Nel 1911 giornalisti ed editori, al termine di un lungo confronto, firmavano a Roma la “Convenzione di prestazione d'opera giornalistica". Salvatore Barzilai, nella sua qualità di Presidente della Federazione aveva provveduto ad individuare, d’intesa con l’Unione Editori di Giornali e con l’Unione Professionale di classe, i componenti delle due commissioni che in rappresentanza, rispettivamente, degli editori e dei giornalisti si sarebbero confrontate per raggiungere un accordo. Le trattative, si aprirono, come concordato, alle ore 10 del 7 giugno. Il Presidente Barzilai, cui era affidato il compito di presiedere e aprire i lavori, dopo aver ricordato che i rapporti tra giornalisti ed editori “in mancanza di leggi e di convenzioni” erano stati regolati nel tempo dalla giurisprudenza probivirale delle Associazioni e del collegio della Stampa di Roma, che fungeva anche da collegio federale, e che nella discussione apertasi all’interno della categoria dopo la presentazione del progetto di legge Fani era prevalsa l’opinione che “non fosse per ora il caso di chiedere al Parlamento una legge e fosse invece miglior consiglio ricorrere ad una convenzione privata, la quale stabilisca alcune norme fondamentali regolatrici dei rapporti tra giornalisti e proprietari di giornali”, riassunse i punti che, a giudizio dei giornalisti, avrebbero dovuto costituire oggetto della convenzione e che riguardavano l’inammissibilità dei contratti a termine senza diritto alle indennità (fissa e mobile) previste in caso di risoluzione del rapporto, il riconoscimento della qualifica di redattore agli aiuto corrispondenti e agli stenografi che esercitavano la loro attività esclusivamente nei giornali, la regolamentazione del trattamento dei collaboratori e degli articolisti, l’obbligatorietà del ricorso al giudizio del collegio probivirale federale in presenza di controversie di carattere economico.
Dopo l’esposizione di Barzilai entrambe le commissioni ritennero opportuno che anche gli editori esponessero le loro richieste e così il presidente Balzan precisò che da parte editoriale non vi erano remore ad accettare la definizione delle indennità di fine rapporto purché l’indennità fissa per i direttori fosse lasciata all’intesa tra le singole parti e l’indennità mobile di una mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità decorresse dopo almeno cinque anni di anzianità aziendale. Gli editori, inoltre, erano disponibili ad equiparare ai redattori ordinari i corrispondenti dalla capitale e dalle grandi città, ma chiedevano che tutti i giornalisti dovessero sottostare ad un periodo di prova di sei mesi, mentre sulle controversie inerenti l’applicazione della convenzione erano di massima d’accordo purché si costituisse un apposito collegio arbitrale composto paritariamente tra i rispettivi rappresentanti.
Chiarite le posizioni di entrambe le parti, le due delegazioni si riunirono separatamente per una valutazione delle reciproche richieste. Gli editori dal canto loro presentarono un testo di proposta di convenzione sulla quale i giornalisti avanzarono osservazioni e proposero modifiche. La discussione tra le due delegazioni finì per protrarsi, senza che fosse raggiunta un’intesa, sino all’una di notte (inaugurando così una consuetudine che avrebbe da allora in poi caratterizzato inesorabilmente tutti i successivi confronti contrattuali), per poi aggiornarsi al giorno dopo.
L’8 giugno, dopo riunioni separate e congiunte delle due delegazioni e dopo un’ultima sessione plenaria caratterizzata da una “animata discussione”, le parti concordarono un testo di massima di convenzione che affidarono ad una speciale commissione presieduta da Barzilai e composta da Cassola per i giornalisti e da Malagodi per gli editori, coadiuvati dalla segreteria del convegno, Biadene, Pacciarelli e Bagaini, con il compito di coordinarne il testo senza toccarne “la sostanza e possibilmente neanche la forma”, integrandolo con disposizioni a favore del giornalista colpito da malattia, con la regolamentazione della indennità di licenziamento durante il periodo di praticantato, allora definito apprentissage, e del periodo di preavviso in caso di dimissioni. Dopo altri due giorni, l’11 giugno il testo della convenzione era finalmente pronto.
Erano bastati cinque giorni di lavoro, sia pure intenso, per stipulare il primo contratto collettivo di lavoro dei giornalisti italiani, firmato da Olindo Malagodi, editore de La Tribuna, e Giovanni Bagaini per l’Unione degli editori e per i giornalisti da Garzia Cassola, già corrispondente de Il Lavoro di Genova e del turatiano Tempo di Milano, poi redattore capo dell’Avanti!, e Giulio Pacciarelli de La Tribuna, oltre che dal Presidente della Federazione della Stampa, Barzilai e dal Segretario generale, Giovanni Biadene .
Il testo della convenzione era di soli otto articoli e partiva dalla definizione di “giornalista professionista”, intendendo per tale chi da almeno due anni facesse del giornalismo “la professione unica e prevalente”. Si stabiliva il principio del tempo indeterminato dei contratti di lavoro, salvo i casi di assunzione per incarichi speciali o temporanei, si prevedeva il diritto a una indennità di fine rapporto, “fissa”, determinata dalla qualifica, e un’indennità “mobile”, legata all’anzianità aziendale, la cui maturazione decorreva dopo tre anni di lavoro presso la stessa azienda, un periodo obbligatorio di prova, all'atto dell'assunzione, della durata di sei mesi e l'obbligatorietà del ricorso al Collegio dei probiviri della Federazione della Stampa in caso di controversia con la precisazione, però, che sarebbe stata rivista la composizione del collegio tra i cui componenti, nel numero complessivo di otto, doveva essere prevista la presenza di quattro rappresentanti degli editori, ancorché iscritti all’Associazione della stampa.
L'art. 7, inoltre, prevedeva il diritto dell'editore o del direttore "che ne abbia facoltà" di fissare gli orari di lavoro e attribuire i compiti a ciascun redattore dando "tutte quelle dispo¬sizioni di servizio che ritenesse opportune per il buon andamento del giornale ". Nessun accenno si faceva alla clausola di coscienza.
La convenzione si applicava a tutti i giornalisti iscritti ad una delle Associazioni stampa federate e in tutte le aziende editoriali aderenti all’Unione degli editori, ma a conclusione dell’accordo la delegazione editoriale prese l’impegno morale a farla rispettare anche da parte delle aziende non aderenti .
La Convenzione costituiva il primo regolamento normativo del rapporto di lavoro e fu generalmente salutato come positivo stru¬mento di tutela del "proletariato del giornalismo", e non a caso nel mese di maggio, l’on. Luzzatti, aprendo a Roma i lavori del XV congresso dell’ Union Internazional des Associations de Presse, che affrontava alcuni dei temi centrali della professione come il segreto professionale, il trattamento contrattuale, e la previdenza, aveva potuto a buon diritto e con non celato orgoglio concludere che le normative probivirali, il contratto di lavoro e la cassa pensionistica perseguiti dai giornalisti italiani tramite la loro Federazione avevano garantito alla categoria risultati “degni di imitazione” da parte dei “colleghi degli altri Stati” .
Ma in parte della categoria, le cui aspettative erano cresciute, la convenzione non fu accolta con grande entusiasmo e l’insoddisfazione crebbe a tal punto da far rimettere in discussione i contenuti dell'accordo...
Blog
GIANCARLO TARTAGLIA
-
IL PRIMO CONTRATTO
GIORNALISTI-EDITORI
APPENA FIRMATO
MESSO IN DISCUSSIONEdata: 07/12/2020 19:35
-
1910, "IL DIRETTORE NON E'
MANDATARIO DELL'EDITORE
LA SUA LIBERTA' E' SACRA"data: 26/09/2020 12:59
Nella difesa dei diritti professionali si affiancava alle sentenze della magistratura e ai lodi probivirali l’opera delle Associazioni territoriali di Stampa, che nei limiti delle loro modeste possibilità e in una cornice legislativa estremamente carente, cercavano come potevano di intervenire con risultati talvolta positivi. Nel 1907, per esempio, l’Associazione Lombarda, non a caso la più agguerrita nella difesa sindacale della categoria, sollecitata dai cronisti, le cui modeste retribuzioni oscillavano tra 50 e 80 lire al mese, avviò con i direttori e gli editori della regione una vertenza sui minimi di stipendio, raggiungendo un risultato ottimale con un’intesa che stabiliva per i giornali lombardi un minimo di stipendio mensile di 150 lire.
Ad agosto del 1909, quando gli eredi del defunto direttore de Il Resto del Carlino, Zamorani, cedettero la proprietà della testata agli agrari emiliani, attestati su posizioni fortemente conservatrici, il consiglio direttivo dell’Associazione della Stampa Emiliana intervenne a tutela dei giornalisti licenziati e pose la questione all’attenzione della Federazione della Stampa, sostenendo che un giornale non potesse essere considerato alla stregua di qualsiasi altra azienda industriale, poiché era “un organismo che ha per iscopo la diffusione delle idee politiche e morali professate da un partito” e pertanto, se da un lato non era “onesto” per un giornale cambiare da un giorno all’altro linea politica, era soprattutto “ingiusto” che “integerrimi lavoratori, colpevoli solo di aver eseguito con intelligenza e con coscienza il proprio dovere, siano d’improvviso posti nel terribile bivio o di rinnegare le proprie opinioni, o di vedersi gettati con le famiglie sul lastrico” .
A settembre del 1910 una sentenza del Tribunale di Torino, affrontando una vertenza giudiziaria promossa dal direttore de La Gazzetta di Torino, Dante Signorini De Pelosi, per anni componente del direttivo dell’Associazione Subalpina e suo rappresentante nel consiglio federale, contro Carlo Minetto, agente pubblicitario divenuto proprietario del giornale, affermava con grande rilievo il principio della responsabilità del direttore di una testata e la separazione tra i compiti del direttore e i diritti dell'editore. "Il giornale –sentenziava il tribunale –è un'impresa sui generis che non può essere confusa con alcun’altra", anche se lo scopo dell’editore sia di natura speculativa e commerciale, perché esercita "un'influenza sensibile sullo sviluppo della vita sociale". In conseguenza di questa premessa, a giudizio della magistratura, il direttore non poteva essere considerato un mandatario dell'editore e, pertanto, nell'ambito del rapporto di lavoro giornalistico, la sua libertà di giudizio doveva essere piena e senza interferenze da parte dell’editore, il quale “rappresenta l’elemento di speculazione del periodico, fa le spese per la sua produzione e ne percepisce gli utili”, ha la libertà di assumere chi vuole come direttore, ma una volta compiuta questa scelta non ha più nessun potere di interferire sulla “libertà di pensiero e di giudizio” del giornalista “che è sacra e che forma un patrimonio giuridico”. Il direttore di un giornale non può fare “gli interessi della persona fisica o giuridica che lo abbia chiamato a quel posto”, bensì “gli interessi superiori del pubblico”, perché la sua “libertà di giudizio e di pensiero” “è sacra e forma un patrimonio giuridico protetto” .
Si trattava, come è evidente, di una sentenza di grande rilievo, che avrebbe rappresentato la base giuridica sulla quale nel corso degli anni si sarebbe costruita la normativa di garanzie contrattuali della figura e del ruolo del direttore e dell’autonomia delle redazioni nei confronti degli interessi editoriali, ma che, soprattutto, contribuiva a quella evoluzione giurisprudenziale che induceva ad individuare, per la regolamentazione del lavoro giornalistico, strade differenti da quella legislativa.
-
DI RUDINI' E BAVA BECCARIS
FEROCE REPRESSIONE
SU OPPOSIZIONE E GIORNALIdata: 21/08/2020 14:50
Tra il 1896 e il 1897 l’ aumento dei prezzi del grano conseguenti alla guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna per Cuba, che aveva ridotto le importazioni di grano, già limitate dal mantenimento di elevate tariffe doganali sull’importazione, aveva provocato una crisi economica, aggravata dalla decisione del governo di non abolire, sia pure temporaneamente, il dazio sul grano. La situazione sfociava nell’aprile del ‘98 nei primi moti di piazza, che partiti da Faenza e dalla Romagna si erano ben presto diffusi nelle campagne pugliesi, lucane e campane e da lì in tutta la penisola. All’azione repressiva del governo aveva risposto lo sciopero dei muratori di Firenze accompagnato da un grande corteo e da scontri e violenze che indussero il governo, guidato dal Di Rudinì, a proclamare in città lo stato d’assedio. Il 10 maggio, lo stato d’assedio veniva proclamato anche a Napoli, in risposta a scontri di piazza seguiti a una manifestazione promossa dagli studenti repubblicani e socialisti, e fu imposto ai giornali di non parlare di quanto stava avvenendo a Milano.
Contravvenendo a tale imposizione Scarfoglio informò i suoi lettori sugli avvenimenti milanesi attaccando violentemente il capo del governo addossandogli la responsabilità dei disordini causati, come scrisse su Il Mattino, “dall’asinità, dall’ignavia, dalla puerilità del ministro Rudinì”. Immediatamente, per ordine del prefetto la redazione del quotidiano napoletano fu invasa dalla polizia, le copie del giornale sequestrate dalle edicole e strappate dalle mani dei passanti. Contro Scarfoglio fu emesso un mandato di cattura e fu aperto contro di lui un processo davanti ai tribunale militare. Inoltre, con la giustificazione dello stato d’assedio nel capoluogo partenopeo il prefetto impose la sospensione delle pubblicazioni del giornale per quasi due mesi con grande irritazione del suo direttore, feroce avversario del Di Rudinì, convinto che lo stato d’assedio fosse stato proclamato proprio per colpire lui e il suo giornale, che subiva ormai da mesi continui sequestri. Per evitare l’arresto Scarfoglio, che in quei giorni era a Roma dove tentava di far uscire Il Mattino, con la scusa d'impegni di lavoro, si era rifugiato in Francia.
Ma gli episodi più gravi si erano svolti a Milano dove l’arresto di due giovani che distribuivano volantini politici agli operai davanti agli stabilimenti della Pirelli dette inizio, nonostante i richiami alla calma di Filippo Turati, all’agitazione popolare con la formazione di un corteo e gli inevitabili scontri con le forze dell’ordine, che provocarono in quel primo giorno due morti e quattordici feriti.
Il giorno successivo, 7 maggio, Milano si svegliò con la chiusura delle fabbriche imposta dalle autorità militari, timorose per un riacutizzarsi dei disordini, e la conseguente irritata reazione dei lavoratori che improvvisarono un lungo corteo nel centro della città, innalzando barricate per impedire l’intervento delle forze dell’ordine. La convinzione di trovarsi di fronte ad un moto insurrezionale organizzato e di vaste proporzioni spinse Di Rudinì a proclamare lo stato d’assedio a Milano e autorizzare una repressione feroce, condotta con mano militare dal generale Bava-Beccaris, nominato commissario regio straordinario con pieni poteri, che abbatté le barricate dei dimostranti a suon di cannonate, provocando centinaia di morti. La tesi insurrezionalista, peraltro, fu sostenuta e diffusa dalla stessa agenzia Stefani che in un dispaccio del giorno 7 riferiva che “alle ore 22,5 il movimento aveva il carattere di una vera rivolta” e il giorno successivo telegrafava che “la rivolta di Milano in queste ultime ore fu terribile più di quanto si poteva prevedere… In quest’ora il fuoco è cessato, ma l’agitazione, che pare assopita, non è ancora spenta. Si temono nuovi tumulti per domani”, alimentando così in tutta Italia la paura di una insurrezione organizzata.
