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GILDO DE STEFANO

  • DOVREMO ABITUARCI
    A VIVERE CON LA GUERRA
    E CON IL BRUTTO?

    data: 06/12/2022 19:16

    Tra le molte peculiarità che distinguono la nostra epoca c'è da registrare quella della conflittualità permanente di cui la recente guerra in Ucraina non è che l'ennesimo esempio. Tuttavia ci sono vari tipi di guerra: c'è la guerra fredda, la guerra strisciante, la guerra maliziosa e così via. Addirittura nella terminologia corrente il termine stesso di guerra (con tutti i suoi "corollari": assalto, attacco, aggressione, ecc.) è ormai entrato nel linguaggio comune, simbolo efficace di una situazione, d'uno stato d'animo, di una statistica. Così si parla di guerra dell'auditel, guerra della finanza, aggressione sportiva (a parte gli ultras, ecc.); sono questi tutti modi che servono a comunicare un "momento" della vita che sta intorno a noi.

    Esiste poi anche una guerra dell'arte o meglio, in questo caso, una guerra all'arte, cioè al bello, alla raffinatezza del gusto e dei modi, alla correttezza dei comportamenti e degli stati d'animo. Se ne va progressivamente in fumo, per così dire, una parte fondamentale di noi, di tutto ciò che l'umanità ha appreso in secoli e secoli di riflessione, di studi, di confronti. Se le bombe di Putin hanno distrutto buona parte dei tesori ucraini, altro tipo di proiettili aggrediscono e distruggono ogni giorno il patrimonio di un'altra bellezza: quella dell'intelligenza, della solidarietà, del rispetto.

    La conclusione sembra scontata: dovremo abituarci a vivere col brutto, col sopruso, con l'inganno, con la sopraffazione. Sono tutte cose queste che non appartengono al mondo dell'arte e della cultura per cui potremmo dire che stiamo andando incontro ad una vera e propria disfatta (giusto per usare un termine di assuefazione bellica). La storia ci ha insegnato che quando arte e cultura vengono meno ovvero sono ridotte al lumicino, non è possibile nemmeno percorrere alcun cammino di pace, il che significa avviare l'umanità presente ad un declino senza speranza.
     

  • MA E' POSSIBILE
    UNA SOCIOLOGIA DEL JAZZ?

