specie nei paesi arabi, con occultamento delle notizie delle sconfitte italo-tedesche come El Alamein. ma da essa si irradiò la voce dell’Italia liberata, dopo il 25 luglio 1943 e soprattutto dopo l’8 settembre. A Bari arrivarono gli inglesi e gli americani, i tedeschi furono cacciati da Barivecchia e la città diventò il primo avamposto libero. Con tutti i rischi che ciò comportava. Infatti quando il maggiore britannico Ian Greenlees giunse da Taranto a Bari, già il 26 luglio, si diresse subito alla radio per organizzare le nuove trasmissioni. Due giorni dopo, il 28 luglio, ci fu la strage di via Nicolò Dell’Arca, quando circa 200 giovani che manifestavano contro i fascisti furono presi a fucilate da questi, asserragliati nella loro sede in quella strada centrale, a ridosso della stazione. Ci furono 20 morti, raggiunti a sorpresa dai proiettili che cadevano dall’alto: un eccidio che ha paragoni solo con le stragi che purtroppo l’Italia doveva subire negli anni della strategia della tensione e che scosse la città che pensava di essersi liberata degli oppressori. Quando furono raggiunti dalle fucilate, i manifestanti stavano trattando appunto con la forza pubblica la rimozione dei simboli del fascismo dalla federazione. La milizia fascista e l’esercito erano ancora strettamente alleati a Bari (il generale Armellini, fascista, venne inserito nell’esercito), e non soccorsero nemmeno i feriti, portati direttamente in carcere. Tra i manifestanti c’erano lo scrittore Tommaso Fiore (il cui figlio Graziano fu tra gli assassinati), i filosofi Guido Calogero e Guido De Ruggiero, l’editore Laterza, e molti altri esponenti dell’antifascismo che poi si ritrovarono nella radio. Furono mesi decisivi.

    Un altro episodio significativo fu la cacciata dei tedeschi da Bari vecchia, il 9 settembre di quello stesso anno cruciale, 1943. Fu una resistenza decisa lì per lì, all’indomani dell’armistizio: fu un ragazzo di 14 anni, Michele Romito, a bloccare con 4 bombe a mano e un esercito di ragazzini al suo seguito, l’ingresso dei tedeschi dal bastione del borgo antico. Il generale Nicola Bellomo con i suoi uomini fece il resto ma anche le donne e gli uomini di Barivecchia parteciparono attivamente a questa cacciata, lo stesso Giuseppe Di Vittorio che si trovava nella Camera del Lavoro, vicino alla basilica di San Nicola. Una prima bomba fermò un carrarmato e da allora per i tedeschi non ci fu verso di prendere Bari e batterono in ritirata, non senza seminare dietro di loro il terrore e la morte, come accadde a Barletta il 12 di quello stesso mese. Infatti da quel giorno fino alla primavera successiva dall’emittente di via Putignani, Radio Bari appunto, non più Eiar, si trasmise “Italia combatte”.

    Ed ecco la testimonianza di Alba De Cespedes, raccolta da Sandra Petrignani nel suo libro “Le signore della scrittura”. La scrittrice partì da Roma alla volta di Bari.“E’ una delle cose che mi piace di più ricordare, forse perché è stato molto pericoloso: ma appunto, è stato bello averlo fatto insieme (col suo secondo marito, il diplomatico Franco Bounous). Procedevamo stretti stretti sul terreno minato, attraversando le linee tedesche, fra i cadaveri, pensando che se ci fosse andata male almeno saremmo saltati sulla stessa bomba. Libera. Abbiamo dormito molte notti in una stalla, sulla paglia, con altri fuggiaschi. Ero l’unica donna. Poi finalmente arrivammo a Bari e lì mi sono messa a lavorare per Radio Bari, una radio libera della Resistenza. Avevo assunto il nome di Clorinda e avevo un accento toscano per non farmi riconoscere. Avevo paura per mio figlio, che era ancora a Roma, in collegio, aveva 17 anni”.

    Ci furono messaggi in codice, appelli. Purtroppo i tedeschi avevano un servizio di spionaggio efficiente che portò al tremendo bombardamento aereo del porto il 2 dicembre 1943: una notte di luna piena, senza contraerea, durante la quale i tedeschi bombardarono 28 navi alleate, tra cui l’americana John Harvey, carica di ordigni all’iprite, arma chimica al bando sin dopo la prima guerra mondiale. Ci furono oltre mille morti quella notte, altri subirono nel tempo le conseguenze di quel disastro e il mare restò avvelenato per molto tempo. I genitori di tanti miei coetanei ancora ricordavano quella notte tragica. Erano corsi tutti al rifugio del convitto a San Pasquale, meno i miei nonni, fatalisti; Michele Martiradonna rimase a dipingere un suo grande quadro, Giuseppe Gabriele fumava le sue sigarette. Sopravvissero entrambi. Da via Putignani dunque si ponevano le basi per il congresso dell’Italia liberata, il primo del CLN, che fu inaugurato al teatro Piccinni il 28 gennaio del 1944. Dalla radio si diffondeva anche il libero pensiero e la suadente voce di Michele D’Erasmo, illustre professore di latino e lettere al liceo classico Orazio Flacco ed esponente di Giustizia e Libertà. Intitolare una via anche a lui sarebbe più che doveroso, al posto di papi sconosciuti che si susseguono specie nel codino rione Poggiofranco, dove peraltro, in periferia al confine con Carrassi, si trova anche la corta strada oggetto del doveroso cambio.

    Tornando ad Alba, nel 2011, anno del centenario, i Meridiani Mondadori in verità hanno ovviato a quell’alone di oblio che aveva circonfuso una figura tanto splendente nel panorama mondiale, pubblicando tutte le sue opere, com’è consuetudine della collana, e anche una dettagliata biografia. Opera più che necessaria, perché la scrittrice fu una vera cosmopolita ed ebbe una vita avventurosa, varia e ricca di avvenimenti.

    Sempre dallo stesso libro di Petrignani, edito da La Tartaruga, nel 1984 e riedito nel 1996, quindi riferito a una De Cespedes 73enne: “Ho avuto molti guai nel periodo fascista. Tutto di me fu proibito. Come del resto toccò anche ad altri scrittori, Moravia per esempio. Non potrei dire la stessa cosa di tutti, di tutti quelli che oggi vantano un presunto antifascismo. Venivo convocata continuamente al Ministero della Cultura Popolare. L’ultima volta il ministro Mezzasoma, che era però una persona perbene, mi chiamò e mi disse: Lei è come morta. Non può più scrivere su nessun giornale’(ero collaboratrice fissa al Messaggero allora). Non seppi trattenermi e risposi: ’Non importa. Sto scrivendo un romanzo. Io impiego molto tempo a scrivere i miei libri. Tre, anche cinque anni. Finirà molto prima il fascismo’. E lui sorprendentemente mi rispose,con occhi talmente tristi che non li dimenticherò mai: ‘Lo credo anch’io’. Era il 17 luglio 1943. Il 25 luglio il fascismo cadde”.

    Di padre cubano, (Carlos Manuel de Cespedes y Quesa ambasciatore di Cuba a Roma e poi, nel 1933 a sua volta presidente isolano come l’omonimo padre, Manuel Carlos, assassinato nel 1874 dai colonialisti spagnoli), e di madre romana, Laura Bertini Alessandrini, Alba nacque a Roma l’11 marzo 1911 e morì a Parigi il 14 novembre 1997. Tutti i suoi scritti, le sue foto e testimonianze varie sono stati da lei donati agli Archivi riuniti delle donne di Milano. Per ottenere la cittadinanza italiana si sposò a 15 anni con Giuseppe Antamoro. Un matrimonio breve da cui però nacque il suo unico figlio, che nel 2001 organizzò una mostra antologica sulla madre al teatro delle Esposizioni a Roma.

    Alba si fermò poco a Bari. Quella gloriosa stagione fu breve ma intensa: ma fu qui che la scrittrice intessè quei rapporti che poi a Roma la portarono alla fondazione della rivista “il Mercurio” e a svolgere un’intensa attività giornalistica, come inviata di varie testate, dividendosi tra la Francia, l’Italia e Cuba, la sua amata isola, dove conobbe Che Guevara e Fidel Castro.Tanti i suoi romanzi: Io, suo padre; Concerto; Fuga; Dalla parte di lei; Quaderno proibito; Il rimorso, La bambolona, Sans autre lieu que la nuit e il Meridiano Mondadori ne contiene cinque, più racconti, interventi, saggi e infine una raccolta di poesie a cui lei teneva moltissimo: “Le ragazze di maggio”, del maggio 1968 ovviamente. Tanto lavoro, come si vede e, a fronte di tutto ciò, nelle antologie scolastiche, nei corsi universitari, in libreria, ci accorgiamo di lei, di Alba De Cespedes? Direi di no. Intitolarle una strada, peraltro piccola e periferica, è il minimo che si possa fare. Ma perlomeno, cambiando l’intestazione, è stato restituito alla storia barese il suo giusto senso.
     

  • BARI 2020 SENZA FIERA
    MA SALVIAMO ALMENO
    L'EDILIZIA STORICA

    data: 15/05/2020 20:13

    Salterà anche la Fiera del Levante, quest’anno. Nessuno stupore, ormai con questa orribile pandemia non si capisce più niente e il minimo che potesse accadere è che saltasse la campionaria che a Bari a settembre va avanti dal lontano 1929. Sembra una bazzecola ma non per i baresi, che alla Fiera ci tengono, anche se non è altro, in fondo, che un grande mercato, in un quartiere, quello fieristico, che ha un suo fascino particolare in una città che da tempo ormai conta più sulle bellezze naturali che sui suoi edifici. Infatti qui non è che abbiamo chissà quali edifici storici: non siamo a Roma, non ci sono palazzi incredibili, affreschi mirabolanti di Raffaello, statue di Michelangelo, meraviglie. Per notare qualcosa di davvero notevole dobbiamo risalire addirittura all’anno Mille, alla basilica di San Nicola e al borgo antico sostanzialmente intatto nei secoli, quella Barivecchia giustamente famosa nel mondo.

    Ma ci sono altre bellezze, che negli anni Bari ha comunque messo insieme, come le mura della Fiera del Levante, che sembrano quelle di una città tunisina o marocchina, con le merlature moresche e quel colore giallo che le rende così caratteristiche. E l’intero quartiere, vasto, suddiviso in stand e viali e verde. Non per niente, quando Farinetti è venuto qui con il suo ipermercato Eataly, ha scelto proprio la Fiera e ne ha valorizzato l’ingresso con grandi cartelloni che spiegavano con belle illustrazioni e fotografie le ricchezze gastronomiche del territorio. Peccato però che, con un agire colonialistico, abbia ridimensionato il tutto, togliendo il bel corridoio introduttivo, a fronte del guadagno che non era quello che si aspettava. Chissà poi adesso….

    Non solo, al di là delle mura, il quartiere fieristico contiene anche dei padiglioni, come quello dell’Acquedotto (negli ultimi anni abbandonato dall’ente però), caratteristici, molto ben raffigurati. Insomma, la Fiera, dove si trovano anche la sede dell’Apulia Film Commission e altri uffici, fa parte del panorama barese e sarebbe un vero peccato, come hanno auspicato certi cittadini esprimendosi di preferenza sui social, se venisse ridotta a un parcheggio. In Fiera ci sono grandi sale per congressi, è un centro importante, di fronte al mare.

    Bari però non riconosce e non tutela le sue bellezze: prendiamo la Gazzetta del Mezzogiorno, per esempio, il giornale che è stato dichiarato fallito appena oggi. Aveva una sede magnifica in piazza Moro, buttata giù dalla sera alla mattina nel 1982. Allora si spostò in via Scipione l’Africano, dove insiste una enorme tipografia, ma anche questa sede, abbandonata, sta cadendo a pezzi eppure è una bella opera architettonica. La fece l’architetto Onofrio Mangini (morto il 23 marzo scorso) negli anni Settanta del secolo scorso. Ci sono poi testimonianze Liberty, come i villini postelegrafonici: dei venti originali ne sono rimasti in piedi solo otto. Il resto l’ha fatto fuori la speculazione edilizia. Insomma, Bari rischia di essere una città senza memoria. Ma sono sicura che il sindaco Decaro, che tanto ha fatto per la valorizzazione del litorale, non lascerà che la Fiera diventi solo un ricordo. Così come altri luoghi da salvare in questa bella città.
     

  • FILM DA RIVEDERE E VALORIZZARE: COME QUESTO DI PIETRANGELI

    data: 21/04/2020 16:16

    Sabato sera su Raistoria, senza che fosse annunciato dai vari giornali specifici (si tratta di una programmazione un po’ a sorpresa) né tantomeno pubblicizzato dalla Rai stessa che per altri programmi invece si spreca eccome, è passato un film di Antonio Pietrangeli: “Il sole negli occhi”, datato 1953.
    Adoro questo regista, scomparso a 49 anni, padre del cantautore (“Contessa”) e regista Paolo, autore di alcuni film che andrebbero fatti vedere a scuola. E auspico che il cinema, come branca dell’arte del narrare, sia inserito fra le materie canoniche: sarebbe pure ora. Pietrangeli è stato un femminista ante litteram, come molti suoi colleghi, penso allo Zampa dell’”Onorevole Angelina” che è addirittura del 1947. Se i suoi film fossero stati divulgati di più, non si sarebbero aspettati gli anni Settanta del secolo scorso per il femminismo.
    Del resto la storia, come diceva Vico, è fatta di corsi e ricorsi, progressi e regressioni. Peccato però che non si tragga un’utile lezione da un film come questo che illustra un aspetto della condizione femminile davvero squallido. Si tratta della storia di Celestina, una servetta come si diceva allora, che dal paese giunge a Roma, una Roma non turistica, ben lontana dagli scenari di “Vacanze romane” ma di cui si esaminano vari aspetti sociali, seguendo la "carriera" della ragazza. Si va dalla coppia di pensionati che vuole adottarla, visto che è sola al mondo (i fratelli sono emigrati in Australia) ma che così suscitano l’ira dei parenti, a un primo fidanzato che non ha intenzione di sposarla, alla cotta per l’idraulico Fernando. Quando questi, chiamato nella casa signorile dove Celestina è approdata, viene sorpreso ad abbracciarla, la signora contessa le dà gli otto giorni e la licenzia.
    Così la giovane finisce in una casa di commercianti, con nonno, padre e figlio che allungano le mani e signora che, da nuova arricchita, telefona alla contessa per sapere se si può fidare di questa nuova cameriera. La quale in casa fa tutto, dal cucinare a pulire i pavimenti ginocchioni, e telefona pure a colui che considera il suo fidanzato. Fernando lo stagnino: il quale però, per diventare socio del suo datore di lavoro, deve sposarne la sorella. Ma non rinuncia a Celestina: tra un diniego e l’altro, la porta in gita ai castelli romani sulla lambretta e lei, con il suo tailleurino nuovo comprato con i primi guadagni, ne è lusingata. Proprio lì accade il fattaccio e, come capita, lui si eclissa: ha voglia lei a chiamarlo, le dicono sempre che non c’è anche quando invece si trova proprio in negozio.
    A un certo punto lei va alla bottega e ci trova un altro artigiano, un orafo che non sa nulla dell’idraulico che stava al suo posto. Celestina, come Didone abbandonata da Enea, comincia la ricerca di Fernando: chiede alle sue colleghe le quali, sapendo cosa è successo nel frattempo, le consigliano di dimenticarlo. Intanto, mentre accompagna la famiglia presso cui lavora al mare a Ladispoli, nel raccogliere gli ombrelloni Celestina si sente male, sviene e si rende conto di aspettare un bambino. Mentre la sua “padrona” ironizza con i familiari su questo fantomatico fidanzato, allontanandosi senza badare a cosa è successo alla sua dipendente.
    La ricerca di Fernando diventa più pressante e finalmente Celestina recupera il suo indirizzo: ci va ma ci trova una donna, la moglie di Fernando, che altra non è che la sorella dell’ormai socio dello stagnino. Scappa via, e trova l’uomo che sta al bar con gli amici; lui la vede, la rincorre, ci scambia qualche stupida battuta, ma lei si butta sotto a un tram. Viene soccorsa, e una signora dice a Fernando: “Stava parlando con lei, cosa le ha detto?” ma lui nega di conoscerla! Celestina sta molto male in ospedale, lui va a trovarla piangendo (è una figura orrenda ma del resto è vittima anche lui di una certa educazione o meglio diseducazione sentimentale, come ha ben sottolineato in un suo intervento Binetti su questo blog), ma poi scappa via e la ragazza (22enne, come l’attrice Irene Galter ora 88enne), anche se non voleva più vivere, alla fine decide che terrà il bambino e lo crescerà da sola.
    Come molte cameriere sue amiche, del resto: lo si scopre dai commenti agrodolci di un gruppetto di loro fuori dall’ospedale. E sono tanti i film di questo tipo, con questa tipologia sociale: cosa facevano le donne? Qual era il ruolo riservato loro? O stavano in casa o facevano le cameriere. Difficile vedere in un film un ruolo diverso, specialmente in Italia. Mentre nei film americani per esempio degli anni Quaranta, ci sono tante giornaliste o imprenditrici, in Italia non c’era da spaziare. Ma alcuni registi, come Pietrangeli, proprio questo ha messo in evidenza. Il ruolo subalterno della donna, come pure in “Nata di marzo” sempre con Gabriele Ferzetti come coprotagonista. Sono film da rivedere: dicono tanto della società di quel tempo e non solo.
     

  • LA LUNGA, SPLENDIDA VITA
    DI RAY MARTINO,
    IL SINATRA ITALIANO

    data: 05/04/2020 19:17

    Mario Martiradonna, cantante, in arte Ray Martino, avrebbe compiuto oggi 92 anni, ma purtroppo è scomparso a Cinisello Balsamo il 5 luglio scorso. Era nato a Lecce nel 1928 da Pasqua Varese, insegnante elementare, e da Michele, pittore, nel senso vero del termine, autore di quadri a olio, a tempera, di chine, ceramiche, un grande artista con la passione del teatro. Infatti, insieme al poeta “compare” Gaetano Savelli (che tradusse anche la Divina commedia in dialetto barese), metteva spesso in scena delle recite a Bari, la città d’origine dove il piccolo Mario tornò a circa due anni, appena finita la trasferta materna, con i fratelli più grandi: Elio, Ada e Bianca (mia Mamma), tutti ora nel mondo dei più.
    Abituato dunque a calcare il palcoscenico fin dall’infanzia, data la passione paterna, rifiutando però d’indossare la coda di Topolino, e giocando anche molto a calcio dietro al Cirillo, al rione San Pasquale, il piccolo Mario si distingueva per vivacità e ingegno. Aveva 12 anni quando scoppiò la guerra. Dopo la sesta (allora non c’era la scuola media unificata) s’iscrisse al Nautico, il che gli servì più che altro per la sua spericolata carriera cinematografica: nei film di cappa e spada o di ambiente piratesco, anche di targa hollywoodiana, non sfigurava di certo. E anche come calciatore (come un suo rinomato omonimo) ha dato buona prova di sé. Ma fu la musica la sua grande passione. Del resto il padre suonava a orecchio pianoforte e mandolino, la madre cantava, e il fratello Elio era un valente pianista e fisarmonicista.
    Così, quando a Bari arrivarono gli americani, il giovane Mario imparò lo slang in quattro e quattr’otto, imparò tutte le canzoni dei V-disc che i soldati avevano portato con loro e correva dal quartier generale a Mungivacca in città per le varie mansioni, un po’ come il protagonista dell’”Impero del sole”, di Ballard (e film di Spielberg). Da allora Cole Porter, Ira e George Gershwin e compagnia, non ebbero più segreti per lui. Il dopoguerra fu la consacrazione.
    Mario ed Elio presero a cantare e suonare al Fortino e alla Selva di Fasano, riscuotendo un successo strepitoso: tutti a ballare il boogie-woogie! Poi, dovendo Elio diventare architetto, a 18 anni ecco che Mario si trasferisce con lui a Milano. Dapprima fu la rivista, con Walter Chiari e Marisa Maresca. Poi Renato Carosone, di cui ha interpretato tutte le canzoni, facilmente reperibili in rete. “Buona Pasqua”, dal testo divertentissimo, era ricorrente in famiglia di questi tempi. Ma c’è tanto da ascoltare: come la sua versione swing di “Parlami d’amore Mariù”, è fantastica.
    Soprattutto, in quei primi anni di carriera, ci fu l’incontro con il re del jazz, mister Louis Armstrong. Quando Satchmo nel 1949 sbarcò a Milano, trovò ad accoglierlo una folla di estimatori ma pochi lo capivano a eccezione di Ray, che seppe tradurre al volo le sue parole e quando gli disse di essere cantante, Armstrong, al colmo della gioia, lo ascoltò e lo volle con sé in tournè. Tanto che si sparse la leggenda che Ray fosse nato a Brooklyn (lui che cantava “Tu vuo’ fa’ l’americano” ci riusciva benissimo…). Nel sito della celebre casa-museo nei Queens, a New York, si può sentire Armstrong che parla del suo amico Ray Martino e ci sono foto e filmati che testimoniano questo incontro.
    Da allora il suo destino fu ulteriormente segnato. Il Frank Sinatra italiano (“Sono onorato di questo paragone – diceva lui – ma io canto oltre che in inglese, anche in francese, spagnolo e italiano”), con un patrimonio di oltre 200 canzoni, tutte a memoria, lavorò con Enrico Intra, Franco Cerri, Bruno Martino, con tutto il bel jazz italiano. Non solo: quando Leonard Bernstein, spesso alla Scala, dopo il teatro andava in un bar lì vicino a fare le ore piccole suonando il pianoforte, Ray Martino cantava, con un simile, geniale accompagnatore…Non solo: Mario Martiradonna alias Ray Martino partecipò anche agli esordi della televisione, negli studi di corso Sempione. Nel 1954, quando Sergio Bernardini fondò a Marina di Pietrasanta la Bussola, eccolo poi protagonista, con il suo quartetto, di tante memorabili serate. Incise dischi con la Compagnia generale del disco.
    Nel 1955 vinse il secondo premio del Festival de la chansonne italienne a Parigi. Recitò nel film di Sergio Corbucci “Carovana di canzoni”. Nel 1956, con un matrimonio in crisi, se ne andò in Spagna dove rimase sei anni, mietendo successi. Con serate anche nei locali portoghesi. Lavorò molto anche nelle tv iberiche e partecipò al film “Il figlio del capitan Blood” con lo sfortunato Sean Flynn (figlio di Errol, protagonista del primo film). Alla fine del 1963 Ray tornò in Italia, per cantare con Intra e Pupo De Luca, famoso batterista. Nel 1965, in un programma di Bruno Beneck, presentò con Rolly Marchi “Le Olimpiadi giovanili”. Fu il suo periodo d’oro, culminato in un nuovo matrimonio e nella nascita di una figlia, Chiara, e di un figlio, Michele.
    Continuano negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso le serate, da S. Moritz alla Costa Smeralda. E sui transatlantici Leonardo e Raffaello che solcavano l’oceano fino alla Grande mela. Nel 1973 sospende temporaneamente la carriera di “crooner”: entra come grafico e discografico alla Cbs-Sugar. In Rai scrive e presenta “Club 21”: 22 puntate il martedì sera per illustrare oltre 72 brani, da Jerome Kerns a Vincent Youmans, da Richard Rodgers e Lorenz Hart a Carmichael, tutto il suo adorato repertorio.
    Seguirono serate, inviti alla presentazione di libri in cui si racconta il jazz a Milano ma anche, inevitabile, specie con l’avvento delle discoteche e il dominio del rock, un certo declino. Gli amici scomparivano a uno a uno. Ma Mario-Ray era sempre attivo, di buon umore, vitalissimo. E fu così che con Roberto Bonzio, che dirige il sito Italianidifrontiera, si decise di organizzargli una bella festa per i suoi 90 anni, esattamente due anni fa. Allo “Spirit de Milan”, un grande locale in via Bovisasca, ci fu un’ospitata con il gruppo Emilio e gli Ambrogi. “Ma non è che ti emozioni troppo? Non provi? Non ripassi?” Macché, salì sul palco e cantò “Flying in the moon” e “I got you under my skin” (il filmato è su Youtube) con le stesse bravura e naturalezza di sempre, tra l’emozione dei giovani concertisti e del pubblico.
    Purtroppo fu la sua ultima serata, lui che, come si vantava, “aveva fatto ballare centinaia di migliaia di persone”, il 5 luglio scorso se n’è andato per sempre ma la sua splendida voce rimane. E ci commuove.
     

  • PICCOLE LEZIONI
    DI ECONOMIA IMPOSTE
    DAL CORONAVIRUS

    data: 25/03/2020 17:34

    L’emergenza da pandemia virus Covid19 ci ha gettati tutti in uno scenario fantascientifico che era difficile non dico immaginare ma pensare che si tramutasse in realtà certamente sì. Ed è un’emergenza che rischia di prolungarsi nel tempo. Guardo con malinconia il pacchetto di biglietti di autobus che avevo acquistato alla metà di febbraio per recarmi in centro: è rimasto integro con i suoi dieci cedolini di pagamento. Viene lo sconforto a vedere i servizi televisivi dai mercati rionali cittadini, ancora frequentati ma poco, con i commercianti sconsolati che espongono ogni mattina sui loro banchi ogni ben di dio: ortaggi a non finire, arance, mandarini, mele, banane, tutto invenduto e deperibile. Che fine fa questa roba? Viene buttata.
    E’ una grande lezione di economia: ciò che non è immediatamente consumato da colui che esce a questo scopo, non raggiunge chi ne ha bisogno, perché innanzitutto è distante e poi non ha denaro, che è l’unico mezzo che giustifica tutta l’esposizione di merce. E la Fao, l’organizzazione dell’Onu che si occupa della fame nel mondo? Non pervenuta, ma in ogni caso dovrebbe mettere in azione un grande movimento volontario per portare a destinazione i beni di consumo.
    Ma i viaggi aerei, come gli altri, sono fermi, dunque non si può fare: non si può nemmeno distribuire la roba fra i residenti, perché non c’è chi lo faccia e anche perché – ed è questo il punto – ci sarà un giorno in cui i residenti stessi non avranno più denaro con cui pagare. O meglio: adesso c’è il recapito a domicilio, anche su base volontaria, è stato organizzato in molte città soprattutto per la popolazione anziana. Prima o poi, però, sarà necessario eliminare il denaro. Con oltre due milioni di persone a casa, si è ridotto il movimento e ognuno sa, che volente o nolente, muoversi, spostarsi, comporta una spesa.
    C’è il commercio on-line, che pare abbia avuto un incremento notevole negli ultimi giorni, ma molte aziende - e per prime quelle della moda, sempre così criticate come frivole, mentre non lo sono affatto – hanno responsabilmente limitato le spedizioni, poiché sempre di personale c’è bisogno per movimentare tutta la merce e il personale, come tutti noi, vuole giustamente stare a casa.
    Un prodotto ad alta concentrazione di lavoro – almeno da parte delle povere mucche, sfruttate intensivamente – viene svenduto a poco per quintale e addirittura, denunciavano allevatori pugliesi, arriva adesso il latte dal Nord a prezzi stracciati, da aziende chiuse per contaminazione umana da virus. Così gli allevatori di Noci (nel Barese), per esempio, stanno pensando di regalare il loro prodotto.
    Il segretario generale dell’Onu chiede, molto opportunamente, un cessate il fuoco generale. Le fabbriche di armi come la Beretta, che si trova nel bel mezzo del focolaio, in provincia di Brescia, smetteranno di produrre? Si presume di sì: non sono certo, le pistole, beni essenziali. I benzinai minacciano scioperi, ma di fatto nessuno consuma più benzina o lo fanno in pochi.
    Resta lo smartworking, il mitico lavoro da casa che in realtà avrebbe potuto rinnovare perlomeno il terziario da anni. Si movimenteranno in borsa magari moltissime azioni, per scoprire poi, come nella grande crisi del 2008, che dietro di loro non c’era nulla: le famose scatole cinesi (sempre loro…).
    Ora, non sono un’economista e non mi va di riprendere il Capitale che pure lessi per intero in gioventù. Da qualche parte Marx di sicuro avrà profetato quest’eventualità ma la strada mi sembra obbligata: di questo passo, tolto tutto, andrà eliminato il denaro.
    Il denaro in fondo cos’è? E’ un bene circolante. Se nulla circola più, non ha motivo d’essere. E bisognerà trovare un altro modo di lavorare, di ripagare, di compensare. Forse si tornerà al baratto, l’assistenzialismo sarà una strada obbligata, tanto adesso avere denaro è inutile. Faccio un esempio: potrei volermi comprare il rossetto di una nota casa di moda francese, molto pubblicizzato sulle riviste che continuano a diffondere - giustamente aggiungo io, serve anche questo - beni di non urgente utilità. Che problema c’è? Lo ordino online: il fatto è che costa troppo, non potevo permettermelo prima, a maggior ragione non posso ora. E’ il senso del consumismo: ti creo un bisogno, sta a te soddisfarlo, vediamo se ne sei capace. Ma chi può ora? Ora che tutta l’attenzione è concentrata sugli alimentari, “fino ad esaurimento scorte”? Chi può, ora, preferire di andare a teatro – chiuso – invece di ascoltare un cd o guardare la tv? Ci sono degli sbarramenti che, per quanto riguarda il lato economico, c’erano anche prima ma ora sono più generalizzati e alla fin fine non c’è nemmeno la voglia di tutto ciò, con la paura incombente di ammalarsi (che poi, a ben vedere, è una paura costante). A pensarci, tutto c’era anche prima tranne il blocco totale.
     