Tra le disposizioni impartite dal governo e direttamente da Rudinì al Bava-Beccaris vi era anche quella di “esercitare la più severa censura sulla stampa”. Ne seguirono le perquisizioni in molte redazioni, l’espulsione dei corrispondenti dei giornali stranieri e gli arresti di numerosi esponenti del giornalismo e della politica milanese. Nel primo pomeriggio del 7 maggio un nutrito numero di agenti in borghese invase la redazione de L’Italia del Popolo, sequestrando carte e documenti, imponendo la cessazione delle pubblicazioni e portando in Questura, dove fu formalizzato il loro arresto, tutti i giornalisti presenti in redazione, dal direttore Gustavo Chiesi, che aveva sostituito l’anno precedente alla guida del giornale Dario Papa, scomparso prematuramente, a Bortolo Federici, Ulisse Cermenati, Ernesto Valentini, un giornalista crispino già direttore de La Sera, in visita al giornale, e Arnaldo Seneci, che ne era anche l’amministratore, ai quali si aggiunse l’on. Luigi De Andreis sopraggiunto in redazione mentre la perquisizione era in atto.Lo stesso di Rudinì confermò telegraficamente a un dubbioso prefetto l’ordine di arresto del parlamentare repubblicano. Nella nottata fu perquisita la redazione de Il Secolo, sequestrati articoli e carte e arrestati il direttore Carlo Romussi e l’unico redattore presente, Emilio Girardi, imposta la sospensione delle pubblicazioni. Nell’ultimo numero del giornale Romussi aveva indicato nella polizia l’unica responsabile dei disordini. Alle cinque della mattina dell’8 maggio fu arrestata Anna Kuliscioff e poche ore più tardi Filippo Turati e Leonida Bissolati, direttore dell’Avanti!, che era appena arrivato a Milano da Roma proprio con lo scopo di inviare notizie al suo giornale su gli avvenimenti di quei giorni. Turati e Bissolati si erano recati in Questura per protestare per l’arresto della Kuliscioff, ma poiché di Rudinì aveva telegrafato che lo stato d’assedio annullava le garanzie statutarie per i parlamentari colti in flagranza di reato, Bava Beccaris ritenne opportuno arrestarli. Ma furono arrestati nei giorni seguenti anche Paolo Valera, collaboratore della Critica Sociale, Eliseo Rivera, direttore de La Gazzetta dello Sport, Oddino Morgari, Costantino Lazzari. Fu espulso dall’Italia Herbert White, corrispondente del Daily Mail, per aver trasmesso notizie “false e allarmanti”.
Furono chiuse le sezioni socialiste e repubblicane, furono sospese d’autorità in tutta Italia le pubblicazioni di 110 testate, da L’Italia del Popolo (12.000 copie al giorno) a Il Secolo (100.000 copie al giorno) di Milano, sospeso per quattro mesi, a Il Mattino di Napoli, sospeso per più di due mesi. La paura dell’insurrezione colpì indiscriminatamente anche testate minori e fogli satirici. A Mantova fu sequestrato il periodico Il Lirone, il cui sottotitolo, “giornale di economia umoristica e organo degli ipocondriaci”, avrebbe dovuto indurre a una maggiore prudenza e al cui direttore non parve vero poter raccontare ironicamente nel numero successivo come la redazione del giornale fosse stata “improvvisamente presa d’assalto da una turba di pompieri e guardie campestri” perchè “carabinieri e guardie di P.S. erano impegnati a sedare la rivoluzione che non c’era, ma che pareva che potesse essere possibile che ci dovesse essere” .
Ma dalla farsa la paura per una “rivoluzione che non c’era” si trasformò in tragedia. Il 9 maggio, quando già buona parte dei dirigenti repubblicani e socialisti erano stati arrestati e i loro giornali sospesi, la voce, destituita di ogni fondamento, che nel convento dei cappuccini di porta Monforte si fossero asserragliati alcuni rivoltosi, convinse Bava Beccaris ad assalire i frati a colpi di cannone, ad arrestarne una sessantina insieme ai mendicanti in fila per la minestra e ad uccidere una quarantina di persone, per la maggior parte ignari passanti.
Dal carcere Romussi, in attesa del processo, si rivolse, con una lettera senza esito, a Zanardelli, che era ministro di Grazia e Giustizia, appellandosi a “quel sentimento di giustizia che fu la guida di tutta l’onorata sua vita”, per rivendicare il ruolo di pacificazione che Il Secolo, sotto la sua direzione, aveva svolto in quelle convulse giornate di maggio e gli avvertimenti che il giornale aveva lanciato nei mesi precedenti per denunciare una situazione di crisi che si andava aggravando.”Lo si fosse ascoltato!”, commentava e, invece, quelle denuncie erano state interpretate come incitamenti alla rivolta. “Qual è quel medico – ironizzava Romussi – che crede di guarir la febbre col rompere il termometro che ne segna i gradi? Il termometro addita il male non è la causa”. “A lei pertanto mi rivolgo – concludeva Romussi – chiedendo sia ripresa la pubblicazione del Secolo e siano ridonati alla libertà il sottoscritto e il signor Girardi” .
Simile a Milano la situazione a Firenze, dove l’estensione dello stato d’assedio consentì la soppressione di tutti i giornali di opposizione. Diversa, invece, la situazione di Roma, che, anche grazie alla scarsità di notizie provenienti da Milano “non subì nessuna perturbazione e lo stato d’assedio non la contaminò”. L’unico giornale che fu preso di mira dalle forze di polizia fu l’Avanti!, che subì l’arresto di tutta la redazione e che per poter continuare le pubblicazioni fu affidato a un gruppo di militanti guidati dall’on. Ferri, dopo l’arresto a Milano del direttore Bissolati, ma il 23 maggio l’Assemblea dell’Associazione della Stampa di Roma, convocata d’urgenza, condannò le decisioni governative assunte in violazione delle leggi e denunciò con preoccupazione la soppressione della libertà di stampa in Italia.
La repressione si estese anche alla stampa e alle organizzazioni cattoliche di tendenza democratica ree di aver sostenuto i moti socialisti e repubblicani nel combattere la monarchia. 3.000 associazioni cattoliche furono soppresse e il 24 maggio fu arrestato don Davide Albertario, direttore de L’Osservatore Cattolico, che diffondeva 10.000 copie al giorno, anch’egli tra i soci fondatori dell’Associazione Lombarda e presidente dell’Associazione dei Giornalisti Cattolici. Il 10 maggio Bava Beccaris aveva ordinato la cessazione delle pubblicazioni dell’Osservatore, ricevendone i complimenti del Di Rudinì, ma don Albertario ne aveva già sospeso l’uscita dal giorno 7. L’accusa per la maggior parte dei giornalisti era, non solo, di aver istigato “a mezzo stampa”, ma anche di aver organizzato la sommossa per “mutare violentemente la costituzione dello Stato” .
-
PER LE AGITAZIONI DEL 1898
IL TRIBUNALE MILITARE
PROCESSO' I GIORNALISTIdata: 28/07/2020 17:49
Gustavo Chiesi fu accusato di aver scritto un articolo il 6 maggio, in cui si sosteneva che i militi di Bava Beccaris erano assetati di sangue, e la mattina del giorno dopo di essere stato visto in carrozza, insieme a De Andreis, discutere “con persone del popolo” (circostanza peraltro smentita dalle testimonianze e dallo stesso Chiesi in sede di interrogatorio), per poi installarsi nella redazione del suo giornale dove sarebbe stato arrestato insieme agli altri redattori “riuniti in comitato, quando cominciava a fervere la lotta, con l’intenzione manifesta di dirigerla e dare le istruzioni occorrenti per proseguirla”.
(1898. Nel Tribunale militare speciale, a piano terra del Castello Sforzesco, a Milano, si svolge il processo con procedura sommaria “dei giornalisti”, imputati, tra gli altri, insieme ad un gruppo di militanti anarchici, la Kuliscioff, Romussi, don Albertario, Chiesi, Valera, Cermenati, Seneci, Federici, Stefano Lallici, Emilio Girardi e Pietro Zavattari, rappresentanti di tutta la stampa d’opposizione, socialisti, repubblicani, radicali e cattolici. Con l’accusa di aver organizzato un complotto rivoluzionario, che avrebbe preso le mosse dal funerale di Cavallotti)
A dimostrazione della premeditazione Bartolo Federici, contro il quale non vi erano altre specifiche imputazioni, arrestato insieme a Chiesi, fu accusato di aver scritto nel mese di marzo un articolo in cui si avvertiva che “stavano per suonare le diane dell’ora novella” e che “l’ora fatale precipitava”. Né, più probatori erano gli altri elementi di accusa. A Romussi fu imputata la sua attività giornalistica per “continui e innumerevoli articoli di una deleteria propaganda contro le autorità e le istituzioni” e la sua direzione de Il Secolo. A Valera di aver scritto articoli “sempre violenti ed informati ai più stretti principii della lotta di classe”. Addirittura, ad Anna Kuliscoff di aver esercitato un grande ascendente sulle donne, che, quindi, non a caso, avevano dimostrato nella sommossa “maggiore ferocia”. A don Davide Albertario, “di carattere battagliero e violento”, di aver tenuto una condotta poco morale e di aver sostenuto con i suoi scritti “il cambiamento della forma di Governo”, “gareggiando così col partito repubblicano e socialista nel combattere la Monarchia e nel suscitare l’odio di classe”. Per tutti questi elementi, Chiesi, Lallici, Federici, Cermenati, Seneci e Romussi furono, conclusivamente, accusati di avere tra loro “concertato e stabilito di mutare violentemente la costituzione dello Stato e la forma di Governo e far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i poteri dello Stato”. La Kuliscioff di aver pubblicamente eccitato a compiere gli stessi reati, don Albertario di aver incitato con i suoi articoli all’odio fra le classi sociali “in modo pericoloso per la pubblica tranquillità”, e di aver commesso fatti “diretti a mutare violentemente la costituzione dello Stato”. Soltanto nei confronti di Emilio Girardi, non riuscendo a imputargli nessun reato, la pubblica accusa chiese il non luogo a procedere, ordinandone l’immediata scarcerazione.
Il dibattimento durato sei giorni, nei quali, dopo l’interrogatorio di tutti gli imputati, si avvicendarono sul banco dei testimoni nove testi per l’accusa e un numero molto alto per la difesa, non portò a dimostrare nessun elemento accusatorio. Tra le presunte prove contro Romussi fu presentata in aula una lettera di Mario Borsa, allora corrispondente da Londra per il giornale, in cui al termine di una corrispondenza sul conflitto ispano-americano Borsa scriveva a Romussi “sappimi dire se scoppia la rivoluzione e tornerò in Italia”. Contro Chiesi e la redazione de L’Italia del Popolo fu presentato un rapporto della Questura dal quale emergeva che ritenendo necessario distribuire armi per la rivolta, ma volendo farlo senza allarmare le autorità, il giornale aveva deciso di offrire agli abbonati, come premio, una scure con la scritta “dalli al tronco” e anche randelli, tira-pugni e fazzoletti di seta rossa. Tutti strumenti evidentemente indispensabili, a parere della Questura, per portare a termine con successo un colpo di Stato.
Nella sostanza, in sei giorni di dibattimento, le numerose testimonianze a favore degli imputati e l’assoluta assenza di elementi probatori demolirono il castello accusatorio che era stato costruito artificialmente e che non aveva nessuna base giuridica, come ribadì con fermezza Romussi nella sua lucida autodifesa. “Nessuna legge – asserì il direttore de Il Secolo – permette che i reati di stampa siano sottoposti a un tribunale di guerra; tanto più che il mio giornale fu sequestrato e soppresso prima della pubblicazione ufficiale dello stato d’assedio”, per concludere “dichiaro, quindi, che ritengo illegale il mio arresto, illegale la soppressione del giornale, illegale il presente giudizio”. A difesa di Chiesi intervenne, tra gli altri, anche il direttore de La Lombardia, Gianderini. Il Questore di Milano, chiamato a sostenere le tesi dell’accusa, si limitò a esprimere la personale opinione che i moti fossero stati organizzati dai partiti dell’estrema e fomentati dai giornali. Il vice ispettore Prina sostenne di essersi convinto già da alcuni giorni prima che si stava preparando un moto rivoluzionario, ma alla domanda su quali elementi a sua conoscenza rispose di non esser in grado di precisare fatti specifici.
Al termine di una settimana di dibattimento, il Pubblico Ministero nella sua requisitoria, non avendo altre frecce al suo arco (“di fronte a questi delinquenti è difficile trovare una prova diretta”), si concentrò sull’unica accusa, in qualche modo sostenibile, quella della istigazione mediante la pubblicazione di articoli, uniche “prove della loro colpabilità”. Non potendo, per assoluta mancanza di prove, fare ricorso all’art.118 del Codice Penale, che prevedeva la pena non inferiore a 12 anni di reclusione, nei confronti di chi commettesse atti tesi a mutare violentemente la costituzione dello Stato e la forma di Governo, e benché Romussi nella sua difesa avesse lapidariamente affermato che “il reato è un fatto concreto non è una deduzione”, utilizzò le diverse norme sull’istigazione per chiedere la condanna a pene reclusive di tutti gli imputati, tranne il Seneci, nei cui confronti fu ritirata l’accusa.
La mattina del 23 giugno il Tribunale militare emise la sua sentenza. Pur caduta l’accusa di complotto, gli imputati furono ritenuti responsabili dei fatti milanesi, perché “a disordini già cominciati” invece di “far sentire una parola di pacificazione” “scrissero articoli violenti, esagerarono i fatti già avvenuti”. Era, quindi, “fuori di dubbio” che con la loro propaganda erano stati la causa degli avvenimenti “riservandosi di trarre profitto da quanto poteva succedere”. Anna Kuliscioff fu condannata a due anni di reclusione e a una multa di 1.000 lire, Gustavo Chiesi, a sei anni di reclusione e un anno di vigilanza, Bortolo Federici a un anno di reclusione e un anno di vigilanza, Carlo Romussi a 4 anni e due mesi di reclusione e un anno di vigilanza, don Davide Albertario a tre anni e a 1.000 lire di multa, Paolo Valera a 18 mesi e 500 lire di multa. A Stefano Lallici, non potendolo condannare per cospirazione, furono inflitti 45 giorni di detenzione e 50 lire di multa per aver costituito un circolo “di indole prettamente repubblicano e per discori in pubbliche riunioni”. Soltanto Arnaldo Seneci e Ulisse Cermenati de L’Italia del Popolo furono assolti.
Le sentenze del tribunale di guerra erano inappellabili e potevano essere impugnate in Cassazione soltanto per incompetenza o eccesso di potere. Il giorno seguente tutti i condannati furono trasferiti nel reclusorio di Finalbergo per scontare la pena. In quel clima di sospetti e paure che serpeggiava in tutto il Paese, persino Edoardo Scarfoglio, a causa degli articoli pubblicati sul Mattino, fu condannato, in contumacia, a 8 mesi per disfattismo e incitamento alla guerra civile.
A seguito delle sentenze di Milano nel capoluogo lombardo iniziò la pubblicazione clandestina di un giornale dal titolo Pro Amnistia e con il sottotitolo “Nessun giornale mai è nato come questo col desiderio di tosto morire”
Non minori furono le pene comminate nel secondo processo, quello contro i “politici”, che iniziò il 27 luglio e si concluse il 1° agosto. Nel frattempo, però, Bissolati, Costa e Bertesi erano stati scarcerati perché la Camera non aveva concesso l’autorizzazione a procedere. La concesse, invece, per Turati, De Andreis, Morgari e Pescetti. Severissime le condanne nei confronti dei due esponenti socialisti e repubblicani, accusati di essere i capi della sommossa. 12 anni di reclusione per il socialista Filippo Turati e altrettanti per il repubblicano Luigi De Andreis.