    data: 29/04/2020 17:03

    Ad appena un anno dalla sua morte e nell’attuale globalizzazione ciò che ricorre con una certa frequenza è un concetto coniato dal creatore di un altro iper-concetto, quello della “modernità liquida”: la “musica liquida”. L’allusione è al sociologo Zygmunt Bauman, che nella prefazione al mio libro, Una storia sociale del jazz, ha affermato che la musica è legata ai sentimenti e provoca un’attività cerebrale inconscia, quindi può diventare parte integrante dello sviluppo mentale. Gli uomini sono molto più capaci di quanto la società permetta loro di essere. Sicuramente anche la branca dei jazzisti improvvisatori si sono accorti che ora questo tempo ferito e frammentato sia diventato il Tempo e la quotidianità di tutta una società, scuotendoli non poco.
    Peraltro i rapidi sviluppi cui abbiamo assistito in questi ultimi decenni nel campo dell'antropologia, dell'etnologia, della sociologia e delle scienze umane in ge¬nerale sembrano avere incontestabilmente posto in primo piano l'importanza della musica per lo studio e la comprensione di una cultura. D'altro canto, da quando, superata l'estetica crociana, si è potuto guardare ai fenomeni letterari senza prescindere da un contesto storico e sociale, ma anzi investigando dialetticamente sui rapporti fra società e manifestazioni culturali, i compartimenti stagni che separavano letteratura e scienze sociali hanno perso molta della loro rigidità e della loro capacità di tenuta. È quindi oggi tutt'altro che azzardato affermare che un quadro generale della cultura americana non può essere completo senza una attenta considerazione del folclore afro-americano, del quale è la peculiarità più notevole. È assiomatico il processo di alienazione patito dagli schiavi africani in America e il successivo processo di riconquista di un significato umano realizzato dagli stessi. Sotto alcuni aspetti i neri hanno incontrato maggiori difficoltà di quante non ne abbiano incontrate le altre minoranze, ed è abbondante la letteratura che illustra il cammino di queste difficoltà tra musica e storia culturale: ecco perché si fa spesso riferimento alla antropologia musicale, al fine di scandagliare in vitro l'«uomo che fa musica» malgrado la ripugnante condizione sociale o, meglio, asociale in cui versa¬va.
    Già dallo scorso millennio, in etnomusicologia la musica viene utilizzata per la ricostruzione della storia culturale, da quando cioè si sono adottate delle meto-dologie basate sulle teorie antropologiche evoluzioniste e diffusioniste. Col tempo, però, questi studi sono passati di moda poiché lo schema teorico adottato si era dimostrato falso e lacunoso; solo negli anni più recenti si assiste ad una rinascita di questi studi specie in rapporto alle analisi delle società africane; in questo caso infatti il problema della ricostruzione della teoria culturale è particolarmente sentito per motivi politici, teorici ed empirici. Gli studiosi di storia africana si servono di una enorme varietà di strumenti di indagine e si rivolgono a discipline diverse come l'archeologia, lo studio della let¬teratura orale, l'etnografia distribuzionalista, la linguistica, la botanica, le arti visive e, recentemente, la musica. In quest'ultimo caso, naturalmente, la domanda che ci si pone riguarda il tipo di contributo che la musica può dare agli studi di storia culturale.
    Ovviamente la prima cosa da chiedersi è cosa si debba intendere per «ricostruzione della storia culturale», come la musica possa essere utilizzata a tal fine. In primo luogo, una parte della storia culturale del modo di vita, in altre parole diciamo che nella cultura di un popolo sono sempre presenti degli elementi che ci informano sui modi di vivere di questo popolo. Perché queste descrizioni siano complete si può far ricorso ai resoconti storici o agli scavi archeologici che, come si sa, ci informano su un periodo di tempo molto ampio. Un metodo del genere, dunque, ci informa sul modo di vita e quindi anche sulla musica di un popolo. Inevitabilmente quando pensiamo alla ricostruzione della storia culturale dobbiamo tenere conto della dinamica complessiva dello sviluppo storico, quindi considerare la modificazione culturale e la storia dei processi che si sviluppano nel tempo. Per questi motivi ogni teoria che cerchi di spiegare tali processi e che intenda metterci in grado di ricostruire quanto è avvenuto nel passato, deve essere presa in considerazione dagli etnomusicologi, in quanto anche la musica deve essere vista in questa prospettiva dinamica.
    Infine se usiamo uno strumento specifico - in questo caso la musica - dobbiamo porci inevitabilmente alcune domande sulla unicità o la specificità dello strumento analitico con cui tentare di risolvere il problema della ricostruzione storica. Giova evidenziare l'importanza potenziale della musica in ordine a questi problemi che varia per via di alcune sue caratteristiche speciali. Sappiamo che nessuna cultura incolta ha sviluppato un sistema di notazione musicale; ciò significa che non è possibile ricostruire la forma della musica in maniera precisa. Certamente si sono fatti molti tentativi in tal senso, sia approfittando di speciali tecniche archeologiche che applicando a priori una teoria antropologica; ma tutti questi tentativi non sembra abbiano avuto molto successo. Quindi per la ricostruzione della storia culturale nel suo complesso non serve limitarsi a tracciare una improbabile storia del suono. Peraltro studiare la musica afro-americana non significa studiare soltanto il suono ma anche gli atteggiamenti sociali i quali, a loro volta, hanno un'esistenza storica. Sono quindi due gli aspetti che bisogna tenere presenti per una ricostruzione storica, e che possono essere considerati isolatamente o insieme, a seconda delle necessità. Infine il suono musicale ha tre caratteristiche principali che sembrano avere un valore particolare nella ricostruzione dei contatti culturali. Sulla base di queste caratteristiche è possibile ridurre il suono a valori statistici: questa particolare tecnica può rivelarsi in futuro uno strumento analitico particolarmente importante.
    Sappiamo che nella misura in cui un'opera musicale è realistica (in altre parole, nella misura in cui riflette fedelmente la vita umana e sviluppa la sua tecnica per rappresentarla nel modo più completo possibile) essa rappresenta una parte imperitura della cultura del suo creatore, della sua razza. Essa appartiene pero ad un'epoca determinata e, nonostante tutta la sua potenza, non può soddisfare pienamente i bisogni culturali delle epoche successive, poiché ha creato e imposto nuovi problemi e sviluppato nuove idee. Per questo diventa necessario creare nuovi lavori, sollevare nuovi problemi di tecnica e di forma che si innestino sull'eredità del passato. Non tutti i lavori hanno la stessa possibilità di sopravvivere. La storia della musica afro-americana contiene infatti grandi esempi di realismo e innumerevoli di formalismo, di ferree costrizioni, e di un impegno ottuso dei modi tradizionali per impedire agli uomini di comprendere e dominare il proprio mondo. Questo che stiamo affrontando vuol essere un’analisi dell'evoluzione del significato della musica jazz. Esso non è una storia della musica, ma deve necessariamente affrontare il soggetto da un punto di vista storico e sociologico, dando qualche idea del modo in cui ha progredito tra nuove esperienze, nuovi problemi, nuove idee e nuove mentalità.
    A tal riguardo esiste una sociologia della musica, e si colloca in ambito musicologico e sociologico. Ai musicologi fornisce una conoscenza di base necessaria alla produzione di tutti i suoni musicali attraverso la quale il suono e il processo sonoro possono essere pienamente compresi. Quanto ai sociologi, il contributo dell'etnomusicologia costituirà un ulteriore passo avanti nella comprensione sia dei prodotti che dei processi della vita, poiché la musica non è altro che un elemento che si aggiunge alla complessità del comportamento umano. Laddove non esistono uomini che pensano, agiscono e creano, il suono musicale non può esistere; comprendiamo la musica nera negli Stati Uniti molto meglio che non l'intera organizzazione della sua produzione. Forniamo, quindi, un supporto tecnico allo studio di questa musica in quanto comportamento umano: chiarire il tipo di processo che deriva da fattori antropologici e musicologici insieme, migliorare infine la nostra conoscenza di entrambe le discipline, sotto la comune prospettiva di studi comportamentali e sociali. Nel presentare una teoria e una metodologia dello studio della musica afro-americana in quanto comportamento umano bisogna risalire ad un concetto fondamentale qual è quello dell'european-mind nel Nuovo Mondo e delle sue conseguenze sociali e concettualizzate. Senza dubbio c'è un'analogia tra i problemi del comportamento creativo umano e la coscienza sociale che ogni cultura manifesta. Ed è proprio da qui che deve partire qualsiasi studio socioantropologico ovvero dal preadamitismo alla conseguente teoria razziale. Se l'obiettivo principale del preadamitismo, nella sua veste biblica, è indubbiamente interno alla polemica politico-culturale europea – dimodoché la ricerca delle sue cause storiche coinciderebbe, rispetto all'Inghilterra almeno, con la ricerca delle cause storiche del deismo - altrettanto indubbio è che già nella sua veste biblica il preadamitismo assume un significato ben specifico nel campo delle ideologie coloniali.
    E un po' tardi ora per giustificare il riferimento alle tradizioni africane quando si discute di folclore musicale nero in America. Se molti spirituals neri si svilupparono in spirituals bianchi o viceversa è di poca importanza quando si considera il patrimonio folcloristico musicale nero-americano nella sua complessità. Il campo è vasto ed è difficile esplorare o approfondire ulteriormente senza riconoscerne l'eredita africana. Ciò non significa stabilire l'assioma che la musica nera degli States sia africana ma che molte peculiarità degli stili musicali dell'Africa persistono ancora oggi. Diverse di queste peculiarità di razza sono concetti melodici o ritmici: alcuni si trovano nelle relazioni tra voci e tra voci e strumenti; altri sono negli stessi strumenti e nel loro uso. Altri ancora si trovano nei concetti di suono strumentale e vocale, in conflitti incidentali con scale tradizionali western, in azioni motorie associate con il canto e la danza, nonché in atteggiamenti verso la musica ed il ‘far musica’. Che la musica nera negli Stati Uniti sia prevalentemente americana è anche evidente. Poteva prevalere solo in America, dove elementi di culture specifiche si fondevano, cosa che non accadeva altrove. I semi-europei ed africani si innestarono per produrre risultati soddisfacenti nelle isole spagnole dei Caraibi, nelle isole inglesi e in quelle francesi. Cosa ben diversa accadde in Brasile e Venezuela dove il processo di fertilizzazione degli stili musicali continua, ma elementi della tradizione europea e ovest-africana sopravvivono, talvolta anche in forma pura. Nei tempi in cui l'analisi della musica di colore in America dipendeva dal paragone con motivi europei e africani alquanto noti, era facile – forse - accettare il fatto che tratti europei, in primo luogo inglesi, irlandesi e scozzesi, avevano quasi annullato l'ultima vestigia della tradizione musicale africana. Adesso si è consapevoli che questa conclusione è inadeguata. Tra l'altro, i campioni africani erano talmente radi che il nostro sistema convenzionale di annotazione musicale non era abbastanza adatto per riprendere esattamente le varie caratteristiche della musica africana, quelle famose peculiarità del folclore musicale nero. Si dubita, perfino, di esempi afro-americani che, analizzati in vitro, potessero rappresentare un vero e proprio spaccato di quella razza.
    Dunque l'elemento africano sopravvive soltanto nella tradizione popolare: e se sembra ormai dimo¬strato che l'origine dei folktales non è specificatamente africana, come invece si era spesso creduto in passato, tutti concorrono nel ritrovare questa origine per quanto riguarda la musica nera, ed in particolare lo spiritual ed il blues.
     