  • "I PONTI DI BUDAPEST"
    DA LEGGERE OGGI
    PER CAPIRE IL NEO-NAZISMO

    data: 02/03/2020 18:38

    Oggi, 2 marzo, sarebbe stato il 91esimo compleanno di Betty Schimmel, una ebrea sopravvissuta allo sterminio nazista. Sarebbe perché Betty è morta in Arizona l’11 luglio 2010 e nemmeno due mesi dopo morì, in seguito a un incidente stradale, anche il suo primogenito Robert, nato a New York il 16 gennaio 1950, celebre comico statunitense.
    Il nome di Betty Schimmel, nata in Cecoslovacchia, dovrebbe essere salvata dal dimenticatoio e assurgere a fama analoga a quella di Anna Frank, perché è stata autrice, insieme a Joyce Gabriel, di un libro, “I ponti di Budapest” che merita di essere rieditato. Adesso è introvabile. Ma in questo libro di memorie, che s’intitola in italiano “I ponti di Budapest” (Rizzoli, 1999) e in originale “To see you again” (“Rivederti”) viene descritto l’incubo di una famiglia normale: padre, madre, l’eroica Ethel e tre figli, Betty detta Baby, Rose e Larry che, all’avvento del nazismo e all’occupazione della Cecoslovacchia, cerca rifugio in Ungheria, a Budapest, una capitale raccontata come idilliaca, costellata di prati lungo il "bel Danubio blu".
    Qui sboccia l’amore fra Betty e Richie, qui la madre manda avanti la famiglia facendo la cuoca, mentre il padre, un ufficiale di carriera, è dovuto fuggire senza alcun reato, solo perché ebreo, e i ragazzi studiano, come tutti. Ma a poco a poco, nel volgere di pochi mesi, il clima cambia ed è straordinario come dell’Ungheria si parli sempre e soltanto per l’occupazione sovietica del 1956 ma non per la connivenza che gli ungheresi o perlomeno la maggior parte di loro ebbero poco tempo prima, con i nazisti, laddove le locali croci frecciate non sono state seconde, per ferocia e crudeltà inaudite, alle SS tedesche.
    Tutto si svolse rapidamente: prima confinati in un appartamento per ebrei, derisi e disprezzati da quelli che parevano innocui vicini di casa, i nostri quattro eroi si ritrovano in un incubo. Erano ragazzine, si scambiavano i vestiti: ebbene, una di loro vedendo incolonnata in fila Betty la insultò chiamandola "sporca ebrea". Ma come, le disse Betty, fino a ieri “eravamo amiche e ora mi chiami così?”. “Adesso posso dirtelo”, le rispose quella. Un’atroce risposta che spiega bene cosa sia lo sdoganamento dell’orrore, sempre in agguato purtroppo.
    Gli ebrei di Budapest, parte consistente della popolazione, furono costretti a indossare la stella gialla, confinati in ghetti, sottoposti al coprifuoco e a coabitazioni forzate, fucilati in massa e buttati direttamente nel Danubio (come mostrò lo sceneggiato su Perlasca di Michele Soavi di qualche anno fa). Alla fine, furono concentrati in una ex fabbrica di mattoni nell’autunno del 1944, già gelido a settembre e costretti a dormire sul nudo pavimento fangoso e poi trasferiti in Austria, a piedi, in una marcia di 32 chilometri, nel novembre di 76 anni fa.
    Cinquemila persone di ogni età, stato e condizione, che camminavano lungo la strada di comunicazione fra Ungheria e Austria, con la gente che guardava e non interveniva, con donne incinte e anziani uccisi senza pietà all’istante da soldati locali e tedeschi. Un’ignominia senza possibilità di riscatto.
    Pensiamoci quando a Budapest ci sono rigurgiti nazisti.
    Violet, la migliore amica di Betty, bellissima, sedusse un soldato che le aveva promesso in cambio di liberarla: Betty e la madre cercarono di dissuaderla ma lei era convinta che così avrebbe avuto una possibilità. Invece per tutta risposta quel soldato, chissà se poi sopravvissuto, e magari poi padre di famiglia, uccise Violet e la sorella Amy, ed Ethel dovette stringere la mano dei figli per impedire loro di correre a piangere le due ragazzine immerse in una pozza di sangue. Gli abitanti di Budapest e delle città vicine non mossero ciglio, fin quando, dopo diverse atroci collocazioni, quella misera folla arrivò a Mauthausen, “una pittoresca cittadina con strade serpeggianti fiancheggiate da alberi, alberghi, ristoranti e linde casette. All’aspetto non era altro che una piccola, graziosa città. Sebbene fosse stata colpita da un paio di bombardamenti, non mostrava i gravi danni subiti da Budapest. Era come se fosse scampata alla guerra. Ma Mauthausen nascondeva un orribile segreto. Fuori città e in cima a una collina in cui si arrivava attraverso una salita tortuosa, c’era il campo di concentramento, un luogo dove ebrei e zingari, austriaci dissidenti, ribelli polacchi e ungheresi e altri ‘nemici’ del reich erano stati mandati a soffrire e morire”.
    Qui la quindicenne Betty, con la sorella Rose, il fratello Larry di nemmeno 10 anni, con la madre Ethel, davvero eroica, che razionava le bucce di patate che raccoglieva dall’immondizia, è riuscita a sopravvivere nonostante i piedi piagati per la lunga marcia, divorata dalla febbre da tifo, fino al 5 maggio 1945. Gli americani erano arrivati. Loro, gli internati, solo per fortuna salvati, si accorsero al risveglio che una divisa tedesca giaceva per terra abbandonata. E poi un’altra e un’altra ancora. I vili torturatori se ne erano spogliati, ma furono presi dai soldati americani e costretti a vedere ciò che avevano fatto, così come gli abitanti della cittadina che oggi conta 4.847 abitanti, discendenti ovviamente di coloro che dal 1940 a quel giorno di maggio del 1945 avevano visto il fumo levarsi dalle ciminiere della collina e non avevano fatto nulla.
    E ancora adesso c’è chi è costretto ad abbandonare le proprie case e a mettersi in marcia, come profughi, come perseguitati. Ma allora, la storia non insegna proprio niente? Questo libro, che non tace nulla dell’orrore di quel fosco periodo europeo, merita ancora tutta l’attenzione che risveglia, oggi come ieri. E di questa preziosa testimonianza va detto grazie a Betty, a sua madre, ai suoi fratelli, coraggiosi e resistenti come pochi. Vittime innocenti della crudeltà nazifascista. Mai dimenticare. Mai confondere responsabilità e colpe nel gran calderone dell’oblio.
     

  • PERCHE' L'OTTOCENTESCO
    "PICCOLE DONNE"
    CONSERVA INTATTE
    FRESCHEZZA E VALIDITA'?

    data: 19/02/2020 13:07

    Come mai "Piccole donne", un romanzo scritto durante la guerra di secessione americana e pubblicato nel 1868, conserva tuttora intatta la sua freschezza e validità? Intanto perché - considerato un classico della letteratura per adolescenti, visto che le protagoniste vanno dai 16 anni di Meg ai 12 di Amy - è un romanzo di formazione. Una formazione cui è sottesa l'ideologia calvinista dei padri pellegrini, dei fondatori degli Stati Uniti d'America, nella tradizione di Lincoln.
    Infatti, nel Natale in cui comincia quella che diventerà presto una serie di libri, la madre delle quattro sorelle March regala a ognuna di loro lo stesso libretto rilegato in colori diversi, ovvero un manuale del bravo pellegrino. Questi ha innanzitutto il dovere di essere buono e poi deve portare con operosa rassegnazione il suo fardello perché, com'è spiegato nel capitolo Esperimenti, nulla è più deleterio di una vita oziosa. E quando a giugno arriva la sospirata vacanza, la madre e la cameriera a tempo pieno Hannah lasciano alle ragazze, oltre alle citate ci sono Jo e Beth, il governo della casa. Con disastrose conseguenze: il canarino Pip muore per mancanza di cibo e un pranzo da dimenticare. Nonostante fosse stato invitato Laurie, il giovane vicino decisamente più benestante delle piccole donne, orfano che vive col nonno, amico di famiglia.
    Il padre March è assente, impegnato al fronte. Non sono al Sud, dove la guerra ebbe ben altri effetti, vedi "Via col vento". Ma per quanto giovani, le ragazze devono contribuire al menage familiare. Così Meg fa l'istitutrice in casa dei ricchi King, Jo assiste la vecchia zia facoltosa, Beth si dedica ai più poveri di loro e Amy va a scuola, dove traffica in dolcetti. Ricavandone delle bacchettate dal maestro manesco, al che la madre la ritirerà da quella scuola.
    La ricchezza è condannata ma in realtà la decrescita in cui vivono le sorelle March tanto felice non è, se viene supportata dal generoso amico di famiglia e vicino Laurence, nonché nonno del giovane Laurie che vive con lui. Nel capitolo "La fiera delle vanità" Meg è invitata in una casa di parvenu, agiati ma ignoranti. Si accorge di non avere un vestito adatto per il ballo, ma le amiche la aggiustano in modo da renderla irriconoscibile. L'hanno trasformata in una bambola, commenterà un invitato, rovinandola. Anche Laurie ne resterà amareggiato e la criticherà per tutti quei fronzoli. La festa nasconde un'altra insidia. Meg ascolta infatti le amiche insinuare che la madre coltiva l'amicizia col vicino facoltoso al fine di sposare una delle figlie col giovane erede, cosa che poi in effetti accadrà molto dopo. Ora ciò indigna molto Meg e la madre che commenta: "Meglio restare zitelle felici che mogli sfortunate o ragazze indecorose alla ricerca di un marito". Non che la zitellaggine sia una condizione auspicata - infatti "Piccole donne crescono" s'intitola The good wives, le buone mogli - ma scrivere zitelle felici è già una conquista. La stessa Louise May Alcott, figlia di un filosofo pedagogo, nata il 29 novembre 1832 e morta a Boston il 6 marzo 1888, non si sposò a differenza del suo personaggio, Jo, che comunque lo farà a sorpresa, dopo essere diventata scrittrice.
    Nella migliore tradizione didattica americana le ragazze fanno teatro, stilano un giornale ispirandosi al Circolo Picwick di Dickens di cui sono grandi ammiratrici, addirittura installano una casella postale al confine fra le due proprietà per comunicare con i Laurence e coltivano il loro giardino. In base al loro carattere. Meg pianta rose, Jo girasoli, Beth l'erba gatta e Amy convolvoli. Insomma sono ragazze moderne o facilmente adeguabili ai nostri giorni, tanto da ispirare un quarto film in ordine di tempo, l'ultimo diretto da una 36enne, Greta Gerwig. Anche Mike Binder nel 2005, in "Litigi d'amore" vi si è ispirato. E in fondo storie di piccole donne, se ben scritte, hanno sempre successo dal "Gruppo" di Mary McCarthy a “Nessuno torna indietro” di Alba De Cespedes fino alle “Amiche geniali” di Elena Ferrante.

     

  • LE DONNE SCRIVONO PIU' DEGLI UOMINI MA SONO MENO CONSIDERATE

    data: 06/02/2020 19:33

    “Le parole sono importanti, io sono innamorata delle parole”, ha detto a Sanremo Rula Jebreal, rivelando un particolare della sua infanzia. In orfanotrofio, la sera, a Gerusalemme, le bambine venivano invitate a raccontare delle storie, in genere le loro stesse drammatiche storie. Mi ha ricordato un romanzo dell’americano John Irving: “Le regole della casa del sidro” in cui Wilbur Larch, il medico che dirige un istituto per bimbi senza famiglia nel gelido Maine, ogni sera leggeva ai ragazzi brani di “Grandi speranze” di Dickens e alle ragazze “Jane Eyre” di Charlotte Bronte. La quale contende alla sorella Emily (autrice del fantastico “Cime tempestose”) uno dei pochi posti in cima alla vetta dei romanzi a firma femminile che siano fissi nella memoria di tutti.
    Pochi. Eppure è risaputo che le donne leggano e scrivano molto più degli uomini. Stranamente, però, non sono considerate allo stesso modo ed è ciò che ha spinto la critica letteraria e scrittrice Sandra Petrignani a rimediare, con il suo “Lessico Femminile”, edito da Laterza (pag. 189, 18 euro). Ovviamente non siamo all’assunto banale di chi scriva meglio; è logico che grandi personaggi femminili siano scaturiti da penne maschili (e citiamo, a caso, “Capatosta” di Beppe Lopez) e viceversa. Non si discute sulla qualità della scrittura maschile. Si tratta piuttosto del fatto che non ci siano donne nel canone letterario e che mentre tutti diano per scontato di conoscere Flaubert, non altrettanto accade con la Mitchell o con la Austin.
    C’è da chiedersi, ancora oggi, quanti scolari sappiano chi è Grazia Deledda, una delle poche donne ad aver ricevuto il Nobel per la letteratura e quanti abbiano letto un suo romanzo, mentre si dà per scontato che si leggano Manzoni, Lacapria, Veronesi, Moravia, Tolstoj ecc.: tanti, tantissimi uomini a fronte di poche donne. Per dire: Virginia Woolf, in “Gita al faro”, esprime in poche pagine una ricerca del tempo perduto magistrale, ma tutti citano Proust e la sua immensa opera chissà da quanti in realtà letta (eppure va fatto, perché è magnifica).
    E’ questo dato di fatto che lascia davvero sconcertata la Petrignani e noi con lei: “Non posso dimenticare il sentimento di incredulità che provai di fronte ai testi saggistici – non solo letterari – di Milan Kundera, quando dovetti arrendermi all’evidenza: lui dalle scrittrici, dalle musiciste, dalle artiste in generale, non è stato mai neppure lontanamente sfiorato, visto che è riuscito a comporre ben quattro raccolte senza mai citare o rendere merito” a una sola autrice (pag.79). Oppure fa il caso di Nabokov, invitato da Edmund Wilson, celebre critico, a leggere almeno Jane Austen e lui alla fine ammette che dal “cestino da lavoro” di questa celebre autrice inglese (peraltro vissuta dal 1775 al 1817) ha saputo trarre “una squisita arte del ricamo”.
    I paragoni sono di questo tenore. Lo stesso nella “mastodontica opera del mio amico di Giuseppe Montesano ‘Lettori selvaggi’”, continua la Petrignani: “Quasi duemila pagine, (in cui egli) attraversa, dalla preistoria a oggi, la storia delle letteratura, della cultura, dell’arte, del cinema, della musica, della scienza. Inutilmente vi cerchereste Woolf o Duras, Bachmann o Yourcenar (…). Ho percorso e ripercorso l’elenco dei nomi, temendo di essere io preda di un abbaglio, ma niente”. Del resto. E’ un gioco che chiunque può fare, recuperando testi di autrici. “Una donna” di Sibilla Aleramo, divenne celebre grazie a uno sceneggiato (oggi si direbbe fiction) televisivo nel 1977 ma oggi quanti lo hanno in libreria? Io, dall’edicola compro spesso dei libri, perché ci sono giornali che fanno collane specifiche. Di recente si è conclusa quella di autori tradotti da altri autori a 8 euro, ottimi libri che in libreria costano di più e poi in genere non sono novità editoriali. Mi sono accaparrata così un testo delizioso: “Autobiografia di Alice Toklas” di Gertrude Stein che è un “on the road” in cui si fa un affresco incredibile della Francia, ma anche della Spagna, dell’Inghilterra, dell’Italia, tra la prima guerra mondiale e gli anni immediatamente anteriori e successivi. Le due americane, che erano anche legate da affetto, scorrazzavano con una scassata Ford in aiuto dei militari tanto da ricevere una decorazione dal governo francese. Intanto frequentavano le case dei migliori filosofi e artisti dell’epoca.
    La Stein (citata tante volte per nome e cognome, in realtà è di lei soprattutto che si tratta) è amica di Picasso, Braque, Apollinaire. Aveva quella straordinaria “facoltà di farsi fare da chiunque quanto voleva…lei non era efficiente ma di buona compagnia, ma democratica: per lei una persona valeva l’altra e poi sapeva lei per prima che cosa voleva da una persona. – Se sapete essere così, – dice - chiunque sarà pronto a fare per voi qualunque cosa. Ma l’importante, insiste, è che bisogna avere dentro di sé, nell’intimo, un fondamentale senso d’uguaglianza” (pag 177). E’ solo un esempio di una scrittura limpida e accattivante: è un diario di viaggio godibilissimo. Tant’è che Woody Allen ha fatto della Stein un personaggio chiave del suo film “Midnight in Paris”, interpretato da Kathy Bates.
    Ora, prendiamo cosa scrivono due critici letterari certo d’antan della letteratura come Claudio Gorlier e Giuseppe Picca, estensori della voce Gertrude Stein nel Grande dizionario enciclopedico Utet (edizione 1972): “La teoria che essa chiamò del ‘presente continuo’ costituisce una variazione del cosiddetto ‘stream of consciousness’ o monologo interiore, e precorre per certi aspetti la tecnica che Joyce doveva portare in seguito alle estreme conseguenze. Se, a distanza di anni, la prosa della Stein, pur con i suoi innegabili risultati, sembra ormai invecchiata e legata a un momento preciso dell’avanguardia, resta il fatto che essa svincolò la sintassi inglese dai suoi tropi tradizionali e aprì la strada a quel rinnovamento del linguaggio narrativo che altri scrittori americani, dall’Anderson allo stesso Hemingway, realizzarono poi compiutamente”.
    Insomma, lei ha inventato il flusso di coscienza ma ovviamente altri l’hanno realizzato meglio…Del resto, nella stessa enciclopedia, alla voce Elsa Morante si legge subito: “Ha sposato lo scrittore Alberto Moravia”. Ecco dunque la necessità e l’urgenza di un libro come quello di Sandra Petrignani che è partita da una scelta personale, accorgendosi alla fine di aver saltato un’autrice pure molto letta e amata, come Louise May Alcott, tornata d’attualità con le sue inossidabili “Piccole donne”. La strada è stata comunque tracciata, magari ci sarà nella prossima edizione. In ogni caso, occhio alle scrittrici!
     

  • LA SCOPERTA DEL KOALA

    data: 19/01/2020 13:00

    Sarà che il cielo arancione per le fiamme è di una potenza visiva ineguagliabile, ma un altro fattore, uditivo stavolta, mi ha colpito dell’immane tragedia dell’Australia in fiamme. Il pianto del koala. Tanto minacciato, il nasone paffuto koala, prima dalle fiamme quanto ora dalla pioggia torrenziale. Un paese senza misura, l’Australia. Povero piccolo orso e poveri abitanti, è chiaro. Mi sono resa conto di sapere ben poco di questo grazioso animale. Di non averlo visto mai dal vivo. Ma che ci vuole? Un clic su wikipedia e si sa tutto, o quasi. Intanto si chiama anche fascolarto, che deriva dal greco, parola composta da marsupio più orso (arto). Ma koala, dall’originale denominazione degli aborigeni, è molto meglio: si tratta di un dialetto, daruk, ora non più parlato, proprio come il greco antico se non nei licei classici, e voleva dire “che non beve”. Fascolartus cinereus o koala appartiene alla famiglia dei falangeroidi, all’ordine dei diprotodondia, tutti marsupiali, è un mammifero come noi e non ha canini. In compenso, come si è visto nei tg quando le ha allargate disperato insieme a quel suo verso-pianto straziante, ha le dita, cinque per arto, tutte prensili, come i primati, come noi…
    Il bradipo è famoso per la sua pigrizia, ma anche il koala non scherza: se ne sta abbarbicato sugli eucalipti. Vi si arrampica con quelle sue mani (non posso chiamarle zampe…) e pare che lasci impronte digitali, unico nel suo genere: non so poi perché gliele abbiano prese. Il che avrebbe dovuto ispirare almeno un vignettista: “il celebre ispettore Koala”, invece niente, almeno a queste latitudini, mentre nell’altro emisfero ne hanno fatto anche simbolo di varie cose, dalla regione del Queensland a squadre di rugby. Per fortuna hanno smesso di cacciarlo per la pelliccia, anche se con i bracconieri non si sa mai. Mangiando solo foglie di eucalipto, terreno e altro, con forti mandibole sempre intorno a questi alberi aromatici, ecco che il koala profuma come se uscisse da un bagno di oli essenziali: in pratica mangia, preferibilmente di notte e non beve o beve poco, perché le foglie del suo albero preferito sono abbastanza succulente, dorme e si riproduce, da gennaio a marzo.
    Ora, niente eucalipti niente koala, proprio come i panda che dipendono dai bambù. Adesso è estate là, periodo di accoppiamento, e i nuovi koala dovrebbero nascere alla fine di marzo, di solito un solo cucciolo per mamma. Alla nascita il koala pesa circa 5 grammi ed è alto appena 2 centimetri: resta nel marsupio, diverso da quello dei canguri, nutrendosi di latte per ben sei mesi. Poi viaggiano sul dorso della madre. Col tempo, tre-quattro anni, i maschi più prepotenti si creano un harem. Con tutto quel che sta succedendo però, il rischio di estinzione c’è. Vivono circa vent’anni e non sono addomesticabili anche se di carattere mansueto e avvicinabili. E poi non tutta l’Australia conta di questi orsetti, diffusi principalmente da Adelaide alla base della penisola di Capo York.
    A Bari, dove abito, i koala potrebbero essere accolti in viale Orazio Flacco, dove ci sono degli eucalipti bellissimi che però stanno via via sostituendo con insulsi alberelli ma non sarebbe lo stesso una buona idea perché un koala adulto mangia mezzo chilo di foglie al giorno quindi ci vogliono le foreste. Del resto sotto il polo Nord non ci sono marsupiali. In compenso è probabile che ci arriverà l’inquinamento atmosferico perché la terra è un unico organismo vivente e gli incendi australiani hanno liberato 400 milioni di tonnellate di anidride carbonica.
    Questo l’ho appreso da un Tv7 notturno. Infatti sono piuttosto sporadiche le notizie che ci giungono dall’Australia, dove pure abitano parecchi italiani emigrati anche di recente. Dopo gli incendi adesso è il turno delle piogge ma non vedo interviste nei tg né sono informata di dove stanno ricoverati coloro che hanno perso la casa a causa delle fiamme indomabili. So molto di più da fb, da alcuni contatti, che non dai notiziari e non mi pare giusto…
    Infine la simpatia, c’è poco da fare, gioca parecchio nella considerazione delle notizie: ci fosse stata una strage di boa constrictor non sarebbe stato lo stesso, non sarebbe importato a nessuno anche se ingiusto poiché tutte le creature meritano considerazione. In ogni caso, il koala era fuori dal cono di luce dell’attenzione e adesso lo conoscono tutti. Purtroppo per un evento nefasto che, come si sa, ha sempre maggiore eco di uno fausto.
     

  • PIAZZA FONTANA
    L'ITALIA DELLE STRAGI

    data: 12/12/2019 06:57

    Arrivai a Milano circa undici anni dopo la notizia che aveva sconvolto la mia adolescenza, un anno dopo l’assassinio di Bob Kennedy. Anzi, il giorno lo ricordo bene, perché fu lo stesso del terremoto che sconvolse l’Irpinia e la Basilicata: domenica 23 novembre 1980. Milano, la città del progresso, la città dove i pugliesi emigrano in cerca di successo. Come canta Liza Minnelli per New York: se ce la fai a Milano, allora vuol dire che ce l’hai fatta. Appena scesa dal treno, ammirata la grande galleria di ferro e la stazione che pareva lo scenario dell’Aida, fui assalita da un freddo senza precedenti: prendevo le scale mobili, che avevano tutte la pubblicità sugli scalini di un giornalaccio, “Stop”, allora molto popolare.
    Naturalmente, come tutti i pugliesi, salvo qualche eccezione, avevo da trovare degli zii a Milano: e un mio zio, fratello di mia madre, abitava proprio in centro. Ma prima vagai un po’ per la città e mi ritrovai in una piazza con una fontana stupenda: c’era San Francesco in bronzo, ad altezza naturale, che porgeva le mani a una vasca con degli uccellini, come se parlasse loro. La trovai molto poetica, poi, girando lo sguardo, vidi l’insegna. Banca dell’agricoltura.
    Ero proprio lì, nella famosa o famigerata piazza della banca della strage, della bomba fascista. La bomba del 12 dicembre 1969, la data che cambiò la storia di un intero Paese. Qui c’erano stati diciassette morti (e un diciottesimo seguì qualche giorno dopo: Giuseppe Pinelli, l’anarchico subito individuato falsamente come sospetto). Nei dintorni, a piazza Duomo vi fu il 15 dicembre l’imponente funerale di gruppo che avevo seguito attonita nel piccolo schermo in bianco e nero a casa, con i miei. Era quella la capitale morale dell'Italia? Dove succedevano queste cose?
    Dunque ero finita senza volerlo a piazza Fontana, nel luogo infernale che ha dato la stura a tutte le stragi di quest’Italia che no, non è stata salvata dalla bellezza che pure nel monumento a san Francesco c’era tutta. Ma non dissuase gli stragisti. Quella strage che voleva far ripiombare l’Italia negli anni del fascismo, quella strage che fu architettata in Veneto, a Mestre, Padova e dintorni, e la cui matrice fu evidenziata in tutti i suoi particolari dalla Cassazione soltanto nel 2005, quando molti dei veri responsabili di quell’eccidio non erano più punibili. E purtroppo la sentenza definitiva di assoluzione per Ordine nuovo e Franco Freda e Giovanni Ventura venne proprio dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari, la mia città. Quella Bari che avrebbe visto, quasi per una replica odiosa, nel 1977 alla fine di novembre, funerali altrettanto di massa per un’altra vittima dei fascisti (capitanati allora dal Msi cittadino), il diciottenne Benedetto Petrone, accoltellato sotto la Prefettura.
    Poi mi capitò un’altra volta di andare in via Solferino, nella sede del Corriere della Sera e incontrare sul portone, insieme a uno stagista e a una famosa giornalista di cui purtroppo il nome mi sfugge, Pietro Valpreda, con quella sua corona di capelli bianchi e la pazienza di spiegare ogni volta a tutti, anche a chi vedeva per la prima volta, come fosse stato stritolato, lui ballerino anarchico, dalla macchina della “giustizia”.
    Passarono gli anni, la verità su piazza Fontana e sulle stragi successive si faceva sempre nello stesso tempo più chiara e più intricata, ma lentamente si è fatta avanti. Senza che però i maledetti bombaroli siano stati davvero puniti. Uno dei capi, Maggi, è finito in Giappone, indisturbato per anni e anni. E dopo Milano c’è stata Brescia (28 maggio 1974), c’è stata Bologna (2 agosto 1980)…E oggi è davvero impossibile non sapere, non avere un quadro più chiaro della situazione, oggi che ci sono film romanzi inchieste (stasera uno sceneggiato su Raiuno, ieri sera l’ottima ricostruzione di Andrea Purgatori ad Atlantide, ma l’elenco è sterminato, senza citare gli ultimi volumi del giudice Guido Salvini e di Enrico Deaglio) che spiegano tutto, nel dettaglio, che fanno capire come i servizi segreti – lo Stato in pratica - abbiano coperto e mascherato questi delinquenti molti dei quali non sono mai stati in galera.
    Come Freda, lo stragista, il nazista, antisemita, fondatore dei gruppi ar (aristocrazia ariana), colui che materialmente portò la valigetta con la bomba in piazza Fontana, ora 78enne. Lo vidi un giorno in treno, perché se lo sposò una di Francavilla Fontana (che coraggio barbaro…), una ventina d’anni fa, mentre andavo da Bari a Lecce. Nel suo romanzo “Nero Ananas” (Voland) Valerio Aiolli lo chiama il Samurai: “Che già a trent’anni aveva i capelli grigi. E un gelo dentro che gli si spandeva intorno” (pag. 33): proprio così. Credo di non aver mai provato un senso di angoscioso terrore come quella volta in cui, appena entrata nello scompartimento, lo riconobbi, seduto accanto al finestrino e restai, per dimostrargli che non aveva vinto lui, che non avevo paura. E invece sì, a suo modo aveva vinto e io paura ne ebbi tanta: perché aveva la faccia di chi non ha pietà di niente e di nessuno. Impassibile, e soprattutto era libero, con tutti quei morti sulla coscienza.
    Resta da chiarire chi furono i mandanti: neri figuri che agivano nell’ombra per seminare terrore, in modo da instaurare un regime militare di terrore ancor peggiore. Ma Milano, allora, mezzo secolo fa, non urlò: restò in silenzio a omaggiare le vittime. Nostro dovere oggi è di ricordare, di ricostruire e raccontarla questa storia. Di additare i colpevoli, che ci sono, sono stati smascherati: non sapere a questo punto è colpevole. E sapere serve per stare dalla parte giusta, quella della democrazia, dell’antifascismo, della libertà e della convivenza pacifica.
     

  • IL PREMIO NOBEL
    CHE CON ZOLA INSORSE
    A FAVORE DI DREYFUS

    data: 02/12/2019 23:02

    Si fece chiamare France, come i clienti appellavano il padre François che vendeva libri al Quai Malaquais, a Parigi, mentre il vero cognome era Thibault. Anatole France nacque il 16 aprile 1844 e morì a Saint-Cyr-sur-Loire, il 12 ottobre 1924. Nel 1921 ebbe il premio Nobel per la letteratura. Fu uno scrittore impegnato, come molti suoi conterranei, ben prima che Sartre lanciasse la parola d’ordine dell’”engagement”. E si occupò, prendendo posizione a favore dell’ufficiale ebreo ingiustamente accusato, Alfred Dreyfus, del celebre affaire al centro oggi del magnifico film di Roman Polanski, “L’ufficiale e la spia”, come recita il titolo italiano, mentre l’originale ricalca l’arringa in difesa di Dreyfus che stilò Emile Zola: “J’accuse”.
    Immerso nei libri e nella lettura fin dall’infanzia, la sua strada era in un certo senso segnata. Cominciando presto a scrivere su riviste e bollettini e svolgendo l’attività di lettore per l’editore Lemerre, ben presto France entrò da protagonista nel mondo letterario, in cui si distinse per il suo talento di scrittore. L’atmosfera comunarda contro il regime reazionario di Napoleone III non lo vide in prima linea, ma nel corso della sua esistenza abbracciò poi il socialismo fino ad aderire alla rivoluzione bolscevica. Sulle prime preferì la tranquillità di uno stipendio fisso alla biblioteca del Senato e un matrimonio che durò dal 1877 al 1892 con Marie-Valérie Guérin de Sauville, dalla quale nel 1881 ebbe la figlia Susanne. La sua pigrizia era proverbiale: lasciò il tetto coniugale il 6 giugno in pantofole e papalina, con un biglietto alla moglie: “Avrò l’indulgenza di dimenticarti. Ti chiedo solo di non pensare più a me”.
    Per scrivere così, aveva già l’alternativa pronta: si rifugiò, infatti, nella vicina casa di Léontine Arman de Caillavet, che dirigeva un affollato salotto mondano, tipico delle letterate d’Oltralpe sin dai tempi della Rivoluzione e con cui visse fino alla morte di lei, nel 1910. Poi sposò la cameriera di Léontine, Emma Laprévotte. Nel frattempo, con poesie, saggi e racconti, divenne molto importante e apprezzato, sebbene oggi sia quasi del tutto dimenticato. Oltre a romanzi d’ispirazione classica, compose la tetralogia del professor Bergeret, in cui affrontò temi di attualità: “L’olmo del viale”, “Il manichino di vimini”, “L’anello d’ametista” e “M. Bergeret a Parigi”, riassunti sotto il titolo di “Storia contemporanea”.
    Negli ultimi due romanzi della serie si affronta il caso Dreyfus. Nell’“Anello d’ametista” si considerano le ripercussioni dell’affaire nella cittadina di provincia nella cui università insegna il professore protagonista della serie. Attraverso l’analisi di personaggi tipici, come un monsignore, un abate, e tre donne altoborghesi che fanno il bello e cattivo tempo sull’opinione pubblica della cittadina, ecco che France dimostra come l’essere antidreyfusiani giovasse in realtà alla borghesia francese. Ovvero a un ambiente che non si curava minimamente della verità e della giustizia, ma che ostentava in nome della religione una spiccata adesione ai “grandi ideali”, a costo di credere a montature politiche come fu tutto il drammatico caso Dreyfus, primo esempio di una concreta persecuzione da parte dell’Europa colta della “belle époque” contro gli ebrei. In cui la stampa ebbe un ruolo non da poco: l’autore dei ”falsi” (fake news diremmo oggi) contro l’ufficiale ebreo, finisce nel romanzo per suicidarsi.
    Nella realtà fu grazie a Zola e a France che la verità fu ristabilita, anche se il povero Dreyfus dovette aspettare ben 12 anni (dal 1894 al 1906, compresa una pesante prigionia in Guyana, all’Isola del diavolo) per essere riabilitato. Nell’ultimo romanzo, il professore ottiene finalmente una cattedra a Parigi. Qui Bergeret, alias France, s’impegna ancor più nella difesa di Dreyfus, sulla scia dell’amico Zola, battendosi in prima persona per la revisione del processo.
    L’avvento del simbolismo fece di France un autore superato al punto che, nonostante i solenni funerali di stato, ci furono “scandalose manifestazioni di tripudio di gruppi surrealistico-simbolisti parigini che lo consideravano un reazionario delle lettere”. In ogni caso, una rilettura almeno della tetralogia, sorta di “Educazione sentimentale” di un professore, risulterebbe oggi ancora attuale e utile.
     