Con il merito di aver soffocato i conati rivoluzionari e “per il grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà” re Umberto riconobbe motu proprio la croce di Grand’ufficiale dell’ordine militare di Savoia al Bava-Beccaris, che Valera nella sua cronaca degli avvenimenti milanesi aveva definito “il vecchio rimbambito” .
-
LE AGITAZIONI DEL '98
E LA MORTE IN DUELLO
DI FELICE CAVALLOTTIdata: 27/06/2020 18:36
La prima grande battaglia in difesa della libertà di stampa che le Associazioni di Stampa di Roma e Milano furono chiamate ad affrontare sul finire del secolo si legava con le agitazioni popolari del 1898, l’eccidio milanese di Bava-Beccaris, la repressione dei partiti della sinistra socialista e repubblicana, il reiterato tentativo governativo di limitare le garanzie definite nell’editto sulla stampa.
Il diffuso timore di una sovversione dell’ordinamento politico e sociale, che intimoriva, sin dagli avvenimenti dei fasci siciliani, i ceti borghesi e le loro rappresentanze politiche era speculare all’illusione rivoluzionaria che continuava ad essere covata in numerosi ambienti dell’estrema sinistra. Se Antonio Labriola, scrivendo a Sorel nel 1897, aveva descritto la “borghesia italiana… oggetto, come in ogni altro paese, alle ire, e agli odii degli umili, dei manomessi, degli sfruttati”, Anna Kuliscioff, dal canto suo e d’intesa con Turati, aveva scritto nel ’94 ad Engels per descrivergli la situazione italiana e sottolineargli di essere “convinta che una rivoluzione politica in Italia sarebbe un bel giovamento alla futura evoluzione del Partito Socialista” .
Gli avvenimenti del ’98 non furono, quindi, né “l’assalto al cielo” della classe operaia, né tantomeno un tentativo di “colpo di Stato” della borghesia, come una storiografia partigiana ha tentato di accreditare. Fu questo clima psicologico alimentato da paure sospetti e velleità a determinare il precipitare della situazione e l’apertura di una grave lacerazione nel tessuto sociale della fragile democrazia nazionale.
Presagio funesto ed emblematico di questa nuova stagione fu, in un certo senso, la morte in duello proprio all’inizio del ‘98 di Felice Cavallotti, tanto amato a sinistra quanto odiato a destra, ma unanimemente riconosciuto come uno dei massimi esponenti dell’opposizione, strenuo assertore dei diritti di libertà, pronto a difenderli con la sua spavalda oratoria nelle piazze e in parlamento, ma anche con la penna e con la spada. Sino al 1896 Cavallotti era stato vicepresidente dell’Associazione della Stampa di Roma e fu, come scrisse all’indomani della sua scomparsa, Henry Berger ricordandolo sul Bollettino della Stampa Italiana “uno dei soli che ardì combattere apertamente la stampa sussidiata, i pubblicisti che vendon la loro fede, e tutti quanti che col manto del giornalismo fanno un vil mercato della forza che può esercire la stampa sulla massa dei lettori”.
La Gazzetta di Venezia, il quotidiano diretto da Ferruccio Màcola, aveva pubblicato una corrispondenza da Roma nella quale si affermava che Cavallotti aveva espresso consenso ai provvedimenti che il governo presieduto da Di Rudinì aveva presentato in Parlamento sul domicilio coatto e la restrizione del diritto di voto e che aveva assicurato il suo appoggio in un’udienza privata con il presidente del Consiglio. La reazione del Cavallotti, risentito per queste che riteneva false insinuazioni, fu immediata e polemica con il direttore del giornale, peraltro all’oscuro della vicenda, definendolo un foglio redatto da “mentitori di mestiere”. La Gazzetta gli rispose subito dandogli del “paglietta della democrazia secolina” e dichiarandosi “non avvezza a incensare i ciarlatani”. Ce n’era abbastanza per arrivare alle estreme conseguenze. Nonostante fosse stata dimostrata l’estraneità del Màcola alla polemica, Cavallotti insistette più volte per avere ragione e non dal giurì d’onore dell’Associazione, ma sul terreno. I padrini di entrambe le parti riuscirono, però, a comporre pacificamente la controversia ed erano già nella fase di stesura del relativo verbale, quando Cavallotti ebbe notizia di nuove ingiurie pubblicate contro di lui sulla Gazzetta. A quel punto, nulla si frapponeva più al confronto d’onore. Così, nel pomeriggio del 6 marzo, fuori porta Maggiore avvenne il tanto atteso duello con il Màcola. Era il trentatreesimo per Cavallotti, ma gli fu fatale, al terzo assalto la sciabola di Màcola gli perforò la carotide recidendogli l’arteria. Pochi minuti dopo il “bardo della democrazia” era morto.
La scomparsa di Cavallotti, anche per la sua tragica fatalità, destò un grande clamore e una grande impressione in tutta Italia, con cortei, manifestazioni ed anche qualche scontro di piazza. A Venezia si tentò di dare l’assalto alla redazione della Gazzetta. Segnò un momento di tensione nel Paese che gli avvenimenti successivi in quello stesso anno avrebbero fatto precipitare […]
Il 16 giugno, mentre a Roma si riaprivano i lavori del Parlamento, a Milano, in una piovosa giornata estiva, che non impedì ad una folla numerosa di accalcarsi sulla piazza già dalle prime ore del mattino, in una sala gremita di cronisti e corrispondenti a piano terra del Castello Sforzesco, dove si era insediato il Tribunale militare speciale, con procedura sommaria, si aprì il processo “dei giornalisti”, imputati, tra gli altri, insieme ad un gruppo di militanti anarchici, la Kuliscioff, Romussi, don Albertario, Chiesi, Valera, Cermenati, Seneci, Federici, Stefano Lallici, Emilio Girardi e Pietro Zavattari, rappresentanti di tutta la stampa d’opposizione, socialisti, repubblicani, radicali e cattolici. Con l’accusa di aver organizzato un complotto rivoluzionario, che avrebbe preso le mosse dal funerale di Cavallotti, rischiavano anni di galera e la conclusione dei processi, avvalorando la tesi accusatoria, portò a pene molto severe. Presiedeva il Tribunale il colonnello Pietro Parvopassu, mentre da Roma era arrivato il sostituto avvocato generale militare Emilio Bacci. L’atto d’accusa sosteneva che da tempo i partiti sovversivi, pur ostentando un apparente antagonismo, tentavano, mediante conferenze, riunioni, comizi e, soprattutto, con la diffusione di giornali e altre pubblicazioni di “creare ovunque agitazioni rispondenti ai loro scopi criminosi”, che erano quelli, sosterrà Bacci, di “sovvertire gli attuali ordinamenti politici con un’opera di propaganda e sobillazione all’odio di classe, svolta attraverso i giornali, gli opuscoli, le riunioni, le conferenze, i comizi, creando così l’ambiente dal quale scaturirono i recenti disordini” . Questa campagna propagandistica si sarebbe intensificata nel corso dell’inverno, in attesa dell’occasione propizia, che sarebbe arrivata con il disagio economico della popolazione per il rincaro del prezzo del pane. I tumulti delle Puglie, delle Marche e della Romagna non erano stati “fatti improvvisi, isolati, occasionati da una causa accidentale o locale”, ma la conseguenza di una lunga preparazione “diretta all’unico scopo di mutare gli ordini politico-sociali”. Quindi, tutto quello che era successo era frutto di premeditazione e organizzazione e i capi del moto insurrezionale erano a Milano, “fatalmente” prescelta come scenario principale per l’insurrezione, perché “a Milano la propaganda rivoluzionaria era stata fatta più attiva”, perché vi si stampavano molti giornali sovversivi, perché a Milano i rivoluzionari avevano avuto modo di “contarsi e passarsi in rassegna in occasione dei funerali di Cavallotti e della commemorazione delle cinque giornate”.
-
ECCO PERCHE' E' SBAGLIATO
CHE I POLITICI SI OCCUPINO
DI CACCIA ALLE FAKE NEWSdata: 21/06/2020 16:59
C’è un virus, molto più pericoloso del Covid19, che sta invadendo l’occidente e che rischia di diventare mortale per quei valori di libertà e tolleranza che sono alla base della civiltà occidentale. Si decapitano le statue di Cristoforo Colombo, si imbrattano quelle di Winston Churchill e anche noi, per non farci mancare queste piacevolezze, processiamo la statua di Indro Montanelli. Tutti rei di essere stati razzisti e schiavisti. Si toglie dal mercato la distribuzione di film come “Via col vento”, si impedisce la visione negli Stati Uniti di quelli di Woody Allen, marchiato con l’accusa di pedofilia, benché sempre assolto dai tribunali. Si ritirano dal mercato cioccolatini, il cui nome potrebbe ferire la sensibilità cosmopolita di qualcuno. Si diffonde in tutto l’occidente un clima di soffocante intolleranza all’insegna del “politicamente corretto”.
Poiché non siamo secondi a nessuno nello scimmiottare le pessime abitudini, ecco che sull’onda della “buone pratiche” arrivano ora in Parlamento ben tre proposte di legge, tutte con il nobile scopo di fronteggiare e combattere le fake news e i cosiddetti “discorsi dell’odio”. Una di queste proposte è firmata da Emanuele Fiano e da un nutrito numero di parlamentari del Pd. Un’altra da Maria Elena Boschi, in nome dei parlamentari di Italia Viva, un’altra ancora da Paolo Lattanzio del Movimento 5Stelle e Federico Mollicone di Fratelli d’Italia. Che cosa chiedono tutti costoro? Di istituire una commissione interparlamentare di indagine. Cosa dovrebbe fare questa commissione, così unanimemente voluta? Lo leggiamo nell’art. 1 della proposta Fiano: indagare sulla diffusione intenzionale e massiva di informazioni false o fuorvianti attraverso la rete internet; verificare se la disinformazione online possa essere imputata a gruppi organizzati o a Stati esteri; verificare se e in quale modo la disinformazione online sia sostenuta anche finanziariamente da gruppi organizzati o Stati esteri; verificare se esistano correlazioni tra la disinformazione online e i “discorsi dell’odio”, ossia discorsi di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, razionali o religiosi; verificare se e in quali casi la disinformazione online possa aver destato allarme presso la popolazione, condizionando la libertà dell’opinione pubblica o istigando campagne d’odio; indicare le iniziative di carattere normativo o amministrativo che la commissione ritenga idonee allo scopo di assicurare l’esatta definizione delle informazioni false; ecc. ecc.
Sembrerebbero, a prima vista, ottime intenzioni, visto che ormai siamo invasi dalle fake news, che i giornali, come dovrebbero, non riescono a verificare, e che, a quanto pare, sono organizzate, in alcuni casi, da potenze straniere per alterare l’opinione pubblica e i risultati elettorali.
Tuttavia, la commissione, composta paritariamente da deputati e senatori, procederà nel suo lavoro “con gli stessi poteri e le stesse limitazioni delle autorità giudiziarie, può acquisire atti e documenti, anche in deroga al divieto stabilito dall’art. 329 del Codice di Procedura Penale” e, udite udite, “in nessun caso, per i fatti rientranti nei compiti della commissione, possono essere opposti il segreto d’ufficio, il segreto professionale e il segreto bancario”. Ci sembrano poteri eccessivi che richiamano alla mente nefaste esperienze del passato.
Ma è proprio necessaria questa commissione?
Il legislatore sta improvvidamente trascurando un piccolo particolare. Esiste nel nostro Paese e nel nostro ordinamento l’Agcom, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, che ha tra le sue competenze, guarda caso, quella di analizzare il fenomeno delle fake news. Come ha ricordato al Parlamento con una sua nota, l’Autorità “ha indirizzato la sua attività ad ampio spettro su tutte le forme in cui si possono classificare i disturbi dell’informazione – “mala-informazione”, “mis-informazione” e “dis-informazione” – in vista delle finalità di tutela del pluralismo informativo, rivolgendo, tuttavia, un’attenzione particolare alla disinformazione online”.
Se questo è il lavoro che egregiamente svolge l’Agcom, che senso ha costituire una commissione interparlamentare chiamata a svolgere le stesse indagini che effettua l’Agcom? Non riusciamo a trovare una risposta o meglio, forse una risposta c’è. L’Agcom è un organo “tecnico”, la commissione interparlamentare è un organo “politico”, che agisce e opera perseguendo fini politici. C’è il rischio, anzi la certezza, che questa commissione diventi uno strumento politico per la caccia alle streghe. Un tribunale di inquisizione per condannare al pubblico ludibrio avversari e giornalisti che non rispondono al “politicamente corretto”. Chi parla male del governo può essere annoverato tra i seminatori di odio? Di questo passo temiamo di sì. Facciamo appello alla ragione, una merce oggi sempre più rara. Se in Parlamento c’è ancora un barlume di lucidità sarebbe il caso di evitare di dare vita ad un’altra commissione McCarthy.
(*) www.professionereporter.eu
-
FESTA DELLA REPUBBLICA
E DELLA COSTITUZIONE.
QUELLA DEL '48data: 03/06/2020 22:19
Il 2 giugno del 1946 gli italiani furono chiamati ad esprimersi sul futuro del Paese. Venivano da un ventennio di dittatura, accettata dalla grande maggioranza per quieto vivere, uscivano da una guerra dalle dimensioni catastrofiche mai viste, si erano impaniati per lunghi mesi in una guerra civile che aveva alimentato odii e divisioni. Erano stanchi. Eppure, la fine auspicata e insperata del conflitto aveva aperto gli animi alla speranza. Dal 25 aprile del ’45 al 2 giugno dell’anno successivo si erano susseguiti mesi intensi di confronti e discussioni, anche aspri, talvolta violenti, su come costruire sulle macerie, materiali e morali, del recente passato un domani migliore. Il punto principale di queste discussioni riguardava l’assetto istituzionale dello Stato. Monarchia o Repubblica? Da questa scelta sarebbe derivato tutto il resto.
I sostenitori della Monarchia difendevano casa Savoia, attribuendo a Vittorio Emanuele il merito di aver liberato l’Italia dal fascismo il 25 luglio del ’43, facendo arrestare Mussolini e affidando la guida del governo al maresciallo Badoglio. Promettevano la garanzia della continuità dello Stato liberale a fronte del “salto nel buio” che sarebbe stata la Repubblica, ma, soprattutto, presentavano la Monarchia come l’unica ferma difesa contro il comunismo, che dal 1917 continuava a guastare i sonni delle borghesie europee. Dall’altro lato i sostenitori della Repubblica, che accusavano la monarchia sabauda di aver accettato e sostenuto il fascismo, avallandone tutte le scelte più sciagurate, dalla costruzione di uno Stato autoritario, alle guerre coloniali, alle infelici leggi razziali, alla sottomissione del Paese alle pazzie del nazismo. Per i repubblicani la monarchia era la prima responsabile della guerra e delle centinaia di migliaia di morti e di lutti che avevano colpito il popolo italiano. La Repubblica era la promessa e la premessa di voltare pagina, di cancellare il passato, di costruire una nuova Italia nel segno di un ritrovato sentimento democratico.