  • CANZONI E POLITICA
    "BELLA CIAO" E LE ALTRE

    data: 25/04/2020 12:00

    Da sempre la musica ha avuto un ruolo politico e sociale. Basti pensare - senza soffermarci qui sul lungo elenco di rappresentazioni e metafore di essa - al più noto Live Aid dell'85 allo scopo di ricavare fondi per alleviare la carestia etiope di quegli anni e alla raccolta di fondi che superò ampiamente gli obiettivi. Stesso discorso può essere fatto, evidentemente su scala più modesta, a proposito delle canzoni degli Inti-Illimani. Insomma, la sua funzione liberatoria è paragonabile ad una forza dirompente, rappresenta una sorta di sollievo a potersi ribellare ai diktat di regime e, non ultimo, ad una cappa di conformismo culturale.
    In Italia l'inno di tale genere musicale, acclamato soprattutto dalle sinistre, è “Bella ciao”, diventata ormai la colonna sonora del 25 aprile che, in quest'anno flagellato dal malefico Covid19, assume una nuova forma, offerta dal mondo del jazz italiano: progetto ideato e promosso da Francesco Bearzatti (sassofono tenore), Roberto Cecchetto (chitarra) e Giovanni Guidi (pianoforte). Vi hanno partecipato anche Petra Magoni (voce), Fabrizio Bosso (tromba), Giovanni Falzone (tromba), Mirko Cisilino (tromba), Mauro Ottolini (trombone), Pasquale Mirra (vibrafono), Danilo Gallo (basso elettrico), Joe Rehmer (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria).
    Questo 25 aprile 2020, rinchiuso fra le quattro mura domestiche - avendo come sottofondo il celeberrimo canto popolare delle mondine padane composto dopo la guerra dal mondino Vasco Scansani di Gualtieri, anche se con alcune differenze nel testo e nella musicalità - mi spinge a considerazioni storiche sulla funzione socio-politica della musica e, nella fattispecie, degli inni. Doverosamente parto dall'evento più catastrofico dell’éra moderna, il Secondo Conflitto Mondiale, che di certo non ha lasciato buoni precetti da ricordare bensì vittime da piangere. Per le nuove generazioni di artisti che fortunatamente sono sfuggite a quella follia e che hanno cantato le distruzioni e le tragedie umane, il messaggio è: non dimenticare. Questa ennesima versione jazzistica di “Bella ciao” vuol essere un fermo NO alla guerra e un accorato inno alla libertà, in memoria di grandi musicisti e poeti che hanno raccontato le miserie di quegli anni per mai dimenticare l’orrore, la stupidità e l’inutilità della guerra.
    Parlando di musica in tale contesto è d'uopo osservare come, nel lungo cammino della sinistra moderna del pianeta, «L'Internazionale» abbia avuto un ruolo sicuramente cruciale anche se nel percorso politico nostrano tale ruolo non si è dimostrato poi così rilevante. Il comunismo italiano appariva una parvenza e approssimativo, la sua storia più affidata ai vissuti che ai riti, e finanche le metafore più «di lotta» che «di appartenenza». Potremmo definirla una sinistra oltre-revisionista nonché estremista, e malgrado ciò rispetto ad altri miti ed icone, tale inno piaceva talmente a tutti da desiderarne uno nostrano, manipolato ma nostrano, anche a rischio di incidenti diplomatici.
    Ma fondamentalmente l'Italia ha l'impeto suggestivo di canti come «Bella ciao», che, oltre ad essere stato un polo attrattivo sulle nuove generazioni a venire, ha conservato intatto il suo ruolo emotivo, soprattutto nei movimenti popolari e giovanili. «Bella ciao» ha conosciuto negli ultimi anni un notevole numero di interpretazioni: mi vengono in mente la fake suonata (in apparenza) dallo strepitoso Glenn Gould in stile antico; una per quartetto d’archi e coro; e un'altra cantata dalla brigata curda femminile. Al suo fianco, per il 25 aprile, si sono distinte in senso giovanile e popolare, altre canzoni come veri e propri inni di manifestazione. Basti ricordare «La storia» e «Generale» di Francesco De Gregori, e «La canzone popolare» di Ivano Fossati, forse meno avvezza ai cortei tuttavia intonata a manifestazioni in location chiuse: tutte belle canzoni destinate al circuito ordinario e prese in prestito dalla politica.
     