  • QULL'INCHIESTA-VERITA'
    SUL MOSTRO ILVA
    CHE NON DA' SCAMPO

    data: 10/11/2019 20:50

    Stefano Maria Bianchi è un giornalista di lungo corso, un grande giornalista, ha lavorato con Michele Santoro, ha firmato libri importanti ma non ha quella notorietà riservata alle firme che compaiono ogni giorno in tv come Vespa, Mentana o Mieli, per dire. Comunque se c’è un’inchiesta firmata da lui, c’è da fidarsi: si tratta senza dubbio di un grande lavoro giornalistico. Giovedì scorso, 7 novembre, su Raidue, saltato il varietà dissacrante “Maledetti amici miei”, in seconda o anche terza serata, dopo un film piuttosto lungo, “Maleficent” e qualche altra cosa, in modo che solo facendo zapping si poteva vederlo, ecco che la Rai, all’improvviso, “random”, per caso appunto, si mette a fare servizio pubblico e trasmette “Ilva, a denti stretti”.
    Si tratta di un documentario che chissà da quanto la Rai aveva nel cassetto e che ha pensato bene di tirar fuori in modo discreto, senza tanto clamore né tanto meno pubblicità, in questi giorni in cui l’Ilva tiene banco. Con Raiplay si può rivederlo e va fatto, perché è davvero un pugno nello stomaco. E’ firmato da Stefano Bianchi, che è nato a Taranto l’8 maggio 1963, insieme a Cristiano Leuti. Tra l’altro Bianchi ha una storia di lunga vertenza con la Rai per veder riconosciuto il proprio lavoro (è stato reintegrato solo nel giugno scorso): cose che capitano ai poco noti ma superbravi, non si sa perché. Risultato è che questo documentario l’hanno visto in 393mila, che non è molto ma nemmeno poco, vista la scarsissima o nulla pubblicità: ma chi può, lo recuperi.
    Cosa ha fatto vedere Bianchi nel suo splendido documentario? La verità, la semplice verità. Ovvero che la situazione di Taranto è drammatica e che non dovremmo scoprirlo ora. Che i denti stretti sono quelli di tutti coloro che ogni giorno lottano contro una tra le più terribili malattie, provocata dai danni ecologici del mostro siderurgico. Senza età, senza distinzioni: il documentario si apre e si chiude con la piccola Chiara, i cui genitori avevano preso casa al rione Paolo VI nella speranza che l’aria fosse più pulita. “Ci siamo sbagliati” e la piccola ha subito un intervento e sta lottando contro una leucemia linfoblastica acuta. A 4 anni. Il dottor Mazza, epidemiologo, primario all’ospedale Santissima Annunziata, ha detto chiaramente che, per risanare l’ambiente, l’impianto si deve fermare e bisogna cominciare a ripulire tutto. Ma lo sta dicendo da dieci anni.
    Un ex capo del laboratorio chimico dell’Ilva (oggi Arcelor-Mittal, domani probabilmente statale, come già l’Italsider delle origini), Angelo, che mantiene l’anonimato, confessa che i suoi dati, già allarmanti anni addietro, venivano spesso alterati (pure con la sua firma falsificata) e che il sottosuolo è così inquinato che per ripulirlo occorrono miliardi di euro, le falde acquifere sono infiltrate e allora cosa si fa? Si copre il tutto, ma il sottosuolo resta inquinato. E si alterano i dati. Lui per questo se n’è andato sdegnato, ma gli analisti rimasti sono ancora gli stessi.
    In teoria, le cozze di Taranto, piene di dossina, sono proibite ma nel mar Piccolo se ne continuano ad allevare e i mercati ne sono pieni: chi controlla, i Nas? Sì, ma non sempre e non dovunque. Del resto, i mercati non solo pugliesi sono pieni di prodotti ortofrutticoli che provengono dalla zona del Tarantino e si sa che la malattia coglie anche, come hanno fatto vedere, persone che vivono a Martina Franca o a Palagiano e spesso si tratta di gente che coltiva la terra, che dunque può venire a contatto con i micidiali metalli pesanti emessi senza sosta dagli altiforni. Una giovane politica, che ha subito due interventi chirurgici di diverse ore e lunghe sedute di chemio, riassume il suo calvario. Tante sue amiche di sventura non ce l’hanno fatta. Del resto, non c’è industria siderurgica senza inquinamento. Colpiva, vedendo il filmato, la bellezza quasi beffarda della città, quel mare blu, quel cielo limpido. L’indifferenza della natura matrigna.
    Peccato che in tv non si senta l’odore. Ho lavorato a Taranto in due riprese, a circa vent’anni di distanza. Quando visitai la prima volta l’Italsider, era il 1984: non si può avere idea dell’impressione che ne ricavai. Fino ad allora avevo visto una sola fabbrica metallurgica, e anche allora l’impressione fu negativa: ogni quarto d’ora sembrava che cascate intere di metallo si riversassero nelle orecchie degli operai, tanto che mi chiedevo come si potesse resistere anche un solo pomeriggio là dentro. Ma l’Ilva superò qualsiasi immaginazione. Se mai potevo figurarmi uno scenario per l’Inferno dantesco, ebbene ci ero finita in mezzo: alti crateri di carbone, fuochi che sporgevano dal pavimento, binari, carrelli che si perdevano nel buio, fumi densi, e avrei potuto camminare in questo scenario per chilometri e chilometri. La città aveva un aspetto di metropoli, c’erano in giro anche molti giapponesi. Le spiagge vicine, era estate, avevano già quell’inquietante colore rossiccio lungo la battigia. Si faceva molto teatro, c’erano convegni nel bel centro sindacale affacciato sul mar Piccolo.
    Vent’anni dopo, ciò che mi colpì fu l’aria: irrespirabile. Già alla stazione si veniva accolti da nugoli di mosche e l’aria era fetida. A farlo notare però, nessuno mi dava retta. Gentilissimi come sempre, i tarantini mi facevano notare che per loro non c’era alternativa. I tempi in cui si pranzava a ostriche, cibo per nulla pregiato ma comune lì più che in Bretagna, erano finiti per sempre. Il mostro conveniva tenerselo: ma puzza, replicavo…non resistevo a quell’aria, mi sentivo soffocare. La cronaca era fatta di persone che scappavano dai domiciliari e poco più. Gli incidenti all’Ilva si sono poi venuti moltiplicandosi, si sono ripetuti addirittura in fotocopia, come quello che ha visto un gruista sbalzato per aria una volta e ancora un’altra volta col maltempo, di recente: due giovani sono morti così. Ma tantissimi muoiono di malattia e questo deve finire, non si può più tollerare. Non c’è scampo. Il mostro va fermato. Subito.
     

  • COME UN PAESE NORMALE
    DIVENNE UN INFERNO

    data: 29/09/2019 21:28

    “La libertà e la giustizia non sono date una volta per sempre, vanno costantemente difese”. Nel cuore di quella Baviera per dodici anni assoggettata, come tutto il Paese e ancora oltre, alla feroce dittatura nazista, è questo il monito che l’ottantenne Karl Wagner nel 1945 rivolge al giovane Hansen, ufficiale militare americano di stanza in Germania e nato ad Amburgo (ma emigrato negli Usa nel 1932, prima della tragedia).
    In “Un mondo migliore” (Sellerio editore, pagg. 516, 15 euro) Uwe Timm, scrittore tedesco alle soglie degli 80 anni, amburghese, ci rivela cosa era stata la Germania all’epoca, in presa quasi diretta. Quando parla di Alfred Ploetz, lui lo conosce bene, sia pure per interposta persona. Ploetz è il genetista in predicato di Nobel, che è stato tra i principali teorici e attuatori della selezione razziale, passando con disinvoltura dai conigli, sterminati in massa, agli uomini. Si trattava del nonno paterno di sua moglie Dagmar e le notizie su di lui sono state attinte direttamente da suo suocero, figlio dello scienziato.
    Una scienza del tutto disumana la sua, che assume toni macabri in tutto il libro, quando da stimato studioso, Ploetz, morto nel 1940 senza punizione alcuna, viene messo sotto inchiesta dagli alleati. Gli effetti dei suoi “esperimenti” si riverberano in un party per gli ufficiali americani, in cui l’alcol viene ricavato proprio dai flaconi in cui il mostro – si può ben definirlo tale – conservava i cervelli dei poveri conigli sottoposti ad assurde misurazioni e statistiche. Con conseguenti conati di vomito di Sarah, la militare GI giurista giunta entusiasta e volontaria dal Montana. “Mi rammarico di tutto cuore – dice Wagner all’americano che lo intervista – di tutto cuore, mi permetta di dirglielo con questo tono drammatico, che lui, l’amico di un tempo, non sia riuscito a viverla in prima persona questa fine: le macerie, i soldati tedeschi prigionieri che camminano in punta di piedi. E come invece marciavano in battaglia, scattanti, col passo dell’oca, davanti all’Urlatore, stivali chiodati, rimbombanti con tutto quel denderedeng-bummbumm, e ora, ora i Superuomini Bruni si nascondono, si levano le uniformi e si vestono con abiti civili consunti come per un ballo in maschera per straccioni. L’elevazione della razza è finita, resta solo il desiderio di non elevarsi minimamente dalla mediocrità. Non saltare agli occhi. Sono quel che sempre sono stati: capponi grassi e scemi”. (pag. 104).
    Basta leggere questo libro per capire come ogni esperimento sugli animali e l’eugenetica in generale, sconfinino direttamente nel nazismo. Il libro si apre con una scena sconvolgente: c’è un ragazzino handicappato che ha vissuto i precedenti dodici anni, la sua vita stessa, nascosto dai genitori in casa, con la complicità dei vicini. Ma se fosse stato invece un rom o un ebreo? Quegli stessi tedeschi che vagavano per le città ridotte in macerie dai bombardamenti e che avevano tolto il ritratto del dittatore ovunque segnalato dalla macchia chiara sulle pareti, quegli stessi che accorrevano in massa alle manifestazioni di piazza, lo avrebbero denunciato. Ora si tirano fuori, semplicemente non parlano ma molti nazisti furono riciclati nel dopoguerra: l’amministrazione pubblica (la magistratura, la docenza) ne era piena e c’è voluta l’ondata del 1968 perché i figli chiedessero conto dell’operato dei padri.
    “L’orrore, ora che i combattimenti sono finiti, è cresciuto ulteriormente e diventerà ancora più inconcepibile, una volta che gli assassini saranno spariti dalla faccia della terra. Non sono mostri, ma persone normalissime. E fintanto che vivranno, avranno mille piccoli modi per spiegare come sono arrivati a questa disponibilità a uccidere per dovere, perché sembrava ‘normale’. All’inizio forse ancora accompagnati dalla cattiva coscienza che gli dice: quel che hai fatto non è giusto, ma poi con l’abitudine finirà per diventare ovvio. Naturalmente c’erano anche quelli che lo facevano con piacere, quelli per i quali tormentare, torturare, era una gioia che provavano sentendosi elevati nell’umiliazione di altri” (pag. 72).
    Questo, scritto benissimo, è un libro necessario, da leggere, perché affronta diversi temi. L’autore, tramite il personaggio inventato di Klaus Wagner, che comunque ricalca personaggi che possono benissimo essere vissuti e conosciuti da Timm, ci riporta direttamente a quei giorni del 1945 e ci fa conoscere la Germania attraverso vari punti di vista. Quello di Wagner, ex socialista, vittima dei nazisti, internato in campo di concentramento due volte prima di trovare un rifugio. Quello di Hansel ma anche del suo commilitone George, uno psichiatra. Poiché Hansel è un letterato, gli si dà l’incarico di spiegare come mai i tedeschi si sono piegati a un simile progetto di dominio sul mondo che sarebbe dovuto durare millenni nella mente farneticante dei nazisti.
    Wagner era un amico di gioventù di Ploetz, e con lui aveva diviso l’utopia comunista degli Icariani, da un progetto di Etienne Cabet (1788-1856), finita tra Missouri e Texas. Nell’intervista che Hansel gli fa, Wagner spiega, come meglio non si potrebbe, i danni che i progetti utopistici possono provocare nella società. Infatti, come spiega benissimo anche lo storico George Mosse in un libro che andrebbe anch’esso studiato e ripreso più spesso, “Le origini culturali del Terzo Reich”, al volgere del secolo tra Ottocento e Novecento sorsero specie in Germania numerose sette o associazioni millenariste che avevano come scopo la riforma totale della vita umana, con l’imposizione di regole che facevano presto a diventare rigide e dittatoriali.
    Gli icariani per esempio, nati da un’utopia comunista, avevano poi proposto negli Usa genere di vita assolutamente lontano dalla condivisione dei beni a cui all’inizio si era ispirato. Questo perché senza regole democratiche, regole imposte dai capi e alla fine dispotiche, si fa presto a scadere nel settarismo, con il contorno di riti e simboli che pare di vedere i leghisti di oggi con gli elmi con le corna in testa o con la spilletta di Alberto da Giussano a sbraitare ovunque. Dopo un’ampia descrizione dei misfatti consumati fra gli Icariani, Ploetz e Wagner, tornati da quell’esperienza in Germania, si erano divisi. Ploetz aveva abbracciato l’ideologia nazista, trovandovisi a suo agio nella mentalità già accorsata di scienziato dal cuore di pietra e Wagner, suo vecchio amico, sul versante opposto, socialista che finisce nel mirino della Gestapo e viene salvato dal primo solo dopo aver conosciuto Dachau (“la vacanza pesante” come si chiamava allora) ed essersi rifugiato nel deposito sotterraneo di una libreria nel centro di Monaco. Attenzione dunque a predicare “un mondo migliore”: perché i progetti finiscono spesso in dramma, meglio vivere “in una comune lotta contro la sofferenza”, senza vaneggiamenti.
    Tutt’intorno c’è la Germania, particolarmente leggiadra allo scoppio della primavera, con i suoi centri caratteristici, barocchi, come Wurzburg, pesantemente bombardata ma ancora bella, con i ciliegi in fiore: un paese incantevole eppure incantato, come nella Montagna di Thomas Mann. In cui le bellezze del paesaggio stridono con il lascito storico di una tale pesantezza da avvertire che la bellezza no, non può salvare alcunché, mentre Hansel s’informa leggendo “Radici” di Bloch e altri testi di cui il libro è disseminato. Germania terra di poeti, scrittori, musicisti e devastata da un bieco assassino che come un pifferaio si è trascinato tutti dietro. Un paese di fiaba dal risvolto tragico, come spesso nelle fiabe dei fratelli Grimm che Timm, spesso in Italia (ultimamente è stato al Festival della letteratura di Mantova, “ovviamente” mai intervistato dall’inesistente giornalismo culturale della Raitv…), indaga con accento commosso e partecipe, in un romanzo, uscito a marzo, che merita senz’altro di scalare le classifiche.
     

  • GIULIA CIVITA FRANCESCHI
    LA MONTESSORI DEL MARE

    data: 20/09/2019 22:16

    Giulia Civita Franceschi, chi era costei? Ho sentito parlare per la prima volta di lei da poco, nel bel documentario che il regista Giuseppe Sansonna ha dedicato al Molo di Napoli, in onda su RaiTre e Raicinque.

    La chiamavano anche “la Montessori del mare” e la sua storia merita certamente di essere riportata a galla dal vasto oceano dell’oblio. Con Google e Wikipedia è facile ora reperire notizie di questa donna straordinaria, anche se non ci sono poi molti dettagli. Inoltre, è senz’altro da biasimare il fatto che, seppur confrontata con la sua più celebre collega, non ne abbia però avuto la stessa fama. Infatti, nella gran parte dei dizionari enciclopedici del secolo scorso non ce n’è traccia. Nacque il 16 aprile 1870 a Napoli, e sempre qui è scomparsa nella sua casa di Posillipo il 27 ottobre 1957. Dal paragone con la Montessori deduciamo facilmente che si trattò di un’educatrice, una pedagoga, una maestra sui generis, non impiegata nel sistema scolastico nazionale. La capacità didattica l’aveva sviluppata nello studio del padre Emilio Franceschi, uno scultore ed ebanista toscano che subito dopo il matrimonio con Marina Vannini si era trasferito a Napoli: sua è la prima delle otto statue che decorano la facciata del Palazzo reale, dedicata a Ruggero il Normanno. L’intesa fra il padre e le figlie Giulia ed Eva era totale, tanto che lo studio d’arte, sempre affollato di apprendisti, era mandato avanti da tutta la famiglia.

    Francesca sposò a 19 anni l’avvocato Teodoro Civita, da cui ebbe l’unico figlio Emilio, che collaborò ampiamente con lei. Le cronache ci dicono che il marito soffrì di depressione, per cui si trasferirono a Belsito e Giulia lasciò lo studio paterno. Ma la sua attività di educatrice non conobbe soste. Era una specie di quella che oggi si definisce maestra di strada, con particolare attenzione agli scugnizzi trascurati dei Quartieri spagnoli, quelli che non andavano a scuola, che spesso erano all’epoca orfani di guerra e vagavano per la città abbandonati a se stessi. Fu così che pensarono immediatamente a lei Enrichetta Giolitti e Antonia Nitti (rispettivamente figlia e moglie degli statisti) quando la Marina militare donò a Napoli la corvetta “Francesco Caracciolo” per farne una nave-scuola, sulla scorta di esperienze già in atto a Genova e a Venezia. C’era un ostacolo: su una nave militare potevano salire soltanto i maschi ma molto intelligentemente il direttore designato, David Levi Morenos, delegò il suo incarico alla Franceschi, che così potè iniziare, nell’agosto del 1913, la scuola per pescatori e marinaretti che radunava già a dicembre 51 alunni e nel corso di circa 15 anni, ha visto passare circa mille ragazzini. Il “metodo Civita”, come venne chiamato, consisteva, da quel poco che si sa, nell’abbinare l’attività scolastica con l’esercizio fisico, e le regate in alto mare servivano specialmente a quei ragazzi affetti da malattie respiratorie, molto frequenti e spesso letali. Sono significative le foto che si vedono al Museo del mare di Napoli, con questa donna imponente, bruna e bella, circondata da severissimi bambini e ragazzi in divisa, detti anche “caracciolini”.

    E le scugnizze? Giulia non le aveva dimenticate ma il suo progetto di aprire un asilo anche per loro non andò a buon fine. Nel 1921, con la concessione da parte dello Stato dei laghi Fusaro e Mar Morto (fra Bacoli e Capo Miseno), Franceschi fondò la Spem, Scuola per pescatori e marinaretti, ma trovò molti ostacoli prima di poterla avviare a pieno ritmo nel 1923, perché c’era gente che, senza permesso, si serviva della pesca nei laghi, considerati di tutti. Nel 1925 avvenne la fusione con l’asilo Carlo Van Den Henvel (grazie a un lascito della vedova, contessa Anna De Iorio), dove ci si dedicava, sempre per parte maschile, all’agricoltura nella fertile terra della “Campania felix” (non ancora “terra dei fuochi”): si coltivavano lino, patate, piante medicinali. A Miseno Franceschi avrebbe voluto fondare anche la scuola femminile ma non le riuscì, anche perché, pur ottenendo molti riconoscimenti come una medaglia d’oro al merito da parte del ministero dell’Istruzione nel 1922, il fascismo ben presto debellò tutta la sua opera, trasferendo ogni competenza all’Opera nazionale balilla. La nave fu distrutta nel 1935: rimase solo l’albero, trasferito a Sabaudia dove si istituì un’altra scuola che aveva però più che altro la funzione di colonia, ben lontana dallo spirito della “capitana”. Pure la Spem chiuse i battenti nel 1933 e anche della nave “Caracciolo” non si seppe più nulla.

    Non si hanno notizie di particolari attività antifasciste della Franceschi ma dal 1928 praticamente scompare per ricomparire dopo la guerra come attivista dell’Udi (Unione donne italiane, legata al Partito Comunista). Nel fermento culturale e giornalistico della Napoli del dopoguerra, Franceschi ebbe modo di esporre le sue teorie pedagogiche in articoli sul mensile “Solidarietà” della giornalista Olga Arcuno e con interviste a Lieta Nicolini. I suoi “caracciolini” la chiamavano Aei e così disse al figlio, prima di morire: “Aei se ne va”. Ancora nel marzo scorso, nella Biblioteca Fra Landolfo Caracciolo, a Napoli, si è tenuto un convegno (con ricca mostra fotografica) per ricordarla.

  • QUELLA GIUDICE DI 86 ANNI
    DIVENTATA ICONA POP

    data: 31/08/2019 19:25

    Negli Usa è diventata popolare al massimo – diventando una vera icona-pop – una signora di 86 anni, reduce da un serio intervento a un polmone, con quattro by-pass al cuore, tanto che il documentario a lei dedicato concorre per l’Oscar. Ruth Bader Ginsburg (RBG), del resto, non è una donna comune ma una giudice della Corte Suprema, la più alta corte federale degli Stati Uniti che consta di nove componenti. Di cui attualmente le donne sono tre. Il presidente della Repubblica Reagan nominò Sandra Day O’Connor, ora in pensione e il presidente Barak Obama ha nominato nel 2009 la prima ispanica, Senia Sotomayor.
    RBG fu chiamata al prestigioso incarico dal presidente Bill Clinton il 5 agosto 1993. La carica è a vita, la rinuncia è volontaria. La Corte Suprema americana ha una grande importanza: esperti di giurisdizione più che giudici, i magnifici nove controllano che ogni verdetto sia rispondente ai principi della gloriosa Costituzione americana. Così come dimostrano numerosi film dedicati a storiche sentenze, molte delle quali riguardano i pregiudizi razziali purtroppo caratteristici dell’America peggiore.
    RBG nacque a New York il 15 marzo 1933. Figlia di ebrei russi, a 17 anni si diplomò ma la madre, che l’avrebbe voluta storica, morì proprio alla vigilia di questo primo traguardo. Nel 1954 si laureò in diritto alla Cornell University. Subito dopo sposò Martin D. Ginsburg (scomparso nove anni fa), un ufficiale di riserva e lei lo seguì nei vari spostamenti, sempre però studiando e lavorando. Si iscrisse anche a Harvard e in classe su 500 uomini c’erano solo 9 donne, nel 1955. Nel frattempo mise al mondo i suoi due figli e dal 1961 al 1963 andò in Svezia, a Lund, rendendosi conto che lì le donne avevano ben altro trattamento rispetto agli Usa. Una giudice per esempio lavorava fino all’ottavo mese di gravidanza, mentre nel suo Paese veniva facilmente messa a riposo molto prima e non è detto che conservasse il posto. Dal 1963 al 1972 insegnò processo civile alla Rutgers University con stipendio dimezzato rispetto agli altri colleghi, con la motivazione che il marito guadagnava bene.
    Dal 1972 al 1980 è stata alla Columbia University fin quando il presidente Jimmy Carter la nominò giudice di corte d’Appello, nel Distretto di Columbia. E quindi la Corte Suprema. In questi anni, fino a oggi, RBG è stata determinante nel risolvere cause riguardanti soprattutto la discriminazione di genere, dalle studentesse alle militari in carriera, tanto che il film che Mimi Leder le ha dedicato, “Una giusta causa”, s’intitola originariamente “On the basis of sex”. Ma nessuno - in questo anno che pure ha visto la Corte Suprema protagonista per la discussa nomina, caldeggiata da Trump, di Brett Kavaunagh, 54 anni, accusato in mondovisione e in diretta dalla vittima di una sua violenza sessuale di decenni fa - si aspettava l’exploit del fenomeno RBG.
    Il suo collarino ricamato, una nota civettuola che spezza la severità della toga nera e che la rende simile a Rita Levi Montalcini, che prediligeva gli abiti di alta moda di Roberto Capucci, viene replicato in tutte le immagini a fumetti e i gadget, dalle tazze ai pin, fino ai cartoni animati, rendendo RBG sempre più famosa. Il libro “Notorious RBG: the life and times of Ruth Bader Ginsburg” che su di lei hanno scritto Irin Carmon e Shana Knizhnik, ha dato il via al sito web, dove lei viene raffigurata con una corona in testa, e a numerosi articoli sulle riviste di tutto il mondo (un ritratto particolarmente elegiaco si è letto per esempio sull’Espresso).

    Non basta, c’è anche il documentario delle registe Betsy West e Julia Cohen già ampiamente disponibile e che la Rai potrebbe trasmettere, almeno nel suo canale culturale, Rai5. Invece, in prima serata per la Rai, sul canale pilota, l’uno, è più importante mandare in onda il concorso di Miss Italia. 

  • MA COM'E' ATTUALE
    "IL GRUPPO" DI MCCARTHY

    data: 17/07/2019 23:01

    E’ stato quanto mai opportuno che Minimum Fax ripubblicasse Il gruppo di Mary McCarthy. Alla sua prima uscita, alla fine di agosto del 1963, il romanzo raggiunse subito il successo, tanto che nell’ottobre di quello stesso anno aveva già sfiorato le centomila copie. Un romanzo, davvero dirompente, che le femministe avrebbero potuto adottare a loro manifesto. Invece, almeno in Italia, tranne una breve apparizione negli Oscar Mondadori a inizio anni Settanta, di questo testo si sono perse le tracce. Il libro era praticamente introvabile e anche della sua autrice, morta a 77 anni, il 25 ottobre del 1989, a New York, si è saputo ben poco (era nata a Seattle il 21 giugno 1912). E dire che c’è ancora qualcuno che ricorda qualche raro passaggio televisivo, magari a notte fonda, del film che ne è stato tratto nel 1966, con la regia di Sidney Lumet. Molto meglio continuare a far sfilare le belle statuine di Miss Italia…
    Incredibili sono sia la trama sia la scrittura: ognuno dei quindici capitoli può essere affrontato a sé, perché espone una problematica (non solo) femminile alla volta, in un tono così moderno da far dubitare che ci si riferisca alla situazione americana degli anni che vanno dal 1933 al 1940. Per esempio il ritratto che si fa del maggiordomo inglese, Hatton, di casa Prothero, vale da solo quasi quanto Quel che resta del giorno del Nobel Ishiguro, oppure la descrizione della perdita della verginità e di come sia necessario adottare pratiche anticoncezionali da parte della ricca e bella Dottie: tutto ciò rende il centro di Manhattan non dissimile da un paesino pugliese. Alla faccia della conclamata emancipazione.
    Eppure si tratta di otto ragazze istruite, che hanno frequentato, come l’autrice, il prestigioso “college Vassar”. Queste donne, definite zitelle già a 26 anni, e ricalcate probabilmente su modelli autentici, dovrebbero quindi avere gli strumenti per far fronte alle difficoltà della vita e soprattutto a quello che resta il problema femminile d’ogni tempo: il rapporto con gli uomini.
    Si pensi alla vicenda di Kay. Annientatasi all’ombra del marito Harald, alcolizzato come la maggior parte dei suoi contemporanei al tempo del proibizionismo, viene internata dopo una lite particolarmente violenta, sulla sola indicazione del suo “adorato maritino”. McCarthy dispiega tutta la sua critica contro questa istituzione. Del resto Harald confessa alla fine di non amare le donne, ma di farne collezione per pura vanità personale. E lo dice a Lakey, bellissima, che si accoppia con una matura baronessa tedesca che tra le due funge da uomo, come osservano le amiche in un primo momento, rendendosi conto del connubio e adottandole senza particolare scalpore, a parte quello iniziale. Loro che si erano distinte in lepri – quelle che avevano contratto matrimonio e subito divorziato- e tartarughe, arrivate tardi, ma comunque prima dei 30 anni, alle nozze e alla maternità, hanno affrontato del resto qualsiasi sorta di problemi.
    E McCarthy le segue queste piccole donne, con sguardo ironico e consapevole, novella Alcott. Ma se tutti ricordano appunto Piccole donne, perché gettare nel dimenticatoio le otto protagoniste di un romanzo che ricorda molto da vicino le commedie di Lubitsch o di Wilder? Forse perché traspare una critica feroce della società americana e per esempio di una cultura scientifica completamente slegata dall’esperienza, come nel conflitto evidente fra infermiere e pediatri, nel capitolo decimo, quando la colta Priss, sposata a un medico, deve subirne l’impostazione nella cura del figlioletto. Oppure nel capitolo successivo, la descrizione delle sedute psicanalitiche di Gus, marito infedele, che tornerà all’ovile non senza aver prima illuso Polly, una del Gruppo. Così come nella vicenda del padre di Polly, Andrew, affetto da depressione a fasi alterne che divorzia a 60 anni e va a vivere con la figlia, nelle parole dello psichiatra Jim si esalta tutto lo scetticismo dell’autrice nei confronti dei ritrovati della psicoanalisi e dello stesso Freud.
    Non mancano accenni alla situazione politica americana, mentre l’Europa viene vista preda delle dittature e la più superficiale del Gruppo, nonché “amica” traditrice della povera Kay, Norine Schmittlapp, che ha sposato Freddy, ebreo ricco, riassume tutti i pregiudizi contro gli ebrei che affliggevano anche i progressisti americani. Leggiamo a pag. 479: “Il guaio è il mio cervello”, disse Norine. “Io ho ricevuto una formazione da intellettuale (…) A Freddy non dà fastidio che intellettualmente io sia un bel po’ più avanti di lui; gli piace. Ma io sono consapevole che tra noi c’è un abisso”. Però chiede a Priss come comportarsi nelle occasioni più semplici e Priss osserva: “Il cervello, pensava, avrebbe dovuto aiutarti a organizzare la vita in maniera efficiente; inoltre, non aveva mai sentito parlare di Norine come di una studentessa particolarmente brillante”.

    Sono 522 pagine che si leggono tutto d’un fiato e che sono ancora attualissime. Un solo errore di stampa a pagina 467: “Priss fece uno schioccò la lingua” (sic), sempre più frequenti ultimamente, essendo stati i correttori di bozze sostituiti dal correttore automatico, che di svarioni ne fa eccome. Ma è trascurabile: l’importante è che questo romanzo torni a circolare. E la sua atmosfera l’ho avvertita in autrici italiane: Alba De Cespedes, Annamaria Ortese e Maria Teresa Di Lascia. Un Gruppo ideale da non dimenticare! 

  • SICUREZZA: GLI ITALIANI
    SON TUTTI SALVINIANI?

    data: 04/07/2019 19:05

    E’ stato molto efficace l’intervento di Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) alla Camera, martedì scorso, quando ha accusato di eversione il ministro degli Interni Matteo Salvini, accompagnando la sua appassionata oratoria con il disegno di suo figlio di sei anni, che raffigurava delle mani che salvavano suoi coetanei in mare, ristretti su una barchetta. “Non avere paura, che ci sono io e ti tengo”, dice un bambino agli altri in quel disegno che Fratoianni ha poi dato a Salvini il quale, in segno di disprezzo, mandava bacioni, al suo solito.
    Il giorno dopo, ecco i commenti in tv, dal primo mattino. A Omnibus, il talk show della Sette, c’era il professore di Economia politica alla Bocconi, Roberto Perotti, il quale con un sorrisetto sprezzante fisso, sorrisetto che si rifletteva anche sugli astanti come Giovanni Minoli, replicava a distanza a Fratoianni: “Ma a chi non piacerebbe accogliere dei profughi? Semplicemente però è impossibile accoglierli tutti. In questo modo Salvini guadagna 50mila voti; lui accende un cero alla Madonna per ogni Sea Watch che si presenta”, e tutti assentivano.
    Ma chi dà a questi commentatori, come pure a Maurizio Mannoni la sera prima a Lineanotte (“E’ incredibile, gli italiani sono tutti con Salvini…”) la sicurezza che gli italiani siano tutti con Salvini? Forse i risultati elettorali? Ma alle urne sono andati molti di meno degli aventi diritto e quindi il consenso si dimezza automaticamente. Il voto popolare non è mai garanzia di buon governo, basta studiare la storia e basta ricordare la repubblica di Weimar. Infine gli striscioni-lenzuola con scritte contrarie al ministro, che compaiono a ogni visita di Salvini, prontamente rimossi, testimoniano che l’opposizione c’è. Accusano poi la sinistra di non avere una strategia in merito a questo esodo: perché, qualcuno ce l’ha? Forse solo i trafficanti d’armi si stanno mobilitando e infatti…
    La notizia del bombardamento di un campo profughi in Libia, rimbalzata dagli Stati Uniti, si badi bene non da un Paese vicino, martedì sera, con quei terribili bustoni di plastica nera a nascondere i corpi martoriati, quella, non ha sconvolto nessuno? E le notizie di partenze ininterrotte dalla costa libica, molto più vicina a noi di quella statunitense, di battelli carichi di migranti che, ops, hanno fatto naufragio, e ci sono non si sa quanti morti: 50, 80, ogni cifra va bene tanto non si sa.. Beh, questi annunci non gelerebbero i sorrisetti di qualsiasi docente illustrissimo? Fratoianni era giustamente arrabbiato alla Camera: perché un ministro degli Interni non può creare ad arte paura, non può dolersi della liberazione di una capitana che ha salvato vite, non può avallare fotomontaggi indegni come quello del pranzo a bordo della Seawatch.