Non c’erano ancora le indagine demoscopiche, né i sofisticati sondaggi elettorali di oggi che ci dicono con anticipo chi ha vinto e chi ha perso. Chi avrebbe vinto? Chi avrebbe perso? E, soprattutto, chi avrebbe perso, avrebbe accettato pacificamente il risultato? La campagna elettorale fu, come era facilmente presumibile, molto accesa. Si arrivò, così, finalmente, al 2 giugno. Ma il risultato non fu reso noto con immediatezza. Chi aveva vinto? Le voci sui brogli elettorali si diffusero velocemente, come è caratteristica di ogni fake news dai tempi di Adamo ed Eva. Passarono alcuni giorni prima che la Cassazione rendesse noto il risultato. La Repubblica aveva vinto, ma di poco, non in maniera clamorosa, il paese era spaccato in due.Giorni e notti convulsi. Umberto II, che da poco era diventato re, il “re di maggio”, come sarebbe passato alla storia, a seguito dell’abdicazione di Vittorio Emanuele, nel tentativo di ridare smalto e credibilità a casa Savoia, titubava, i suoi consiglieri lo invitavano a contestare il responso elettorale. Si arrivò al braccio di ferro tra lui e il governo, presieduto da De Gasperi. Al marchese Lucifero, ministro della Real Casa, che era andato a trattare con il governo, De Gasperi, dopo una dura discussione, rispose: “Ho finito il mio latino, si vuole ricorrere alla forza? Va bene. Vorrà dire che io verrò a trovarla a Regina Coeli o lei verrà a trovare me”. Parole ferme, che confermavano la posizione di tutto il governo. Umberto, a quel punto e di fronte a tanta determinatezza, preferì accettare il risultato delle urne, evitando ogni possibile recrudescenza di guerra civile e abbandonando l’Italia.
Con la sua partenza la Repubblica Italiana poteva considerarsi ormai giuridicamente nata, dopo un travaglio faticoso e il cui esito era rimasto incerto fino a quel momento. Ma l’Italia restava divisa tra repubblicani e monarchici. Quello che rese definitiva la vittoria della Repubblica fu un altro risultato elettore. Nello stesso giorno in cui si esprimevano sul futuro istituzionale del Paese, gli italiani eleggevano, infatti, con una legge elettorale proporzionale, che la legittimava, l’Assemblea Costituente, un’assemblea rappresentativa di tutte le forze politiche, che con il lavoro di un anno e mezzo consegnò all’Italia una Costituzione democratica e liberale. Una Costituzione che dava alla Repubblica la sua carta fondamentale, con una precisa e chiara indicazione dei diritti e dei doveri dei cittadini, la divisione dei poteri, il riconoscimento delle libertà fondamentali. Con la Costituzione, entrata in vigore il primo gennaio del ’48, gli italiani potevano sentirsi, ormai, tutti cittadini della Repubblica.
Non si può festeggiare la Repubblica senza festeggiare la Costituzione, che ne costituisce l’architettura giuridica. Difendere la Costituzione, quella del ’48, non quella alterata dalle pessime modifiche successive né quella che ancora oggi si vuole orrendamente mutilare, resta, perciò, il miglior modo di salvaguardare la Repubblica.
-
1896, DUE INVIATI ESPULSI
DALLA GUERRA IN ERITREA
E LA CATEGORIA REAGI'data: 30/05/2020 13:12
Nei primi mesi del 1896 due giornalisti italiani furono allontanati dall’Eritrea dalle autorità militari. Crispi, tornato alla guida del governo nel dicembre del ’93, aveva dato impulso alla politica coloniale dell’Italia e negli ultimi mesi del ’95, temendo un allargamento della presenza francese, aveva ordinato al generale Barattieri, governatore dell’Eritrea, di aprire le ostilità con il negus Menelik. Dopo i primi iniziali successi erano però intervenuti dissidi ai vertici del comando e a dicembre la sconfitta dell’Amba Alagi. Oltre i partiti di sinistra, anche larga parte dei ceti borghesi era fermamente contraria a quell’impresa coloniale e alla testa del movimento di protesta si erano messi Il Secolo e il Corriere della Sera. Il primo aveva inviato a Massau un suo redattore quasi permanente e dal 1895 aveva fatto seguire le vicende africane da Achille Bizzoni, giornalista repubblicano e garibaldino, ferocemente antimonarchico e fondatore del Gazzettino Rosa, tenace avversario della politica crispina. Il Corriere, dal canto suo, aveva aggregato al corpo di spedizione militare Adolfo Rossi, anch’egli noto giornalista con alle spalle un’esperienza americana nella redazione newyorkese de Il Progresso Italoamericano, che aveva contribuito a far nascere.
L’inevitabile nervosismo, conseguente alle aspre polemiche suscitate dalle vicende africane, aveva spinto le autorità militari ad espellere dalle zone di guerra, ordinandone il rimpatrio, sia l’inviato de Il Secolo, che quello del Corriere della Sera. Il vice governatore dell’Eritrea, Mario Lamberti, aveva allontanato Bizzoni, che già nel ’70 aveva subito una condanna penale per i suoi attacchi alla monarchia, con l’accusa di opposizione alla guerra e vilipendio al governo coloniale.
L’episodio non poteva essere ignorato, anche se le forti tensioni politiche, che laceravano il paese sulle scelte coloniali, consigliavano alle associazioni di categoria, per statuto estranee alla politica, di muoversi con prudenza. Ciò nonostante, il divieto a due giornalisti di svolgere il loro lavoro meritava, quanto meno, una presa di posizione. L’Associazione Lombarda nominò una apposita commissione, relatore Domenico Oliva, per un attento esame del caso e per formulare una proposta di intervento. Il 30 gennaio la Commissione presentò all’assemblea annuale degli iscritti un’ampia relazione, che senza, però, entrare nello specifico avvenimento, generalizzava le modalità di lavoro dei giornalisti costretti a operare in condizioni estremamente difficili “ogni volta che la stampa italiana deve compiere il proprio ministero in occasione di grandi avvenimenti d’ordine politico”.Questa situazione poteva generare un cattivo giornalismo. “Quando gli ostacoli si elevano d’ogni parte, – si leggeva nella relazione – quando ogni piccolo funzionario crede diventar grande circondandosi di mistero, quando le difficoltà si moltiplicano e il lavoro, già male retribuito, diventa spesso inutile e infecondo, pretendere che si raggiunga l’ideale quando il reale aspramente lo contraddice è pretendere l’impossibile”. Questi inconvenienti avrebbero ostacolato l’informazione giornalistica sulla guerra in Africa. Ancorché giustificata dalle condizioni della situazione, si trattava pur sempre dell’ammissione che l’informazione dalle zone di guerra africane era frutto di un cattivo giornalismo, la cui responsabilità, nel caso in discussione, era però individuata “nel costringere i corrispondenti dei giornali italiani che sono in Africa ad un’azione peggio che ristretta, nell’imporre i ritardi come regola, nell’impedire che si comunichino notizie, anche di carattere retrospettivo, le quali non colpiscono affatto lo svolgimento delle operazioni militari”.
Le testimonianze al riguardo di tutti gli inviati erano state unanimi. “I nostri corrispondenti dall’Eritrea –proseguiva la relazione – dicono con tutta la dovuta circospezione che la loro posizione è difficilissima e che il trattamento cui sono sottoposti non è fra i più piacevoli”. Sulla base di questa relazione l’assemblea della Lombarda approvò un documento, proposto dalla stessa commissione, che affidava al Consiglio Direttivo il mandato di intervenire presso il Governo per assicurare, pur nei limiti delle esigenze militari, “maggior libertà ai corrispondenti dei giornali italiani in Africa nelle loro relazioni con il pubblico”, per permettere “loro di comunicare notizie telegrafiche con maggiore rapidità e con maggiore frequenza” e, soprattutto perché non fossero più prese nei confronti degli inviati misure gravi come quella dell’espulsione.
Tre giorni dopo, una vivace assemblea degli iscritti dell’associazione di Roma, convocata con urgenza da Bonfadini, affrontò il caso Bizzoni esprimendo giudizi molto aspri sull’accaduto. Cavallotti, che di Bizzoni era intimo amico e che lo avrebbe voluto come padrino nel duello che gli sarebbe stato fatale, vide nell’episodio un attacco del Governo alla libertà di stampa e tutti gli intervenuti condannarono l’espulsione come “abuso dei poteri” e violazione dei diritti di un cittadino. Anche a Roma l’assemblea si concluse con l’approvazione di un ordine del giorno che condannava il provvedimento, ritenendolo “una violazione del nostro diritto pubblico”, in contrasto, peraltro, “con la immunità lasciata a manifestazioni uguali, di altri periodici”. Nello stesso giorno anche la neo costituita Associazione della Stampa Veneta in un’assemblea straordinaria decideva di protestare per l’espulsione di Bizzoni, frutto di “disparità di trattamento rispetto ad altri giornalisti trovantisi nella colonia” e lesiva dei diritti della libertà di stampa .
Dal caso specifico dell’espulsione di Bizzoni e Rossi si andò così articolando una discussione sui diritti dei giornalisti operanti sui fronti di guerra, che fu messa all’ordine del giorno del II congresso nazionale delle associazioni di Stampa, previsto per aprile a Roma.
-
A FINE '800 I GIORNALISTI
SMISERO DI ESSERE SOLO
MILITANTI O "FANNULLONI"data: 04/05/2020 13:02
L’editoria giornalistica in quegli anni (fine Ottocento, ndr.), ancorché essenziale alla crescita civile di una nazione ai suoi primi passi, non aveva ancora, per le sue modeste dimensioni, alcuna caratteristica imprenditoriale, né di conseguenza il giornalismo era considerato come attività lavorativa vera e propria, anzi, secondo l’opinione corrente “essere giornalista voleva dire essere un rompicollo e un fannullone!”. Di fatto il giornalismo coincideva e si esauriva con la militanza politica, svolgendo un ruolo che era stato certamente fondamentale per portare a compimento il processo risorgimentale e per costruire uno Stato liberale e costituzionale, ma ben lontano da ogni considerazione e valutazione imprenditoriale, sia pure modesta.
Paolo Orano, nel 1895, descriveva la tipografia del suo giornale come “una caverna”, dove “ci s’entra per una portaccia proprio sotto la doccia del tetto con a destra ed a manca due angoli di scannatoio. Caos di carrettini sfondati e stanghe per aria, di casse fradicie, di latte squarciate… Dentro si è ravvolti da un aere ripugnate di ambiente vizioso e cospiratorio, in cui dominano il sentore dell’antimonio e del grasso e il rullare tedioso. Indifferenza cinica degli uomini che entrano ed escono mugolando una bestemmia; bluse azzurro sporco, viso sporco, mani sporche, cica all’angolo della bocca e sbuffi sputi borbottii troncati e ripresi, fetore caldo al respiro, di cuoio scivolante in metallo unto e lo sculacciamento insistente delle puleggie e a tratti il grido di disperata obbedienza: cronaca! – apertura di terza! – informazioni – pubblicità!”. In questa tipografia, aggiungeva Orano, “il giornale escirà da un’apparente baraonda, da ore e ore di preoccupate esitazioni, dalla decisione di un attimo, da quel gruppo inestetico di individui scettici della vita, ma speranti ed aspettanti il miracolo che è poi lo scandalo, l’urlo che laceri l’indifferenza del pubblico, che faccia inseguire il giornalaio sia pioggia freddo vento e prendere d’assalto i chioschi e accampare la gente contro i portoni chiusi ad attendere l’edizione speciale con i particolari, le rivelazioni, la confessione, la strabiliante notizia…” .
La colorita descrizione di Orano fotografava nella sua essenzialità la struttura e la dimensione imprenditoriale dei giornali dell’epoca. Al giornalismo “erano estranei gli espedienti per giungere all’ampia diffusione fra i tanti che, pure allora, non seguivano unicamente i dibattiti parlamentari. Non servizio di informazioni; non suggestivi inviti di varia e divertente cooperazione; non abbondanza neppure di cronaca locale. Politica, null’altro che politica, espressa in una forma della quale soltanto gli iniziati riuscivano a compiacersi”, così descriveva, a sua volta, la professione Luigi Lodi, narrando da testimone le vicende di giornali e giornalisti di quegli anni. Peraltro, l’elevato tasso di analfabetismo e la limitazione dei diritti politici ad una modesta percentuale della popolazione costituivano barriere pressoché invalicabili per la diffusione della stampa, soprattutto quotidiana, che non superava per tutto il territorio nazionale il mezzo milione di copie. […]
Milano si avviava, ormai, a divenire il cuore delle attività produttive del Paese. Centro di fervente risveglio industriale, era passata in un trentennio da una popolazione di 185.000 abitanti del 1860 a oltre 400.000 unità ed era di fatto quasi una seconda capitale, sede di numerose iniziative editoriali fiorite nell’epopea risorgimentale e consolidatesi nel nuovo Stato unitario. Il giornalismo lombardo, figlio del positivismo cattaneano, anche con l’invenzione della cronaca e con l’attenzione quotidiana ai problemi della città e delle sue classi sociali divenne in breve tempo immediata espressione della società civile lombarda e luogo principale della dialettica politica. “Il giornale – aveva scritto Dario Papa, che aveva viaggiato per alcuni mesi negli Stati Uniti per approfondire la conoscenza dei media americani – è archivio, è racconto, è fantasia, è fonografo e fotografo che mette in comunicazione tutti i popoli e metterà in comunicazione tutti i tempi”.
A Il Pungolo (1859), fondato da Leone Fortis e per molti anni “padrone incontrastato di Milano” , La Lombardia (1859), quotidiano delle correnti liberali moderate, e al conservatore La Perseveranza (1859), storiche testate risorgimentali, si era aggiunto Il Sole, quotidiano economico, nell’agosto del 1865, e dal maggio del 1866, alla vigilia della terza guerra d’indipendenza, diretto per i primi mesi da Eugenio Ferro, Il Secolo, invenzione editoriale di Edoardo Sonzogno, realizzato con ampi mezzi, un invidiabile impianto tipografico e quotidiani servizi telegrafici da Roma e Parigi, oltre ad una capillare organizzazione di rivendite in tutta la provincia, collocato inizialmente nell’area liberale era diventato ben presto, sotto la guida di Teodoro Moneta e Carlo Romussi, espressione della democrazia lombarda, e avrebbe dominato per decenni il mercato editoriale milanese con una diffusione giunta alle 40 mila copie al giorno, che lo collocava al primo posto tra i quotidiani italiani. Nel 1896 Il Secolo era arrivato a diffondere 115.000 copie e rimarrà il più diffuso in Italia sino al 1904. Nel 1875 iniziò le pubblicazioni La Ragione, organo della sinistra democratica e nel 1876 apparve per iniziativa di Eugenio Torelli-Viollier il primo numero del Corriere della sera, destinato a diventare non solo l’organo della borghesia industriale lombarda, come voleva il suo ideatore, ma anche il maggiore giornale italiano.Nel 1883 L’Italia, quotidiano di area moderata che dall’aprile dell’84 sotto la direzione di Dario Papa volle ispirarsi al giornalismo americano. Nel 1885 Il Commercio, periodico economico fondato cinque anni prima, si trasformava in quotidiano. Nel giugno del 1890 Dario Papa, abbandonata l’esperienza de L’Italia, fondava il progressista L’Italia del Popolo. Nel 1896 dalla fusione del supplemento settimanale sportivo de Il Secolo, Il Ciclista e del periodico torinese La Tripletta nascerà La Gazzetta dello Sport, bisettimanale edito da Sonzogno e stampato cu carta verde, poi gialla, poi bianca e, finalmente dal gennaio del 1899, rosa. Ne era direttore Camillo Costamagna. Dal maggio del ’19 sarebbe diventato quotidiano .
Peraltro, quando a luglio del ‘90 si delineò la nascita dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti, il quadro della professione era notevolmente mutato rispetto a quello degli anni ‘70 nei quali era sorta l’Associazione romana. Nel primo decennio unitario il giornalismo era ancora appannaggio di avvocati, medici, professori che vedevano il giornalismo come strumento della lotta politica. “Nelle città italiane – ha scritto Castronovo – piccoli intellettuali, ex professionisti, esponenti del medio ceto colto (ma anche funzionari o militari a riposo) costituivano, alla fine del decennio post-unitario, le fila del giornalismo d’opinione, ma rappresentavano in fondo solo ristretti ‘clan’ di politici o piccoli gruppi clientelari di potere” .