  • TUTTI A LITIGARE
    MENTRE IL COVID19 UCCIDE

    data: 23/04/2020 10:24

    In una situazione politico-gestionale, diciamo così, in cui paradossalmente ciò che spicca vigorosamente è il caos, la confusione, mi viene di parafrasare una famosa battuta del grande Totò, ossia che "poi si dice che tutto va a rotoli". In verità in una società in cui le affermazioni, anche quelle solenni (o che dovrebbero essere tali), sono mistificazioni che celano interessi ed egoismi, non può fare sensazione il dover constatare come in questa “fiera delle esternazioni da ogni dove” anche il degrado scientifico - oltre quello civile e morale - abbia talmente invaso le coscienze da essere accettato come una "regola condivisa" del nostro tempo. Tralasciando ora le arcinote vicende politico-istituzionali di queste ultime settimane (che pure rappresentano un termometro eloquente dello stato in cui versa la coscienza civile di chi dovrebbe avere nelle mani, oltre che nel cuore, il destino della nazione), può risultare utile una riflessione su alcune contraddizioni (o forse meglio sarebbe dire contraffazioni) che vengono praticate o messe in atto con spudoratezza senza suscitare allarme o apprensione.
    Stiamo assistendo già da qualche mese a questa “fiera delle esternazioni da ogni dove”, che vede non più come protagonisti Governo e regioni locali ma addirittura eminenti personaggi della scienza medica italiana. Virologi di spessore che si scagliano l'uno contro l'altro, Burioni che sconfessa Tarro, prendendosela anche con Maria Rita Gismondo, virologa in prima linea essendo la responsabile del laboratorio dell'ospedale Sacco di Milano. Una querelle a cui non si sono sottratti Fabrizio Pregliasco e Giorgio Palù, Massimo Galli e, non ultimo, Walter Ricciardi, il superconsulente dell’OMS chiamato dal ministero della Salute a guidare la task force sull’emergenza coronavirus: e tutto questo mentre le istituzioni invitano alla responsabilità per contenere l'epidemia con i minori disagi possibili per la popolazione. Sono volate parole grosse, come se il mondo della scienza non dovesse imporre, in situazioni come una pandemia, le proprie regole a chi deve gestire la salute pubblica del Paese. Il tutto poi mentre si consuma l'eterna lotta tra Governo e opposizioni, come se ambedue possedessero la panacea risolutiva.
    L'ipocrisia ha raggiunto davvero un tasso altissimo perché andava almeno ammesso con umiltà, nel caso specifico, che la boutade comunicativa della prima ora ha fatto danni, perché ha contribuito ad allentare l’attenzione verso un pericolo di portata enorme, ma soprattutto una mistificazione della realtà.
    Ma, si sa, l'economia prima di tutto, e non importa se va di mezzo la salute dei cittadini. Altra causa pregiudicante è il blaterato ma mai realizzato sostentamento adeguato al Servizio Sanitario Nazionale per avere un’idea dello stato attuale di ciò che ostinatamente continuiamo a definire una eccellenza. E proprio in questa tragedia abbiamo constatato il progressivo rallentamento della crescita della spesa sanitaria, sino al sostanziale azzeramento del tasso medio annuo.
    La società globale vive, oltre che del mito del tempo reale, soprattutto all'insegna del "come se fosse": originali e copie si scambiano addirittura i ruoli affermando persino cose di volta in volta diverse, tanto nessuno se ne accorge o se ne accorge sempre di meno (forse per questo impazzano dappertutto imitazioni e caricature); alla fine però si finisce per credere a ciò che è più "gettonato", ovvero strombazzato, alla faccia diremmo del pensiero critico e del libero arbitrio. Sotto la spinta di un furibondo martellamento mediatico, cala per forza di cose il livello d'attenzione. E si intende ovviamente di meno: ad esempio occorrerebbe pur capire in questo “disordine organizzato” quando e se si ritornerà ad una parvenza di 'normalità' ma ancor di più se questo Governo Conte, in balìa dei marosi emergenziali, avrà un futuro.
    Parafrasando questa volta il titolo di un film di pirandelliana memoria, dobbiamo rassegnarci forse a sentirci dire che dopotutto “questa è la globalizzazione!”.
     

  • LA PANDEMIA AIUTERA' EDITORI E ASPIRANTI SCRITTORI. O NO?