    Intanto sui giornali si legge questo: “Una scena choc quella che si è presentata ai bagnanti di Gela, provincia di Caltanissetta, sulla spiaggia di Roccazzelle. La corrente ha improvvisamente portato a riva i resti umani di un torace ancora stretto in un giubbotto. In men che non si dica tutti i bagnanti hanno abbandonato la spiaggia”. O questo: “Un uomo che viaggiava nascosto nel carrello di atterraggio di un aereo partito da Nairobi è precipitato nel giardino di una casa di Londra, in un quartiere residenziale, mentre il proprietario stava prendendo il sole”.  

  • PERCHE' "FORZA CAROLA!"
    SENZA SE E SENZA MA

    data: 01/07/2019 19:32

    Forza Carola! Si presta facilmente a un’esaltazione femminista, celebrativa, questa giovane capitana della Sea Watch che ha portato in salvo una quarantina di migranti, approdando dopo giorni a Lampedusa, ed è giusto che sia così. Esaltiamola pure questa ragazza, specie in considerazione del fatto che sia stata accolta con i più vergognosi epiteti (anche da donne) al suo arrivo nell’isola assurta a simbolo stesso dell’ospitalità quando ne era sindaca Giusi Nicolini (a proposito, che fine ha fatto?).
    Ora, nel più classico gioco delle parti, con un sindaco di centrodestra, ecco che in tanti si sono accodati allo “sbruffoncella” del ministro leghista. Ma fosse stato solo quell’aggettivo! Come al solito, i seguaci sono sempre più realisti del re e mostrano senza vergogna tutto il loro servilismo. Sono di parte e sono dalla parte di Carola senza se e senza ma: aiutare profughi in mare, persone e non numeri, come ha scritto giustamente Roberto Saviano, non può essere considerato un reato. Negare l’approdo a una nave è una crudeltà senza limiti e basterebbe ricordare l’odissea delle navi colme di profughi ebrei negli anni Trenta del secolo scorso, come la Saint Louis, partita da Amburgo il 10 maggio 1939 e tornata ad Anversa il 6 giugno di quello stesso anno, rifiutata da Cuba, dagli Stati Uniti e dal Canada, con circa mille ebrei, metà dei quali morirono poi nei campi di concentramento nazisti. Ebbene il comandante di quella nave, Gustav Schroder, tedesco (anche se nacque in Danimarca) come Rackete, fece di tutto per tutelare i suoi passeggeri e oggi è ricordato in Israele come uno dei “giusti” che pure sono esistiti in quel truce periodo storico. A lui sono intitolate delle vie nella stessa Amburgo, dove morì a 73 anni nel 1959.
    Al netto della solidarietà, comunque, Carola merita di essere lodata anche come icona femminista perché non c’è, che io ricordi, una capitana del suo valore e della sua forza. Sì, ci sono state veliste solitarie che hanno attraversato oceani, non senza sforzi e sacrificio della vita stessa (di solito si tratta di francesi). A Venezia ci sono pilote dei vaporetti urbani così com’è sempre più frequente vedere autiste alla guida di autobus di linea in città ma, insomma, una capitana non è notizia di tutti i giorni.
    I più anziani ricorderanno un’unica figura mitica della tv dei ragazzi: Giovanna, la nonna del Corsaro nero. Poi, più nulla: un mondo di uomini quello marinaro. Carola, con quel suo volto michelangiolesco, ha rappresentato indubbiamente una novità. E con quel curriculum poi. Perché la Rackete si è laureata in Conservazione dell’ambiente, a 25 anni se n’è andata in una stazione di studio nel Circolo polare artico, dal 2011 al 2013 è stata ufficiale di navigazione sull’Artico e da tre anni è impegnata con l’organizzazione non governativa Sea Watch che dal 2014 cerca e salva profughi nel Mediterraneo. Di certo non per rispedirli in quell’inferno che è la Libia.

    L’Europa dovrebbe ringraziare chi contrasta l’azione dei trafficanti di persone: invece che cosa fa, complici i ministri sovranisti come Salvini? Condanna chi, come Carola, giustamente paragonata ad Antigone, colei che per prima ha stabilito che la legge dell’umanità è superiore alle leggi umane, salva disperati in fuga da fame, miseria, dittature, tutto ciò che chi sta bene preferisce non vedere. E’ tanto comodo voltare la faccia dall’altra parte. 

  • ANCORA SU FAGGIN
    "EREDE" DI LEONARDO

    data: 26/06/2019 11:24

    Un modo originale di omaggiare un grande del passato può essere quello di scoprire i suoi degni eredi. Di Leonardo da Vinci quest’anno tutti parlano, e molto si sa: perché sono passati 500 anni da quando, in un castello regale ad Amboise in Francia, dove si era rifugiato, il genio rinascimentale per eccellenza morì, il 2 maggio 1519. Numerose sono le mostre in giro per l’Italia, da Torino a Venezia, a tema leonardesco e su Rai5 c’è un programma in diverse puntate a lui dedicato. Così com’è possibile riascoltare in podcast un’altra monografia andata in onda su Radiotre, a cura di Marino Sinibaldi.
    A Vinci, dove Leonardo nacque il 15 aprile 1452, in Toscana, è stato ospite recentemente un Leonardo moderno: Federico Faggin. Infatti molti dei “devices”, degli arnesi che usiamo con noncuranza, si devono a lui, alla sua incredibile inventiva. Senza il microchip, la sua formidabile invenzione, e i sistemi di memoria connessi, non funzionerebbero i computer, i telefonini, gli smartphone e via discorrendo. Una passata di polpastrello sullo schermo dello smartphone e sappiamo tutto: si chiama “touchscreen” e l’ha inventato sempre lui. Non per niente il 19 ottobre 2010 Faggin ha ricevuto direttamente dall’allora presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, la Medaglia nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione, un premio che negli Usa equivale al Nobel.
    Faggin, nato il I dicembre 1941 a Vicenza, figlio di un filosofo ma che all’epoca scelse l’istituto tecnico per i suoi studi superiori, fece i primi passi in Olivetti. Poi, sposatosi con Elvia, se ne andò a 26 anni a Palo Alto, in California e nella Silicon Valley trovò il clima giusto per le sue trovate. Tante, tra cui campeggia il microchip: con Intel 4004 si deve a lui, infatti, la creazione dei microprocessori 8008, 4040 e 8080. Ha sviluppato la tecnologia Mos con porta di silicio che ha permesso la fabbricazione dei primi microprocessori, le basi della digitalizzazione. Z80, ancora in produzione, celebre microprocessore, è ancora opera sua.
    Queste invenzioni hanno dato vita a una miriade di applicazioni, dalla memoria dei computer alla tecnologia digitale, alle fotocamere. Una vita che Faggin stesso, doppia cittadinanza, italiana e statunitense, ha raccontato in quattro fasi nel suo libro: “Silicio”, edito da Mondadori. “Italiani di frontiera”, il sito creato da Roberto Bonzio che raduna tutte le storie degli italiani che ragionano fuori dall’ordinario, “out of the box” e che organizza dei seguitissimi tour nella mitica valle di Steve Jobs & C., ha colto l’occasione della presenza di Faggin in Italia. E ha organizzato per lui un seminario proprio a Vinci, a Villa Vignozzi.
    Qui, l’8 giugno scorso, si sono dati appuntamento “un centinaio di professionisti, innovatori e startupper” giunti da diverse città, da Torino a Trento, da Padova a Macerata, per ascoltare direttamente da Faggin, “rievocazioni, riflessioni, suggestioni”. E qui egli “ha ripercorso la sua straordinaria carriera di inventore, imprenditore e scienziato”, fino ad arrivare alla svolta umanistica, a quel suo sottolineare come le macchine non potranno mai avere quel quid in più di umanità che è proprio della persona, riagganciandosi così a suo padre Giuseppe che è stato un grande studioso di mistica, traduttore di Plotino. Tanto che, nel 2011, la “Fondazione (Foundation) Federico ed Elvia Faggin”, s’incarica di studiare proprio la coscienza. Fisica dell’informazione, cattedra all’Università californiana di Santa Cruz, comprende, infatti, lo studio di sistemi complessi, biofisica, scienze cognitive e matematica. Tutto sotto l’insegna dei rivoluzionari coniugi.

    “Che questo di Vinci fosse un evento simbolico ideale per legare il nome di Vinci non solo al passato ma a un’idea di come affrontare il futuro  – sottolinea Roberto Bonzio che ha intervistato più volte Faggin, come si può vedere in rete – l’hanno capito innovatori e sponsor da tutt’Italia, uno persino dalla California, mentre interesse e collaborazione dal territorio sono stati quasi zero”. Una superficialità locale che non ha comunque tolto nulla all’importante manifestazione. Al seminario ha partecipato anche il liutaio Michele Sangineto che ha portato strumenti antichi ormai scomparsi – realizzati in parte secondo le indicazioni di Leonardo - con il concerto dei figli musicisti Adriano e Caterina. All’incontro ha partecipato anche una startup padovana che sta realizzando Vitruvian VR, congegno di Realtà Virtuale ispirato all’Uomo Vitruviano leonardesco, testato di persona dallo stesso Faggin. La pagina dell’evento è: https://italianidifrontiera.com/pionieri-esploratori-non-guardiani-faggin-a-vinci. Chissà che qualche università non colga a sua volta l’occasione d’invitare Faggin che si trova in questi giorni a Vicenza. 

  • DA LEONARDO DA VINCI
    A FEDERICO FAGGIN

    data: 21/06/2019 22:19

    Nel nome di Leonardo si sprecano le iniziative, in occasione del cinquecentenario della morte del grande italiano. Da quelle promosse dall’azienda a partecipazione statale con il suo stesso nome, azienda dalle mille propaggini soprattutto in Finmeccanica che ha celebrato proprio recentemente i 70 anni, ai mille convegni e mostre che si tengono per celebrarlo. Tra cui una rassegna in corso a Torino, imperdibile, ai Musei reali fino al 14 luglio. In questa mostra c’è il celebre autoritratto, realizzato a sanguigna, che tanto ha fatto fantasticare sulla somiglianza con la Gioconda. A Milano poi non si può mancare l’appuntamento col Cenacolo o con il soffitto dipinto a vigna del castello Sforzesco.
    “Leonardo”, l’azienda, è per il 30 per cento statale (ministero dell’Economia e finanze). Il suo amministratore delegato è Alessandro Profumo (il banchiere implicato nella bancarotta Unicredit e poi passato al Montepaschi) e suo presidente è l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. La società raduna quasi tutte le industrie Finmeccanica, si va dagli elicotteri Agusta Westland a Finmeccanica, Telespazio, le vecchie Oto Melara, Alenia Aermacchi. Molta produzione militare dunque (compresi i droni-spia). Del resto Leonardo non si risparmiava nel progettare macchine belliche. Tra le iniziative del centenario c’è anche il rilancio di una vecchia rivista dell’Iri, creata da Leonardo Sinisgalli nel 1953, “Civiltà delle macchine”, bimestrale affidato ora a Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità. A capo della Fondazione eponima è stato posto Luciano Violante e al conversanese Paolo Messa (ex democristiano, seppur quarantreenne, e docente di Giornalismo politico ed economico alla Sapienza) direttore delle relazioni istituzionali. Questo per chiarire come l’arco costituzionale si ricongiunga nel panorama delle nomine.
    Cosa c’entra tutto questo con Leonardo, al di là della denominazione e del fine sociale? Ben poco.
    C’entra di più invece andare alla scoperta dei geni odierni, spesso non conosciuti. Eppure, guardiamoci intorno: di quanti mirabolanti oggetti sapremmo indicare il nome dell’inventore? Prendiamo il telefonino, lo smartphone e quella magnifica funzione di veder scorrere ogni notizia su uno schermo al solo tocco del polpastrello: si chiama touchscreen e a inventarlo è stato un italiano, Federico Faggin. In libreria si trova ora la sua autobiografia, “Silicio” (edita da Mondadori), in cui egli racconta le sue quattro vite, dalla partenza da Vicenza, figlio di un filosofo ma che sceglie l’istituto tecnico. Se ne va con la moglie Elvia a 26 anni a Palo Alto, California, e nella Silicon Valley trova il clima giusto per le sue scoperte.
    Faggin è un po’ un Leonardo del nostro tempo. “Italiani di frontiera” il sito creato da Roberto Bonzio che raduna tutte le storie degli italiani che ragionano fuori dall’ordinario, “out of the box” e che organizza dei seguitissimi tour nella mitica valle di Steve Jobs & C., ha colto l’occasione della presenza di Faggin in Italia. E ha organizzato per lui un seminario proprio a Vinci, a Villa Vignozzi. Qui l’8 giugno, si sono dati appuntamento “un centinaio di professionisti, innovatori e startupper” giunti da diverse città, da Torino a Trento, da Padova a Macerata. hanno ascoltato direttamente da Faggin, che è nato il I dicembre 1941, “rievocazioni, riflessioni, suggestioni” con cui egli “ha ripercorso la sua straordinaria carriera di inventore, imprenditore e scienziato”, fino ad arrivare alla svolta umanistica, a quel suo sottolineare come le macchine non potranno mai avere quel quid in più di umanità che è proprio della persona, riagganciandosi così a suo padre che è stato un grande studioso di mistica, traduttore di Plotino.
    “Che questo di Vinci fosse un evento simbolico ideale per legare il nome di Vinci non solo al passato ma a un’idea di come affrontare il futuro – sottolinea Roberto Bonzio che ha intervistato più volte Faggin – l’hanno capito innovatori e sponsor da tutt’Italia, uno persino dalla California, mentre interesse e collaborazione dal territorio sono stati quasi zero”.

    Al seminario ha partecipato anche il liutaio Michele Sangineto che ha portato strumenti antichi ormai scomparsi – realizzati in parte secondo le indicazioni di Leonardo - con il concerto dei figli musicisti Adriano e Caterina. Una scorsa alla rete consente di reperire i video dove Faggin spiega tutto il suo viaggio esistenziale, e leggere poi il suo libro dà ulteriori informazioni. Il modo migliore di omaggiare un grande del passato è scoprire i suoi degni eredi. 

  • UNA "MEGLIO GIOVENTU'"
    IN CHIAVE ITALO-TEDESCA

    data: 07/06/2019 16:20

    “Volevamo andare lontano… Bella Germania” è una fiction andata in onda su Raiuno in due puntate, lunedì e martedì scorso. Girata da Gregor Schnitzler, un regista berlinese di 55 anni, con all’attivo una ventina di film, è una sorta della “Meglio gioventù” in chiave tedesca, ma con un saldo collegamento con l’Italia, il che giustifica la sua collocazione in prima serata nella rete ammiraglia della Rai. Siamo molto lontani dal livello di “Ku’damm. Una strada verso il domani (1956 e 1959)” di Sven Bohse, con la sceneggiatura di Annette Hess. Nonostante tutto, però, il lavoro di Schnitzler non ha deluso. La prima puntata aveva il sapore ingenuo del fotoromanzo e tuttavia si faceva guardare; nella seconda la vicenda si è movimentata.
    Si seguono le avventure di Giulietta e Giovanni, due fratelli siciliani che decidono di emigrare in Germania, a Monaco; prima abbandona Salina Giovanni, poi lo segue Giulietta che sa cucire e spera di diventare una sarta di successo. Peccato che Salina, una delle isole delle Eolie, dal paesaggio totalmente diverso da quello lucano, nella fiction abbia le sembianze di Matera: un errore grossolano, giustificato dal fatto che la capitale europea della cultura di quest’anno debba entrare per forza nella storia. Ma allora avrebbero potuto dire che i due emigranti erano originari di Matera, anziché spacciarli per siciliani...
    Comunque: Giulietta è sposata con Vincenzo ma non riesce ad avere figli. La coppia va a Monaco. Qui Giulietta s’innamora di un tedesco, Alexander, un imprenditore. Con lui ha un figlio ma non volendo sfasciare la famiglia, lo attribuisce al marito, che si adatta a fare i lavori più umili. E lo chiama anche come lui, Vincenzo.
    Nella seconda puntata si scoprirà che questi sapeva tutto, in quanto all’epoca era andato da un medico che gli aveva rivelato la sua sterilità. A quel punto Giulietta, che si era sacrificata per il marito, abbandona ogni remora e decide di andare a vivere con Alexander, il quale però si è sposato nel frattempo e prende tempo. Per il momento, le propone, ci si accontenterà di una gita a Venezia.
    Purtroppo durante il viaggio, la poveretta non riesce a frenare e muore in un incidente mentre Alexander riesce a salvarsi. Ovviamente la tragedia getta nello sconquasso la famigliola di immigrati italiani a Monaco, finché il marito di Giulietta non viene arrestato con l’accusa di aver manomesso lui la macchina. Da meccanico, infatti, ha sabotato i freni dell’auto che sapeva sarebbe stata utilizzata dall’odiato rivale, mandando a morte certa la moglie o Alexander. Il figlio, ormai adolescente, saputo questo, abbandona la casa e si dà al terrorismo, che imperversa negli anni Settanta del secolo scorso in Germania ancor prima che in Italia. Poi, arrivando a un soffio dall’uccidere quello che ancora non sa essere il suo vero padre, ovvero il capitalista Alexander che del resto conosce fin da piccolo, ripudia questo ruolo e se ne va in Italia, in cerca di maggior fortuna, sposandosi poi dopo un po’.
    A Monaco però ha lasciato una compagna e una figlia: e sarà proprio a questa, ormai ragazza, che anni dopo lo zio Giovanni affiderà il diario della nonna Giulietta – un espediente narrativo sempre molto efficace – consentendo, così, dopo tanto tempo, di riunificare una famiglia i cui componenti si erano persi per strada fra l’Italia e la Germania e di consentire a Vincenzo di conoscere il suo vero padre.

    La recitazione è un po’ ingenua (anche se il ragazzo Vincenzo è molto bravo e somigliante a Vincenzo Sr e Alexander giovane esprime bene un amore contrastato e paziente); la scenografia, s’è visto, pure ma la trama, ricca di colpi di scena e con sapienti e mirati riferimenti storici, tiene. E in una fiction che si rispetti, l’intreccio narrativo è fondamentale. 

  • IL MODELLO PAMELA PRATI
    A 50 ANNI DAL FEMMINISMO

    data: 31/05/2019 21:21

    L’apoteosi delle fake-news, delle bufale, è stata raggiunta con il “matrimonio” di Pamela Prati. C’è poco da fare: il buon Alessandro Manzoni aveva capito già ai suoi tempi che non c’è argomento più popolare di questa cerimonia che spesso sconfina nella pagliacciata più clamorosa. Resta comunque sempre attuale: recentemente a Napoli un cantante neomelodico e una (così definita) “vedova di un boss” si sono sposati con cavalli, abiti sfarzosi, profluvio di fiori e di musica da far invidia ai Windsor, i cui matrimoni reali sono egualmente paparazzati in tutto il mondo.
    Il caso in esame però va analizzato, in quanto coinvolge personaggi che sono quasi tutti usciti dalla casa del Grande fratello, esperimento televisivo dei più orrendi, in cui si osservano persone messe alla prova come cavie, a disposizione del crudele conduttore, più spesso una conduttrice. I quali poi, non devono leggere: hanno come clausola del “gioco” che all’interno della casa, non entrino libri e giornali. I risultati si vedono.
    Dunque, Pamela Prati, una soubrette sessantenne dalla bellezza vistosa che ogni dieci anni annuncia il suo matrimonio, ci riprova.
    Chiuso il Bagaglino, la signora, come tutti, ha bisogno di soldi. Ma certo è sconcertante che si trovino degli espedienti del genere per guadagnare. Vedi anche le tardive confessioni di un’altra star tv in difficoltà, Sandra Milo, che nella rete pubblica è arrivata a dire di essersi concessa per anni senza amore a un tizio che le pagava le tasse. Senza ritegno!
    Ora, passi che Prati vada nelle reti Mediaset, da Mattinocinque alla D’Urso che si rigira tra le mani la fede che la soubrette le porge, chiedendo estasiata: “Ma è proprio quella del matrimonio?”; che vada dalla moglie di Piersilvio, la Toffanin, la quale le domandava di vedere, almeno sul telefonino, una foto del promesso sposo, ma che Prati sia approdata nello spazio pomeridiano di Raiuno, di domenica, beh, è stato davvero il colmo. Qui infatti la “zia”, come la chiamano tutti, Mara Venier, l’ha accolta al grido, più volte reiterato: “E adesso Pamela Prati è moglie e madre, moglie e madre!” come se ciò contasse più di tutto nella vita di una donna, a prescindere dal resto. D’altro canto lei stessa, la “zia Mara”, quando una decina di anni fa si era risposata per l’ennesima volta, aveva detto che avrebbe lasciato il lavoro, per poi tornare di corsa a “Domenica in” scalzando l’Arena del buon Giletti, al grido “Siamo ancora qui!”.
    Torniamo alla bufala pratesca. Nel corso dei mesi in cui questa fandonia colossale dura, si scopre quindi che il promesso, tale Mark Caltagirone, oscuro uomo d’affari con azienda in Albania, nessuna parentela con l’editore-costruttore sia pur costruttore anch’egli – notare la scelta del cognome che allude comunque a un uomo ricco, mica ci si sposa coi poveracci… – non vuole apparire. Perché? Perché è un uomo molto riservato, spiega Pamela Prati, basti sapere che è esattamente la sua metà, si sono riconosciuti all’istante, hanno adottato persino due bambini e andranno a vivere in Florida. Allora i giornalisti di gossip, che vogliono giustamente la foto dello sposo, si rivolgono alle agenti della soubrette. E qui viene il bello o il peggio, è uguale.
    Le agenti sono due, socie della prestigiosa, a quanto pare, Aicos Management: Eliana Michelazzo, anche lei, come la Prati, una fuoruscita di programmi Mediaset e Pamela Perricciolo, che avrebbe anche tentato il suicidio. Le chiamano manager e non sono nuove a queste operazioni. Eleonora Daniele (la lacrimosa) a Storie italiane, su Raiuno - servizio pubblico, si noti bene - ha raccolto diverse testimonianze di aspiranti attori, modelli, tronisti ecc. che sono stati ricattati dalle due “manager”. Le quali, a precisa domanda di una foto, una sola foto di questo Mark Caltagirone, rispondono picche, anzi mettono in giro delle foto “rubate” a uomini ignari, ma spesso del giro della Maria (De Filippi). Del resto anche Michelazzo è stata a “Uomini e donne”, trasmissione ideata e condotta dalla de Filippi.
    Fino alla notizia eclatante: Mark Caltagirone non esiste, Pamela Prati si dichiara plagiata, Eliana Michelazzo, udite udite, rivela che anche lei è stata fidanzata per dieci anni, diconsi dieci, con un tizio che ha conosciuto in rete ma che non ha mai visto di persona. Del resto non ne aveva bisogno poiché era in relazione, come ha spiegato Roberto D’Agostino, con la sua socia Pamela (Perricciolo).

    Ora, cosa si ricava da questa storia? Che certe donne, si spera non tutte, sono delle grandi idiote, che il femminismo non ha insegnato nulla e che la tv, da Mediaset alla Rai, continua a inseguire un modello femminile tutto basato sul falso sentimentalismo, sul matrimonio come scopo ultimo delle donne, persino di una certa età e che, pur avendo lavorato con una certa dignità ognuna nel loro campo, senza l’aiuto di un uomo, sia pure inventato, non ce la possano fare. 

  • IL CILE DI GUZMAN

    data: 21/05/2019 11:27

    Non avevo mai sentito parlare di Patricio Guzmàn, regista cileno, ma nel giro di pochi giorni ho visto prima un suo meraviglioso film al decimo Bif&st, il festival del cinema barese diretto da Felice Laudadio: “La memoria dell’acqua”, che nel 2015 vinse l’Orso d’argento a Berlino, e adesso leggo che a Cannes ha presentato “La cordigliera dei sogni”. Guzmàn continua così il suo lungo lavoro sul Cile, sul golpe dell’11 settembre 1973, la dittatura di Pinochet e l’impunità di molti dei torturatori di quel feroce periodo.Egli ha diretto una vera enciclopedia di film-documentari sul suo Paese che sarebbe ora di diffondere. Come del resto sta succedendo, di rimbalzo dal successo europeo, nel Cile, dove i suoi documentari girano solo ora nelle università e anche nelle scuole medie.
    Il regista, nato a Santiago l’11 agosto 1941, ha provato la tortura nello stadio di Santiago ma per fortuna è sopravvissuto, contrariamente a tanti suoi coetanei, è riuscito a scappare e da allora vive perlopiù in Francia. Ma non si è dimenticato del Cile, di Salvador Allende, dei giovani di allora vittime di una repressione cieca e appoggiata dagli Usa, da cui il Paese stenta a riprendersi. Tant’è vero che le sue enormi ricchezze, come il rame, sono in mano a società straniere e che il dittatore ha lasciato i suoi eredi possessori di molte sostanze.
    Guzmàn con i suoi film-documentari, ha svolto un lavoro davvero prezioso. Ha un’ottica originale. Parte da spunti naturalistici, l’esplosione di una supernova per esempio, osservata dal telescopio di Atacama, avvenuta proprio l’11 settembre del golpe, per arrivare alla storia, intrecciando miti delle popolazioni locali della Patagonia con ciò che è accaduto in anni recenti. Sembrerebbero, i suoi, documentari geografici, con riprese fantastiche della selvaggia natura di un Paese affacciato sul Pacifico e chiuso da una catena montuosa fra le più aspre; ma poi svoltano nell’inchiesta, con la voce fuori campo, pacata e precisa, che spiega i nessi, i riferimenti e dunque da un bottone scovato in fondo al mare ecco che si ricostruisce la vita di un “desaparecido”.
    La sua trilogia, intitolata “La battaglia del Cile”, è stata girata a tambur battente, dal 1975 al 1979: “L’insurrezione della borghesia”, “Il colpo di stato” e “Il potere popolare”. Sono seguiti “Il caso Pinochet” nel 2001, “Salvador Allende”, nel 2004, “Nostalgia della luce” nel 2010 e i già citati “Memoria dell’acqua” e il recente “Cordigliera dei sogni” presentato appunto a Cannes nella rassegna “Séances speciales”. Proiezioni speciali, in effetti, queste di Guzmàn che meritano di essere meditate.

    Nanni Moretti ha raccontato il golpe un anno fa in “Santiago, Italia”, raccogliendo la testimonianza anche di chi torturò e prendendone ovviamente le distanze inorridito: “Io non sono imparziale”, ha detto Moretti che fa parte di una generazione profondamente segnata da quel golpe. E nel suo film c’è anche Guzmàn in una breve dichiarazione. A maggior ragione è tempo di considerare nel suo insieme l’opera immensa del regista cileno, che è stato protagonista di quei giorni perché, come ha detto: “Un paese senza documentari è come una famiglia senza album di fotografie”. E si potrebbe parafrasare: non c’è umanità senza storia. 

  • ADDIO, DORIS DAY

    data: 13/05/2019 18:07

    Probabilmente la si pensava già morta, Doris Day, poiché, data l’età avanzata, era sparita dalla circolazione. Invece Doris, la biondissima Doris, purtroppo è morta oggi, all’età di 97 anni (era nata a Cincinnati il 3 aprile 1922, anche se alcuni testi riportano il 1924 come suo anno di nascita). All’indomani della festa della mamma, lei che aveva avuto a 18 anni un solo figlio, proprietario di quella villa a Los Angeles dove la truce banda mansoniana fece strage degli affittuari, fra cui la giovane moglie di Roman Polanski (che era assente), Sharon Tate. Un episodio che portò Doris sull’orlo della cronaca nera, lei che era stata nei suoi ruoli serafica e intelligente, sempre, anche quando recitava la parte della svampita moglie del ceto medio americano. Madre a pieno titolo dunque, grazie a un film che esalta proprio la figura materna, sebbene non trascuri la paterna.
    Sono affezionata a quest’attrice, specialmente per il ruolo che interpreta nell’“Uomo che sapeva troppo” di Alfred Hitchcock: è insuperabile qui, 34enne, elegantissima come tutti gli arruolati del grande Alfred. Il senso del film è nascosto come in una classica tragedia greca: la felicità umana muove a invidia gli dei ed è sempre in pericolo. Ben McKenna (James Stewart) e Jo (Doris Day) hanno un figlio sui 9 anni, Ben, sono una famigliola americana in vacanza in Marocco: ma a Marrakech il marito, che è un medico, viene coinvolto in un assassinio, solo perché soccorre un uomo che in precedenza avevano conosciuto in pullman e quindi devono andare entrambi, Ben e Jo, in commissariato. E il bambino lo affidano, piuttosto avventatamente, a una tranquilla coppia di mezza età, che si rivelerà essere tutto il contrario di quello che appare, i coniugi Drayton.
    Si tratta infatti niente di meno che di pericolosi terroristi che devono uccidere un importante capo di stato di un imprecisato paese, nel corso di un concerto alla Royal Albert Hall a Londra, dove la scena si sposta. E qui accade il miracolo: non solo Jo riesce a sviare con un clamoroso urlo la mira dell’attentatore ma, visto che è anche un’affermata cantante (sebbene ritiratasi da poco), in ambasciata proprio cantando la “sua” canzone, riuscirà a farsi sentire dal figlio e a salvarlo.
    Non so quante volte ho visto questo film e puntualmente, quando Doris intona “Que serà serà” in ambasciata, accompagnandosi al pianoforte, mi vien da piangere. Anche per il testo della celeberrima canzone: una madre cerca di rassicurare il figlio su quello che verrà, sconosciuto a tutti, a lei per prima. La canzone ebbe un successo straordinario, vinse l’Oscar nel 1957. “Whatever will be will be” come suona in inglese “Que serà serà” di Jay Livingston e Ray Evans, oltre a essere una stupenda canzone resta nella storia anche grazie a lei, a Doris, che la cantava giustamente a squarciagola, come va cantata, come la cantava la mia intonatissima Mamma. “The future not ours to see”, è fuori dalle nostre capacità indovinare il futuro. E tutto il film, che per fortuna ha un lieto fine e la cui risoluzione è piuttosto frettolosa, come spesso nei gialli di Hitchcock, dove ciò che conta è l’intreccio pericoloso, deve il suo successo soprattutto a lei, fino ad allora solo “fidanzatina d’America”.
     