Il giornalismo, così strettamente legato all’azione politica, non era sentito come attività professionale autonoma, né l’editoria giornalistica aveva ancora assunto dignità imprenditoriale. L’assoluta mancanza di introiti derivanti dalla presenza sul mercato rendevano l’editoria, quella quotidiana in particolare, uno strumento fragile, ancorché essenziale, dipendente da finanziatori, spesso inconfessabili, che perseguivano scopi politici o personali; era prassi costante dei governi intervenire finanziariamente, spesso anche attraverso fondi occulti, a sostegno delle stampa che si mostrava favorevole alla loro politica. “Ai giornali amici, o disposti a diventarlo – ha scritto Paolo Murialdi – governo e prefetti possono dare diversi tipi di sostegno. Il principale è la pubblicazione a pagamento (25 centesimi alla riga, che non è poco) degli atti ufficiali del Parlamento, del governo e delle pubbliche amministrazioni: un privilegio di antica data che assicura anche un certo numero di abbonamenti. Un secondo tipo di aiuto è rappresentato dalle sovvenzioni e da altri emolumenti erogati dal ministero dell’Interno...una terza forma di aiuto è la fornitura gratuita di corrispondenze e di notizie politiche dalla capitale, alla cui stesura provvedono, con compensi extra, funzionari statali”.
Ma questo quadro era cambiato rapidamente in un quindicennio. L’uso diffuso nell’editoria di una rivoluzionaria tecnologia di comunicazione come il telegrafo, affrancava la stampa periferica dalla subordinazione a quella della capitale, mentre la crescita diffusionale aveva fatto registrare un aumento consistente delle entrate. A Milano nel 1889, al fianco de Il Secolo, che aveva superato le 100.000 copie si andava collocando il Corriere della Sera, che grazie all’ingresso del cotoniere Crespi, con la costruzione di una nuova sede e l’acquisto di due rotative, si era già attestato a 60.000 copie di diffusione. Inoltre, nei bilanci aziendali si era affacciata una nuova voce destinata a modificare il volto dell’editoria, la pubblicità, “A far tornare i conti dei giornali più intraprendenti – come ricorda sempre Murialdi – e poi a incrementare i guadagni contribuisce la pubblicità. Gli avvisi commerciali, che i quotidiani pubblicano in quarta pagina, crescono e gli inserzionisti, logicamente, scelgono il giornale più diffuso e popolare”. Al giornalista opinionista si affiancavano altre figure, prima il cronista e poi l’inviato speciale, allora chiamato “redattore viaggiante”, che trovò occasione di sviluppo nella prima guerra d’Africa e nella svolta colonialista della politica estera italiana.
Al mutamento professionale del giornalismo, di cui Milano era all’avanguardia, si aggiungeva una “questione morale” conseguente allo scandalo della Banca Romana che aveva rivelato un quadro di illeciti finanziamenti e sussidi a giornali e giornalisti per campagne di pressione sul governo. Né potevano valere le giustificazioni di Giuseppe Morello, autorevole esponente del giornalismo romano, ma anche avvocato della difesa in quel processo, che dalle colonne de La Tribuna sostenne, con l’abilità dell’avvocato che invoca attenuanti, “Il popolo italiano non è ancora maturo per l’esercizio della civiltà moderna…se gli date il giornale non lo compra, e costringe il giornalista a farlo comprare dal Governo o dagli ambiziosi, che aspirano a diventare Governo, o dai Tanlongo, che hanno vecchie magagne da coprire, o nuovi interessi da scoprire”, per poi allargare il cerchio delle responsabilità all’intero sistema dell’informazione, “quanti sono in Italia i giornali, che possono vivere di forze proprie, sicuri del soldo del popolo? Non vorrei errare dicendo che non sono più di dieci! Gli altri sotto una forma, o sotto un’altra, hanno bisogno di essere…sorretti. Non fingete di arrossire, fratelli! La colpa è del popolo d’Italia, ignorante e povero, che non sa leggere e non può spendere e pel quale il giornale è ancora un mistero o un lusso” .
Alla fine, anche la Commissione parlamentare di inchiesta su gli scandali bancari concluse che nella vicenda erano stati coinvolti soltanto tre o quattro giornalisti. Dal canto suo l’assemblea dell’Associazione di Roma aveva dato vita ad una commissione di inchiesta per accertare eventuali responsabilità di propri iscritti senza però arrivare a nessun esito, anche perché gli unici due giornalisti, passibili di provvedimenti, si erano prudentemente dimessi. Tutto questo contribuì a ridimensionare il ruolo della stampa romana a tutto vantaggio di quella lombarda.
-
1870, ROMA CAPITALE
2) I GIORNALISTI DAI DUELLI
AL SINDACATOdata: 17/04/2020 12:52
Uno sviluppo, quindi, consistente dell’editoria quotidiana ed anche periodica, espressione di tutte le forze politiche che avevano messo in moto o contrastato il processo unitario e conseguenza del nuovo ruolo politico della città e anche della continua crescita della sua popolazione.
Tutto questo fiorire di giornali portò ad una moltiplicazione delle aziende grafiche ed editoriali, ma anche alla proliferazione di “una legione di scrittori e scribacchini, giornalisti provetti e grafomani”, che erano, nel bene e nel male, l’espressione, sia pure caotica e confusa di una città che dopo decenni di letargo e di rigida censura ecclesiastica si risvegliava ansiosa e desiderosa di svolgere il nuovo ruolo di capitale del Regno d’Italia assegnatole dalla storia.
Era, quindi, naturale che proprio a Roma dovesse vedere la luce la prima associazione di giornalisti. Ma, le motivazioni che dettero vita a questo primo sodalizio non erano state di natura sindacale. L'idea era nata come tentativo di limitare, per quanto possibile, il ri¬corso al duello nelle dispute d'onore. La pratica del duello, ancorché punita come reato dai codici penali, era in quegli anni molto diffusa, Jacopo Gelli, che all’inizio del ‘900 pubblicò sulla Nuova Antologia uno studio statistico sul fenomeno, accertò che il numero medio dei duelli superava ogni anno i 140 e che le categorie che vi facevano ricorso erano, al primo posto, i militari, al secondo i giornalisti, al terzo gli avvocati, al quarto i politici. Seguivano gli studenti, i medici, gli ingegneri, i professori, i banchieri, gli industriali ecc. Poiché numerosissimi giornalisti erano anche avvocati e parlamentari, non vi è dubbio che proprio la categoria giornalistica fosse la più coinvolta in questa pratica che nasceva, come ha sostenuto Giovanni Artieri, oltre che dalla “debolezza etica dello Stato” anche dal “dissolversi di qualsiasi remora nel linguaggio dentro e fuori del Parlamento, in privato e in pubblico, parlato e scritto sui giornali” . Tanto che, come scrisse Barzilai, “l’epidemia dei duelli era a quell’epoca particolarmente diffusa e non poteva a meno di fare larga presa nel campo dei giornalisti” . “Nessuna professione più della nostra – sosteneva l’avvocato-giornalista napoletano Daniele Oberto Marrama – è esposta ai duelli” e “per allenarsi, è meglio saperle dare che ricevere”.
Probabilmente, proprio l'elevato tasso di litigiosità per effetto di articoli giudicati oltraggiosi aveva suggerito ai direttori dei quotidiani della capitale, riuniti per iniziativa del Cesana, allora direttore de Il Diritto e noto in città per la sua capacità nel dirimere le controversie , e sollecitati dall'ennesimo duello tra un cronista parlamentare, Felice Albanese, giornalista del Fanfulla e di lì a poco direttore per i primi tre mesi del nuovo quotidiano romano Il Messaggero, e un parla¬mentare avvocato, Augusto Pierantoni , di istituire un giurì d'onore permanente "fra i rappresentanti della stampa" con l'obbligo per i giornalisti di sottomettersi al suo giudizio "prima di andare sul terreno per una questione di giornalismo".
L’assemblea, svoltasi il 20 maggio, nella sede de Il Diritto alla presenza di circa sessanta giornalisti tra direttori, redattori e corrispondenti, si ritrovò unanime nell’approvare un ordine del giorno presentato da Edoardo Pantano, allora direttore de Il Dovere, con il quale, accogliendo la proposta di realizzare un Giurì “con fine espresso e ben determinato di tutelare l’interesse del pubblico colla moralità e la dignità della stampa”, si decideva di istituire una commissione di sette membri, in rappresentanza anche della stampa estera e di quella di provincia .
Due giorni dopo si costituiva il Giurì e iniziava a lavorare la commissione voluta dal Pantano per abbozzare le basi statutarie di una associazione tra i giornalisti romani. Oltre al Pantano vi facevano parte Luigi Cesana, che la presiedeva, il marchese Francesco D’Arcais, direttore de L’Opinione, Edoardo Arbib, direttore de La Libertà, l’on. Ferdinando Martini, collaboratore de Il Fanfulla, Shakespeare Wood, corrispondente del Times, in rappresentanza della stampa estera, ed Eugenio Ferro, il primo direttore de Il Secolo di Milano e all’epoca direttore dell’ufficio di stenografia del Senato del Regno .
Le prime riunioni, per mettere a punto lo statuto, si tennero in una trattoria di Montecitorio e si protrassero fino all’estate. Il 15 agosto, in piena calura estiva, in una delle sale della Società Geografica al Collegio Romano, si svolgeva, sotto la presidenza dell’on. Antonio Allievi, fondatore e collaboratore de Il Crepuscolo, la prima assemblea della costituenda associazione per l’approvazione dello statuto, composto da quaranta articoli. L’assemblea, un vero e proprio congresso fondativo, alla quale parteciparono giornalisti di ben settantasei testate, si sarebbe protratta anche il 16 e il 17 agosto. Vi parteciparono, oltre ai redattori di quasi tutti i giornali romani, anche i corrispondenti del Times e del Daily News di Londra, della Vossische Zeitung di Berlino, giornalisti dei principali quotidiani milanesi, di Napoli, Firenze, Venezia, Bologna e di molte altre città italiane .
Una delle prime questioni che la commissione si era posta era stata quella del campo di azione dell’Associazione, se dovesse limitarsi alla stampa locale o estendersi anche fuori Roma “ma distinguendo fra diverse condizioni di giornalismo e di giornalisti”, o estendersi a tutta la stampa italiana. La soluzione, condivisa dalla maggioranza, fu quella più ambiziosa, l’Associazione doveva avere una dimensione nazionale. L’art.1 dello statuto prevedeva, infatti, la possibilità di costituire in altre città d’Italia sezioni distaccate dell’Associazione, “rette e ordinate secondo un regolamento” proposto dalla Rappresentanza permanente, l’organo collegiale di guida dell’Associazione, sostituito da una successiva riforma statutaria dell’85 dal Consiglio direttivo. “Ora noi stiamo per fare – dirà all’assemblea il relatore Eugenio Ferro – il gran passo alla stampa nostra, perché questo posto che le compete essa lo conquisti…perché sia chiuso il periodo del nomadismo e dell’anonimia della nostra stampa periodica ed aperto quello di un suo recapito e di una sua ragione sociale. Ma per questo si esige una forza molto cospicua, una forza sicura di sé stessa, quale non può trovarsi in nessuno dei nostri centri e neanche nella capitale dello Stato”. Dopo l’approvazione dello statuto e tre giorni di discussione l’assemblea si concluse con l’affidamento al comitato, integrato dal presidente Allievi e dai segretari Clemente Levi e Tullio Minelli, dei poteri per l’ammissione provvisoria dei soci e l’insediamento dell’amministrazione.
Il 16 dicembre la prima assemblea generale eleggeva all’unanimità alla presidenza dell’Associazione Francesco De Sanctis, convinto assertore del ruolo determinante della stampa nella vita di uno stato libero, ma anche tenace sostenitore dell’insostituibile funzione dell’associazionismo giornalistico. De Sanctis, che non a caso già nel 1866 aveva progettato, elaborandone lo statuto, una associazione della stampa liberale napoletana, potrà dire in quella prima assemblea romana che “l’Associazione è destinata a promuovere la moralità della stampa, a mantenere l’unione dei cuori sopra le differenze delle opinioni politiche” . Parole non di circostanza, ma che rispecchiavano il pensiero del democratico irpino e che saranno ribadite pochi mesi più tardi, nel febbraio del 1878, in un articolo pubblicato sul depretisiano Il Diritto, nel quale De Sanctis definiva la stampa come “il primo potere”, “forza collettiva…che non ha raggiunto ancora quel grado di potenza e d’influenza che dovrebbe avere in una grande società democratica, dove sono così rari e così deboli i centri direttivi. Questo –scriveva De Sanctis - pare sia balenato alla mente di quelli, che hanno avuto il felice concetto di un’Associazione della Stampa” .
Il ruolo propulsivo che assegnava all’Associazione era quindi molto ambizioso e andava ben oltre i limiti che ne avevano ispirato la sua costituzione, l’Associazione sarebbe dovuta essere per De Sanctis uno dei soggetti dello stato democratico, contrapposto allo stato liberale. “L’energia di uno solo è ridicola – così concludeva il suo articolo- fosse anche un ministro; ci vuole l’energia collettiva, del Parlamento, della stampa, delle associazioni, la quale presto o tardi diventerà energia nazionale” .
Subito dopo la sua costituzione, grazie all’autorevole interessamento del suo presidente, l’Associazione ottenne dall’Amministrazione Comunale una piccola sede di due tre stanze nel convento della Missione nell’omonima via, nelle vicinanze di Montecitorio.
Come primo adempimento fu costituita una giunta con il compito di vagliare le domande di iscrizione, che ben presto raggiunsero un numero rilevante per quei tempi.
Francesco De Sanctis mantenne la presidenza sino alla sua morte, nel 1883, e fu sostituito da Ruggiero Bonghi, deputato napoletano e ministro della pubblica istruzione. Anch’egli conservò la presidenza fino alla morte, nel 1895, sostituito dal senatore Romualdo Bonfadini, già deputato per quattro legislature, collaboratore del Corriere della Sera e de L’Arena. La sostituzione di Bonghi non fu, però, pacifica. Inizialmente, alla ricerca di possibili candidature, furono avanzate quelle di Cavallotti, che ne era già vicepresidente, ma considerato troppo schierato politicamente, di Ferdinando Martini, di Giuseppe Saredo, consigliere di Stato, di Maggiorino Ferraris, che in quei mesi era ministro, del sen. Gaspare Finale, presidente della Corte dei Conti e anche quella di Torelli-Viollier. Ma vi era anche chi, approfittando della scomparsa di Bonghi, suggeriva una modifica statutaria per eliminare la figura del presidente, ritenendola una “carica superflua, se non inutile, meramente decorativa e talvolta anche onerosa” . Cadute tutte le candidature rimasero alla fine in lizza quelle di Romualdo Bonfadini e di Luigi Luzzatti. Nell’assemblea generale del 12 dicembre Bonfadini ottenne 159 voti contro i 140 di Luzzatti e fu eletto presidente. Alla vicepresidenza fu eletto, in sostituzione del dimissionario Torraca, Giordano Apostoli, anche lui deputato, con 238 voti.