    data: 18/04/2020 18:55

    In tempi di Coronavirus anche la cultura mantiene il passo, se non addirittura arretra, come nel caso del rinvio obbligato di tante rassegne letterarie a data da destinarsi. Tale posticipazione ci dà lo spunto riflessivo su quell'enorme esercito di “maniaci della penna”, di scrittori con velleità da “best storysellers”, i cui lavori ormai ingolfano le redazioni delle case editrici italiane. Ciò che ci viene da dire soprattutto a questi scrittori rifiutati dagli editori, è di non disperare poiché siete in buona compagnia. La triste sorte ha colpito quasi tutti, anche certi reboanti nomi della letteratura del Bel Paese. E questo ci fa capire che spesso i giudizi editoriali sono incomprensibili, sbagliati, distratti, motivati male. Ci mette in guardia su certi accadimenti che agli scrittori possono andare storti, ma poi agisce un particolare superiore “Fato” che rimette tutto a posto, rimedia ai torti, risarcisce e compensa.
    Di fatto accade che essere ripetutamente rifiutati può offrire un prezioso materiale per la costruzione del mito dello scrittore incompreso, un mito che ad alcuni ha dato ottimi risultati. Cominciamo da uno dei tanti di cui si è discettato fin troppo e sul cui valore letterario ci guardiamo bene dal dare giudizi: si tratta del magistrato Gianrico Carofiglio, che ha patito vari rifiuti prima del suo esordio narrativo con Sellerio nel 2002. Ma Carofiglio non si è arreso. Ha continuato a scrivere romanzi perché ha creduto in sé stesso. Ed ora è diventato una “star” nel firmamento dei bestselleristi: vince premi, è tradotto all'estero, viene ripetutamente ristampato, passa da una casa editrice all'altra, è stato senatore del Partito Democratico dal 2008, ma soprattutto pare che venda più di 3 milioni di copie.
    Un altro esemplare è stato "Gli indifferenti" di Moravia, che venne rifiutato dall'editore romano Sapientia, ma anche un altro editore, Alpes di Milano, che non si fidò e chiese al giovane autore (22 anni) i costi di stampa. Non dimentichiamo Vittorini, che subì varie censure dal 1933 al 1940, sia con "II garofano rosso" che con "Conversazione in Sicilia". Come pure il rifiuto della Mondadori negli anni Trenta delle "Stampe dell'Ottocento" di Palazzeschi. Ma l'elenco è lungo: c'è Bompiani che agli inizi degli anni Quaranta rifiutò due romanzi di Giuseppe Marotta, che anni dopo trionferà con "L'oro di Napoli". Stesso rifiuto per un'altra scrittrice d'eccellenza, Elsa Morante, che sebbene raccomandata da Moravia a Valentino Bompiani come scrittrice dotata sia di "qualità di scrittura non comuni" che di "interesse umano" e "virtù narrative", nel '39 venne rifiutata con un giudizio approssimativo e non meglio precisate "considerazioni editoriali". Ma forse uno dei casi più eclatanti rimane quello di Einaudi, che nel 1947 rifiutò "Se questo è un uomo", libro di esordio di Primo Levi, con due giudizi diametralmente opposti: positivo di Natalia Ginzburg e negativo di Cesare Pavese. Pene amare anche per Beppe Fenoglio, a causa delle diffidenze di un talent scout come Vittorini; come per Pasolini e le sue poesie "L'Usignolo della Chiesa Cattolica" rifiutate nel 1950 dalla Mondadori, nonostante il vano appoggio di Vittorio Sereni.
    Sicuramente con il passare del tempo l'alterna vicenda di rifiuti e successi si fa meno interessante, perché meno interessanti, nel complesso, sono gli autori. A chi può importare per esempio che questo consulente o quell'editor abbia sconsigliato di pubblicare tizio o caio a seconda di una presunta od orgogliosa severità? Oggi si pubblica molto, troppo. E proprio nel momento in cui si legge meno, pochissimo. C'è quasi solo la Adelphi a saper vendere la saggistica vera e propria, gli altri editori maggiori stanno dietro agli accademici, ai giornalisti, ai televisivi. La poesia sono pochissimi a capirla e la maggioranza delle decisioni, positive o negative, si spiegano soprattutto con la mancanza di gusto e di orecchio degli editori o con le astuzie e la tenacia autopromozionale degli autori. Quanto alla narrativa, questo articolo potrebbe essere intitolato "Caccia al bestseller". Resta comunque valido un luogo comune: i piccoli editori fanno di necessità virtù e perciò nelle loro scelte sono spesso più coraggiosi degli editori ricchi e potenti, spesso vili. Tuttavia sembra che nuovamente il “Fato”, in questa pandemia, accorra in aiuto di un'editoria esangue: certo, un fato violento e terribile, che fa paura e che attanaglia la gente nelle case, appunto per costringerle a leggere e comprendere che, forse, un libro è la migliore compagnia.
     

  • RECITO, ERGO SUM

    data: 27/05/2019 12:53

    A poche ore dalla chiusura del Festival di Cannes, segnalo un’interessante iniziativa partorita dal docente dell’Università di Fisciano, Pasquale Iaccio, e dall’attore cinematografico Ferdinando Maddaloni, che hanno dato vita ad una lezione-spettacolo dal titolo paradigmatico, “Recito, ergo sum”, qualche giorno fa a conclusione del Laboratorio di Cinema e Spettacolo.
    Maddaloni, attore, regista, scrittore ed actor’s coach, noto al pubblico per le serie televisive più in voga negli ultimi anni quali “La squadra”, è anche autore di un interessante libro dal titolo Cinema e recitazione (Liguori Editore) e con un sottotitolo alquanto emblematico, Dalla chiassosa arte del silenzio all’improvvisazione televisiva”. Naturalmente l’oggetto di questo volume concerne la recitazione nel cinema italiano. Nella prima parte viene ricostruito il percorso dell’arte interpretativa partendo dall’invenzione del cinema nel 1895 per arrivare all’avvento del sonoro negli anni Trenta; per poi affrontare, con perizia e competenza, la recitazione cinematografica nella seconda parte: argomento esaminato in rapporto ai condizionamenti storici (il fascismo), artistici (il neorealismo) e tecnologici (il sonoro e la televisione).
    Sotto un profilo squisitamente saggistico il testo di Maddaloni rappresenta un vera e propria chicca nell’abusato panorama di libri dedicati al cinema, non foss’altro per la ricchezza dei particolari tecnici, esplicati con professionismo e arte navigata dell’attore ma anche per le numerose interviste ai diretti protagonisti del proscenio e della macchina da presa. Un libro importante perché prende di petto teatro, cinema e televisione senza mai cercare facili catalogazioni, bensì creando una fertile ragnatela di ragionamenti sul mestiere di “attore”. Maddaloni fa chiarezza sul modo di fare teatro o cinema, sul metodo che l’attore dovrebbe usare, consapevole che sulla storia e il significato della recitazione sono state scritte pagine e pagine. Quindi perché non usarle per scoprire qualcosa in più sulle infinite possibilità espressive che quest’arte ci offre?
    Indubbiamente abbiamo a disposizione libri sulle teorie dei grandi innovatori che hanno rivoluzionato il modo di fare teatro e che possono arricchirci con nuove idee. Ma non solo: ci sono anche molti libri di esercizi e di storia che possono essere usati da allievi ed insegnanti dei laboratori teatrali e sicuramente questo di Ferdinando Maddaloni è uno di quelli.

        