    When I was just a little girl
    I asked my mother, what will I be
    Will I be pretty
    Will I be rich
    Here's what she said to me
    Que será, será
    Whatever will be, will be
    The future's not ours to see
    Que será, será
    What will be, will be
    When I grew up and fell in love
    I asked my sweetheart, what lies ahead
    Will we have rainbows
    Day after day
    Here's what my sweetheart said
    Que será, será
    Whatever will be, will be
    The future's not ours to see
    Que será, será
    What will be, will be
    Now I have children of my own
    They ask their mother, what will I be
    Will I be handsome
    Will I be rich
    I tell them tenderly
    Que será, será
    Whatever will be, will be
    The future's not ours to see
    Que será, será
    What will be, will be
    Que será, será
     

    E poi c’è un altro film delizioso: “10 in amore”, del 1958, di George Seaton, dove Doris fa la docente di giornalismo e accoglie nel suo corso un rozzo ma sempre affascinante Clark Gable che finge di voler imparare il mestiere mentre in realtà è già un affermato giornalista, il quale però ritiene che i corsi di giornalismo non servano a nulla e che s’iscrive apposta ai corsi della professoressa Doris per sbugiardarla. E anche qui la Day canta “Teacher’s Pet”, uno dei suoi successi. 

  • "LA MEMORIA DELL'ACQUA"
    DA NON DIMENTICARE

    data: 30/04/2019 14:37

    Il bello dei Festival del cinema è di far vedere capolavori che altrimenti, molto ingiustamente, non si vedrebbero mai. Perché non vengono distribuiti. E i canali televisivi dedicati al cinema trasmettono solo repliche, mai come in questo periodo. Onore al merito dunque al Bif&st di Bari, giunto quest’anno all’importante giro di boa del decimo anno con la direzione del vulcanico Felice Laudadio, di mettere in risalto, nel programma intensissimo, pellicole mai viste. Come “La memoria dell’acqua”, risalente ormai al 2015, del cileno Patricio Guzmàn, uno dei massimi registi mondiali. Che ha fatto per il suo lungo e travagliato paese, il Cile, con questo meraviglioso e difficile film, ciò che Terrence Malick ha realizzato con l’epopea esistenziale nell’“Albero della vita”, premiato a Cannes. Mentre de “La memoria dell’acqua” ben poco si è discusso. Ben pochi l’hanno visto. Eppure esso spazia dall’antropologia alla denuncia sociale contro l’uomo bianco che alla fine dell’800 sterminò la popolazione della Patagonia, dall’astronomia - con l’osservatorio Alma, il più imponente del mondo ad altezza vertiginosa (5mila metri nelNord del Cile) e nel luogo più secco della terra, nel deserto di Atacama dove viene scoperto quasi un pianeta al giorno - alla famigerata villa Grimaldi a Santiago, dove venivano torturate e recluse le vittime di Pinochet e dei suoi scagnozzi…
    Il film - con l’esergo “siamo tutti figli di uno stesso ruscello” - parte da immagini della Patagonia, dei suoi ghiacci azzurri, di una bellezza quasi insostenibile: gli occhi si beano di questa immersione nelle varie sfumature di colori. Poi ci sono le interviste agli eredi delle cinque tribù originarie del Sud del Cile, con l’anziana Gabriela che ancora ricorda il linguaggio degli antenati o un cinquantenne che a 11 anni, col padre, a colpi di pagaia ha doppiato il temibile Capo Horn. Un blocco di granito che imprigiona una goccia d’acqua conferma che l’acqua, il prezioso elemento fonte di vita, proviene dallo spazio, dalle stelle. La cosmogonia indigena credeva che, quando una persona muore, si spegne una stella lassù e l’11 settembre 1973, quando fu ucciso Salvador Allende, colui che aveva dato al Cile una rivoluzionaria identità democratica, e tantissimi suoi sostenitori, ci fu un’esplosione di supernova, registrata dai telescopi.
    I generali con l’aiuto degli Usa, fecero scempio del Paese, dice la voce narrante perfettamente comprensibile. Qui Guzmàn, che ci ha appena raccontato la storia di un indigeno ottocentesco costretto a cambiare identità per conformarsi ai canoni occidentali, cambia registro. Il film diventa quasi invedibile per quanto è crudele, insostenibile anche stavolta ma per la cattiveria che mostra (“non c’è limite alla crudeltà umana”). Fa vedere come i prigionieri dei maledetti militari venissero legati a pesanti traversine di ferro e buttati forse ancora vivi da elicotteri e aerei. Una pratica imitata dagli argentini. Finché il giudice Guzmàn – omonimo del regista ma si tratta di un cognome molto diffuso lì – ordina nel 2004 di recuperare queste traversine.
    Il mare restituisce addirittura una vittima, Mariana Urtega, una tra le 40mila persone uccise dal regime sanguinario instaurato quarantacinque anni fa – e per sedici anni - dal boia Pinochet e dai suoi accoliti, come Videla, lasciati a una tranquilla vecchiaia. Questa povera Urtega il mare la restituisce miracolosamente intatta, con gli occhi spalancati sull’orrore che ha visto. Non solo. Dalle traversine ormai incrostate come relitti del tempo, emerge anche un bottone, che è come la goccia d’acqua imprigionata nel quarzo. E’ questa la memoria dell’acqua. Una memoria che denuncia la crudeltà umana e che rassomiglia a quella che anche il Mediterraneo di questi anni conosce, con i barconi degli annegati.

    Poi ci sono i sopravvissuti, che dicono quanti anni sono stati prigionieri e tra loro si riconosce lo scrittore Luis Sepulveda, che era difensore personale di Allende. Ma non c’è rivendicazione di sorta, c’è solo l’infinita tristezza di una terra martoriata. Nel dibattito che è seguito al film, Marcella Marconi, astrofisica, direttrice dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte, ha parlato prevalentemente delle scoperte che Alma consente, della ricerca di un pianeta gemello al nostro. Ha detto che effettivamente, a Santiago, la popolazione indigena svolge i lavori più umili, il che accade anche da noi (Milano piena di filippini, in genere camerieri), ma ha in un certo senso assolto la comunità scientifica perché l’Osservatorio Alma risale al 2007. Ma discendiamo tutti da uno stesso ruscello, non si può restare indifferenti. Non si può ignorare un universo parallelo, come in effetti è il Cile per noi, così distante, così isolato. Ma speriamo profondamente cambiato. 

  • IL DURRELL CHE RIFECE
    PROUST DOPO PROUST

    data: 23/04/2019 21:10

    “… Subito l’orizzonte fu tagliato a mezzo da un nuovo stormo che si alzò più lentamente e spartì terra e cielo con una rosea mobile ferita; sembrava il cuore di una melagrana appariscente da una fenditura della buccia. Poi, da rosa mutò in scarlatto, virò al bianco e calò sulla superficie del lago come un turbine di neve presto a fondersi al contatto dell’acqua. – Fenicotteri!- esclamarono”. Il lago è Mareotide, nei pressi di Alessandria d’Egitto e in questo capitolo, che inaugura il terzo romanzo di una tetralogia inscindibile e imprescindibile, Mountolive, si descrive la vita a casa Hosnani di cui il protagonista, David Mountolive, ambasciatore inglese alle prime armi, è ospite per qualche mese. Si tratta di quattro romanzi, in cui immagini pittoriche come questa sono frequentissime: gli altri sono Justine, Balthazar e Clea, scritti fra il 1957 e il 1960 da Lawrence Durrell, scrittore inglese e cosmopolita, a cui dedico idealmente questa giornata internazionale del libro.
    Durrell è stato un grandissimo autore, ingiustamente dimenticato e spesso confuso con il fratello minore, Gerald, autore di quella “Mia famiglia e altri animali” in cui si descrive la loro infanzia, al seguito di una madre, eccentrica e innovativa, a Corfù, per sfuggire al fumo di Londra. Anche Lawrence, nella “Grotta di Prospero” è riandato a quegli anni, ma più di tutto ha descritto la città di Alessandria, la stessa del greco Kavafis, ma non solo, da quattro punti di vista diversi, nel tentativo più riuscito, secondo Giorgio Montefoschi che ha prefato la nuova edizione Einaudi, di rifare Proust dopo Proust. Con una prosa superba.
    Amanti, spie, banchieri, barbieri, figli persi, ricordi amari, marinai, diari, poesie, si susseguono in un turbinoso intreccio come in uno specchio di fronte al quale, di volta in volta, i personaggi messi in scena dalla salda regia di Durrell, raccontano la loro versione dei fatti. Come nella citazione dalla Justine di De Sade, lucido razionalista per Durrell: “Uno specchio vede l’uomo bello e lo ama, un altro lo vede brutto e lo odia. E tuttavia, si tratta sempre del medesimo individuo”. A raccogliere le fila del racconto, lo scrittore confinato nella solitudine della scrittura: “Nella grande quiete di queste sere d’inverno c’è un unico orologio, il mare. Il suo indistinto impulso nella mente è la fuga su cui si modella questo scrivere. Vuote cadenze di acqua marina che si lecca le ferite, che si incupisce alle foci del delta, che ribolle su quelle rive deserte – vuote, per sempre vuote sotto i gabbiani: scarabocchi bianchi sul grigio smangiucchiato dalle nuvole”.
    Si può immaginare un Durrell, nato in India, a Darjeeling, il 27 febbraio 1912 e morto nell’Occitania francese, a Sommières, il 7 novembre 1990, intento a rievocare le sue voci interiori, i suoi amici, così nettamente tracciati, le sue avventure anche di esponente del Foreign Office, come tanta parte degli scrittori inglesi più avventurosi, sempre un po’ in disparte, sposato tre volte, distrutto da una tragedia familiare (una delle quattro figlie suicida a 34 anni), ma restando grande poeta e scrittore e non escluderei anche pittore o fotografo, a giudicare dal suo vivido senso del colore, trascritto in maniera tanto sublime.
    Prendiamo Justine: l’io narrante qui è un professore, Darley. Abita nella casa di un diplomatico, Pombal, che a un certo punto, nella grande magione, affitta una stanza a Pursewarden, scrittore di successo, e così conosce Melissa. Frequentando il jet-set di Alessandria, fa conoscenza di Justine, sposata al banchiere Nessim e che prima lo era stata con uno scrittore franco-albanese, Arnauti, che su di lei aveva scritto Moeurs (Costumi). Justine aveva una figlia, rapitole a pochi anni, che lei cerca disperatamente. Il professore diventa amante di Justine, Nessim di Melissa e poi crescerà la figlia di questi ultimi due, morta Melissa di tisi. Clea è la pittrice del gruppo, un tipo di solitaria che non vuole nessuno accanto a sé tranne Darley e sono altre meditazioni, stavolta dal suo punto di vista, sempre con gli stessi personaggi.
    Un coro a più voci su cui si stendono le memorie di colui che tutti ha conosciuto e amato, cronaca o fantasia non si sa, anche se le circostanze sembrano molto vere, proprio come nella Recherche, in un flusso di coscienza che ricorda molto l’opera più che di Joyce di Virginia Woolf. Una meraviglia, un piacere di leggere per leggere scaturisce da queste pagine.

    L’unico appunto va fatto alla distribuzione: in libreria spesso, anche in questo periodo in cui c’è la riedizione del Quartetto di Alessandria e un ottimo articolo di Maurizio Bianchini su Blow up di questo aprile, si trova un unico libro, come di Proust si vede una fanciulla in fiore qui, una strada di Swann là e invece no! La Divina Commedia consta di tre cantiche e va bene che tutti leggono di solito l’Inferno e tralasciano Purgatorio e Paradiso ma Dante scrisse un’opera completa per farla leggere così e lo stesso vale per Durrell e Proust. Ne vale, eccome, la pena. 

  • CATTEDRALI GOTICHE
    COSA FURONO, COSA SONO

    data: 16/04/2019 14:07

    Così come il Romanico è venuto prima del Gotico, queste scene terribili dell’incendio a Notre Dame di Parigi a me barese ricordano l’incendio, doloso, dolosissimo ancorché non del tutto chiarito, del Petruzzelli, il 27 ottobre 1991. Teatro della città poi ricostruito e perfettamente funzionante adesso, ma certo non esattamente com’era.

    Inoltre si parla in queste ore, lo ha fatto a Rainews il critico d’arte Flavio Caroli, di “Europa delle cattedrali”. E allora rivado nella mia libreria e oltre, a scovare il celeberrimo romanzo eponimo di Victor Hugo, scritto a soli 28 anni e a ricordare Quasimodo ed Esmeralda nelle tante rielaborazioni cinematografiche e teatrali. Rispolvero un libretto della Biblioteca Moderna Mondadori, intitolato “Il gotico” a cura di Virgilio Gilardoni, con 155 illustrazioni in bianco e nero, un libretto che mio padre acquistò nel 1951. Elegantemente, sulla copertina di cartone non c’è il prezzo, ma per me questo volumetto ha un valore inestimabile oltre che per motivi personali, proprio per l’accuratezza della sua fattura. Nell’era del clic e del web, quando basta un attimo per avere davanti agli occhi tutti i panorami del mondo, c’è da riflettere sulla bellezza, sulla meraviglia del libro stampato: queste poche pagine, 143, di piccolo formato, con le foto di Alinari e di Anderson, rendono conto del Gotico in maniera assolutamente formidabile e di Notre Dame, della Cattedrale per eccellenza, dà nell’indice le notizie cronologiche essenziali: il coro costruito nel 1162, la facciata alla fine del XII secolo, il portale nel 1206, le Torri nel 1245, le Cappelle laterali iniziate nel 1258 da Jean de Chelles e Pierre de Montereau; le cappelle del coro nel 1296-1320 e poi le sculture, gli archi e la guglia di 45 metri che ieri è andata distrutta.
    Pieno Medioevo dunque: e c’è ancora chi lo indica come un’era retrograda….Le foto spaziano da Bruges a Siena, Orvieto, Assisi, Chartres, Reims, Amiens, Beauvais, Colonia, Norimberga, Bamberga, Westminster, Lèon e così via, in una panoramica completa senza tralasciare le statue più famose come l’angelo sorridente di Reims, dall’Ungheria alla Boemia, dalla Svezia all’Inghilterra all’Italia alla Spagna e Portogallo.
    Opera collettiva, e vediamo cosa significavano le cattedrali, nel capitolo chiamato “L’epica del Gotico”: “Il gusto di un paese o di un popolo per determinate forme di espressione artistica si modifica rapidamente quando la struttura intima della sua società si trasforma. Il gusto infatti è lo specchio di un’epoca e di una società. Il genio non di un uomo solo, ma di mille artisti isolati dalle passioni del loro tempo non avrebbe mai operato quel mutamento radicale del modo di vedere il mondo che si constata nella seconda parte del medioevo (… ) La prova più evidente che l’arte non sia una fioritura gratuita di belle forme fantastiche l’abbiamo d’altronde osservando come in paesi i quali pure erano in strettissimi rapporti economici e culturali con il mondo del gotico, quali la Russia, l’Impero Bizantino e l’Oriente islamico, non sia nata nessuna arte gotica. I paesi costituiti in forme di imperi feudali e autocratici sono rimasti fedeli a quelle forme di espressione artistica atte ad esaltare, illustrare e o esprimere il loro modo di vita: il bizantino e, in diversa misura, gli stili aulici arabi, cinesi, giapponesi. L’Europa invece, che aveva conosciuto forme di vita popolari provinciali assai spiccate attorno ai castelli e ai conventi feudali, e che, nel romanico, trovò il tipico linguaggio che tale assolutismo temperato di qualche concessione ai diritti dell’uomo esprimeva, diventa il terreno propizio per un’evoluzione economica e sociale che, in pochi decenni, scardina la fissità dell’ordine feudale e crea le condizioni per la nascita del mondo moderno. Un complesso di fattori determina, con gli anni, la nascita di un mondo nuovo: l’incremento del commercio, la moltiplicazione delle vie di comunicazione, la fortuna dei grandi mercati e delle fiere internazionali, i movimenti e gli spostamenti di gente: e, in pochi anni, la creazione di vere fortune in mani plebee, e la nascita di una coscienza di classe fra gli sfruttati della città e talvolta delle campagne vicine, organizzati nella lotta contro il Barone o il Signore che li dissangua. Le crociate hanno immiserito principi e signorotti e hanno aperto gli occhi dei pezzenti fanatizzati sugli splendori di Bisanzio”. (pagg. 15-16).
    Si può dire meglio? Credo di no, ma continuiamo: “Si ha bisogno di denaro. Il feudalesimo ne ha bisogno estremo: e allenta il servaggio nelle campagne per trasformarlo in tributi e taglie che i contadini cercano di pagare portando i prodotti della terra ai mercati di città. Bisognano di denaro i monarchi e gli imperatori che devono sostenere lotte e guerre contro l’ingordigia dei loro infedeli vassalli. E sono i ricchi commercianti organizzati in gilde, che prestano denaro ai principi e ai monarchi in cambio di privilegi: sono città intere che accordano prestiti in cambio di garanzie e di franchigie.
    Così nascono le città libere, gli operosi comuni medioevali, dove sorge una dinamica borghesia. Ma il movimento non è senza dolori. L’Europa è in scompiglio: la rete del mondo feudale non è facile da strappare; le fila si stringono con infiniti nodi di solidarietà di classe oltre le frontiere etniche; i feudatari si danno la mano per difendere il loro mondo che s’incrina. Ma già una rete nuova e più solida è sorta fra città e città; anche la giovane borghesia, che si chiama ancora popolo, sta acquistando un suo spirito di classe; e nascono le alleanze, le leghe difensive fra città, per parare i colpi dei signori spodestati e dei cavalieri decaduti al rango di briganti di strada.
    Nella sorda lotta che impegna alcune generazioni e scoppia in tutti i paesi in forme diverse, crolleranno le due grandi autorità universali, il Papato e l’Impero, e nascerà l‘epoca della borghesia mercantile.
    Le prime vittorie spalancano orizzonti radiosi al popolo delle città: le energie prodigiose erompono nell’esaltazione collettiva delle grandi cattedrali del popolo; chiese e palazzo pubblico assieme: luogo di preghiera e di ritrovo, immense per contenere tutto il popolo (allora una città come Parigi contava 120mila abitanti e la Cattedrale ne conteneva 9mila nelle navate e 1500 nelle tribune, pag. 23), per risuonare come un arengario nei giorni di pericolo, come tribunale nei giorni di giudizio, come mercato nei giorni di fiera, come grande teatro per le rappresentazioni drammatiche e le feste carnascialesche (da cui prese le mosse Hugo, ndr.).
    La cattedrale diventa il simbolo della libertà comunale, dell’unione del popolo, il segno tangibile dell’affrancamento dai vecchi vincoli feudali” (pagg.15-17). E risuona il grido di Ruggero Bacone. “Guardate il mondo!” “Da Chartres a Saint Denis a Notre-Dame di Parigi e a Corbeil, i portali a colonne sorgono tutti con una concezione unica, con gli stessi temi iconografici e lo stesso modo di concepire il volume: la scultura gotica è nata, ed è nato l’ornamento capace di legare in armonico passaggio la geometria con la figura umana. Alla base delle rappresentazioni monumentali si alternano le rappresentazioni della vita pratica: i lavori giornalieri e stagionali, retti dalle apparizioni dei segni dello zodiaco. In queste rappresentazioni gustose il popolo diventa materialmente soggetto di rappresentazione e l’inno alla vita diventa preciso: il lavoro acquista il suo riconoscimento” (pag.41).
    Agli affreschi si sostituiscono le vetrate: “Nelle cattedrali la vetrata rappresenta un completamento felicissimo: è il mezzo per sottolineare la potenza umana. Suscita luci cangianti negli interni vasti: crea atmosfere fantastiche. Le vetrate gotiche dei primi tempi sono come un mosaico di vetri colorati: i singoli elementi, tinti nella loro massa vetrosa rigonfia e irregolare, assorbono la luce in grandi macchie incandescenti; il rosso vino si alterna con l’azzurro marino negli sfondi”.
    E poi ci sono le varie distinzioni: la cattedrale segno di potenza in Inghilterra o la cappella palatina della Sainte Chapelle, costruita da san Luigi, un re capetingio, Luigi IX, per ospitare le reliquie della Passione, “è un vero e proprio gigantesco reliquiario di vetro” (pag. 46). Si passa dal gotico fiorito a quello fiammeggiante e insomma in poco meno di un’ora si viaggia con questo libro nei secoli e nello spazio. A dispetto delle fiamme, sempre causate da un innesco. Volontario o meno, si vedrà.

  • NATALIA E IL DIRETTORE

    data: 09/04/2019 19:44

    Va bene, bisogna considerare tutto, l’età, l’amicizia, il fatto che un giornale o in fondo qualsiasi luogo di lavoro, con la frequenza quotidiana, diventa un circolo chiuso, che non tutte le ciambelle riescono con il buco e che scrivere richiede attenzione ma insomma, in tanti anni di carriera, forse soprattutto se sei una firma, qualche sciocchezza scappa e non è il caso d’infierire, d’accordo, non voglio insistere...però. E’ che non capisco proprio certe dinamiche. Per esempio come mai una giornalista che ha condotto per anni l’edizione delle 15 del Tg3 e poi è sparita dal video, ritorni a Lineanotte in versione scolaretta sorridente agli ordini del severo conduttore. Ed ecco cosa succede spesso alle carriere, specie femminili.

    Ma veniamo all’evento clou della settimana. Sabato 6 aprile il Gran direttore compiva 95 anni: un traguardo importante, la Repubblica fa bene a festeggiare Eugenio Scalfari, del resto lo omaggia ogni giorno, a maggior ragione lo fa nel giorno del suo compleanno. Bellissimo il ritratto a matita di Tullio Pericoli, imbarazzante o anche no, dipende, il paragone con Dio di Corrado Augias (che lo replica pure sull’Espresso), un dialogo laico di rispetto reciproco fra Eugenio e Dio appunto, e due sole firme femminili, Natalia Aspesi e Simonetta Fiori che lo definisce “patriarca”. La Aspesi invece lo identifica col “Direttore”: rievoca velocemente come venne fondata la Repubblica nel 1975, con molti transfughi dal Giorno che aveva abbandonato i fasti di Italo Pietra e di come Scalfari inviasse rose rosse alle redattrici quando gli era piaciuto un articolo. “Noi femministe non eravamo contente dell’omaggio” e continua: “Anche a Roma l’accesso al Direttore (rigorosamente con la maiuscola,ndr) era molto ambito e davanti alla sua porta si attendeva una parola e da parte femminile anche uno sguardo: erano tempi di ‘You too’ e le molestatrici non mancavano”.

    Ah, dal “Me too” siamo passate velocemente al “You too”. Come come? Le molestatrici? Cioè parlare col direttore in un giornale, ovviamente per lavoro, significa molestarlo? Sarà che a me le parole “direttore”, “preside” ecc. hanno sempre provocato l’orticaria e che non ho mai provato devozione (conclude così la esimia Natalia, “la nostra devozione rende facile chiamarlo per sempre Direttore”) per nessuno, tranne i miei genitori, ma che vuol dire che si elemosinavano parole e sguardi? Si lavorava, no? Ma non finisce qui.

    Diciamo che la Aspesi non era molto in vena oppure sì, perché nell’ultimo Venerdì, il giorno prima del genetliaco, rispondendo a una lettera in cui un signore o signora (c’è solo il cognome, Mondo) si lamenta delle frequenti scene nei film di minzioni in comune, specie fra maschi, “scene oltretutto spesso lunghe e reiterate”, e ha ragione, la titolare della rubrica “Questioni di cuore” conclude: “Concordo con lei che se ne potrebbe fare a meno ma talvolta hanno un loro significato: per esempio, nell’ultimo film di Walter Veltroni, ‘C’è tempo’, due fratellastri che si sono appena incontrati, uno già uomo, l’altro ancora bambino, iniziano a conoscersi, a capirsi, facendo pipì insieme sui bordi di una strada di campagna”, riuscendo così a fare pubblicità indiretta ma mica tanto a un altro “festeggiato” spesso e volentieri. Ma non sono sicura gli abbia reso un buon servizio… 

     

  • SCATTA L'ORA DELL'HANAMI

    data: 01/04/2019 17:45

    Cercare gli alberi, saperli riconoscere, fotografarli, censirli e in definitiva amarli dovrebbe essere naturale. Come ho sentito giorni fa alla radio, “loro vivono senza di noi, noi senza di loro non viviamo”. La coscienza verde comincia di qui, dal rispetto e dall’amore verso le piante e tutte le creature senzienti del mondo. Quando ammiro un’aiuola di camomilla in fiore, così comune in questi giorni nella mia città, Bari, di fronte a un istituto alberghiero e la vedo lordata di cartacce e bottiglie di plastica, provo la stessa pena che mi danno le immagini di capodogli strozzati da chili di plastica buttati nel mare, trattato come un’immensa discarica.
    Eppure c’è chi si sta dando da fare per diffondere la cultura del verde, chi difende il patrimonio arboreo dapprima italiano e poi mondiale perché una volta che ha cominciato, non si è più fermato. Il suo nome merita più fama, i suoi libri richiedono maggiore considerazione, anche solo perché, sfogliando la sua voce su Wikipedia, ci si accorge che ha scritto davvero tanto.Ormai è un poeta e uno scrittore a tema, una sorta di Plinio dei nostri tempi. Ecco come lo presenta il sito Alpes: “Tiziano Fratus nasce a Bergamo nel 1975. Cresce in Lombardia e Piemonte: con la dissolvenza della propria famiglia naturale inizia a viaggiare, attraversando le foreste di conifera della California e delle Alpi e perfeziona il concetto di Homo Radix, al quale conseguono a pratica dell’Alberografia e la disciplina della Dendrosofia. In vent’anni di lavoro pubblica molti libri fra i quali il romanzo Ogni albero è un poeta, Il Manuale del perfetto cercatore d’alberi, L’Italia è un bosco, Il libro delle foreste scolpite, L’Italia è un giardino (questi ultimi tre presso Laterza costituiscono la Trilogia degli alberi monumentali) e tanti altri fino all’ultimo volume di poesia in forma di foglia, ghirigoro e altro: Poesie creaturali, grazie al quale ne sono venuta a conoscenza in una libreria di Poggiofranco, rione di Bari.
    Tiziano Fratus , citando la filosofa spagnola Maria Zambrano, ha illustrato il senso della sua opera invitando gli astanti a farsi a loro volta cercatori d’alberi. Niente di più facile, specie in questa stagione. A pochi passi dalla libreria ho potuto ammirare un glicine che, radicando in pochi metri di terra, ha coperto con la sua meravigliosa e profumata fioritura cinque piani di un palazzo. “La distanza fra radice e fronda è proporzionale alla distanza fra realtà e pensiero”; “un autore visionario e radicato”, così si definisce Fratus nel suo sito, da consultare. Lo scrittore ha esplorato gli alberi delle grandi città, da Torino a Palermo, da Bologna a Napoli; noi possiamo seguire le sue tracce partendo da casa.
    Per esempio, a Bari, l’amministrazione comunale sta via via sostituendo, con la scusa che fossero ormai vecchi, i maestosi eucalipti di viale Orazio Flacco con alberelli più gestibili dal punto di vista della chioma e delle radici. Ma così si è stravolto un viale che proprio da quei giganti aveva la sua caratteristica, oltretutto anche aromatica, visto che agli eucalipticon la pioggia donano un profumo tutto loro. Preoccupazione per auto e inquilini dei piani alti evidentemente infastiditi dalle foglie che non ho visto a Milano, per esempio in via dei Giardini, dove alberi fanno capanna sulla strada e il marciapiede è sconnesso dalla radici, ma lo spettacolo verde è così bello che basta fare un po’ più di attenzione camminando.
    Oppure, come ho appreso da Geo & Geo, meritoria trasmissione di Raitre, per vedere la fioritura dei ciliegi, l’Hanami come la chiamano gli orientali, non è necessario recarsi in Giappone tra domani e dopodomani (quando, secondo le previsioni, si avrà il clou di questo effimero e stupendo spettacolo) , perché basta andare all’orto botanico di Roma, aperto anche di domenica, dove da circa 40 anni c’è un settore giapponese, coltivato secondo le regole del giardino nipponico. Oppure venire in Puglia, da oggi fin verso la metà del mese, poiché forse non tutti sanno che proprio in provincia di Bari il ciliegio trova la sua terra d’elezione tanto che le ciliegie dei celebri cioccolatini “Mon cheri” provengono dalla zona che circonda il capoluogo.

    Cosa sarebbe il nostro pianeta senza piante e animali? Una landa desolata, una luna desertica, ecco perché dobbiamo fare di tutto per conservarli e proteggerli. Già conoscerli è un buon inizio. 

  • 200 ANNI FA, L'INFINITO

    data: 21/03/2019 21:07

    E’ bello che un poeta scriva su un altro poeta e così è nato: “E come il vento” (Fazi editore, 15 euro, 166 pagg.), in cui Davide Rondoni commenta verso per verso “L’infinito” di Giacomo Leopardi che compie proprio oggi, giornata mondiale della Poesia, 200 anni. L’altro giorno il poeta bolognese ha presentato il suo libro al Politecnico di Bari, nell’ambito di un programma studiato con il rettore Eugenio Di Sciascio e con il regista Gennaro Nunziante. Infatti, “la cultura è una”, non è sbagliato, anzi, riflettere di poesia in un ambito di soli numeri. Come ha ricordato Rondoni, arte vuol dire proprio tecnica, saper fare e comporre versi in fondo rimanda alla parola “componimento”: il poeta mette insieme dei segni e li interpreta. E’ ciò che fa Leopardi nell’Infinito, partendo da una semplice siepe dietro casa sua.

    Nunziante, con l’irriverenza di chi ha contribuito a creare la comicità di Toti e Tata e di Checco Zalone, ha detto che al liceo fu rimproverato dalla professoressa quando le spiegò che per lui Leopardi, con questi versi, era solo in cerca di una ritirata. Una boutade, mentre poi, come la musica di Bach a cui pure è dedicata questa giornata d’inizio primavera dato che nacque il 21 marzo 1685, questa poesia, così infinitamente bella, si presta a tantissime osservazioni.
    Rondoni ha cominciato recitandola a memoria: non è difficile, sono pochi versi, ci possono riuscire in molti. A cominciare dal titolo: ci dispiace che le cose, e soprattutto le persone finiscano, ci dispiace che il tempo passi e non lo si possa fermare. E’ una sensazione che aborriamo: cosa ci importa che esistano le nevi perenni se poi non si riesce a trattenere chi amiamo? Se la ripete spesso, questa poesia Rondoni, quando viaggia: il vento per esempio, da dove nasce? Cosa ne sappiamo? “E come il vento odo stormir tra queste piante” ha un rimando biblico, per un cattolico come Rondoni, ma è di sicuro un concetto poetico, che sta alla base di tanti rimandi (a me fa venire in mente la canzone di Nada quindicenne, “Ma che freddo fa”, scritta da Franco Migliacci che è un poeta. Far poesia con tutto. Migliacci anche con un golfino: “Il pullover che m’hai dato tu, sai amore possiede una virtù)…”.
    Di certo il concetto di infinito rimanda all’àpeiron, al “senza confine” dei greci, che avevano paura dell’ignoto. E pure Giacomo si spaventa: “Ove per poco il cor non si spaura”. Invece, a sorpresa, termina con un ossimoro, dopo una rapida cavalcata sulle stagioni che nemmeno Blade runner: “Il naufragar m’è dolce in questo mare”. Com’è possibile? Dolce naufragare, e in quale mare? Il mare della conoscenza, che un erudito come Leopardi, all’epoca più famoso in Germania quale fine grecista che in Italia, ben conosceva o quale altro?
    O, infine, non c’è bisogno di capire, basta abbandonarsi al suono del verso? Rondoni non dà risposte, a meno di non leggere il suo libro: “Una volta un lettore mi ha detto di non capire le mie poesie e io gli ho chiesto: Ma scusi, perché lei sua moglie la capisce?”. E ricordava, Rondoni, la sfortuna di Leopardi che andò a Napoli in cerca di aria buona per i suoi malanni e vi trovò la morte a causa di un gelato di troppo. Napoli comunque lo accolse benissimo, come illustra il film di Martone e come rievocò Francesco De Sanctis nelle sue Memorie.
    Sono versi che si leggono e s’interpretano a seconda del momento, ognuno ne fa quello che vuole, sono versi che indicano un trasporto. Parola che sta a suggerire non solo un moto a luogo ma anche un moto del cuore. “Mio nonno diceva che si rivolgeva a una ragazza che gli piaceva così: Signorina, sento del trasporto verso di lei , così il camion potrebbe sostituire nelle icone i cuoricini”. E si torna all’irriverenza, a patto però di ripeterseli questi versi, a partire da una parola così bella, “infinito”, intraducibile come i movimenti musicali che sono espressi ovunque in italiano, “piano, pianissimo, fortissimo”….