-
1870, ROMA CAPITALE
E FIORISCONO I GIORNALIdata: 07/04/2020 12:10
Il consolidamento del Regno d’Italia, anche quando con il 1870 la proclamazione di Roma capitale concluse l’unificazione politica della penisola, non aveva portato modificazioni sostanziali nella diffusione della stampa quotidiana. L’Italia contava poco più di 27 milioni di abitanti, una popolazione consistente per l’Europa di allora, ma con un tasso di analfabetizzazione molto elevato, nella media del 68%, e con punte, come emerse dal primo censimento nazionale del 1871, che superavano l’80% in quasi tutte le regioni meridionali, Campania (80%), Calabria (87%), Abruzzo (85%), Basilicata (88%), Sicilia (85%) e Sardegna (86%). Le regioni con il minor tasso di analfabetismo erano il Piemonte (42%) e la Lombardia (45%). A questi limiti insuperabili alla diffusione dei giornali si aggiungevano, in particolare per i quotidiani, la loro naturale deperibilità nell’arco di ventiquattro ore, ma anche gli onerosi costi di trasporto e la scarsezza e difficoltà nelle comunicazioni, oltre ai lunghi tempi di composizione dettati dallo scarso livello tecnologico dell’epoca: la composizione di un giornale richiedeva l’impegno di numerosi tipografi che dovevano comporre ogni articolo allineando ogni singolo carattere. Un’impresa che richiedeva una elevata capacità professionale, ma che aveva insuperabili limiti fisiologici. Un tipografo particolarmente bravo per comporre un articolo di 14 mila lettere, tante ce ne volevano all’incirca per una pagina di giornale dell’epoca, ci impiegava non meno di 10 ore.
Il giorno dopo l’ingresso delle truppe italiane a Roma, il 21 settembre 1870, L’Opinione, che allora si stampava ancora a Firenze, pubblicò questa scarna notizia di cronaca: “Corre voce che ieri gli Italiani sieno entrati in Roma.” Di più non era in grado di scrivere.
Per tutte queste ragioni la tiratura e la diffusione dei giornali rimase ancora per lungo tempo limitata ad un mercato ristretto di ambito cittadino o, al massimo, regionale. Era quindi naturale che le prime associazioni giornalistiche nascessero e si sviluppassero a livello territoriale nelle città dove più numerosa era la presenza di testate quotidiane e periodiche, ancorché l’idea di una associazione di giornalisti fosse già emersa dagli anni del Risorgimento nella mente di Giuseppe Mazzini, che nell’entusiasmo quarantottesco delle giornate milanesi della liberazione dall’occupante austriaco, aveva rivolto dalle colonne de L’Italia del Popolo, il suo primo quotidiano edito a Milano tra il maggio e l’agosto del ’48, una “proposta formale” ai suoi “colleghi” giornalisti: costituire “in nome della inviolabilità del pensiero un’associazione diretta a tutelarne, qualunque sia l’avvenire, la libertà. Un’associazione che si opponga, in ogni caso di arbitrio e di tirannia, con la voce di tutti, coi mezzi di tutti a qualunque ingiusta limitazione ne fosse in avvenire tentata”. Una proposta che Mazzini aveva articolato anche sul piano organizzativo prevedendo che se fosse stata accettata, lui avrebbe provveduto a “sminuzzarne” le condizioni, ovvero a preparare una bozza di norme statutarie che “un’assemblea composta d’un delegato per ogni giornale” avrebbe esaminato e discusso. “Il primo atto collettivo del giornalismo – aveva scritto Mazzini – ne fonderà ad un tempo la moralità e la potenza”. Il ritorno degli austriaci a Milano avrebbe rimandato la proposta mazziniana a tempi migliori.
Con queste premesse la prima forma associazionistica a vedere la luce fu, non a caso, l'Associazione della Stampa Periodica Italiana (ASPI), costituita il 16 dicembre del 1877 per volontà di un’assemblea di giornalisti che volle eleggere come primo presidente del sodalizio Francesco De Sanctis, allora vice presidente della Camera . L’Associazione nasceva a Roma, da pochi anni divenuta capitale del Regno, sede del Parlamento e della Monarchia, dove erano fiorite nuove iniziative editoriali e dove si stampava il maggior numero di testate quotidiane della penisola, ancorché con tirature sempre modeste e limitate a poche migliaia di copie al giorno. Al momento dell’unificazione Roma contava una popolazione di poco più di 240.000 abitanti, che salirà gradualmente fino a superare le 500.000 unità nel 1911.
Dal 20 settembre del 1870 al dicembre del 1872, anche grazie all’estensione nelle province romane dell’editto sulla stampa, che Vittorio Emanuele II aveva decretato sin dal 19 ottobre, erano nati o si erano trasferiti a Roma 181 giornali periodici. Di questi, ben 41 erano le testate trasferitesi da Firenze o da Torino. Molti avranno una vita breve. Nel 1873 i quotidiani capitolini erano 13 e saliranno a 22 nell’arco di un decennio.
Pochi giorni dopo l’ingresso dei bersaglieri da porta Pia, nello stesso mese di settembre del ‘70, iniziava le pubblicazioni La Capitale (uscito il 21 settembre), ad opera di Raffaele Sonzogno entrato a Roma al seguito delle truppe italiane con un suo piccolo esercito di tipografi e giornalisti e tutto il macchinario necessario per stampare un giornale che avrebbe avuto molto successo e che aveva l’ambizione, anche per le sue posizioni radicali, di eguagliare a Roma i successi milanesi de Il Secolo. Due giorni dopo era la volta de La Libertà (23 settembre), di ispirazione democratica. Un mese più tardi, il 18 ottobre, riprendeva le pubblicazioni L’Osservatore Romano, che le aveva sospese il 20 settembre, espressione della Santa Sede e che, a differenza degli altri quotidiani, non usciva il lunedì per rispettare il riposo domenicale. Nascevano Roma del Popolo, organo del Partito mazziniano, La Voce della Verità (8 aprile 1871), diretta da monsignor Nardi, ispirato dagli ambienti clericali intransigenti, e giornali satirici, come La Lince e La Frusta, foglio clericale di accesa polemica, mentre si erano trasferiti da Firenze L’Opinione (1° agosto ’71), fondato a Torino, conservatore e filogovernativo ad oltranza, tanto da essere definito “più ufficiale della Gazzetta Ufficiale ” e che in seguito, nel ’93, prenderà il nome di L’Opinione Liberale e sarà scherzosamente chiamato “la nonna” per la sua longevità, La Riforma (1° settembre ‘71), giornale vicino a Crispi, L’Italie, giornale italo-francese, “scritto in francese e pensato in italiano”, filogovernativo da sempre (lo aveva voluto lo stesso Cavour), fondato nel ’59 a Milano e trasferitosi poi a Torino e a Firenze e infine a Roma, dove avrà come direttori Giuseppe Augusto Cesana e Edoardo Arbib, che ne faranno “il vero giornale della capitale”, Il Fanfulla (21 ottobre ’71), monarchico di area liberal-conservatrice, fondato l’anno prima a Firenze da Giuseppe Augusto Cesana, Francesco De Renzis e Giuseppe Piacentini, per molti anni tra i più apprezzati giornali romani, “rispettato e temuto”, e Il Diritto (2 novembre ’71), voce della sinistra costituzionale che aveva iniziato le sue pubblicazioni a Torino.
Negli anni immediatamente successivi nascevano, sotto la direzione di Leone Fortis, Il Popolo romano (1°settembre 1873), che si guadagnerà una incontrastata autorità nell’informazione finanziaria e sotto la successiva direzione di Costanzo Chauvet diventerà un battagliero giornale della sinistra depretisiana in contrapposizione alla Libertà di Arbib, Il Bersagliere (1875), Il Dovere (1877) e Il Messaggero (1878), di area democratica, destinato a divenire il quotidiano più influente della capitale, la ragione del cui successo andava “ricercata – scriverà nel 1905 Aldo Chierici in una panoramica della stampa romana – nel suo carattere eminentemente popolare, nella sua schietta indipendenza, nel non farsi lacchè di nessuna ambizione, nel non appartenere a nessuna camarilla politica”, grazie anche all’intuizione del suo fondatore, Luigi Cesana, figlio di Giuseppe Augusto, che volle farne “l’organo ufficiale degli ammazzati, degli strangolati e dei suicidi”, ovvero un giornale di cronaca dei fatti della città, dove, grazie a una rete di migliaia di informatori, non giornalisti, pagati con mezza lira a notizia portata, “tutte le questioni più palpitanti erano” “largamente discusse, tutti i fattacci minuziosamente raccontati” .
Qualche anno più tardi, nel maggio del 1880, nascerà Capitan Fracassa, diretto da Luigi Arnaldo Vassallo (“Gandolin”), che avrà, per la prima volta nella storia del giornalismo italiano, una donna come redattrice ordinaria, Matilde Serao. Il 26 novembre del 1883 uscirà il primo numero de La Tribuna, voluta dalla pentarchia zanardelliana dopo la svolta trasformistica di Depretis e acquistato ben presto dal principe Maffeo Sciarra. Il suo primo direttore fu Luigi Roux, che fino al giorno prima aveva diretto La Gazzetta Piemontese a Torino, sostituito dopo poco dal redattore capo Attilio Luzzatto. In redazione vi erano Giacomo Gobbi Belcredi e Vincenzo Morello, prestigioso collaboratore Gabriele D’annunzio, mentre il suo redattore di politica estera e di critica teatrale era un giovane Salvatore Barzilai, destinato alla presidenza della futura Associazione della Stampa Periodica, allora da poco laureatosi in giurisprudenza e sbarcato a Roma dalla natia Trieste in cerca di fortuna. La linea politico-editoriale voluta dall’editore, favorevole alle imprese coloniali seguite e descritte con particolare interesse ne fecero sul finire del secolo un giornale molto diffuso, tanto da superare spesso le centomila copie al giorno. Roux tornerà alla direzione de La Tribuna nell’ottobre del ‘900 assicurandole un periodo di grande successo editoriale. Nel 1885 Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, da poco unitisi in matrimonio e dopo una comune esperienza al Corriere del Mattino, dove si erano conosciuti, pubblicavano, tra molte difficoltà finanziarie Il Corriere di Roma, destinato, però, a scarsa fortuna, ancorché intervenisse a sostenerlo il banchiere livornese Matteo Schilizzi.
A gennaio del 1888 esaurita l’esperienza romana la coppia Scarfoglio-Serao sarebbe sbarcata a Napoli per dare vita, scuotendo il sonnolento mondo giornalistico partenopeo, al Corriere di Napoli, sempre con il sostegno finanziario di Schilizzi. Sarà una innovazione editoriale ispirata ai quotidiani francesi, con una veste grafica innovativa e grande spazio all’informazione internazionale e nazionale. Contribuiranno al suo successo anche le collaborazioni di Gabriele D’Annunzio e Giosuè Carducci. Cinque anni dopo il litigio con Schilizzi spingerà Scarfoglio e Serao a tentare una nuova iniziativa editoriale, sempre a Napoli, dando alla luce il quotidiano Il Mattino che attraverserà tutto il novecento e diventerà il primo giornale napoletano. Sul finire del 1887 Luigi Arnaldo Vassallo, rientrato a Roma a conclusione di una parentesi genovese dopo le dimissioni dal Fanfulla, dette vita al Don Chisciotte, quotidiano illustrato. Nell’aprile del 1891 vedrà la luce il quotidiano L’Italia militare e marina, fondato e diretto dall’editore Voghera, redatto da militari e, ovviamente, specializzato in problemi militari. Nel dicembre del ’96 iniziava le pubblicazioni l’organo ufficiale del partito socialista l’Avanti!, diretto da Andrea Costa.(*) da UN SECOLO DI GIORNALISMO di Giancarlo Tartaglia, Mondadori Università
-
UN SECOLO
DI GIORNALISMO
ITALIANOdata: 30/03/2020 19:45
La prima associazione giornalistica era stata costituita nel 1877, pochi anni dopo la proclamazione di Roma capitale, seguita da numerose altre associazioni sorte spontaneamente in tutte le principali città italiane del sud e del nord, sull’onda di un processo aggregativo che si andava diffondendo in tutti i paesi europei. La Federazione della Stampa, che, appunto, federava le associazioni preesistenti, si era ufficialmente costituita a febbraio del 1908. Due anni dopo, firmava con l’Unione degli editori la Convenzione d’opera giornalistica, il primo contratto collettivo nazionale stipulato da un’organizzazione sindacale in Italia. Ciò nonostante, non si era caratterizzata soltanto come un organismo sindacale, bensì come un’organizzazione di più ampio respiro tesa a tutelare gli interessi complessivi di una categoria dai confini non ancora ben delineati.
Nel mondo giornalistico le figure dell’editore, dell’amministratore e del giornalista spesso si confondevano. Grandi giornalisti erano anche grandi editori e capaci amministratori. Basti pensare a Guido Cesana, direttore di giornali e fondatore de Il Messaggero, a Eugenio Torelli-Viollier, fondatore, editore, amministratore e direttore del Corriere della Sera, a Luigi Albertini, che fece del Corriere, da direttore e comproprietario, una delle testate più importanti d’Europa, a Luigi Roux, fondatore e direttore de La Stampa, ad Alfredo Frassati, che da redattore del quotidiano torinese ne divenne comproprietario e direttore, ad Edoardo Scarfoglio, editore e direttore de Il Mattino e così via. Tutti nomi che ritroviamo alla guida di quel movimento professionale che porterà alla nascita dell’Associazione della Stampa Periodica Italiana, dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti, dell’Associazione della Stampa Subalpina e che volle, nei primi anni del nuovo secolo, la costituzione di una autorevole Federazione Nazionale della Stampa Italiana.
Di conseguenza, i problemi del mondo editoriale erano, indistintamente, i problemi di questa complessa ed eterogenea categoria. Se il contratto di lavoro costituisce un filo conduttore che attraversa sin dall’inizio l’intera storia delle organizzazioni giornalistiche italiane, non da meno ad esso si intrecciano le discussioni e le preoccupazioni per altri aspetti considerati di identica importanza. La distribuzione dei giornali, le tariffe postali, il prezzo e l’approvvigionamento della carta e delle materie prime sono oggetto, non secondario, degli interessi dei giornalisti.
A questi aspetti se ne aggiungevano altri più attinenti all’esercizio professionale. La libertà di stampa, sancita dall’editto albertino e base fondativa della costruzione unitaria della nazione, era sempre mal tollerata dai Governi di turno. Il reato di vilipendio e, ancora più spesso, quello di diffamazione a mezzo stampa erano sempre in agguato. Il reato di diffamazione era stato sanzionato nell’editto albertino nell’ambito della tutela della libertà di espressione. Il Codice Zanardelli del 1890 lo fece diventare un reato regolato, come tutti gli altri, dal Codice penale, aprendo una lunga polemica della categoria, che ne fece oggetto di proteste e di discussione in tutti i congressi nazionali, ma anche di approfondimento e di studio. La battaglia per la revisione del reato di diffamazione era destinata ad essere lunga ed estenuante e contrappose la Federazione della Stampa a tutti Governi. Nonostante, però, gli affidamenti e le disponibilità non si riuscì ad ottenere mai nulla. Prima la guerra italo-turca, poi la grande guerra, seguita dalle turbolenze sociali del dopoguerra, e infine l’avvento del fascismo ne impedirono ogni possibilità di riforma. Su questo argomento la battaglia della categoria sarebbe ripresa dopo la seconda guerra mondiale e la nascita dell’Italia repubblicana, restando, ancora oggi, senza alcun esito positivo.