  • SALVARE DALLA PLASTICA
    IL MARE DI NAPOLI

    data: 19/04/2019 13:59

    L'inquinamento plastico è diventato una priorità assoluta anche per la città all'ombra del Vesuvio e spesso ci si chiede quale “politica del fare” abbiano messo in campo le istituzioni pubbliche, soprattutto il Comune. Nelle acque marine superficiali italiane si riscontra un’enorme e diffusa presenza di microplastiche, comparabile ai livelli presenti nei vortici oceanici del nord Pacifico, con i picchi più alti rilevati nelle acque di Portici, nel Golfo di Napoli. In tal senso si stima che, se in una classe gli alunni consumino ogni giorno una bottiglietta d'acqua, in un intero anno scolastico diventano migliaia. In questo modo, una scuola con una media che superi le venti classi, in un anno scolastico ne utilizzerà decine di migliaia. Basterebbe che una decina di scuole decidesse di eliminare la plastica usa e getta, e verrebbero risparmiate all’ambiente circa un milione di bottigliette in un solo anno.
    Il Comune di Napoli, attraverso la propria Delegata al Mare, Daniela Villani, che ha recepito in toto l'appello delle associazioni ambientaliste quali Marevivo, ha dimostrato un forte impegno finalizzato ad una sempre più attenta tutela delle fasce costiere napoletane. Proprio la Villani si è fatta promotrice di un'ordinanza che ha come oggetto Lungomare Plastic Free - disposizioni per contrastare l'aumento dei rifiuti in plastica nel mare, che si estende anche alle scuole. Infatti in attesa dell’approvazione della legge Salvamare e della Direttiva europea sulla plastica monouso, il Comune di Napoli ha chiesto agli istituti scolastici di anticipare i tempi e di introdurre il divieto dell’impiego di prodotti usa e getta nelle classi, nei servizi e negli uffici della struttura. 
    «Le scuole svolgono un ruolo fondamentale di formazione e di educazione per i giovani e per la salvaguardia del futuro del pianeta - ha dichiarato la Delegata Villani -. Se si considera che nell'oceano finiscono otto milioni di tonnellate di plastica (fonte Onu anno 2017) è urgente intervenire con un ulteriore impegno concreto dell'Amministrazione. Dopo l'ordinanza sindacale Lungomare Plastic Free, si prosegue con lo stesso impegno e nella stessa direzione, con l'iniziativa Napoli Scuole Plastic Free.
    In pratica l'ordinanza recita che per minimizzare la produzione di rifiuti non biodegradabili e non compostabili occorre consentire esclusivamente l'uso di prodotti biodegradabili e compostabili in particolare: contenitori, stoviglie e posate monouso. Non solo. In ordine alla presenza di plastica nelle acque del Golfo di Napoli vengono diffusi dati scientifici significativi tra i quali si rilevano: il lavoro di ricerca dell'ISPRA che, nel rapporto sui rifiuti marini del 2015 registra 0,49 microplastiche per metro cubo nella Stazione di campionamento denominata Ischia; il report Greenpeace luglio 2017, che nella Stazione di campionamento denominata Portici registra 3,56 microplastiche per metro cubo; il dato diffuso dalla Stazione Zoologica A. Dohrn nel luglio 2018, che, sempre nella citata Stazione denominata Portici registra 5,24 microplastiche per metro cubo. Il Comune di Napoli intende adottare misure volte ad introdurre progressivamente il divieto generale di utilizzo e vendita di plastica monouso non biodegradabile e non composta.

    Nell'ambito scolastico, tutti gli istituti che decideranno di accogliere l’appello, sarà possibile un regolamento con le buone regole per diventare plastic free. Tra le norme da seguire la Delegata al Mare chiede di impegnarsi a non installare distributori di bevande in bottiglie, ma erogatori di acqua dove poter ricaricare la propria borraccia. Come pure è necessario eliminare le stoviglie monouso come bicchieri, piatti, posate e cannucce ed anche emettere un’idonea circolare spiegando i motivi per cui sia importante eliminare la plastica usa e getta sensibilizzando insegnanti e studenti. 

  • QUELLA PRIMA VOLTA
    A UMBRIA JAZZ...

    data: 03/04/2019 18:37

    Nel trascorrere la scorsa Epifania a Perugia, la memoria è andata oltre trent'anni fa, quando per la prima volta mi recai ad Umbria Jazz con amici jazzofili come me, e fu decisamente una bell'avventura. Si parlava in giro, nei circuiti musicali di tutta Italia, che in quella città si dovesse fare un festival in cui si esibivano i migliori musicisti jazz. La passione per il jazz già mi aveva infuocato l'animo e convinsi un amico ad andarci con la Fiat 850 del padre. Non c'eravamo mai stati in quei luoghi, una vera e propria arrampicata sui colli umbri, e durante il tragitto ci rendemmo conto che era una vera e propria impresa raggiungere la futura cittadina festivaliera, tanto che il radiatore di quel macinino andò più volte in ebollizione.
    Ma la decisione di affrontare quel lungo viaggio sortì un effetto meraviglioso: per la prima volta fui al cospetto di mostri sacri del calibro di Marian McPartland, Thad Jones e Horace Silver. Mi resi conto che mi trovavo per la prima volta in una vera e propria kermesse jazzistica di livello internazionale, sebbene mi trovassi nel cuore dell'Italia. È superfluo dire che da allora non mi sono perso un'edizione, neppure quelle itineranti, in giro per mezza regione. Poi da semplice ascoltatore cominciavo ad andarci come critico musicale di un quotidiano di Napoli e mi accorgevo ad un ogni mia sortita giornalistica che si trattava di un evento che possedeva una marcia in più. In quella piazzetta si respirava un'atmosfera unica, che avvertivo appena scendevo all'Hotel Fortuna non molto distante dal quartier generale del festival. La stessa atmosfera, quando facevo colazione in un bar in piazza IV Novembre, che durante il festival si trasformava in un proscenio a cielo aperto.O quando passeggiavo per quelle stradine colme di giovani come me, praticamente il cuore pulsante di Perugia.
    Giova evidenziare come durante tutta la kermesse jazzistica anche i ristoratori si lasciano contagiare dalla musica abbinando abilmente il cibo col jazz, richiamando alla memoria la cucina cajun, dei luoghi in cui nacque la musica jazz. Andavo pazzo per l'Etouffée di gamberi, il Pudding di pane creolo con salsa alla vaniglia e whiskey, ma anche per le uova Sardou con gamberi. Quest'anno vorrei portarci mio figlio, buona forchetta e discreto appassionato di jazz, poiché il primo amore non si scorda mai. 

  • VARIAZIONI SUL JAZZ
    DI ADORNO

    data: 26/03/2019 12:42

    A prima vista questo libro può sembrare solo una ricercatezza filosofica più che musicologica. Di fatto riporta degli scritti ben precisi, con il chiaro messaggio che quella fosse l'unico modo di comprendere il più grande prodotto culturale dell'universo afroamericano, pragmaticamente l'unica storia che valesse la pena di raccontare. Il volume, saggiamente pubblicato da Mimesis -editore ormai acclamato su temi filosofici - è una sorta di compendio con pesanti temi vetrificati, in modo che collocato su uno scaffale può svilire gli altri libri.