  • UNA ZUPPA DI PATATE
    PER L'AMICO VAN GOGH

    data: 14/03/2019 20:46

    Ho visto la mostra multimediale su Van Gogh, Vincent Van Gogh, il pittore olandese nato il 30 marzo 1853 e morto in Francia, in Provenza, il 29 luglio 1890: l’ho vista a Bari, dove vivo, al teatro Margherita finalmente restaurato e trasformato in una stupenda galleria d’arte. Ero scettica, all’inizio. Non volevo vederla questa mostra, perché non ci sono i quadri originali, e non ci sono nemmeno delle riproduzioni, però ho dovuto ricredermi. Perché sulle pareti sono proiettati, come enormi diapositive, dei particolari dei quadri di Vincent, che sarebbe meglio conoscere nella loro reale dimensione e io ne ho una vaga idea, per averli comunque visti, rendendo bene cosa per lui significasse dipingere.

    Lui, come Flaubert diceva di Madame Bovary, scrisse che i girasoli erano sé stesso. Ora, essere a contatto con il colore dispiegato a piene mani, guardare da vicino, ingranditi, i papaveri nei suoi campi di grano, osservare i suoi disegni, leggere le innumerevoli lettere al fratello Theo – perle preziose di saggezza, da cui non si capisce proprio come potesse essere definito pazzo – essere circondati da tanta vangoghità, procura una sensazione di vera empatia. Di gioia. Tu sei con Vincent che cala dalla brumosa Olanda nella solare pianura mediterranea, costellata di ulivi e campi di grano e ti danni, vedendo la misera stanzetta, perfettamente riprodotta, in cui viveva, al pensiero che questo genio, indeciso fino a 30 anni su quale strada intraprendere, se il pastore di anime come il padre o il mercante o chissà cos’altro, quando si scopre all’improvviso pittore, lottò per sette lunghi e brevissimi anni con la miseria perché i suoi quadri, nonostante il fratello li pubblicizzasse, non si vendevano. Eppure Vincent era felice: dipingere, disegnare era tutto per lui ed era felice nel farlo. Immersi in questo tripudio di verde, azzurro, giallo, rosso, ocra, questo lo si avverte e si esce da questa mostra con la voglia di avere ancora colore, altro colore, sempre colore!
    Allora io, che sono rimasta colpita, fra le altre cose, da una frase banale ma vera del “folle” Vincent, quando scrive che per lavorare bene bisogna abitare in una bella casa e mangiare decentemente, gli dedico un piatto ispirato a quel “Mangiatori di patate” che ha raggiunto cifre stratosferiche nella quotazione artistica (se solo Vincent avesse potuto godere di un po’ di successo!) e che ho tratto dal settimanale della Repubblica, Donna, quello di sabato scorso. Una ricetta che comincia con un bel brodo vegetale: in un litro e mezzo d’acqua si mettono una bella cipolla, una patata, delle coste di sedano, una carota, una foglia d’alloro - quest’albero meraviglioso, così aromatico e splendente, sempreverde - e si fa andare a fuoco vivace per un’ora e mezzo. Si sala solo alla fine e si aggiunge un po’ d’olio. Si tratta di una zuppa davvero insolita e buona, di Maria Giaccone, che ringrazio. Quindi servono un po’ di patate (la ricetta dice 200 grammi) da tagliare a dadini, senza buccia e da rosolare in una padella dal fondo spesso con tre cucchiai d’olio evo (come faremo con la xilella? Per me vale solo l’olio pugliese…) e tre spicchi d’aglio, già scaldati e non bruciati, mai! Bisogna girare spesso le patate col cucchiaio, per 5 e più minuti . Si sciacquano anche 200 gr circa di lenticchie e si aggiungono alle patate, lasciandole tostare anch’esse per un po’ (5-10 minuti), sempre rigirando, attenzione! Quindi si passerà il tutto in bel tegame capiente aggiungendo della menta tritata (fantastica erbetta molto resistente, la ricetta spiega: 10 rametti) e il brodo ben caldo: la zuppa andrà cotta per 45 minuti canonici, aggiungendo il brodo necessario.
    Poi, il colpo di scena: si toglie l’aglio e la menta oppure li si lascia (io li ho lasciati), si aggiunge dell’altra menta, un vasetto di yogurth bianco e il succo di un limone filtrato… Yogurth e limone? Non avendo il primo, ho usato della panna montata anche un po’ dolce, ho osato, ho rimescolato il tutto, aggiustato di sale e guarnito con delle mandorle tritate leggermente tostate (Giaccone scrive nocciole, ma avevo le mandorle…). Beh, caro Vincent, avrei voluto ci fossi anche tu, a gustare questa fantastica zuppa. Di sicuro gli ingredienti, tutti fantasticamente vegetali, sarebbero finiti sulle tue tele con i colori a olio di cui eri padrone!

  • 8 MARZO CON JANE EYRE

    data: 07/03/2019 17:44

    Alla vigilia dell’8 marzo non è male ricordare Jane Eyre, il grande romanzo di Charlotte Bronte, che lo pubblicò nel 1847 sotto uno pseudonimo maschile, Currell Bell. L’ho letto tardi, in verità. E mi sono sempre chiesta, da allora, perché non l’abbia letto prima e soprattutto perché non lo facciano leggere come libro di testo nelle scuole medie. Il motivo è semplice: al netto delle cupe trasposizioni cinematografiche, questo romanzo è autenticamente femminista. La sua eroina è orgogliosa, autonoma, passa indenne attraverso un collegio tremendo - la cui descrizione sta alla pari di quella di Dickens in Oliver Twist - e non esita a lasciare la casa in cui ha trovato dimora e benessere non appena si accorge che il suo amore per il misterioso Rochester, il suo datore di lavoro, potrebbe apparire interessato.
    Ne passa di tutti i colori e poi torna a Thornfield hall, la magione denominata a ben veduta "campo di spine", riuscendo ad aver ragione della prima moglie dell'amato, Bertha Mason, pazza e perciò rinchiusa in un'ala nascosta della casa. Come Rebecca della Du Maurier (inglese pure lei, essa incombe sul suo destino, fino all'eliminazione nell'incendio finale. E al richiamo all'ordine: perché alla fine Jane riesce, sì, a sposare Rochester, ma quando questi, fortemente menomato e reso cieco dalle fiamme, rimane in sua completa balìa. Il che forse è il desiderio inconscio di tutte le persone innamorate: fare dell'altro ciò che si vuole. Posto che l'amore sia, come in gran parte è, una malattia. Tra l'altro nella casa in cui Jane, derelitta e vagante per la brughiera, approda dopo essere fuggita dalla magione e trova ospitalità, viene adombrata la stessa famiglia Bronte composta, come si sa, di scrittrici - Emily, una sorella di Charlotte, ha scritto Cime tempestose - e di artisti, e anche molto malandata, perché nelle gelide lande dello Yorshire all'epoca la tubercolosi imperversava.
    Ora, a ben vedere, questo romanzo è solo apparentemente innovativo. A parte la maestria dei colpi di scena che lo fanno leggere aspettandosi sempre novità, attaccati alle pagine, e la suspence che le avventure di Jane disseminano a forti dosi, in fondo che cosa si propone a una donna? Quello che ai tempi si aveva a disposizione è, in fin dei conti, non molto di più di ciò che ancor oggi si prospetta alla metà del cielo. Una donna istruita, come la Bronte stessa era, poteva al massimo aspirare a un ruolo di istitutrice, ovvero d'insegnante. Ai suoi tempi, in pieno Ottocento, le scuole erano in gran parte private e non si disdegnava l'impartimento di lezioni a domicilio. Se poi, al termine di questo tirocinio in fondo sempre servile, la donna era così intelligente e abile da contrarre un buon matrimonio (Austin docet) tanto meglio, altrimenti si apriva il vasto deserto della zitellaggine. Ovvero il peregrinare di casa in casa, alle prese con alunni intolleranti e viziati.
    Altro personaggio interessante, nel romanzo, è di sicuro Bertha Mason, la pazza, una portoricana, che testimonia anche dei trascorsi da mercante di schiavi del mitizzato e circonfuso da un alone di segretezza Mr Rochester. Questa prima moglie, appartenente a un'altra cultura e ben presto dimenticata dal marito, diventa squilibrata e terrorizza gli abitanti della casa anche se il suo principale bersaglio è proprio il marito, che tenta di uccidere una prima volta appiccando il fuoco nella sua stanza da letto, dove accorrerà Jane a salvarlo.

    C'è una scrittrice dominicana, Jean Rhys, nata il 24 agosto 1890 e morta in Inghilterra il 14 maggio 1979 - mentre Charlotte Bronte è vissuta dal 21 aprile 1816 al 31 marzo 1855 - che ha preso a cuore le sorti di Bertha e ha scritto Il gran mare dei sargassi, un romanzo che quando uscì, nel 1966, ebbe un enorme successo. Qui si narrano le vicende di questa immaginaria antieroina brontiana prima che arrivasse a Thornfield hall. Rhys riporta la cronaca di questo matrimonio dal punto di vista di Antoinette, ribattezzata Bertha dal marito, in una chiave anticolonialista e antipatriarcale, proprio quelle prospettive che Charlotte Bronte, a dispetto dei suoi stessi antefatti, finisce per abbracciare. Un libro che andrebbe sicuramente ristampato mentre ora in libreria della Rhys si trova Buongiorno mezzanotte, edito da Adelphi, ambientato nella Parigi degli "anni folli". I romanzi nascondono sempre forti indizi sociologici. Leggerli vale quanto una lezione di storia.  

  • CHIESA CONTRO PEDOFILIA

    data: 24/02/2019 18:00

    Si tratta decisamente di una svolta: il fenomeno, come già denunciava un film di Tom McCarthy del 2015, Spotlight (opportunamente trasmesso da Raitre giovedì scorso), ha assunto dimensioni tali che la Chiesa non può più ignorarlo. E il Papa, nell’Angelus di questa mattina, ha avuto parole incisive: “Si è concluso qui in Vaticano un incontro molto importante sul tema della protezione dei minori. Erano convocati i patriarchi, i presidenti di tutte le conferenze episcopali, i capi delle Chiese orientali cattoliche, i rappresentanti dei superiori e delle superiore delle congregazioni religiose e diversi miei collaboratori nella curia romana. Come sapete, il problema degli abusi sessuali nei confronti di minori da parte di membri del clero ha suscitato da tempo grave scandalo nella Chiesa e nell’opinione pubblica, sia per le drammatiche sofferenze delle vittime sia per la ingiustificabile disattenzione nei loro confronti e la copertura dei colpevoli da parte di persone responsabili nella Chiesa. Poiché è un problema diffuso in ogni continente, ho voluto che lo affrontassimo insieme, in modo corresponsabile e collegiale, noi pastori delle comunità cattoliche in tutto il mondo. Abbiamo ascoltato la voce delle vittime, abbiamo pregato e chiesto perdono a Dio e alle persone offese, abbiamo preso coscienza delle nostre responsabilità, del nostro dovere di fare giustizia nella verità, di rifiutare radicalmente ogni forma di abuso di potere, di coscienza e sessuale. Vogliamo che tutte le attività e i luoghi della Chiesa siano sempre pienamente sicuri per i minori; che si prendano tutte le misure possibili perché simili crimini non si ripetano; che la Chiesa torni a essere assolutamente credibile e affidabile nella sua missione di servizio e di educazione per i piccoli secondo l’insegnamento di Gesù”.
    Bisogna combattere, ha sottolineato il Papa, “questa gravissima piaga della violenza nei confronti di centinaia di milioni di minori, bambine e bambini, ragazze e ragazzi, in tutto il mondo”. Non solo, ma qualche giorno fa il Papa ha anche denunciato il fatto che molte suore, nel mondo, sono state violentate dai loro superiori. Dunque Francesco sta prendendo una netta presa di posizione contro il dilagare della violenza e ha paura. Infatti, a conclusione dell’Angelus, ha detto: “E per favore, non dimenticatevi di pregare per me”.
    Si sta assistendo a qualcosa di mai visto: nel telegiornale di Raiuno, la sera tardi, è stato intervistato di fronte a san Pietro un ragazzo vittima di abusi; su Rainews di domenica 24 è stata raccolta la testimonianza di Phil Saviano, 63 anni, l’americano di Boston che ha un suo sito di testimonianze e che per primo, come riportato nel film, davvero un film esemplare, ha denunciato gli abusi subiti da adolescente. Persino don Vinicio Albanesi ha confessato di essere stato vittima di abusi in seminario. E’ una valanga che non si sa quando si potrà fermare: come nel film, esattamente così. Al Boston Globe avevano avuto delle denunce sin dal lontano 1976, riprese poi negli anni, ma la potente Chiesa locale, nelle vesti del cardinale Bernard Francis Law (del tutto fuorilegge invece, a dispetto del nome...) aveva insabbiato tutto. O, come ammise lo stesso caporedattore Walter Robby Robinson (interpretato da uno straordinario Michael Keaton), non si diede il giusto peso a lettere anonime o firmate da Phil Saviano, considerato un fissato.
    Finché, un bel giorno, nel 2001, non arrivò un nuovo direttore, Martin Baron, ebreo, e la redazione d’inchiesta fu convogliata a lavorare sugli abusi sessuali dei preti. Per scoprire poi che le vittime erano quasi sempre appartenenti a famiglie bisognose che la Chiesa aiutava concretamente e che, come nel caso in cui ci furono ben sei bambini violati in un solo nucleo familiare, erano coinvolte a tal punto economicamente da rinunciare a qualsiasi denuncia. Si era partiti da 9 preti, poi diventati 30 poi addirittura 90. E quando fu pubblicato, nel 2001, il primo articolo, le telefonate in redazione non finivano più, fino a coinvolgere l’intero mondo.
    E adesso la Chiesa ha deciso di por fine a questa piaga: ma come ha detto il cardinale tedesco Reinhard Marx , molti dossier sono andati distrutti e spesso i preti responsabili degli abusi vengono semplicemente trasferiti. Ed ecco allora che la rete viene in soccorso dei parrocchiani. Infatti, qualche tempo fa, in quella grande trasmissione d’inchiesta che è “Chi l’ha visto?”, un gruppo di madri, indagando in Rete sul nuovo parroco, si accorse che questi era arrivato da loro perché trasferito da un luogo in cui aveva abusato di minori.
     E ancora si sa molto poco: se il fenomeno è mondiale, come mai gli abusi in Italia denunciati sono così pochi? In Puglia per esempio si ebbe notizia tempo fa solo di una parrocchia, in uno sperduto paesello della Daunia, Pietramontecorvino, 2656 abitanti in provincia di Foggia. Qualche altra segnalazione nel Salento, e poi? Più niente? Possibile? Quali silenzi, quali connivenze ancora si nascondono?
    Il cardinale Marx e le stesse associazioni delle vittime dicono che nonostante l’impegno del Papa, concretamente si stia facendo molto poco: “I dossier che avrebbero dovuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili, sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio”. Si è invocato spesso il segreto d’ufficio o la legge sulla privacy ma, rileva Marx: “I principi di presunzione di innocenza e di tutela dei diritti personali e la necessità di trasparenza non si escludono a vicenda. Anzi, è proprio il contrario”.

    Le stesse dimissioni di Benedetto XVI, nel 2013, sono state attribuite a stanchezza ma in realtà si sapeva che suo fratello Georg Ratzinger, che è ancora vivo, ha compiuto da poco 95 anni, direttore per 30 anni del coro di voci bianche di Ratisbona, aveva coperto per anni (dal dopoguerra fino ai Novanta del secolo scorso) abusi sui piccoli cantori. E parliamo di 547 bambini! Reato caduto in prescrizione. Lo stesso Georg Ratzinger fu accusato di aver picchiato numerosi bambini. C’è da chiedersi come fanno ancora le famiglie cattoliche ad affidare i loro bambini ai preti anche per il semplice catechismo... Il cardinale di Boston, Bernard Law, come fu punito? Fu mandato a Roma, a Santa Maria Maggiore, dov’è morto il 20 dicembre di due anni fa. e pure fra il coro delle voci bianche del Vaticano ci sono stati scandali. 

  • PARLA LAGERFELD

    data: 21/02/2019 08:45

    C’è una magnifica intervista, trasmessa da Rai5 il 12 maggio 2017 e poi replicata più volte, di Karl Lagerfeld, lo stilista scomparso martedì all’età di 85 anni. A porgli le domande il regista Loic Prigent, che aveva già girato notevoli documentari sulla moda e in particolare sulla casa Chanel, che Lagerfeld dirigeva con piglio sicuro dal lontano 1983. Ma non solo: infatti aveva anche un marchio suo, venduto nel 2004 e ha fatto da braccio destro alle cinque sorelle Fendi (e prima alla loro madre) per oltre 50 anni, e poi si è identificato con Chanel. Ne è stato il vero erede: in pratica Lagerfeld firmava 12 collezioni all’anno.

    Grazie a internet e alla possibilità di assistere alle sfilate d’alta moda in diretta streaming, negli ultimi tempi si è potuto anche ammirare la bellezza degli allestimenti che facevano di ogni sfilata targata Lagerfeld un evento teatrale. Per non parlare delle collezioni cruiser, di soIito presentate in luoghi esteri, come quando si andò a Cuba, nel corso principale dell’Avana, con gran finale trionfante di musica di bande. Il padiglione belle époque dell’esposizione universale di Parigi, dove si svolgevano invece i défilés di rito, è stato di volta in volta trasformato in un enorme supermercato, in una rampa di lancio di razzi tipo Cape Canaveral, in un bosco autunnale colmo di foglie secche, in una vera spiaggia con tanto di sabbia e di acqua fino all’ultimo evento, a gennaio scorso, in cui le modelle mostravano gli abiti, sempre nuovi eppure sempre stile Chanel, in un grande giardino di stile italiano. E prima ancora c’era stata una collezione invernale ambientata sulle rive della Senna, con tanto di botteghe di libri antichi. Una grande passione, quella di re Karl, re della moda, per i libri: si dice ne avesse 300mila. Non era uscito alla fine della passerella, come al suo solito, a gennaio, vestito come un personaggio delle fiabe di Hoffmann - pantaloni e giacca neri attillati, colletto della camicia alto, fermacravatta gioiello, codino e guanti a mezze dita - e si diffusero le voci di una sua malattia.

    Nel film di Prigent le domande erano intervallate da pause nere, come un battito di ciglia che tolga la visione e ogni tappa della vita dello stilista. Cominciata il 10 settembre 1933 ad Amburgo - anche se lui non ha mai fatto chiarezza sulla data oscillando spesso dal 1935 al 1938 - era raccontata con un disegno. Ecco, il meraviglioso di quel film è proprio vedere l’abilità del disegnatore, dalla casa dei genitori, al suo legame con la madre che si chiamava Elisabeth Bahlmann, nome affine a Balmain da cui andrà a lavorare, al suo arrivo a Parigi, ai primi modelli, tutto raccontato con un foglio e dei pennarelli colorati.

    Chanel? “Sei pazzo - mi dicevano- è un marchio finito, noioso, per vecchie miliardarie...” E invece lui accettò la sfida e con pochi tratti disegna nel film le caratteristiche: perle, camelia, borsa, giacca a quattro tasche, un canone su cui variare la sua illimitata fantasia. Fino all’ultima domanda: “Ci disegna il suo monumento funebre”? Karl si rifiuta, inorridito: “Cosa? no, no, che orrore...vorrei sparire, puf, come nella foresta, no no no...”

    Rai5, che spesso ripete fino alla noia i film che propone, dovrebbe oggi riproporre questo “Lagerfeld racconta Lagerfeld” di Prigent, come ha fatto SkyArte mercoledì sera trasmettendo “A lonely king” di Thierry Demaizière e Alban Teurlai. La sua vita privata è simile a quella di molti stilisti. Lagerfeld però, dopo una gioventù agitata, si è tuffato a capofitto sul lavoro e ha lasciato una cospicua eredità alla sua gatta Choupette, per cui aveva una vera passione. E pensare che gliel’aveva lasciata in custodia un amico solo per poco, ma alla fine non gliela restituì: l’ha fotografata migliaia di volte su Instagram e ne ha fatto finte d’ispirazione per borse e altri oggetti. Sul sito ufficiale di Chanel si legge in inglese, sotto un suo grande ritratto in bianco e nero: “E’ con profonda tristezza che la casa Chanel annuncia la morte di Karl Lagerfeld (....) Riguardo a Gabrielle Chanel, egli disse: “Il mio compito non è imitarla ma fare ciò che lei avrebbe fatto. Il bello di Chanel è che è un’idea che si può adattare a molte cose”. Una prolifica mente creativa e un’immaginazione senza limiti, Karl Lagerfeld ha esplorato molti orizzonti artistici, dalla fotografia ai film”.

    Si ricorda con rimpianto anche la sua arguzia e la sua autoironia: “Non abbiamo perso solo un amico ma tutti noi abbiamo perso una straordinaria mente creativaa cui era stata data carta bianca nel reinventare il brand nel 1980”. A succedergli è stata nominata Virginie Viard, braccio destro di Lagerfeld fin da quando, appena borsista nel1987, entrò in Chanel. Lo spettacolo deve continuare, come si dice, ma senza un suo prezioso protagonista...  

  • SILVIA AND COMPANY

    data: 07/02/2019 21:28

    Il 2 febbraio 1922 Sylvia Beach firmò la prima edizione dell’Ulysses di Joyce: ancor oggi non sono molte le editrici, e Sylvia inizialmente era una libraia. Eppure fu tanto convinta della validità del romanzo da prendere il coraggio a due mani e diventare editrice. Del resto la 31enne Sylvia non andava a caso, anzi aveva le idee ben chiare e incontrarla, per Joyce, da poco trasferitosi da Trieste a Parigi, fu una fortuna.
    Sylvia Beach aveva aperto da qualche anno sulla Rive gauche, nel Quartiere latino, la sua celebre libreria “Shakespeare and Company”. Figlia di un reverendo presbiteriano, nata a Baltimora il 14 marzo 1887, la Beach conosceva l’Europa perché l’aveva visitata spesso al seguito del padre. Una volta deciso cosa avrebbe fatto da grande, si stabilì a Parigi, come seconda scelta. Infatti avrebbe voluto aprire una libreria a New York, senonché i prezzi troppo cari la fecero desistere. Una volta a Parigi, in quegli “anni folli” che ne fecero la capitale del mondo intellettuale, a cui Woody Allen ha dedicato un fantasioso film, “Midnight in Paris”, telegrafò alla madre la sua decisione e la signora Eleanor le inviò tutti i denari che aveva, per consentirle di aprire la libreria.
    Il periodo che va dalla Fiesta mobile dell’amico Hemingway all’occupazione nazista, alla guerra e al ritorno alla democrazia, vedono in primissima fila Sylvia e la sua compagna Adrienne Monnier, già libraia a sua volta nonché scrittrice, di poco più giovane, che morirà suicida nel 1955. La congrega degli americani a Parigi, per dirla con il regista Vincente Minnelli e con George Gershwin, era folta e qualificata. Sylvia pubblicò anche il primo libro di Hemingway, Tre storie e dieci poemi del 1923.
    L’incanto di quei primi anni non si ripeté, e non poteva ripetersi. Incontrare Joyce a una festa, rimanerne folgorata, battersi per il suo chilometrico romanzo osteggiato dalla censura e pubblicarlo proprio nel giorno del 40esimo compleanno dello scrittore irlandese e nel bel mezzo di un trasloco della libreria al 12 di rue Odeon, sono cose che accadono una sola volta nella vita. Lo stesso Joyce non si comportò bene, perché cambiò editore nel 1932 - la ben più famosa Random House - lasciando la Beach in serie difficoltà economiche, tant’è che la libreria fu costretta a chiudere, dato che già col 1929 le vendite calarono sensibilmente e il cambio non più favorevole, tra le altre cose, determinò la fuga degli stranieri. Beach non lasciò Parigi ma, in quanto americana, fu fatta prigioniera, subì sei mesi di campo di concentramento e, quando tornò in città, dovette nascondersi.

    Ultimo aneddoto elettrizzante, quando nel 1944 Hemingway, memore delle sue amiche, andò a trovarle e disse loro: “C’è qualche problema?”. “Sì, Ernie, ci sono i cecchini qui intorno, le strade sono pericolose”. Hemingway scese dalla jeep, andò sui tetti parigini con i suoi commilitoni e fece fuori i nazisti che minacciavano i passanti. Il Maggio no, non fece in tempo a vederlo Sylvia, che morì il 5 ottobre 1962 (è sepolta a Princeton), non senza aver prima scritto le sue memorie. Sparite per un bel po’ ma che adesso Neri Pozza ha opportunamente ripubblicato con il titolo che compete loro: Shakespeare & Company

  • SISSI, LA DONNA CHE AVEVA
    SBAGLIATO SECOLO

    data: 29/01/2019 18:39

    Adorno ha scritto che dopo Auschwitz è impossibile comporre poesia. Invece, per fortuna, la poesia c’è ancora. Ma, quanto ai pregiudizi antisemiti, è imbarazzante leggere autori d’indubbio valore e scorgervi tracce di un persistente pregiudizio contro gli ebrei. Fino al caso più noto, quello di Shakespeare e del Mercante di Venezia, città che peraltro istituì per prima il ghetto, anche se il monologo di Shylock è ancor oggi un deterrente contro il razzismo. Oppure basta leggere “La famiglia Moskat” del grande Isaac Bashevis Singer per rendersi conto del terrore che attanagliava gli ebrei di Varsavia nel passaggio cruciale dall’Ottocento al Novecento, fino alla catastrofe.
    Ma c’è stata una donna, una grande donna, che questi pregiudizi li ha combattuti. Una donna la cui immagine, nella biografia che le ha dedicato una valente scrittrice francese, Nicole Avril, si staglia come un diamante sulla classe regnante dell’Ottocento. Una donna che, come disse Paul Morand, aveva sbagliato secolo: sarebbe dovuta nascere in quello successivo. L’immagine che di lei ci rimanda Avril, una storica che sa il fatto suo, è ben lontana da quella dei film di Ernst Marichka, film pure impeccabili per la perfetta ricostruzione d’ambiente e per l’attrice che giustamente ne ha derivato fama e onori, Romy Schneider. Perché l’imperatrice Sissi, ovvero Elisabetta di Baviera - è di lei che si tratta - non fu solo l’ultima imperatrice degli Asburgo, così come sua sorella Maria Sofia fu l’ultima regina delle due Sicilie. Non fu solo la giovane sposa che cambiava un paio di scarpe al giorno. Ma fu anche una donna a cui la vita non risparmiò alcun dolore.
    Primo fra tutti, quello di vedersi sottrarre i figli dalla suocera - che era anche sua zia di primo grado - per essere educati alla rigida maniera di corte, tanto che la primogenita Sofia morì a soli due anni di scarlattina, e la madre l’aveva vista ben poco. Il terzogenito Rodolfo si suicidò con l’amante, poco più che trentenne, il 30 gennaio 1889 a Mayerling, in quel lugubre casino di caccia nei dintorni di Vienna, minato dalla sifilide, la malattia che corrodeva dall’interno l’“Austria felix”, in cui le donne erano considerate nient’altro che strumenti di piacere.
    Elisabetta, che non si rassegnò a essere una rigida regnante all’ombra dell’imperatore, aveva avuto un ebreo ungherese come istitutore privato, nel castello di Possenhofen dove viveva libera come Heidi, E sull’Ungheria concentrò tutta la sua attività diplomatica, diventandone l’amata sovrana. Andava a cavallo, ma non per hobby: era proprio un’amazzone spericolata. Viaggiava per tutta l’Europa. Le avevano perfino regalato un treno tutto per lei. Aveva previsto la fine di un impero retrogrado e beghino. La amavano ma, vedendo che stava ben poco a Vienna, dove imperversava l’antisemitismo, ne parlavano anche male. Lei non se ne curava: e correva fino ad Amburgo, dalla sorella di Heine, il poeta ebreo che prese a modello per i suoi versi, di cui non si parla mai e che lasciò in una fondazione svizzera a beneficio dei profughi. Fece erigere anche una statua di Heine all’Achilleion, la sua villa di Corfù che finì comprata da Guglielmo II. E stava più spesso a Budapest, a colloquio con i suoi amici ebrei, dato che l’Ungheria era a stragrande maggioranza abitata da ebrei, molto più che a Vienna governata da un sindaco, Karl Lueger, talmente antisemita da fungere da modello al folle imbianchino che avrebbe ordinato lo sterminio di massa.
    L’imperatore Francesco Giuseppe, il marito di Sissi, intanto, doveva vedersela con un reazionario come Napoleone III, alleato di Cavour e di Bismark, fino alla battaglia di Sadowa. Un evento da noi poco studiato, ma si può dire che da quel 26 giugno 1866 cominciò l’irresistibile ascesa della Germania, non fermata dalla guerra con la Francia e nemmeno dal massacro della prima guerra mondiale. Una battaglia disastrosa per l’Austria, come le altre successive sul fronte italiano, fino all’attentato di Sarajevo, il 28 giugno 1914. Quel giorno il nipote di Francesco Ferdinando fu ucciso e si compì la profezia per la quale gli Asburgo, cominciati con un Rodolfo, sarebbero finiti con un Rodolfo. Allora però Sissi era già morta, uccisa da un anarchico italiano, un uomo abbandonato dalla madre in tenera età, un violento che cercava notorietà con l’assassinio di un personaggio illustre. Cosa che accadde dopo che Sissi era stata in visita a Ginevra alla baronessa Rotschild, che aveva la più incredibile collezione di fiori del mondo.

    Nicole Avril, l’autrice di un’avvincente biografia di Sissi che ha raggiunto una trentina di edizioni (la si trova negli Oscar Mondadori), sembra quasi essere presente ai fatti. Descrive attimo per attimo ciò che accadde fino al fatale imbarcadero dove Sissi, con la sua dama di compagnia, sta per tornare a Montreux. E’ senza scorta (lei non la voleva) quando viene incrociata da Luigi Lucheni, 25 anni, ligure, che pare averle solo sferrato un pugno. E invece l’ha ammazzata con uno stiletto fabbricato da lui stesso, un’arma tanto rudimentale quanto infallibile. Sissi muore poco dopo: di sabato, 10 settembre 1898. Circa tre mesi dopo, il 24 dicembre, avrebbe compiuto 61 anni. Era nata di domenica a Monaco di Baviera nel 1837. 