Il reato di diffamazione, con il quale i giornalisti dovevano quotidianamente confrontarsi non era, però, l’unico problema che le organizzazioni di categoria erano chiamate ad affrontare per difendere il loro lavoro e la libertà di espressione. Guerre mondiali e guerre coloniali erano avvenimenti che per la loro drammaticità giustificavano l’imposizione di un regime restrittivo di tutte le libertà, a partire proprio dalla libertà di stampa e l’incubo della censura era vissuto dai giornalisti come una insopportabile lesione alle loro prerogative professionali. Nel corso della guerra italo-turca, che avrebbe fatto nascere il sogno di un nostro destino coloniale e imperiale, la Federazione della stampa, costituita da appena tre anni, avrebbe dovuto affrontare da un lato il tema della censura, polemizzando e contrattando con il Governo e le autorità militari, dall’altro quello della difesa, anche a livello internazionale, dei corrispondenti italiani, che allora si chiamavano “redattori viaggianti”, alla spasmodica caccia di notizie (talvolta inventate, con una discutibile deontologia professionale) e impegnati nella ricerca di qualsiasi marchingegno capace di perforare le strette maglie della censura militare. L’enfasi per un’avventura di potenza nella quale si sarebbe forgiato sul piano culturale il futurismo e su quello politico il nazionalismo, avrebbe coinvolto, ovviamente, anche quasi tutto il giornalismo italiano, ad eccezione principalmente di quello legato alla tradizione pacifista socialista. I giornalisti italiani in Cirenaica e Tripolitania non erano testimoni chiamati a raccontare gli avvenimenti bellici, ma si sentivano anch’essi combattenti, sia pure con la penna, ma molto spesso con le armi in pugno, della stessa causa. Questo sentimento di partecipazione nazionale, prevalente sul dovere professionale, li avrebbe portati a polemizzare con le autorità e con i colleghi delle potenze europee, che mal sopportavano l’ingresso dell’Italia sulla scena coloniale e la Federazione della Stampa dovette più volte intervenire a loro difesa, anche con accese proteste rivolte all’Unione Internazionale delle Associazioni di stampa, che rappresentava le organizzazioni giornalistiche di tutti i paesi europei e che era sorta proprio per la volontà e la tenacia delle associazioni italiane. Lo stesso scenario si sarebbe presentato qualche anno più tardi, con lo scoppio della grande guerra. Ancora una volta, le censura di guerra, le incomprensioni dei comandi militari, la libertà di movimento dei corrispondenti e, non ultime, le polemiche con i colleghi e i governi delle potenze avversarie e talvolta anche di quelle alleate, avrebbero impegnato la Federazione della Stampa in una costante e attiva azione di tutela delle condizioni di lavoro e delle prerogative professionali del giornalismo italiano. Quando nel ’36, in un clima decisamente diverso, una nuova impresa coloniale porterà in Africa Orientale le truppe e i giornalisti italiani, il Sindacato Nazionale dei Giornalisti, che dal ’27 aveva soppiantato e sostituito la Federazione della Stampa, facendone un’organizzazione pubblica inquadrata nello Stato corporativo fascista, si troverà di fronte gli stessi problemi. Se non si poteva più parlare di censura, almeno non nei termini in cui la questione era stata affrontata nelle occasioni precedenti, in conseguenza della soppressione della libertà di stampa, sanzionata dalle leggi del ’25, si doveva, però, ripresentare la necessità di difendere i giornalisti italiani, tutti, ovviamente, accesi sostenitori del destino imperiale dell’Italia fascista, che all’assemblea della Società delle Nazioni avrebbero tentato di impedire al Negus di parlare.
La vita dell’Italia unitaria, come si è visto da questi pochi esempi, è stata contrassegnata, in tutti i suoi passaggi cruciali, dalla presenza dei giornalisti e dall’azione delle loro organizzazioni professionali. Se spesso l’esercizio della professione giornalistica si confondeva e si sommava con l’esercizio di ruoli amministrativi ed imprenditoriali, ugualmente confusi erano i confini tra giornalismo e politica. Non a caso, la libertà di stampa è stata all’origine della stessa libertà politica. Molti parlamentari, quasi tutti, erano anche giornalisti e molti giornalisti, quasi tutti, se non erano parlamentari, aspiravano, comunque, a svolgere un ruolo politico nella realtà nazionale o in quella comunale nella quale operavano. Questa commistione tra politica e giornalismo non sarebbe stata estranea alla vita delle organizzazioni giornalistiche, anzi. Il primo presidente dell’Associazione della Stampa Periodica era stato Francesco De Sanctis, illustre letterato, ma anche parlamentare meridionale per otto legislature. Seguito da Ruggero Bonghi, deputato per dodici legislature, ministro dell’Istruzione Pubblica nel governo Minghetti, da Romualdo Bonfadini, deputato e senatore, da Luigi Luzzatti, più volte ministro, presidente del consiglio nel 1920, sostenitore convinto di una regolamentazione legislativa del contratto di lavoro giornalistico. Personaggi come Leonida Bissolati ne avrebbero guidato il collegio probivirale. L’Associazione Lombarda avrebbe visto tra i suoi quadri dirigenti uomini come Filippo Turati, Claudio Treves, don Davide Albertario, Carlo Romussi, Innocenzo Cappa, Ettore Janni e quasi tutto il ghota politico milanese. L’Associazione della stampa Subalpina sarebbe nata per impulso di Luigi Roux, parlamentare per quattro legislature, e di Alfredo Frassati, senatore del Regno. La Federazione Nazionale della Stampa, alla cui fondazione parteciparono, tra gli altri, Luigi Albertini, Filippo Meda, Claudio Treves e Leonida Bissolati, sarebbe stata presieduta da Salvatore Barzilai, anch’egli deputato per otto legislature e ministro nel governo Salandra nel corso della prima guerra mondiale, da Andrea Torre, deputato per cinque legislature e ministro dell’Istruzione pubblica nel primo e secondo governo Nitti, da Alberto Bergamini, fondatore de Il Giornale d’Italia, senatore del Regno, da Roberto Bencivenga, generale e deputato di opposizione, eletto nelle file amendoliane nel ’24.
Questo elenco, non esaustivo, dei quadri che diressero la Federazione e le Associazioni di stampa dalle loro origini sino al fascismo è la più eloquente dimostrazione dell’importanza che ad esse assegnavano sia il giornalismo sia la politica. Nella storia italiana, perciò, il loro ruolo non è stato affatto marginale, ma anzi, ancorchè poco studiato, ha avuto una notevole rilevanza. Non a caso nei lunghi anni che vanno dal 1919 al 1926 e che segnano la fine dello Stato liberale e la nascita dello Stato fascista, proprio per l’importanza che Mussolini e il fascismo assegnavano all’informazione, la Federazione e le Associazioni territoriali furono al centro dello scontro politico. Si posero all’avanguardia nella difesa della libertà di stampa, pur con i limiti che derivavano loro dal non essere associazioni di parte, bensì organizzazioni rappresentative di tutti i giornalisti, a qualsiasi fede politica essi appartenessero. Anche per questo il capo del fascismo pose tra gli obiettivi prioritari del suo movimento la conquista ad ogni costo delle Associazioni di Stampa e della loro Federazione Nazionale. Una conquista che non fu facile e che non riuscì quasi mai per via pacifica, come dimostrano le elezioni, in quegli anni tumultuosi, per il rinnovo dei vertici dell’Associazione della Stampa Romana, dove i candidati sostenuti dal fascismo sarebbero stati sempre sconfitti. Il fascismo le avrebbe conquistate soltanto grazie all’intervento dei prefetti che commissariando quasi tutte le Associazioni avrebbe, di fatto, consegnato, in una drammatica riunione del Consiglio generale, il 6 dicembre del 1925, la Federazione della Stampa nelle mani dei giornalisti fascisti.
Ma anche negli anni del fascismo, pur ridotti i giornalisti all’ubbidienza al regime e all’esaltazione delle imprese del Governo, il Sindacato Nazionale Fascista dei Giornalisti, erede della disciolta Federazione della Stampa, sarebbe stato guidato da personaggi chiamati a svolgere ruoli di primo piano nel nuovo Stato corporativo fascista, a dimostrazione della sua importanza e della particolare attenzione con cui il regime guardava al giornalismo. Ermanno Amicucci, Araldo Di Crollalanza, Lando Ferretti, Gaetano Polverelli, Francesco Paoloni, Carlo Ravasio, lo stesso Arnaldo Mussolini, furono tutti dirigenti sindacali dei giornalisti. Se il sindacato fascista non aveva più titolo per difendere la libertà di stampa e l’autonomia professionale dei giornalisti, aveva, però, grande spazio per difenderne gli interessi materiali. Non a caso, sotto la guida e le sollecitazioni del Sindacato fascista la categoria ottenne, sin dal 1926, il riconoscimento di un suo istituto previdenziale, l’INPGI, che pure era stato preceduto da un defatigante negoziato, durato anni, tra l’Unione degli Editori e la Federazione della Stampa, ma vide anche la nascita, per legge, dell’albo professionale, che pur viziato nelle sue modalità di accesso (occorreva il beneplacito del Prefetto per esercitare la professione), rispondeva ad una esigenza di chiarezza sentita da sempre dall’intera categoria. Né deve essere trascurato il tentativo di rendere più professionale il lavoro giornalistico mediante la realizzazione di una scuola di giornalismo che doveva consentire l’accesso diretto all’albo. Un esperimento durato soltanto un triennio, avversato da molti, ma caparbiamente voluto da Ermanno Amicucci, proprio sull’onda della più avanzata esperienza statunitense, che il segretario del sindacato fascista aveva avuto occasione di conoscere da vicino.
La storia della Federazione della Stampa e delle sue Associazioni territoriali è, quindi, in un certo senso anche la storia d’Italia, perché i giornalisti ne sono stati non solo i testimoni e coloro che l’hanno raccontata “in diretta”, ma ieri, molto più di oggi, anche gli interpreti.(*) da "UN SECOLO DI GIORNALISMO. Storia della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (1877-1943)" di Giancarlòo Tartaglia, Mondadori Università, 2008
-
TEMA: C'E' UN FUTURO
PER I GIORNALI LOCALI?data: 27/11/2019 11:26
Si torna a parlare della centralità della informazione locale e della possibile sopravvivenza del giornale cartaceo nella dimensione locale, dando ormai tutti per scontata la fine del giornale cartaceo di livello e contenuti nazionali. Da questo punto di vista, appare utile e istruttivo rileggersi la “presentazione” di Giancarlo Tartaglia, nel 1998, al volume di Beppe Lopez significativamente intitolato “IL QUOTIDIANO TOTALE. Come si progetta e come si fa il primo giornale richiesto dal mercato: locale, completo, di qualità e popolare. Dall’analisi di mercato al prodotto, dal suo contenuto all’organizzazione, dagli uomini alla gestione economica” (Mario Adda Editore)
Sino a pochissimi anni fa, l’obiettivo degli editori italiani di raggiungere e superare il traguardo dei sette milioni di copie al giorno di quotidiani venduti sembrava a portata di mano. Oggi, all’improvviso, ci si accorge che la nostra stampa quotidiana arranca e si affatica per non scendere, come gli impietosi dati diffusionali mensilmente documentano, sotto la soglia dei sei milioni di copie.
La crisi della carta stampata e dei quotidiani in particolare è, così, di nuovo al centro dell’attenzione degli addetti ai lavori, editori e giornalisti, ma anche dei politici e di una nutrita schiera di cultori della materia, che si sentono in dovere di denunciare i limiti e le mancanze della nostra editoria quotidiana e di suggerire ricette più o meno sicure, più o meno miracolisti- che, per riprendere il cammino interrotto della crescita di tirature e diffusione. Non mancano naturalmente quanti ritengono che la battaglia sia definitivamente persa e che i nuovi mezzi di comunicazione, dalla radio e televisione (nelle loro diverse dimensioni, nazionale e locale, pubblica e privata) ai prodotti informatici, alle reti telematiche, a Internet abbiano ormai vinto su tutti i fronti e abbiano colpito a morte, in un processo che il continuo sviluppo tecnologico renderebbe irreversibile, l’informazione quotidiana diffusa con il tradizionale mezzo della carta stampata.
Queste visioni così apocalittiche trovano smentita nella insuperabile limitatezza del mezzo tecnologico, per quanto sofisticato possa essere, e nella ineguagliabile flessibilità della carta stampata. La radio e la televisione hanno palinsesti orari rigidi non modificabili da parte dell’utente, che può, al contrario, leggere e sfogliare il giornale quando vuole, dove vuole e secondo i propri ritmi e le proprie preferenze. I computer, che consentono l’accesso alle banche-dati informatiche, alle agenzie e ai giornali via Internet, non sono facilmente leggibili a letto, in auto, sul tram, sulle panchine dei giardini e in tutti quei posti e in quelle occasioni nelle quali la lettura di un foglio di carta resterà sempre insostituibile.
Ma, a parte le catastrofiche previsioni dei “laudatores temporis acti” della multimedialità, un cupo pessimismo sul futuro dei giornali stampati sembra pervadere la stessa categoria degli editori. Convinti dell’ineluttabilità della decadenza dell’informazione scritta, essi piangono sui costi di produzione sempre troppo alti, sulla distribuzione sempre troppo limitata, sulla pubblicità sempre troppo sperequata a vantaggio del mezzo radiotelevisivo e chiedono al potere legislativo norme che consentono il ricorso ad ammortizzatori sociali per ridurre il costo del lavoro, la liberalizzazione della rete di vendita e un riequilibrio del mercato pubblicitario, da ottenere non si sa come.
La modesta portata di queste richieste è la più evidente dimostrazione di come proprio gli editori non credano più, se mai vi hanno creduto, nella capacità dell’informazione scritta di competere sul mercato. L’abbattimento del costo del lavoro e la riduzione di personale costituiscono un obiettivo che qualunque imprenditore non cessa mai di invocare, perseguendo, per definizione, scopi utilitaristici e non filantropici. Ma si dà il caso che l’editoria giornalistica produca giornali, ovvero un prodotto la cui materia prima, la carta, ha, per unità di copia, costi irrisori, e il cui prezzo di copertina si giustifica per l’alto valore aggiunto che è dato dall’informazione, ovvero dal lavoro dei giornalisti. Ridurne il numero e immiserirne il livello retributivo, relativo a una prestazione a contenuto professionale, non ha altro effetto che ridurre i contenuti informativi del giornale con inevitabili ripercussioni sui suoi livelli di vendita.
Una riflessione così banale non sembra sfiorare gli editori italiani, che reagiscono alla contrazione del mercato con la riduzione degli organici giornalistici e la sostituzione dell’informazione prodotta in proprio con l’informazione acquistata a costi più bassi, forse anche per questo più scadente, da soggetti terzi, Services e cooperative di vario genere germinati dalla dispera-zione di una dilagante disoccupazione.
La qualità modesta dell’informazione viene surrogata, nella totale incapacità imprenditoriale, dalla forsennata e miliardaria gara dei gadgets, che lungi dal sostenere le diffusioni dissangua i bilanci aziendali. I gadgets, sempre più costosi e offerti in aggiunta al giornale con un prezzo certamente competitivo per chi intende acquistare il gadget (e cestina il giornale) ma assolutamente ingiustificato per chi vuole acquistare soltanto informazione (e non acquista più quel giornale), hanno concorso a drogare e falsare il mercato dei quotidiani, divenendo molto spesso, nonostante le reiterate e mai attuate dichiarazioni di tregua, ormai indivisibili dal prodotto giornale, che senza gadgets rischia di collassare e scomparire dal mercato.
Né gli editori sembrano riflettere a sufficienza sull’altrettanto banale considerazione che un allargamento ai distributori di benzina e ai supermarket dell’attuale rete di vendita (che già prevede, oltre a 36 mila edicole, lo strillonaggio e la vendita porta a porta) probabilmente renderà poco in termini di maggiore diffusione e certamente con costi aggiuntivi di distribuzione.