    Lontano anni luce dalle comuni “storie del jazz”, se non altro per l'approccio iperculturale e sovvertente, il contenuto viene proposto dal grande filosofo francofortiano non più come concetto cristallizzato e catalogato bensì come inquietante modello in progress. Il filo conduttore deve essere ricostruito direttamente dal lettore, e poi, seguendo gli indizi, deve essere decifrato tenendo presente l'origine e l'approdo temporali.
    Doverosa precisazione per l'aficionado e – forse - non per l'addetto ai lavori: non vi spaventate se in questo compendio saggistico le parole apparentemente prive di significato e sconnesse e i doverosi riferimenti alla popular music possono apparire insensati. Per chi conosce Adorno essi sono momenti di vita concretamente, deliberatamente e liberamente creati, ciascuno composto di gesti contenuti in uno scenario transitorio.
     
    Theodor W. Adorno
    Variazioni sul jazz
    Mimesis Edizioni, Milano 2019
    pagg. 143 - €. 14,00
     

  • PUBLIC HISTORY

    data: 21/12/2018 21:34

    Mutuata dagli States, per Public History si intendono quelle attività di recupero della memoria storica che si svolgono per il pubblico e con il pubblico, e che coprono il largo spazio che intercorre fra la storia accademica e universitaria e la divulgazione sui grandi media. Il raggio d'azione della Public History è vasto e raggruppa tutta una serie di attività, svolte da musei, biblioteche, eruditi e appassionati locali, e promosse da enti pubblici, privati, associazioni e cooperative culturali. Vanno dalla forma tradizionale dello studio, del volume fino alle rievocazioni storiche, al re-enactment, alle battaglie in scala, e quant'altro. Su questo percorso si sono cimentati, con perizia e abilità, i tre autori di questo stimolante testo frutto dei lavori  del IV Convegno Internazionale della International Federation for Public History (IFPH) di Ravenna del giugno 2017, che rappresenta allo stesso tempo l’atto fondativo dall’Associazione Italiana di Public History (AIPH). Rispetto a questo appuntamento l’insieme dei contributi qui raccolti, rappresenta senz’altro uno status questionis, come anticipa l'introduzione.

    La sostanza del testo sono riflessioni prevalentemente calibrate sulla realtà italiana, con uno sguardo costantemente rivolto all’esperienza americana. Praticamente un libro suddiviso in due parti, che stimola un dibattito oculato nel tempo che con venti saggi - inclusa l'interessante introduzione - mira ad incrementare su questa nuova, almeno per l’Italia, dimensione del lavoro storiografico pensato per lo spazio pubblico. Sotto questo profilo giova evidenziare che l’Italia si è cospicuamente attardata: la riluttanza degli accademici italiani, poco avvezzi e a tratti intimoriti da un confronto diretto con il pubblico, e la modificazione repentina dell’universo umanistico dell'ultimo ventennio ha fatto arrancare la Public History in questo Paese.Contemporaneamente una considerevole fetta di non accademici impegnata in passato come adesso nella divulgazione storica senza una formazione adeguata – si pensi all'ingente numero di romanzi storici o ai saggi scritti da reboanti giornalisti – ha posto un serio quesito: se la Public History non esistesse già in Italia con modalità del tutto acefale e quindi poco attendibili.

     
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    Public History. Discussioni e pratiche
    Curatori: P. Bertella Farnetti, L. Bertucelli, A. Botti
    Mimesis Edizioni, Milano 2017
    pp. 333 - euro 24,00

  • SPETTATORI DEL DOLORE

    data: 03/12/2018 13:33

    Quando ho incontrato Zygmunt Bauman a Bari nel 2013 - dopo un’imponente lectio magistralis - per chiedergli di scrivere la prefazione alla mia socio-antropologia sui neri d’America (Mimesis Edizioni, Milano 2014), gli ho posto alcune domande sulla spettacolarizzazione della sofferenza dell’uomo. Su com'è oggi favorita dai media e da internet: problema morale in cui tutti ci troviamo coinvolti come spettatori: tema, peraltro, del suo ultimo libro, Il secolo degli spettatori – Il dilemma globale della sofferenza umana. Tra l'altro, nel mondo percorso dalle autostrade dell'informazione siamo tutti spettatori, anche del dolore e della sofferenza di altri.

    L’opera di Bauman, scomparso lo scorso gennaio, è concentrata sulle società postmoderne e sulle conseguenze della globalizzazione. Egli scrive del mondo liquido, contrapposto alle società precedenti, solide, costruite su ideologie. Le certezze del mondo occidentale si sono disciolte con il tramonto delle ideologie, la caduta del Muro di Berlino, l'implosione dell'Unione Sovietica, la fine della Guerra Fredda. Un nuovo scenario geopolitico è emerso, con nuove Potenze economiche e militari, Cina e India, e si è determinato un nuovo assetto labile e mutevole mentre la produzione di merci, beni e servizi si dislocava e tutto, uomini compresi, prendeva a vorticare per tutto il pianeta creando una sensazione di dissoluzione di un mondo, di insicurezza totale.
    Il sociologo e pensatore polacco ha coniato il termine di modernità liquida e discetta di paura liquida - titoli di due suoi saggi - per definire questa volatilità di persone cose e informazioni, messaggi, immagini che i media e internet diffondono. Bauman chiarisce che il problema del male, di chi infligge sofferenza a qualcuno, comporta la colpa; ma anche chi assiste e non interviene è, in fondo, colpevole. In questa società dell'informazione non ci si discolpa dicendo non sapevo. Siamo tutti spettatori del dolore e della sofferenza di altri. Si pongono dei dilemmi etici che il grande pensatore affronta con riferimento a Jaspers. Questi ha sostenuto che la colpa morale, cioè di chi ne soffre e arriva a pentirsi, è diversa dalla colpa metafisica. Quest'ultima esiste indipendentemente dal contributo che l'individuo ha dato o meno alla sofferenza dell'Altro. Nella globalizzazione e interconnessione planetaria, qualsiasi nostra azione può riflettersi all'altro capo del pianeta; la responsabilità umana per l'Altro è incondizionata e deve comprendere la previsione e la precauzione.
    Attualmente il cinque per cento della popolazione mondiale accede, consuma e spreca la metà delle risorse del globo. Siamo responsabili dell'umanità, del futuro, sempre più bombardati da immagini di sofferenza che si dissolvono in un battito di ciglia. Nel suo libro Bauman cita Kapuscinski sulla differenza tra vedere e sapere. Ciò che si vede suscita pena, tutti si danno da fare per raccoglier fondi. Praticamente siamo noi col modo di vivere, con le multinazionali, con la Banca Mondiale, a creare le condizioni per la sofferenza dei più deboli. I sensi di colpa dell’Occidente sono messi a tacere dai telethon in diretta televisiva, tuttavia tra sapere e agire vi è una profonda dicotomia. Ciò che si sa e ciò che i media ci fanno sapere necessita di un codice etico e legale. Il più grande pensatore del mondo auspica, nel suo testamento editoriale, un impegno collettivo che agisca energicamente per sconfiggere la miseria creata dalla globalizzazione: solo in questa modalità l’internauta diventa attore impegnandosi per dare un valido contributo agli enormi dilemmi sollevati dal “secolo degli spettatori” che ebbe inizio agli inizi del Novecento e tuttora persiste.
     