  • "DIRITTI", IL CASO-ZIVAGO

    data: 19/01/2019 14:29

    C’è stata recentemente la scadenza dei diritti d’autore, per cui molte opere, non coperte dal copyright, possono essere rieditate. La materia strettamente legale resta comunque piuttosto complicata. Non è proprio una novità. Per capire come vanno le cose in questo campo e come sia determinante la personalità dell’editore, almeno ai tempi in cui non c’era internet, che ha rivoluzionato tutto, basta leggere “Senior service”, il magnifico libro che Carlo Feltrinelli ha dedicato a suo padre Giangiacomo, sempre rifornito nelle librerie eponime.
    Nel capitolo 4 di questo volume, scritto con autorevole sapienza e fine ironia, si tratta dell’affaire-Zivago, ovvero il capolavoro dello scrittore ebreo russo Boris Pasternak che sarà insignito del premio Nobel nel 1958. Feltrinelli, trentenne, fondò la sua casa editrice nel 1955. Subito dopo lo contattò Sergio D’Angelo, direttore della libreria del Pci a Roma, per segnalargli lo straordinario romanzo di un poeta russo, sconosciuto in Occidente, Pasternak appunto, allora già oltre la sessantina e non iscritto al partito, inviso dunque alla dirigenza sovietica. Nell’estate del 1956 il manoscritto del Dottor Zivago fu consegnato a Feltrinelli,  a Berlino. Ma non dall’autore, che non poteva uscire dall’Unione Sovietica e non conobbe mai di persona il suo editore, sebbene fra i due ci fosse un fitto scambio epistolare.
    Feltrinelli capì subito l’importanza dell’operazione e cominciò immediatamente la traduzione: “Gli autori russi, dopo la prima pubblicazione in Unione Sovietica, non hanno la protezione del copyright. Iniziando la traduzione del manoscritto avrei avuto la possibilità di pubblicare contemporaneamente all’editore sovietico e di assicurarmi il copyright per l’opera nell’Occidente”. Non aderendo l’Urss alla convenzione di Berna sul diritto d’autore, in Occidente il romanzo poteva essere pubblicato senza contratto e riconoscimenti economici. Ma se la traduzione fosse avvenuta nei 30 giorni dall’uscita in Urss, allora si sarebbe ottenuta anche l’esclusiva. Il traduttore c’era ed era Zveteremich.
    Tutto risolto? No, perché nel frattempo in Urss sopravvenne la crisi d’Ungheria, con la repressione, nel novembre 1956, della rivolta di Budapest capeggiata da Nagy. Questo indusse molti comunisti occidentali a strappare la loro tessera e le autorità sovietiche  a rinnegare le aperture del XX congresso di Kruscev di qualche mese prima. Pasternak, ebreo e credente, finì nel mirino della censura e arrivò a dover firmare dei telegrammi falsi in cui pregava Feltrinelli di restituirgli il manoscritto, cosa che Feltrinelli si guardò bene dal fare. Ma per questa sua reticenza ricevette dei rimproveri da parte di dirigenti del Pci come Mario Alicata e Rossana Rossanda, i quali a Milano gli tenevano delle concioni severissime sui doveri di un buon compagno e in sostanza gli sconsigliavano di pubblicare Zivago, chiedendogli indietro il manoscritto.
    Giangiacomo mantenne fermo il timone, “tengo botta” ripeteva ai suoi numerosi detrattori. E nell’aprile del 1957 il Dottor Zivago fu nelle librerie, riscuotendo subito un successo di pubblico eccezionale per l’epoca, un successo che rimarrà negli annali dell’editoria mondiale. I liceali se lo strappavano di mano, tutti lo leggevano. Evidentemente però questo romanzo era destinato a suscitare scandalo. Era la stessa epoca di guerra fredda fra Usa e Urss a essere scandalosa, perché nel 1958, quando per il Zivago fu assegnato il Nobel a Pasternak , questi fu costretto a rifiutarlo, sempre per pressione del Kgb, il servizio segreto sovietico, tanto che due anni dopo, il 30 maggio 1960, Boris moriva settantenne povero e negletto. E intervennero anche la Cia e la Spectre. “Ho letto da qualche parte - scrive Carlo Feltrinelli, pag. 143 - che anche il servizio di Sua Maestà sarebbe intervenuto. Avrebbe fotografato il dattilo all’aeroporto di Malta durante una finta sosta d’emergenza dell’aereo su cui viaggiava Feltrinelli. Ma cosa ci facesse James Bond nell’ultima fila vicino al finestrino, a fumare miscela turca, è una storia ancora tutta da scoprire”.
    Lo stesso D’Angelo, l’agente letterario, dopo la morte di Pasternak dirà di non aver mai rifiutato un generosissimo compenso (la metà di tutti i profitti) quando aveva barrato con un “no” a matita la lettera dello scrittore russo al suo editore con questo accenno economico, e farà causa, perdendo, nel 1965. Lo stesso anno in cui uscì il film di David Lean con Omar Sharif e Julie Christie, che vinse cinque Oscar: sceneggiatura non originale a Robert Bolt (ovviamente riduttiva rispetto alle mille considerazioni filosofiche e psicologiche del romanzo), fotografia a Freddie Young, scenografia a John Box, Terence Marsh e Dario Simoni, costumi a Phyllis Dalton e colonna sonora a Maurice Jarre.

    Ancora una volta Giangiacomo Feltrinelli aveva visto giusto, come farà ancora con il Gattopardo, nel 1958-59. 

  • OSPITI ILLUSTRI IN PUGLIA

    data: 13/01/2019 15:01

    Da bibliofila, sono affascinata dai libri, è logico. Questo piccolo o voluminoso oggetto che resiste al tempo, fatto di carta (perché il kindle non lo contemplo proprio), è un tale concentrato di eleganza, ingegno e fantasia, che non mi stanco mai di collezionarne. Sfogliarne uno, nuovo o usato, è una tale meraviglia, un viaggio così insolito, sempre nuovo, da lasciarmi sempre felice. Ogni volta che entro in una libreria mi stupisco della quantità delle case editrici, delle nuove iniziative e mi consolo: finché ci sarà questa varietà ci sarà speranza, anche se quei libri dovessero rimanere sugli scaffali, causa crisi economica e la pressoché totale scomparsa delle edizioni economiche. Tranne alcune eccezioni, da segnalare. Piccolo e delizioso libricino: la collana diretta da Angelo Semeraro che la casa editrice Kurumuny di Martano, in provincia di Lecce, dedica ai viaggiatori in Puglia nel corso dei secoli, è semplicemente fantastica.
    Kurumuny, in grico, un dialetto di una decina di paesi del Salento, fra cui Martano, affine al greco, vuol dire “germoglio d’ulivo”. E’ un “cultural tour” che prevede impressioni di viaggio di “ospiti illustri della Puglia”, con uno sforamento obbligato per Matera. La copertina riporta in campo bianco un ritratto dell’autore/autrice: si va da “Una settimana a Bari e Lecce” di Italo Calvino (con un pullover giallo), nel 1954 al “Viaggio pittoresco nella Magna Grecia” di Jean B. Claude Richard abate di Saint-Non, che contiene anche delle tavole di L. J. Desprez e siamo in pieno Settecento, come con Carlo Ulisse De Salis Marschlins (“Terre d’Otranto. Viaggio nel regno di Napoli”); ci sono estratti dal “Viaggio in Italia” di Guido Piovene e non mancano le viaggiatrici, come Janet A. Ross, che fu una scrittrice inglese attratta come tante sue connazionali da Firenze e dalla storia italiana in genere, vissuta dal 1842 al 1927 (“Imbelle Tarentum”).
    Si tratta di un’antologia a puntate, una cinquantina di pagine che si leggono in una sera o in un breve viaggio in treno per esempio, costa solo 3 euro a volumetto e sono, il che non guasta certo, proprio belli a vedersi. Permettono inoltre, con la scusa di un saggio di scrittura a tema, di scoprire autori sconosciuti ma non per questo meno meritevoli, anzi. Proprio ciò che basta a una bibliofila... 

  • NO, NON TAGLIATE LA TESTA
    ALLE TARTARUGHE

    data: 09/01/2019 20:07

    La crudeltà infinita dell’uomo continua a far strage delle altre specie che popolano questo pianeta. Dopo il gran clamore che si è fatto in questi anni per proteggere le tartarughe marine, le Caretta Caretta, miti creature del mare, minacciate di estinzione, ecco che sulla costa adriatica pugliese, da Nord a Sud di Bari, da Barletta a Monopoli, in soli tre giorni sono state trovate ben 15 tartarughe senza vita. E non certo per il freddo.
    Tante volte si tratta di tartarughe che restano impigliate nelle reti e purtroppo non sempre i pescatori hanno la sensibilità di soccorrerle e liberarle. Non solo. A ciò si aggiunge la specifica cattiveria umana, se è stata ritrovata anche una tartaruga senza testa. Gli indizi concorrono a presumere che si sia trattato di un atto deliberato: infatti, come deduco dall’articolo di Matteo Diamante sulla Gazzetta del Mezzogiorno di oggi, mercoledì 9 gennaio, alcuni pescatori credono che trovare una tartaruga tra le reti porterebbe male e quindi la “rea” andrebbe eliminata con quella crudeltà di cui la specie umana è primatista. Pasquale Salvemini, responsabile del Wwf di Giovinazzo, afferma, nello stesso articolo, che si sta cercando di risalire ai malfattori.
    Un’altra tartaruga con ferite alla testa è stata recuperata e salvata dalla Guardia costiera a Capitolo, a sud di Bari. Insomma, tempi duri in mare per le tartarughe. E per i pesci in generale, i quali pensano di poter spaziare nel vasto mare e invece se lo trovano a un tratto ostruito dalle maxireti dei pescatori. Senza contare l’orrenda strage degli animali da allevamento. E il fatto che lo stesso mare, questo prezioso elemento, viene trattato alla stregua di una discarica. Tutto perché nel mondo, come sottolinea lo scrittore francese Michel Houellebecq nel suo romanzo appena uscito “Serotonina”, manca l’amore, in questo caso specifico fra l’uomo e gli animali, fra gli umani e la terra. Pensare che questo è l’unico pianeta che abbiamo e invece di tenerlo come una perla rara, ne facciamo strame. 

  • L'INDIVIDUALISMO ODIERNO

    data: 06/01/2019 18:18

    Di tutti gli articoli che ho letto questa prima settimana del 2019, uno in particolare mi ha colpito, sul Domenicale del Sole24ore. Lo firma una filosofa, Francesca Rigotti, la quale recensisce un saggio di una sua collega viennese, anche giornalista, Isolde Charim. L’articolo s’intitola: “Ricetta per una società pluralista” ed è davvero illuminante in giorni in cui 49 migranti non trovano un porto dove sbarcare. Ora, come sanno tutti coloro che vanno per mare, anche i marinai più appassionati, ogni imbarcato non vede l’ora di sbarcare, di toccare terra. In barca si può applicare al meglio il detto di Orazio :“Amo il luogo dove non sono”. E trovare un porto chiuso è come andare al distributore di benzina e non trovare rifornimento, come aprire il rubinetto e non avere l’acqua, e gli esempi si moltiplicano. Insomma è sommamente ingiusto e contrario alla legge del mare.
    Dunque Charim nel saggio intitolato “Io e gli altri: come il nuovo pluralismo ci ha cambiati tutti” (224 pagine, non ancora tradotto in italiano) afferma che una società pluralista come l’attuale ci costringe ad attuare delle “zone d’incontro” simili agli “spazi della pluralità” auspicati da Hannah Arendt. Di fatto è già così: ed è inutile in una mescolanza in atto porre paletti, affermando per esempio che il reddito di cittadinanza va a te in quanto “italiano” se è difficile definire questo aggettivo, fatti salvi i diritti e i doveri di ognuno. Charim ci spiega a che punto siamo.
    Ognuno è individualista, questo è chiaro, ma lo è in tre modi. Ci sono stati gli individualisti fra Ottocento e Novecento i quali, liberati dal censo, “divennero uguali giuridicamente e politicamente, sentendosi, da eguali, parte di un tutto che s’incarnava nella nazione. Poi, 50 anni fa e oltre, ci sono stati i movimenti del 1968 con richieste di riconoscimento delle differenze e delle minoranze”. L’individualismo odierno, sottolinea Charim, “si differenzia dai precedenti in quanto non si basa più su valori collettivi e ricerca di uniformità (lavoro e istruzione e sanità uguali per tutti) ma su una esaltazione della propria unicità”. Il che, tra l’altro, corrisponde a ciò che afferma il regista francese Olivier Assayas nel suo ultimo film “Il gioco delle coppie” che a dispetto del titolo italiano (l’originale è “Doubles vies”, con riferimento non solo alla situazione sentimentale) parla anche del passaggio dal cartaceo al digitale, quando fa dire a un suo personaggio: “Oggi ciò che conta sono la ricchezza e il potere: dunque un libro più costa più sarà letto”. Quindi, conclude Charim, “non si ama più né iscriversi collettivamente a partiti né farsi rappresentare da altri delegando loro la parola: si pretende invece di essere ascoltati e di esprimersi direttamente, illudendosi d’intervenire in prima persona”. Il che avviene per lo più sui social, dunque se non si legge molto in compenso si scrive di più.

    Il rischio qual è? La contrapposizione netta: mi piace-non mi piace, amico-nemico, laddove “per affrontare la mutata realtà sociale” occorre accettare di essere “meno io” invece di “affermare il proprio io o il noi escludente”. “Un meno che in quanto tale unisce e dove l’unione e il confronto delle differenze non sopprimono le differenze stesse ma le lasciano così come sono, riducendone però il peso”. La società plurale insomma adotta nuovi codici e Isolde Charim, scrive Nadotti, lo sa bene in quanto figlia di ebrei nati in Galizia, spostatisi in Israele e tornati poi a Vienna. Resta un punto però da chiarire: d’accordo con l’accoglienza, con il meno includente, ma ci sono punti fermi che non possono essere valicati, per esempio l’antifascismo o il rispetto dei diritti delle donne. Insomma, delle leggi costituenti e condivise si sente pur sempre il bisogno. 

  • TICKET VENEZIA: E LE NAVI?

    data: 31/12/2018 16:18

    Avevo 17 anni quando, nel bel mezzo di una vacanza in montagna con diluvi quotidiani in pieno luglio e copertine, ritrovai il mio amato Adriatico dall’alto del campanile di san Marco come fosse un mosaico, costellato di tetti rossi nell’azzurro-verde più incredibile che avessi mai visto. Decisi allora che Venezia era mia, sì, era la mia città, nonostante abitassi a quasi mille chilometri di distanza. Mi piccai d’impararne il dialetto leggendo tutto Goldoni, studiavo le mappe, cercavo foto, e poi, come per magia, volere è potere alle volte si realizza, vinsi una borsa di studio che mi destinò, sei anni dopo, proprio lì. A Venezia!

    In realtà risiedevo a Mestre, che è una bellissima città con un grande vantaggio: basta prendere l’autobus urbano e in pochi minuti ci si ritrova a Venezia. E’ proprio vero che per visitare bene una città non basta il turismo mordi e fuggi, per apprezzare a pieno Venezia, scoprire nel buio di una sacrestia un Tiziano, aggirarsi fra i padiglioni della biennale, varcare la laguna fino all’isola di Torcello, ammirarne tutti i capolavori, dalle Gallerie dell’Accademia alla scuola di San Giorgio, fino agli scorci più suggestivi, ci vuole tempo. E basta girare l’angolo per ritrovarsi in un campiello deserto, come a Santa Marta. Con la vicina San Pantalon, che ha il soffitto dal telero più grande del mondo. O prendere il vaporetto più lento, la linea 1 che percorre il canal Grande con calma.A Venezia capita d’incontrarsi: perché si va a piedi, si salgono e si scendono gli scalini dei ponti, si sente cantare da una finestra, si va a Rialto a sentire le urla degli ambulanti.

    Ora, tutto questo pare che non ci sia più, io ci manco da un po’, o forse è sempre stato così. Ora la folla dei turisti sarebbe così debordante da esigere un biglietto d’ingresso. Sembra strano perché è davvero tutto ben organizzato: ci sono gli itinerari segnati così bene che è impossibile perdersi, pur essendo la città labirintica. E tutte le strade portano a San Marco. Durante il Carnevale del 1981, mi pare, ricordo che venni travolta dalla folla in una calle stretta e non fu una bella esperienza. Ma può capitare, capita.

    Il punto, per me, non è tanto il biglietto d’ingresso perché chi viaggia affronta già delle spese, quanto la consapevolezza di entrare in un capolavoro. Si entra in una città unica, una magia. Ma ciò vale non solo per Venezia, per tanti centri storici. Bari per esempio, e non sembri un’eresia, ha una città vecchia in cui certi vicoli stretti, dove allarghi appena le braccia, somigliano alle callette lagunari. Oltre a quella cerimonia di sposalizio del mare che ricorda un’antica alleanza fra le due città. E giustamente la città storica, simpaticamente chiamata Barivecchia, è stata chiusa al traffico.

    Prendiamo quel camionista che l’altra notte ha abbattuto una colonna del corridoio vasariano a Firenze: merita una multa notevole perché avrebbe dovuto rendersi conto da solo di dove stava transitando. Venezia non può tollerare il moto ondoso delle supernavi da crociera eppure le fanno transitare: cominciamo a vietare l’ingresso di questi transatlantici. Il ticket è l’ultimo provvedimento, è come aumentare il prezzo di un biglietto qualsiasi ma penso che un turismo consapevole vada costruito prima. Regolare una massa di turisti si può e si deve per rispetto ai tesori che abbiamo ricevuto per puro caso in dotazione, ma non credo proprio si tratti solo di misure economiche, basterebbe organizzarsi meglio. Con soggiorni più ragionati e di qualche tempo.

    Venezia è mia, è di tutti e va vissuta, comprendendola, amandola e rispettandola. 

  • "iostoconlaGazzetta" E POI?

    data: 30/12/2018 09:57

    Il direttore Giuseppe De Tomaso si diceva commosso quando col megafono, la mattina del 29 dicembre, davanti alla chiesa di San Ferdinando, in via Sparano, la via principale di Bari, ringraziava i presenti e non solo “per la mobilitazione, la fidelizzazione, l’attaccamento del lettorato” al suo giornale, la Gazzetta del Mezzogiorno. Il flashmob, la manifestazione, con tanto di banda e la presenza di tutti i dipendenti, infatti, giungeva al termine di una settimana di appelli sui social, di foto “iostoconlagazzetta”, di copie prenotate in edicola con il sistema del giornale pagato (compro uno ne regalo un altro, come si fa con i caffè al bar).
    Una mobilitazione mai vista, con copie prenotate in edicola, contate diligentemente dagli edicolanti, ha dimostrato quanto in effetti i lettori, in particolare quelli d’una certa età, tengano al loro giornale. I 130 anni di storia del giornale, ha sottolineato De Tomaso, anche con un editoriale in prima pagina, configurano “l’importanza della stabilizzazione della configurazione politica di un popolo”, quello pugliese e lucano (anche se De Tomaso ha citato la Puglia e il Sud), proprio ora che si sta diffondendo il concetto di “autonomia differenziata, che rischia di mettere in pericolo l’unità del paese e che è stata affrontata in maniera superficiale anche dai precedenti governi. Con questo governo il rischio si fa più grave e un giornale come la Gazzetta del Mezzogiorno invece in tutti questi anni a cosa mirava? a stimolare chi ne aveva la responsabilità a raggiungere non solo l’unità politica ma anche se non soprattutto quella economica della nazione. La Gazzetta, da buon sindacato del territorio, da comunità intellettuale, si è sempre impegnata a difendere le ragioni delle popolazioni di riferimento, per portare a Roma, a Bruxelles le richieste le esigenze le istanze di territori che nel mare magnum della globalizzazione probabilmente non hanno la forza di poter incidere come avrebbero potuto in condizioni di normalità. Visto che dobbiamo mettere in conto la prospettiva di un federalismo hard che può mettere in difficoltà l’intera realtà meridionale, l’importanza di un giornale come il nostro risulta evidente ma questo è solo un esempio dei tanti che potrei fare”.
    La crisi della Gazzetta del Mezzogiorno affonda però le radici nella crisi del suo editore, Mario Ciancio Sanfilippo (come del resto lo stesso De Tomaso ha rilevato nel suo editoriale di sabato). Il tribunale di Catania gli ha confiscato 150 milioni di euro: l’imprenditore, che ha 87 anni, è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e la Direzione distrettuale antimafia ha bloccato tutto il suo ingente patrimonio sin dallo scorso settembre. Sono dieci anni che s’indaga su di lui: adesso si arriva alle strette finali e i soldi non ci sono per la Gazzetta del Mezzogiorno come per altre imprese editoriali, a cominciare dalla Sicilia, il giornale di Catania.
    Si dirà: il giornale è dei suoi lettori, si parla sempre di capitale umano ma per questa azienda culturale, purtroppo, occorrono ingenti fondi. La via sembra obbligata: affidare la testata barese e le altre del gruppo, ai giornalisti. E ai lettori, se è vero che ne sono i veri padroni. Non ci sono molte scelte.

  • LA SIGNORA DEL FUMETTO

    data: 26/12/2018 16:28

    Se n'e andata così, discretamente com’è sempre vissuta, “la” Nidasio, Grazia Nidasio, una fumettista di rango, una delle poche donne (e mai o poco celebrate) che si sono distinte nel disegno. Perché Grazia Nidasio, nata a Milano il 9 febbraio 1931, e morta il 24 scorso a Certosa di Pavia, alle soglie dunque degli 88 anni, è stata davvero una grande fumettista. Dalle pagine del Corriere dei Piccoli prima e Corriere dei ragazzi poi. E’ stata anche l’inventrice di Scaramacai, un clown burattino e di tanti altri personaggi. Eppure, mai un’intervista, mai una celebrazione pubblica per lei che con Valentina Mela Verde, sua sorella Stefi, il cane con i ciuffi sugli occhi e tutta la strampalata famiglia milanese di cui si seguivano le vicende, settimana dopo settimana, sul settimanale che noi ragazzini degli anni Sessanta aspettavamo con ansia in edicola, ha inaugurato la “telenovela”, le serial che avrebbero avuto ben altra eco successivamente.
    nLei, la Nidasio, il suo racconto a puntate lo faceva da Milano, sulla carta stampata e attraverso i suoi tratti nervosi, moderni - con il suo personaggio che potrebbe ben rappresentare l’infanzia e l’adolescenza di un’altra, ben più nota, Valentina, quella di Crepax - ci faceva conoscere la vita di una scolara nostra coetanea nella grande città e ci faceva sognare, avanzando nello stesso tempo rivendicazioni femministe ancor prima del femminismo.
    Credo di aver imparato ad amare Milano, le sue strade, i monumenti, proprio dai suoi sfondi, il Duomo compariva spesso nei fumetti. Per la verità, i suoi fumetti hanno avuto subito una risonanza mondiale e per 8 anni, dal 2000, ha presieduto il sindacato di categoria del suo settore, Silf, ma non conoscevo il suo volto, trovandolo in rete solo ora, purtroppo. Per dire di quanto fosse schivo il personaggio, a differenza delle sue ragazzine, spigliate, moderne, intelligenti e belle, prima intelligenti e poi belle. E a noi ragazzine Grazia Nidasio ha dato davvero molto.
    Così è una grande autrice che piango oggi, col rammarico di averla in effetti trascurata in tutto questo tempo, ma nella memoria no: che bello quel tempo passato a leggere le avventure della famiglia di Valentina, quando, mi pare il giovedì, usciva il Corriere dei piccoli....

  • GIOVANI, TUTTI A LONDRA?

    data: 21/12/2018 21:45

    E’ davvero toccante la lettera aperta che la Conad, il grande magazzino emiliano, ha rivolto sui giornali, pagando pagine intere di pubblicità, ai lettori, con gli auguri di Buon Natale. Vi si affronta il tema dell’emigrazione dei giovani e la lettera è intitolata così: “Nessuna valigia può contenere l’amore di una mamma”. scrivono questi Conad: “Per noi, pensatori che hanno fatto varie pubblicità basate sul sentimento (memorabile quella della ragazza che partoriva nel supermercato), è inevitabile immedesimarci nell’amarezza e nella speranza di tante famiglie che vedono i loro figli partire in cerca di lavoro, non solo da Sud a Nord, ma dall’Italia verso l’Europa e il mondo intero. Sempre più di frequente, i nostri ragazzi vanno a mettere le loro radici in posti lontani, li aspetta un’altra vita sotto altri cieli. C’è troppo silenzio intorno al fatto che all’interno di una città come Londra esista un’altra città, grande come Verona, abitata dai nostri ragazzi”. Le valigie traboccano di prodotti italiani e ciò per la Conad non è male, ma, con mirabile altruismo, conclude: “Non lasciamo che i nostri ragazzi ci lascino; la questione riguarda il valore del loro bagaglio culturale, teniamola aperta. Insieme alle luci di questo Natale, teniamo accesi i loro sogni”.
    Io sono stata una di quei ragazzi: non sono andata troppo lontano, sebbene la mia avventura giornalistica fosse cominciata al Nord, a Venezia e a Milano. Senza alcun rimpianto, all’inizio. Anche perché, avendo visitato Venezia pochi anni prima e deciso che fosse la città più bella del mondo, quando la borsa di studio che avevo vinto mi destinò proprio lì, io più che altro pensavo ad andare in giro per campi e campielli, e non al mio futuro di giornalista. Poi tornai a Bari e trovai lavoro a Lecce, dove sono rimasta per 18, lunghissimi anni. Passavano, gli anni, ma io non me ne accorgevo, avevo sempre Mamma e Papà alle mie spalle, a 156 chilometri di distanza: la domenica li raggiungevo, pensavo che la vita sarebbe stata sempre così, in fondo facile, io tra i pochi miei coetanei ad avere uno stipendio sicuro, già allora, annullato però dalle spese, senza possibilità di risparmio.
    Non sono stata lungimirante. Questo pendolarismo, alla lunga, mi ha logorata, ha fatto sì che io non mi sentissi di nessuna delle due città e quando sono tornata a Bari, la mia città come l’ho sempre considerata, sono stata felice di aver passato ancora qualche anno - troppo pochi! - con i miei Genitori, ma mi sono ritrovata senza lavoro e senza che la cosa riguardasse la società, che ha continuato a pretendere da me quote dell’ordine, dichiarazione dei redditi, ecc. e fa sì che ora io sia un’esodata in piena crisi. Ora, osservando la realtà sia leccese che barese, mi rendo conto che, a meno di tagliare tutti i ponti e decidersi a stare molto lontano, in cerca di fortuna, una società a base familiare come la nostra rende forti e sicuri gli individui che stanno in una famiglia forte e sicura. Penso a certi esercizi commerciali che si tramandano di padre in figlio o studi di legali o professionali in genere. E in fondo è stato sempre così: l’ascensore sociale è bloccato, si va avanti solo con le conoscenze (parentali per di più). Altrimenti c’è l’impiego pubblico o regionale (dalle pensioni d’oro e veloci). Ma di certo resta il fatto che in moltissimi settori Bari, una città del Sud, resta una città d’importazione, coloniale, che non ha una sua autonomia. Per dire, io se avessi voluto fare la giornalista di moda, non sarei dovuta stare qui, ma adesso nemmeno a Milano, vista la crisi dell’editoria. Lo stesso commercio per cui i baresi erano un tempo famosi, adesso è in mano ai cinesi. E’ una questione di sopravvivenza e non so come se ne esce: ma di certo una soluzione la si deve trovare perché non è possibile che i giovani se ne vadano tutti via. E’ una sconfitta, all’inizio non ci si pensa, ma alla lunga è davvero deprimente. 

  • I GIORNALISTI GUARDIANI

    data: 19/12/2018 00:06

    Il Time ha dedicato la “Persona dell’anno” ai giornalisti guardiani. Ottima scelta, perché questo è un periodo decisamente nero per i professionisti dell’informazione. Quattro le copertine: una per il saudita Jamal Khashoggi, un’altra per la filippina Maria Ressa, per gli americani dalla Capital Gazette di Annapolis e per i cronisti birmani incarcerati. Non che fare il giornalista d’inchiesta sia stato mai facile ma il grido della maltese Daphne Caruana Galizia (Sliema, 26 agosto 1964-Bidnija, 16 ottobre 1017) uccisa con un’autobomba, lanciato dal suo computer poco prima: “Aiuto, qui sono tutti corrotti!”, si attaglia bene anche all’anno successivo.
    Un 2018 particolarmente funesto per la categoria. Il 28 giugno un 38enne che aveva fatto causa al giornale per diffamazione sei anni fa, è entrato nella redazione di Capital Gazette, ad Annapolis, nel Maryland (negli Usa delle armi libere) e ha ucciso cinque persone, quattro giornalisti e un dipendente del reparto commerciale, sparando con un fucile da caccia. Cinque vittime, come recentemente a Strasburgo, colpite da un fanatico jihadista, tra le quali anche il giornalista Antonio Megalizzi. A Istanbul il 2 ottobre Jamal Kashoggi (Medina 13 ottobre 1958- Istanbul 2 ottobre 2018), è entrato nell’ambasciata del suo Paese, l’Arabia saudita e non ne è più uscito: particolari sempre più agghiaccianti sono trapelati subito, di come sia stato torturato e ucciso da agenti segreti agli ordini del principe ereditario Salman. Ma come mai si è seguito quasi in diretta questo eccidio? Il Washington Post sospetta fortemente la Hacking Team, una ditta italiana o meglio non solo italiana, specializzata nel settore informatico, fondata nel 2003 in Brianza da David Vincenzetti. Questa ditta ha creato un dispositivo che entra nei telefonini e negli smartphone: secondo quanto rivelò Wikileaks, anche se la sua attività consisteva nell’aiutare le polizie a smascherare i terroristi, in realtà la spia informatica è stata fornita a 40 governi, anche non democratici. Non basta, la società è da due anni (come del resto moltissime aziende italiane) saudita al 20 per cento. Fare due più due è semplice...La reazione del governo saudita, anche di fronte alle proteste di Trump, è stata sdegnata ma intanto ci sono le registrazioni, addirittura i filmati. E Kashoggi attende giustizia.
    Maria Ressa è una giornalista filippina del suo Rappler, un giornale online che si trova nelle Filippine ma ha anche una redazione a Giakarta, in Indonesia. Dal 2011 è un susseguirsi di scoop che prendono di mira soprattutto, ma non solo, il governo delle Filippine. In Birmania infine, sono stati condannati a 7 anni di carcere due giornalisti della Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, che avevano descritto l’eccidio di 10 persone di etnia Rohingya, la minoranza musulmana che vive nel nord del Myanmar (come si chiama da qualche tempo la Birmania). Gli assassini erano dei buddisti e i giornalisti hanno raccolto testimonianze dirette.

    La religione porta guai un po’ ovunque. Sarà un caso ma per esempio dei fondi miliardari fatti sparire dai frati francescani, in Italia, non si parla più e la vicenda sarebbe costata il posto a un valente giornalista di Report. 