Ancora meno credibile, perché non si comprende per quale strada debba avvenire, appare la loro richiesta di un equilibrio delle risorse pubblicitarie tra televisione e carta stampata. Se è vero che il nostro Paese vive un’anomalia non riscontrabile all’estero (una crescita ipertrofica della pubblicità televisiva a danno della pubblicità sulla carta stampata) è anche vero che, rispondendo la pubblicità alle leggi di mercato, un riequilibrio non potrà mai realizzarsi per imposizione legislativa, né tantomeno per gentile rinuncia della concorrenza. Né è immaginabile che l’introduzione di un tetto alla pubblicità televisiva possa automaticamente dirottare gli investimenti pubblicitari verso la carta stampata.
Detto questo ci sembra che gli editori italiani, ai quali spetterebbe evidentemente di impegnarsi nello sviluppo del settore, dopo la sbornia tecnologica degli anni ’80 e dopo il colossale fallimento della campagna dei gadgets degli anni ’90, siano ormai ripiegati nella vecchia logica dell’assistenzialismo di Stato e comunque alla ricerca di forme di protezionismo legislativo, e assolutamente incapaci di una riflessione critica sul prodotto e sulla sua innovazione, che, a ben rifletterci, dovrebbe essere il compito che caratterizza e distingue l’imprenditore dal semplice amministratore.
In altre parole, il settore dell’editoria quotidiana soffre di una troppo lunga crisi di imprenditorialità e di una mancanza assoluta di idee che portano ineluttabilmente ad un progressivo restringimento del mercato e ad una lotta per la sopravvivenza condotta giorno per giorno sui risparmi e nella affannosa ricerca tra le pieghe delle leggi sull’editoria, a livello nazionale o regionale, di contributi pubblici o di forme assistenziali, comunque camuffate.
Al di là delle poche innovazioni, che pure ci sono state in questi anni e talvolta anche con successo - basti pensare a la Repubblica di Eugenio Scalfari e alla catena dei giornali locali dello stesso gruppo Caracciolo - il panorama editoriale italiano è rimasto nei decenni pressoché immutato, con gli stessi giornali che hanno mantenuto nel tempo le loro specificità, pur adeguando parzialmente i contenuti e il linguaggio alla mutata realtà socio-economica dell’Italia.
A parte le poche testate specialistiche, economiche e sportive, tutti i quotidiani italiani (nazionali, regionali o locali), hanno da sempre le stesse caratteristiche, sono cioè giornali per così dire omnibus, con la stessa impostazione e, più o meno, gli stessi contenuti. I giornali italiani sono allo stesso tempo giornali popolari e giornali elitari. E probabile che nel nostro paese non ci sia la propensione al giornale esclusivamente popolare, stando almeno al fallimento dell’unica iniziativa editoriale in tal senso di questi anni, L’Occhio di Maurizio Costanzo, che nelle intenzioni tale voleva essere ma che il mercato bruciò in pochissimi mesi. E pure vero che i giornali popolari diffondono all’estero milioni di copie (l’inglese Sun supera i 3 milioni e mezzo di copie al giorno, a fronte del più paludato Times attestato su 783 mila copie), mentre da noi il milione di copie resta un miraggio irraggiungibile anche per i due più grandi quotidiani nazionali che si combattono furiosamente con le armi degli inserti e dei gadgets.
Peraltro i giornali italiani, nel cambiamento e nella modifica del linguaggio, hanno proceduto quasi tutti insieme e continuano ad essere, come sempre, quasi tutti uguali. Tutti imitavano ieri il Corriere della Sera, tutti continuano a imitare oggi il Corriere della Sera o la Repubblica. Lo spazio dato alla politica è dovunque enorme e invade le prime pagine. A imitazione dei fondi del Corriere, tutte le gazzette di provincia hanno i loro fondi che spaziano sui grandi temi dell’universo politico e sociale. Tutti sentono il bisogno di insegnarci ogni giorno le bontà taumaturgiche del bipolarismo e del maggioritario e come debba essere una democrazia matura, cose di cui alla gente comune che deve fare i conti con i disservizi quotidiani dei trasporti urbani, delle poste o della sanità importa ben poco. Tutti hanno introdotto il linguaggio semplicistico del pettegolezzo per spiegare i fatti complessi della politica, il “minzolinismo” è ormai malattia comune e diffuse. Il menù di casa Letta, peraltro difforme da giornale a giornale, occupa per giorni intere pagine e dovrebbe aiutarci a capire le complicate ricette della Bicamerale. A chi interessi tutto ciò francamente non si comprende, ma nonostante il calo di vendite i nostri giornali si affannano a inseguire, tutti insieme appassionatamente, un’allegra superficialità animata da inutili titoli ansiogeni, che, come ha recentemente annotato anche Ceronetti, contribuisce soltanto ad allontanare il lettore.
In un quadro così poco esaltante e apparentemente senza speranze, capita però di incontrare talvolta qualcuno deciso ad affrontare il pessimismo dettato dalla desolazione del presente con l’ottimismo propositivo delle idee. E il caso di Beppe Lopez, giornalista e non editore, che amando questo “mestiere” e non vivendolo mai con logica impiegatizia ha saputo coniugare le idee con la loro pratica realizzazione. Questo libro, che raccoglie sei progetti di giornali quotidiani locali che nell’arco di tre lustri l’autore ha studiato e disegnato nei minimi particolari, potrebbe sembrare la confessione di una sconfitta. E, invece, un atto di accusa ad un’intera classe imprenditoriale, quella dei nostri editori, per non avere voluto o saputo fare il proprio mestiere. Non a caso Lopez fa precedere questi sei progetti da una lunga introduzione, nella quale mette lucidamente in risalto tutti i vizi dell’editoria italiana e individua nel giornale locale, inteso non come giornale sussidiario del nazionale, ma come “giornale totale” - questa la sua definizione - capace di essere strumento di servizio completo e la risposta propositiva e forse vincente per allargare il mercato e vincere la concorrenza radiotelevisiva. Certo è che lo stesso Lopez ha nella sua biografia professionale un’esperienza esaltante, quella dell’ideazione, della progettazione, della realizzazione e della direzione dell’unico giornale locale nato nel Mezzogiorno negli ultimi vent’anni e ormai consolidatosi nella propria realtà territoriale, Il Quotidiano di Lecce.
Peraltro, che proprio il quotidiano locale possa essere il terreno su cui verificare la possibilità di espansione del mercato editoriale lo si potrebbe dedurre da un’analisi attenta degli indici di lettura. Nella corsa a ritroso, le più recenti statistiche ci dicono che nel Mezzogiorno la diffusione dei giornali si è ridotta di un ulteriore due per cento. Se la media nazionale di diffusione dei quotidiani è stata nel 1996 dell’8,7, nel Sud è stata del 4,5 e nel Nord dell’11,1.
Ancora più impressionanti sono i dati di diffusione nelle singole città. Ad Agrigento siamo al 2,3%, a Potenza al 2,4%, a Caltanissetta al 2,5%, a Foggia al 2,6%, a Campobasso al 2,7%, ad Avellino al 3%, a Benevento al 3,2% e potremmo continuare. Ma vediamo quali sono le città di provincia dove si legge di più: Trieste con il 18,4%, Parma con il 17,7%, Bolzano con il 16,5%, Sassari con il 13,5%.
C’è qualcosa che lega e che può spiegare questi dati, al di là delle trite affermazioni sul sottosviluppo del Mezzogiorno? Forse sì. Se ripercorriamo attentamente l’elenco delle città, tutte meridionali, dove l’indice di lettura è il più basso, ci accorgiamo che si tratta sempre di città nelle quali non esiste e non è mai esistito un quotidiano locale. Se invece ripercorriamo l’elenco delle città con il maggior indice di diffusione, scopriamo che si tratta sempre di città nelle quali esiste da tempo un giornale locale.
E allora? Non è forse questa la dimostrazione che le teorie di Lopez non sono frutto di sogni utopici? Non emerge abbastanza chiaramente che esiste uno spazio di intervento vastissimo per un’imprenditoria sana e non avventurosa e speculativa come quella che, purtroppo, in troppe occasioni abbiamo incontrato in questi anni al Sud come al Nord?
Riteniamo che a tutti questi interrogativi si possa rispondere affermativamente, ma soprattutto ci auguriamo che ci siano editori capaci, soprattutto nel Mezzogiorno, di raccogliere questa sfida imprenditoriale così esaltante, perché essa possa essere anche il segno visibile e palpabile della crescita civile e democratica del nostro Paese. -
BERGAMINI, LA BIOGRAFIA
data: 12/11/2018 11:09
Alberto Bergamini è stato una delle figure più significative del giornalismo italiano del primo ‘900, e può essere considerato, a buon diritto, l’inventore del giornalismo moderno. Con le sue intuizioni e le sue innovazioni riuscì a dare corpo a un quotidiano, Il Giornale d’Italia, libero dalle ingessature ottocentesche e proiettato alla ricerca di un pubblico sempre più ampio, ben oltre i confini della media e dell’alta borghesia. Lo interessava, soprattutto, quel mondo fatto di maestri, professori, artigiani, impiegati, che preferiva leggere i fatti di cronaca, in particolare quella giudiziaria, i grandi delitti, le vicende passionali e per i quali la politica era appetibile se condita di indiscrezioni e pettegolezzi. Gente interessata, per esempio, a conoscere quali effetti avrebbe avuto sulla propria vita una nuova legge. Una vasta piccola borghesia che soprattutto a Roma e nel mezzogiorno d’Italia avrebbe decretato il successo di un giornale ricco di disegni, illustrazioni, caricature, fotografie, che accompagnavano e commentavano i fatti di ogni giorno.
In pochi anni, Il Giornale d’Italia, nato nel 1901, si sarebbe affermato con un vero e proprio successo editoriale, superando nella tiratura e nelle vendite tutti gli altri quotidiani romani, da Il Messaggero a La Tribuna. Il giornale, amava dire Bergamini, deve essere ogni giorno come un panino ‘croccante’ e farlo ogni giorno ‘croccante’ non era facile, ma lui ci riusciva, con una permanente quotidiana presenza in redazione, quasi ossessiva, con la sua capacità di individuare i redattori migliori, di incitarli e indirizzarli alla ricerca ostinata della notizia, qualunque essa fosse, di bianca, di nera, di politica, di economia, o anche di spettacolo. Inventò la ‘terza pagina’, aprendo le colonne del giornale al mondo della cultura.In sintesi, rivoluzionò il modo di fare giornalismo e ancorché il suo giornale fosse espressione di una corrente politica, quella che faceva capo a Sonnino e Salandra, fu sempre, prima di tutto, un giornalista e considerò la sua missione non quella di indottrinare il pubblico, bensì quella di dargli informazioni, tante e veloci. Anche la velocità fu uno dei suoi obiettivi giornalistici, tanto da inventarsi un’edizione del primo pomeriggio, Il Piccolo, che sarebbe diventato nel tempo una testata autonoma, ma anche ricorrendo sempre più spesso alla stampa di edizioni speciali. Arriverà a tirare in un giorno sino a sette edizioni speciali!La guerra di Libia sarebbe stata l’occasione per il grande balzo nella tiratura. Il successo editoriale finì per fare del giornale un soggetto politico, capace di indirizzare la politica di un governo e, addirittura, come qualcuno sosteneva, di farlo cadere. Esagerazioni? Non tanto, se si pensa, per esempio, allo scoop (uno dei tanti, perché Bergamini li amava molto) che rese pubblico l’accordo segreto, sottoscritto da Giolitti e dal conte Gentiloni, per ottenere i voti dei cattolici e rappresentarli in Parlamento e che portò all’allontanamento dei radicali, alla crisi di governo e, alla fine, alle dimissioni di Giolitti.Per questo Bergamini fu anche un politico di rilievo, al pari di altri personaggi emblematici del giornalismo di quegli anni, come Albertini, Frassati e Malagodi, tutti giornalisti-editori-direttori, al cui «esercizio severo della libertà di stampa – come ha riconosciuto Castronovo – corrispose un grado di prestigio e di influenza politica sconosciuto in passato» e che non si sarebbe più riprodotto nella storia del giornalismo italiano.Benché incasellato, come Sonnino, nella destra liberale, fu, come Sonnino, un riformista. Condivise, infatti, ed esaltò il piano di riforme economiche e sociali che i brevi governi guidati da Sonnino tenteranno di realizzare e che con una felice espressione chiamò «riformismo costituzionale»: un complesso piano gradualistico per affrontare e risolvere gli squilibri territoriali e sociali dell’epoca.E’ questo l’aspetto centrale, il cuore del pensiero e dell’azione politica di Bergamini, che si muoveva su un rigido e indeformabile binario rappresentato dal liberalismo e dalla monarchia costituzionale. Con questa rigida visione politica considererà il movimento socialista e il partito popolare corpi estranei allo Stato liberale. A maggior ragione vivrà con estrema preoccupazione il prevalere nell’area socialista, sull’onda della rivoluzione bolscevica, delle correnti massimaliste. Come tutti i maggiori esponenti del mondo liberale, da Salandra a Giolitti a Nitti, da Albertini allo stesso Amendola, vedrà nell’ascesa del movimento fascista lo strumento per fronteggiare le esagerazioni del biennio rosso e per riportare il Paese nella cornice liberal-costituzionale. Riteneva che il fascismo sarebbe stato un fenomeno provvisorio, ancorché benefico, destinato a scomparire al momento della liberazione dalla minaccia bolscevica e con il ripristino dello Statuto Albertino. Fu, però, tra i primi nel mondo liberale a rendersi conto che si andava verso un regime autoritario, negazione di quello stato liberal-costituzionale fondamento della sua visione politica. Nel 1923, dopo continui scontri diretti con Mussolini avrebbe deciso di lasciare la direzione del giornale, che aveva fondato e amato, e di vendere le sue quote proprietarie al partito liberale, con l’impegno che il giornale sarebbe rimasto a difesa di quell’area e di quella linea politica.Senatore del Regno, nominato da Giolitti insieme a Sonnino nel 1920, voterà in Senato contro le leggi “fascistissime” presentate dal Ministro Rocco che introducevano, tra l’altro, il Tribunale speciale e la cancellazione di ogni libertà civile. Voterà, anche, nel 1929, contro la sottoscrizione dei patti lateranensi e quando con la riforma fascista del Senato gli sarebbe stata di fatto impedita la possibilità di esprimere il suo pensiero si sarebbe ritirato nella sua casa vicino Gubbio in una sorta di confino volontario, ma sarebbe ritornato a Roma nel 1943 per riprendere a tessere le fila dell’antifascismo liberale insieme a Bonomi, Casati, Della Torretta e tutti gli altri esponenti di quel mondo sopravvissuti alla catastrofe fascista. Ritornerà, nei quarantacinque giorni del governo Badoglio, alla guida del ‘suo’ giornale.Ma Bergamini fu anche molto vicino agli organismi della categoria giornalistica tanto da svolgervi un ruolo da attore principale. Avrebbe assunto, infatti, per ben tre volte, nel corso della sua vita, la presidenza dell’Associazione della Stampa di Roma e della Federazione Nazionale della Stampa in momenti decisivi e cruciali per il giornalismo italiano: nella battaglia contro il fascismo, nei mesi della ricostruzione del Sindacato dei giornalisti, subito dopo la caduta del fascismo, e nella seconda metà degli anni ’50, quando la sua presenza si rese necessaria per garantire l’unità della categoria. Di Bergamini, giornalista e politico, ho voluto scrivere una biografia che uscirà in libreria nel prossimo dicembre.