  • ANIMA IN PACE? IL MANUALE

    data: 21/11/2018 19:53

    Spesso si ha la presunzione di possedere la panacea per il raggiungimento di quell’equilibrio mentale tale da poter essere paragonato ad un viatico per essere in pace con se stessi e con il prossimo. Non è il caso di Marina Marotta, docente di diritto ed economia politica, con una congrua formazione in psicologia e teologia presso la Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale, che con cognizione di causa vuol rappresentare in questo suo libro il percorso nel dedalo dell'animo umano, per il raggiungimento della calma e della serenità assolute. Un intenso viaggio in cui l'autrice conduce  il lettore in una sorta di ricerca attraverso una immersione nei meandri della dimensione intimista, analizzando le aree critiche degli eventi della vita, anche quelli negativi per approdare poi a consapevolezze catartiche che conducono  all'amore.
    Nel suo “manuale” l’autrice asserisce che anche la più cruenta delle conflittualità può essere sanabile, attraverso l'energia interna che fa emergere dalla sofferenza e ripristina la pace dell'anima: dimostrando che in tal modo ci si spalanca all'amore. Attraverso il paradigma del bacio, la Marotta perviene ad un'altra intensa consapevolezza, si può imparare un nuovo modo di baciare: il bacio d'amore dato a tutte le persone che ami, non sarà un bacio formale, il mero gesto delle labbra, bensì un bacio silente e quieto in cui, forse, l'incontro tra esse non avverrà mai.
     
    Marina Marotta
    Manuale dell'anima in pace
    Collana “I dardi”
    Iuppiter Edizioni, Napoli 2018

    Pp. 224, 15 euro

  • SIANI, 33 ANNI DOPO

    data: 13/11/2018 09:14

    C'è un tempo per vivere e uno per morire. Ma vedere un giornalista morire a 26 anni perché qualcuno vuole mettere il bavaglio alla libertà di pensiero e di informazione, o zittire questo o quel giornalista, e poi assistere trentatré anni dopo, come succede in questi giorni, all’ennesimo attacco alla libertà di stampa da parte del governo in carica, amareggia e preoccupa.

    Nel Paese dove la camorra uccise Giancarlo Siani, icona assoluta in Campania del violento bavaglio all'informazione libera, lui che insieme ad un nugolo di giovani giornalisti in erba - tra cui lo scrivente - aveva fondato il Movimento Democratico per il Diritto all'Informazione, oggi perfino la Giornata mondiale della libertà di stampa viene registrata in tono minore. La situazione non è confortante. Al contrario, proprio in questo momento alla stampa viene chiesto di essere "collaborativa": praticamente partecipare, silente, alle nuove convergenze politiche. In questo modo si ignora - e non è cosa da poco - che il compito del "quarto potere" non è quello di sottomettersi ma principalmente di raccontare e denunciare in nome dell'opinione pubblica (che la stampa rappresenta) le vicende dei poteri: naturalmente tutti.

    E la situazione sembra andare di male in peggio. Adesso parlare di libertà di stampa appare un’eresia, e ciò malgrado i casi di assoluto affrancamento professionale di cui per fortuna ancora si hanno notizia. Forse il problema sta proprio qui. In un Paese normale, laddove lo standard è condiviso unanimemente, non c'è bisogno di registrare la presenza di eccezioni alla regola per farsene una ragione: semmai esse rappresentano proprio la conferma del grigiore di fondo, dell'assuefazione colpevole di cui tanti (troppi) mezzi di informazione danno ogni giorno testimonianza.
    All'interno del Movimento fondato con Giancarlo Siani, dibattevamo sulle parole che i nostri maestri ci indicavano con molta enfasi, parole che poi diventarono un suo brillante articolo proprio in quel 1977, saturo di fermenti ideologici: “La libertà di stampa è uno di quegli obiettivi che per essere realmente conseguito deve necessariamente passare attraverso l'impegno, il più appassionato e radicale possibile, di tutti i cittadini o almeno di coloro che amano la giustizia e la democrazia”. Questo ci insegnavano, ma a un certo punto abbiamo constatato che in Italia - allora come adesso - c'è stata rassegnazione, che è anch'essa il risultato di un atavico retaggio di miserie e rinunce. Tutti noi, con il nostro Movimento, avevamo cercato di combattere questo retaggio con dibattiti, incontri, partecipando ai convegni ma, evidentemente, i convegni e gli incontri non sono bastati.
    Se Giancarlo fosse vivo ripeterebbe ciò che diceva ai convegni sulla libertà di stampa, come nostro portavoce: “Ci vuole impegno e sacrificio da parte di tutti nell'ambito di una prospettiva di tempi lunghi”. E i tempi sono trascorsi, anche molto più di quello che pensavamo. E dopo trentatré anni dalla sua uccisione ci avvolge un velo di delusione. Sembra che le sue e le nostre battaglie si siano infrante contro il muro di gomma di una politica becera e opportunista, senza più ideali ma sempre più attaccata ai privilegi, creando una dicotomia incolmabile tra essa e la gente.