  • GIACOBBO E ALTRI BALLISTI

    data: 17/12/2018 13:52

    Quello di cui difettano certi presentatori-divulgatori televisivi è la modestia. A dispetto delle caricature di cui sono stati fatti oggetto nel corso degli anni, da bravissimi imitatori come Corrado Guzzanti o Neri Marcorè, Roberto Giacobbo, per dirne uno, asserisce, presentando il suo nuovo programma su una rete Mediaset, dopo aver lavorato per decenni a Raidue (Voyager dal 2003 fino a poco fa), di appartenere a una specie protetta, in quanto di divulgatori come lui si sta perdendo la semenza...Il debutto, in Freedom uguale Libertà, come se finora non fosse stato libero di sparare tutte le balle che ha voluto, è per il 20 dicembre, giovedì prossimo, in prima serata. Scenario per tanta “cultura” scientifica-divulgativa un luogo degno a tanta altezza: il Duomo di Milano. Ovviamente di notte, illuminato a giorno, perché quando Giacobbo arriva i mezzi tecnici si sprecano; quanto alle notizie storiche, meglio sorvolare. I suoi servizi a Voyager erano di solito annunciati da una musica roboante, da titoli allusivi: “Un marziano ha lasciato le sue tracce sul Castello di Federico II”; oppure “Scopriamo il segreto della piramide posta sullo stesso parallelo di vattelapesca” o ancora, “Il trullo? Non è una costruzione contadina, no, è il segnale di una popolazione ancora sconosciuta”. Ovviamente sconvolti da tanti annunci, gli spettatori si apprestavano a vedere, magari anche a tarda ora, cosa ci fosse di così sconvolgente in quel servizio: beh, il massimo che si poteva intuire era vedere i due metri di Giacobbo infilarsi in una strettoia umida (con l’operatore costretto a seguirlo,) a caccia delle sue chimere. Come quando in un servizio di almeno quattro ore spiegò come e qualmente san Nicola fosse venerato in tutto il mondo e, udite udite, servì da modello al Babbo Natale della Coca Coca. Notiziooona... peccato che lo si sapesse da sempre e che Giacobbo fosse arrivato buon ultimo.
    C’è da dire però che per la divulgazione storico-geografica, quella che la Bbc e Arte svolgono così bene - basta guardare Rai5, Raistoria e Raiscuola o l'italiano Cristoforo Gorno su Raistoria - Giacobbo è in ottima compagnia. Prendiamo Alberto Angela, il figlio illustre di tanto padre; i suoi programmi su Pompei, sulla Cappella sistina, su Firenze sono tanto celebrati quanto...noiosi. Si comincia con l’illustrare il luogo ma si finisce puntualmente con la ricostruzione storica interpretata da attori in costume, di solito con colori seppiati, in interminabili siparietti. Meglio notturni, e illuminati a giorno, con gran spreco anche in questo caso. O vogliamo parlare delle città di Augias? Colui che, a “Tv-talk”, ha dichiarato con un sorriso compiaciuto che andrebbe volentieri in pensione e lo avrebbe anche detto ai dirigenti Rai, per sentirsi rispondere: “Appena troviamo uno in grado di sostituirti...”.
    In prima serata del sabato (meglio uscire!) ho visto solo la puntata dedicata a Parigi: alla fine chiudendo gli occhi mi rimanevano impresse solo le immagini della ghigliottina, riproposta più volte, e delle cartoline pruriginose, illustrate in gran dettaglio, sulla povera Maria Antonietta che oltre alla testa tagliata deve subire questo oltraggio anche a distanza di secoli, in un programma poi strombazzato come turistico, geografico. Nel settore, comunque, c’è la fila: ora anche i politici si candidano come guide turistiche. Matteo Renzi, in cerca di partito, per ora si accontenta di esporre le magnificenze della “sua” Firenze... 

  • TRADUZIONE CON GIALLO

    data: 13/12/2018 20:49

    Siamo al capitolo XX di Anna Karenina, il capolavoro (con Guerra e pace, certo) di Lev Tolstoj: “Oh che bella età è la vostra! Conosco bene e mi ricordo la foschia azzurra simile a quella delle montagne svizzere. Quella foschia che avvolge ogni cosa nel periodo beato in cui è appena terminata l’infanzia, e da quel cerchio immenso, felice e spensierato, si apre una strada che si assottiglia sempre più, ed è così gioioso e spaventoso intraprendere quel percorso, anche se è bello e luminoso... chi non c’è passato?”. Anna, donna matura per i tempi, in realtà poco più che trentenne, è in casa del fratello Stipa. Vi è accorsa per risolvere una crisi matrimoniale che sarà nulla in confronto alla sua e conosce la sorella minore della cognata Dolly, la famosa Kitty che poi sarà sua rivale in amore. Kitty è appena adolescente, avrà 18 anni e Anna la considera con una certa nostalgia per quell’età. Eppure, questo paragrafo non riluce in questa traduzione come dovrebbe. E, leggendo una versione, sorge sempre il dubbio, almeno per chi non conosce il russo, su come in realtà ha scritto Tolstoj.

    Lo stesso brano, in altra versione, appare completamente diverso anche se simile nella sostanza: “Che bella età la vostra! Fa pensare alla nubi azzurrognole che si vedono sui monti in Svizzera. Nella felice età in cui finisce l’infanzia, è così delizioso tutto, tutto ciò che una simile nube tiene celato! Poi appare un sentiero che, partendo dal cerchio luminoso, va facendosi sempre più stretto... e s’infila quel sentiero con allegria e paura , sebbene sembri inondato di luce e tanto bello... chi non è passato di là?”. Siamo a pag. 92 dell’edizione Oscar classici Mondadori, tradotto da Ossip Felyne, un traduttore di cui ci si può fidare, in quanto era russo, scrittore a sua volta, nato a Odessa il 29 dicembre 1882, un ebreo russo dalla vita cosmopolita come spesso quella dei russi di un certo ceto sociale. Fino al 1906 visse a Odessa, dove si sposò con Fanny Rozenberg, quindi con la moglie si trasferì a Zurigo per studiare chimica, ma nel 1910 cambiò facoltà, ingegneria a Parigi. Nel 1915, avendo deciso di non tornare più nella Russia rivoluzionata, si trasferì in Italia a Bordighera, poi a Roma, dove abitò in via Sistina 68, a Napoli, dove fece il giornalista e il direttore dell’Impresa metropolitana e ancora a Milan

    Ma Ossip Felyne è uno pseudonimo, in rete si trova ben poco a sfatare l’illusione che si sappia tutto qui: il suo vero nome era infatti Osip Abramovic Blinderman. Usò l’altro nome per un’intensa attività letteraria e di traduzione, finché nel 1939 gli venne revocata la cittadinanza italiana per la sua origine ebrea. E dunque che fine ha fatto Felyne Ossip, l’eccellente traduttore di Tolstoj? Non è possibile nemmeno rintracciare la data di morte, né se sia finito in un campo di sterminio... E anche della figlia scrittrice, Erna Osipovna Blinderman, nata a Zurigo il 7 luglio 1906, autrice del Mulino di Delft e di Fiaba Novecento, non si sa molto altro dopo il fatale 1938.

    Ci sarebbe da rivolgersi a “Chi l’ha visto?” che si sarebbe potuto mobilitare, all'epoca, anche per Tolstoj stesso: “Lanciamo un appello per il famoso scrittore Lev Tolstoj che dal 28 ottobre ha lasciato la casa di Jasnaja Poljana per rifugiarsi in un convento. Ma poi di lì ha preso il treno, chiunque lo avesse visto...”. Lo ritroveranno infatti in una stazione, stroncato dalla polmonite: Lev morì il 20 novembre 1910 a 82 anni nella stazione di Astàpovo ed era nato il 9 settembre 1828 a Jasnaja Poljana.
    Sulle date ci sono discrepanze, quelle riportate sono di Wikipedia: 28 agosto la nascita e 7 novembre la morte, a causa della differenza con il calendario ortodosso, sono quelle effettive. Invece di Felyn e della figlia si sono perse le tracce.
    Quanto poi alle traduzioni, alla fine è il valore dello scrittore che conta, anche perché ormai ce ne sono così tante che fare un raffronto è davvero difficile. Anche se, disponendo di diversi volumi, si può fare. Nella nuova edizione Einaudi, per esempio, di Guerra e pace, la traduttrice Emanuela Guercetti ha dichiarato al Venerdì di Repubblica di aver risolto con la rete molti dubbi, come per esempio quello relativo alle allodole come annuncio di primavera. Ebbene, in Russia si usava confezionare dei biscotti a forma di allodole proprio verso la primavera, ed ecco risolto l’enigma. Quanto a me, mi tengo la traduzione “storica” di Enrichetta Carafa d’Andria. Altro personaggio da ripescare.

  • QUEI TRENI DELLA SHOA

    data: 05/12/2018 18:35

    E’ di pochi giorni fa la notizia che le ferrovie olandesi risarciranno gli eredi degli Ebrei deportati nei campi di sterminio con i suoi treni. Una giusta decisione, seppure tardiva, molto tardiva: nessuno può permettersi, dopo la gran mole di studi, di libri, di testimonianze, di ignorare il ciclone di malvagità che ha scosso l’Europa “culla di civiltà” negli anni Trenta del secolo scorso, in quei dodici anni, dal 1933 al 1945, di puro orrore. Tuttavia, adesso che i testimoni diretti dell’incubo nazifascista, quei pochi sopravvissuti alla strage di sei milioni di Ebrei, stanno via via scomparendo per motivi anagrafici, ricordare, anche se doloroso, è un dovere.
    Per esempio rileggendo un libro in due volumi edito da Einaudi anni LA SHOAa: “La distruzione degli Ebrei d’Europa”, l’opera della vita dello storico di origine ebraica Raul Hilberg. Nato a Vienna il 2 giugno 1926 e morto negli Usa (dove la sua famiglia fuggì nel 1938) il 4 agosto 2007, Hilberg, ha raccolto in circa 1.400 pagine una serie immensa di documenti. Lo ha fatto per anni, dal 1946 in poi, fino alla prima edizione di questo suo lavoro decisivo, nel 1961 e a una seconda notevolmente accresciuta nel 1985. L’obiettivo: dimostrare come questo sterminio di massa ebbe sì come causa prima Hitler, ma fu anche effetto di tutt’una serie di atti burocratici che resero possibile l’impossibile, ciò che nei secoli era stato purtroppo già attuato e sperimentato - perché i pogrom erano vizio antico - ma mai in modo così esteso e sistematico.
    “Solo 92 militari tedeschi - si legge nell’introduzione di Frediano Sessi - lavoravano a Treblinka, Sobibor e Belzec, più alcune centinaia di ucraini. 92 tedeschi nella Polonia occupata riuscirono a uccidere, in quei tre centri di sterminio, quasi un milione e mezzo di Ebrei”. Questo ancora è comprensibile: si tratta della legge del più forte, di un manipolo di armati contro tanti disarmati. Ciò che non si capisce è il prima, l’antefatto: l’incredulità e lo sconcerto degli stessi Ebrei che si credevano, a buon diritto, tedeschi a tutti gli effetti, così come in Italia italiani fino alle leggi razziali del 1938.
    Un brutto giorno, gli Ebrei si sono svegliati e si sono accorti di non essere più tollerati. L’intolleranza, che risorge di tratto in tratto nella storia, travestita da legge, allora progredì lentamente ma inesorabilmente con piccoli accorgimenti e con assenso di massa da parte della scrupolosa burocrazia italiana e tedesca: isolamento, espulsione, uccisione. Fin nelle più sperdute province, non ci fu scampo...
    I treni, per esempio: i treni viaggiavano lentamente, scrive Hilberg. Destinazione, i campi di concentramento, di annientamento. Isolati quanto si vuole ma i treni passavano per le stazioni, per i centri abitati, le grandi città e nessuno poteva far finta di ignorarli, a partire dallo stesso personale delle ferrovie. Nessuno poteva, ma lo fecero, ignorare le urla che giungevano dai carri-merci in cui erano ammassati i deportati. Nessuno poteva fingere che, se un appartamento abitato da ebrei era rimasto vuoto all’improvviso, chi lo occupava subito dopo non fosse un usurpatore, come ha dimostrato molto bene il film “La chiave di Sara”. Dall’Olanda furono deportati 107mila ebrei. Gli Ebrei in Olanda erano 140mila. Rimasero in molto pochi. Morirono in massa in quei campi della morte, come Anna Frank. Giustamente Hilberg è restìo a usare shoah, olocausto, parole che implicano un sacrificio, qualcosa di rituale: ci fu un delitto, un vile vilissimo delitto di folla.
    Le Nederlandse Spoorwegen (Ns) per questo “servizio” guadagnarono circa 2,2 milioni di sterline: dunque è giusto che ora paghino. Come pagarono nel 2014 le ferrovie francesi (anche dalla Francia di Vichy furono deportati 76mila ebrei e ne sopravvissero solo tremila). Sono passati 80 anni al massimo da allora: è il caso di riflettere. Di sorvegliare, tenere gli occhi aperti. E risarcire, per quel che è ancora possibile. Anche se sul piano morale non c’è risarcimento che tenga. 

  • IL FENOMENO NINO ROTA

    data: 03/12/2018 23:19

    107 anni fa, il 3 dicembre 1911, nasceva a Milano Nino Rota, da una famiglia di musicisti. In particolare fu la madre, Ernesta Rinaldi eccellente pianista, figlia del compositore Giovanni, a impartirgli i primi rudimenti dell’arte che lo avrebbe reso famoso. Infatti, data la negligenza a cui la scuola pubblica relega l’insegnamento della musica, spesso e volentieri è proprio l’imprinting materno a soccorrere. Nel caso di Nino Rota poi, questa passione per la musica si evidenzia molto presto: a 8 anni aveva già riempito di spartiti 15 bauli e fu ammesso alla classe di composizione di Giacomo Orefici al conservatorio di Milano per passare poi all’insegnamento di Ildebrando Pizzetti e di Alfredo Casella, diplomandosi a Roma al conservatorio di santa Cecilia nel 1930. A 11 anni compose e diresse con successo a Milano e in Francia “L’infanzia di Giovanni Battista”. A 19 anni fu per due anni negli Usa, a Philadelphia e poi a Milano s’iscrisse a Lettere e si laureò con una tesi su Gioseffo Zarlino, compositore veneziano del ‘500.
    Proprio a Venezia, all’isola di san Giorgio, alla Fondazione Cini, è conservato il suo immenso archivio di composizioni e anche di libri, dato che fu pure straordinario bibliofilo. Nel 1933 comincia a collaborare con il cinema: la sua prima colonna sonora, a cui ne seguiranno centinaia, è per “Treno popolare” di Raffaello Matarazzo. Nel 1937 insegnò teoria e solfeggio al conservatorio di Taranto e nel 1939 passò al conservatorio di Bari, dove poi fu nominato direttore nel 1950.Vi rimase fino al 1977, quando si trasferì a Roma, per morirvi il 10 aprile 1979, poco dopo aver concluso il trailer per “Prova d’orchestra”. La prima collaborazione con Federico Fellini risale al 1952 e fu l’amicizia della vita ma Rota lavorò molto anche con Visconti, (per “Rocco e i suoi fratelli”, per “Senso”, per il “Gattopardo”), Monicelli, Zampa, Coppola (“Il padrino”) e in tv. Chi non ricorda la sua celeberrima “Pappa col pomodoro” per il Giamburrasca televisivo del 1965 o la marcetta di “Otto e mezzo”?
    Di quanti moderni compositori “classici” si può dire che siano al tempo stesso popolari come Rota? Quanti vengono “cantati e fischiettati” a memoria? Fu spesso giudicato con disprezzo “quello del cinema”. La sua opera buffa “Il cappello di paglia di Firenze” su libretto della madre, presentata a Palermo nel 1955 ma composta dieci anni prima, rappresenta una riedizione dello spirito rossiniano e “Napoli milionaria” (da Eduardo De Filippo), presentata a Spoleto nel giugno 1977, ebbe un gran successo di pubblico, meno di critica. “Il suo stile è limpido, non esente da un certo brio un po’ buffonesco, che tuttavia non va mai al di là di una serena discrezione”, questo il giudizio dell’enciclopedia Utet del 1973, che risulta oggi molto datato.
    Tante le sue composizioni per gli amati strumenti a fiato (clarinetto in primis, accostato anche al pianoforte) per arpa, per viola e violoncello, spesso composte a Bari. Sì, Nino Rota, questo musicista così internazionale ma al tempo stesso schivo e riservato, timido, componeva in una stanzetta del conservatorio di Bari, una villa ottocentesca ammodernata immersa nel verde, e abitava sul mare, ma spesso si fermava anche a dormire nella sua scuola. L’anno scorso, finalmente, Bari gli ha intitolato un largo accanto al teatro Petruzzelli e gli ha intitolato l’auditorium, una magnifica sala che è stata chiusa per anni subito dopo l’inaugurazione, per mancanze nella prevenzione di incendi: con il precedente del rogo doloso del Petruzzelli del 1991 non si poteva scherzare...

    Ma poi il teatro è stato riaperto, dieci anni fa. E giovedì prossimo, 6 dicembre, giorno di san Nicola, ci sarà un gran concerto per celebrare questo decennale, ma per l’Auditorium si è dovuto attendere molto di più, addirittura il 2017. Alla fine, anche questa è fatta: ed è bello visitarlo, il conservatorio, sembra che Rota si aggiri ancora per le sue stanze, con i suoi consigli agli studenti, con i suoi libri sottobraccio, con il suo pianoforte barocco. Un milanese a Bari, e di qui per tutto il mondo. 

  • IL RITORNO DI KAZANTZAKIS

    data: 01/12/2018 18:55

    Toh, di chi si risente parlare! Nikos Kazantzakis, l’autore greco più volte candidato al Nobel, autore di quel “Zorba il greco” famoso più per il film di Cacoyannis interpretato da uno straordinario Anthony Quinn che per il romanzo. Un vero saggio filosofico, uno scontro di civiltà nelle persone dei due protagonisti, l’io narrante, lo stesso autore, fine intellettuale e un uomo dalle mille radici e dalla saggezza pratica ma anche pasticcione come Zorba.

    Bari ha dedicato due giorni, la fine di novembre e il primo dicembre a questo autore, poiché è disponibile un nuovo “Zorba” nella traduzione di Nicola Crocetti (che è nato a Patrasso ma in Italia è noto come il più formidabile diffusore della poesia), una traduzione dal neogreco de “L’ultima tentazione di Cristo” (da cui è stato tratto il celebre film di Martin Scorsese del 1988), che si presenteranno stasera nella libreria Laterza, come presto sarà sugli scaffali il seguito dell’Odissea, oltre 33mila versi, compilata dal nostro, finora inedita in Italia e che lo stesso Crocetti sta per mandare in libreria. Un’occasione dunque per conoscere di più questo autore che non ha scritto solo quel romanzo, ma è stato anche poeta, filosofo, pittore, sceneggiatore, traduttore (dato che conosceva molte lingue) che ha concluso la sua vita a Friburgo, esule ad Antibes e in Germania, contestatore della Grecia dei colonnelli).
    Film sulla figura di Cristo, da lui prediletta proprio per l’ambivalenza di umano e divino, sono stati visionati stamane, I dicembre, al liceo classico barese Socrate e, poiché l’associazione culturale italo-ellenica Pitagora di Bari si fa promotrice dell’amicizia fra i due Paesi europei, presto una sezione della Società internazionale degli amici di Nikos Kazantzakis sorgerà anche a Bari. Questa Società stampa Synthesis, un quadrimestrale sulla sua attività. La città adriatica è sempre stata un approdo sicuro per i greci esuli specie nei periodi di particolare sfortuna politica (vedi la dittatura negli anni Settanta del secolo scorso), ma anche un’attrazione universitaria. Difatti ancor oggi ci sono qui più di 4mila studenti greci. Ed ecco che questi due giorni dedicati a Kazantzakis sono quanto mai opportuni, come ha sottolineato l’assessore comunale alla cultura, Silvio Maselli.
    Nikos Katazankis nacque a Creta, in un villaggio nella provincia di Chania, il 18 febbraio 1883, in territorio turco già allora conteso dai greci. Ci sono state sempre guerre per questo, in cui è intervenuta anche l’Italia contro la Turchia (guerra di Libia dal 29 settembre 1911 al 18 ottobre 1912), come hanno ricordato alcuni eredi, presenti nella sala Massari del municipio, di tal generale Alberto Crispo, sardo di origine ma poi morto a Modugno, vicino a Bari, a 88 anni, il 6 dicembre 1940.
    Pacifista e internazionalista, lo scrittore Nikos si trasferisce presto ad Atene per studiare legge e poi a Parigi, dove viene influenzato dalla filosofia di Bergson e di Nietzsche, decidendo di dedicarsi alla letteratura. Il suo romanzo-cardine è pieno infatti di osservazioni filosofiche e può essere inteso anche come manuale d’esistenza: un libro-mondo come si usa dire adesso. Ed è questo che lo rende ancora affascinante e tradotto in tutto il pianeta, con sempre nuovi fan.
    E sulla scorta del fatto che sin dalla sua morte il 26 ottobre 1957, un letterato di tale importanza sia stato dimenticato (anche se il film lo rilanciò nel 1965), 30 anni fa, esattamente il 14 dicembre 1988, sorse a Ginevra, in Svizzera, per iniziativa della vedova Elène che lì si era stabilita, la Società internazionale degli Amici di Nikos Kazantzakis, diretta da Giorgio Stassinakis che ha curato ovunque la diffusione delle opere del cretese e che venerdì ha ricevuto delle targhe commemorative.
    Stassinakis, che parlava in greco, ha smentito alcuni luoghi comuni: in Grecia Kazantzakis, in quanto anarchico sostanzialmente, è stato considerato a lungo un eretico e Stassinakis stesso lo ha letto solo in Francia perché lo zio archimandrita gliene vietava la lettura; eppure il nostro, non comunista ma amico dei comunisti, certamente fiero oppositore dei fascisti, ecologista ante litteram (le sue descrizioni del mar Egeo e delle isole greche, Creta in primis, sono fantastiche), si è più volte interrogato su Dio ed ebbe come suoi motivi-guida: l’essenza (l’ousìa greca), Dio e la libertà. Kazantzakis non fu mai scomunicato, come si crede e, sepolto sul bastone di Heraklion con una solenne cerimonia religiosa, fece apporre come suo epitaffio: “Non temo nulla, non spero nulla, sono libero”

  • CHE PATRIMONIO I MURETTI

    data: 28/11/2018 23:20

    Patrimonio mondiale dell’umanità: ultimi arrivati, notizia del 28 novembre, i muretti a secco. Ottima scelta. I muretti a secco costellano infatti le campagne della “mia” Puglia, rendendo ancor più bello il paesaggio, a sottolineare gli oliveti e i vigneti che si stagliano sul terreno rosso, quello che i turisti hanno visto spesso solo nei campi da tennis e che qui invece ha la sua colorazione naturale. I muretti a secco, certo, caratterizzano tutto il Mediterraneo e, da ciò che si può vedere e sapere, anche oltre, soprattutto nelle isole britannica e irlandese. Però in Puglia conoscono la loro esaltazione in quell’apoteosi del muretto a secco che è il tetto del trullo, costituito da chianche opportunamente scheggiate in modo da formare il caratteristico e inimitabile cono.
    I muretti a secco, che delimitano le proprietà e che spesso sono interrotte da scalette che immettono nel fondo senza passare dal cancello, sono costruzioni contadine artigianali. E delicate, nonostante la resistenza di secoli. Con le continue piogge e la scarsa manutenzione, anche i tetragoni muretti rischiano di crollare e in diversi punti mostrano spesso il logorio del tempo. Una campagna come quella barese, per esempio - molto verde, ancora molto agricola per fortuna, la cintura orticola che un tempo, prima che l’aggressione edilizia si facesse sempre più imponente, circondava la stessa Bari e ora molto ridotta - merita maggiore attenzione. Spero che questo riconoscimento serva anche da tutela di un patrimonio effettivamente prezioso, fin giù al Salento, dove sulla costa adriatica, per esempio da Santa Cesarea terme a Leuca, ci sono delle vere terrazze delimitate da queste pietre disposte ad arte anche se sembrano facilmente accatastate.

    Il patrimonio artistico, che meraviglia: finalmente in tv stanno passando dei filmati nuovi che illustrano come meritano i luoghi del Belpaese in modo breve ma efficace, non con la tristezza dei vecchi intervalli. Spettacolari quelli dedicati alla costiera amalfitana, a Matera, a Napoli. Non solo: adesso si parla anche di patrimonio umano. E’ difficile definire un monumento: per l’Unesco ora lo sono anche le feste patronali, la pizza napoletana, i burattini siciliani, e ognuno può scegliere il suo. Si tratta delle famose reminiscenze del cuore, così ben descritte da Proust: patrimonio del proprio cuore può essere per esempio un profumo associato a una persona cara che si è persa, un cibo preparato dalla mamma o dal papà, un saluto portato nel cuore. Si tratta in effetti di una categoria infinita, importante però. Perché, come diceva Croce, la storia altro non è che una guerra contro il tempo. 

  • M COME MATTANZA E METOO

    data: 25/11/2018 14:46

    Col titolo “Non molestarmi”, sul sito di Repubblica, che consiglio di leggere, ci sono tutte le storie del #MeToo, di “Non una di meno”, le storie - dalla molestia leggera a quella più pesante, fino purtroppo al femminicidio - che hanno reso necessaria questa giornata internazionale contro la violenza alle donne, che si celebra nel giorno di santa Caterina d’Alessandria, il 25 novembre, giorno delle caterinette, le sartine di Parigi, di Torino, sottopagate nell’epoca della rivoluzione industriale, fine Ottocento. Perché alla fine, questa storia delle violenze, è pur sempre lotta di classe.
    Cercate in rete il video di un monologo stupendo che Rairadiotre ha diffuso nell’ambito della rassegna teatrale “Tutto esaurito”. Gloria Saitta, una giovane e bravissima attrice, con la regia accorta di Giorgio Barberio Corsetti, impersona Irina Lucidi, dal romanzo di Conchita De Gregorio “Mi sa che fuori è primavera”. Irina, come spiega nel libro e come la Saitta interpreta al meglio, è la sventurata donna a cui nel gennaio 2011 il marito, un ingegnere svizzero, Mathias Shepp, fece sparire le loro figlie, le gemelline Alessia e Lidia, 6 anni, prima di gettarsi sotto a un treno a Cerignola, dopo essere stato in Corsica, aver attraversato mezza Italia e aver spedito una cartolina alla moglie, che si stava separando da lui: “Le bambine non hanno sofferto...Non le rivedrai mai più”. E Irina, un’avvocata che lavorava nella stessa nota multinazionale di questo pazzo (perché alla fine di malati di mente si tratta), ma con un grado superiore, uno stipendio più alto, che pochi giorni prima aveva spedito una mail all’ormai ex marito pregandolo di attenersi alle disposizioni del giudice, viene trattata dagli inquirenti come colpevole, proprio a causa di quella mail, il che ha ritardato indagini che non sono state fatte, sul terreno sulle scarpe dell’uomo per esempio, o per fermare subito la macchina intestata a Irina ma presa da lui, dal momento della tempestiva denuncia di scomparsa delle bambine.
    Lotta di classe, differenza di ambienti, di lavoro, di mentalità, alla fine di stipendio. O vogliamo citare, e lo facciamo, Antonietta Gargiulo, di Cisterna di Latina a cui il marito, appuntato scelto dei carabinieri, Luigi Capasso, il 28 febbraio scorso ha ucciso due figlie ragazzine. Ha quasi fatto fuori pure lei, lei che non voleva denunciarlo anche perché non sarebbe stata creduta dai colleghi del marito, gli stessi che hanno intavolato con lui una lunga trattativa quella mattina, fino all’epilogo, al “capofamiglia” che si spara e solo allora all’irruzione in casa per trovare i corpi senza vita delle povere fanciulle, mentre la madre versava in fin di vita in ospedale, soccorsa dai vicini. E anche in questo caso la separazione era in atto.
    E ad Aosta c’è anche il caso contrario: una infermiera che ha ucciso se stessa e i suoi due figli, ragazzini anche qui, con iniezioni al potassio, per far del male al marito, finito in psichiatria sotto choc e qui non c’erano avvisaglie, i vicini hanno commentato: “Una famiglia normalissima”…
    Ma questo, come tantissimi altri casi, rischia ormai di ridursi a due righe in cronaca, di diventare un fatto non eclatante ma consueto: uccisa, il fidanzato o il marito ha confessato. E’ successo questo sabato 24 novembre, a Firenze, in via santa Caterina d’Alessandria, guarda il caso... Una ragazza di 21 anni è stata trovata morta in un ostello; è stato il fidanzato, 30 anni, che lo ha confessato subito ai dipendenti allibiti dell’hotel. Futili motivi, come la coppia piemontese arrivata in vacanza in Sardegna da amici e poco dopo lei, da anni fidanzata con lui, viene trovata morta; lui comincia a parlare di rapinatori “ovviamente” extracomunitari arrivati dalla spiaggia e invece, dopo oltre un mese d’inutili sospetti, confessa: l’ha uccisa proprio lui...
    Ogni 72 ore, in Italia, si uccide una donna. Una mattanza. Oppure donne che la fanno finita. A Rimini, sempre ieri, si è scoperto che una moglie si era suicidata a metà ottobre dopo 34 anni di maltrattamenti del marito; lei l’aveva denunciato e ora lui se la prendeva con la figlia. E non poteva tornare a casa, come l’uomo che l’altro giorno a Sabbioneta (Mantova) ha dato fuoco alla sua ex casa, provocando la morte di un suo figlio undicenne. Anche qui, denunce, separazione in atto, guerra già dichiarata insomma e allora, forse, prevenire non sarebbe poi così difficile. Basterebbe allontanare le parti in causa, interrompere davvero qualsiasi rapporto. Ma è mai possibile che una soluzione così semplice non venga in mente a nessuno?
    Irina Lucidi ha spiegato che, durante la crisi del suo matrimonio, lei e il marito andavano da una psicologa, lì in Svizzera, dove abitavano, e lei spiegava all’emerita “studiosa” che il fatto che il marito mettesse post-it dovunque con le spiegazioni dettagliate di come lei dovesse vestire o nutrire le bambine le pareva un’esagerazione. Come ha reagito la psicologa? Ne rideva con il marito e dopo la tragedia, attaccò il telefono a Irina dicendole: “Non mi disturbi più”.
    A cosa servono le migliaia di psicologi che si sono laureati in questi anni? A cosa servono le denunce se non a incrudelire ancor di più soggetti in evidente stato confusionale? Distanza, ci vuole, ci vogliono i chilometri, ci vuole l’assenza, ci vuole la protezione: lo Stato deve provvedere a ciò, se non ce la fanno i soggetti, perché davvero di questa cronaca non se ne può più. E qui entra in gioco, di nuovo, la lotta di classe: se questa separazione non è possibile, anche per motivi economici, dev’essere imposta.

    Un’ultima cosa. “Non è normale che sia normale”, la campagna contro la violenza alle donne promossa da Mara Carfagna, vede vari personaggi segnarsi con un rossetto la guancia per far capire che non è normale che sia normale un livido... Anni fa la stessa campagna riportava le foto di donne veramente ferite e secondo me era più efficace; queste si presentavano al pronto soccorso e dicevano, mentendo: “Sono caduta dalle scale”… Meglio che usare il rossetto, un oggetto che personalmente adoro e mai assocerei alla violenza. 

  • 64 ANNI DI FOCOLARE TV

    data: 21/11/2018 18:56

    Oggi, 21 novembre, è la giornata internazionale della televisione, la cui patrona poi è santa Chiara. Forse allusivamente: perché trasmettere in chiaro è una delle prerogative principali della tv, questo straordinario mezzo che ha scandito la mia vita, in quanto in Italia la prima trasmissione risale al 3 gennaio 1954 e io sono...beh, lasciamo perdere. Confesso subito che adoro la tv, proprio perché è una presenza familiare, come pure la radio, mai mancata per me e che accendo per prima, insieme con il caffè mattutino. I primi programmi che ricordo sono i cartoni animati: le avventure di Pow Wow, un piccolo indiano, mi divertivano tanto che una mia zia mi soprannominò così. E naturalmente ci fu la Tv dei ragazzi, con quella sigla magnifica della banda di Topolino (usata anche da Kubrik in Full Metal Jackets) alternata con la Sinfonia dei giocattolo di Mozart padre. Rin tin tin, Belle e Sebastien, Francis il cavallo parlante, quante risate...I film in bianco e nero che guardavamo la mat