Sono passati cento anni dalla sua nascita e trentuno dalla sua morte, ma le opere di Leonardo Sciascia non sono ancora passate di moda. “Ce ne ricorderemo, di questo scrittore”, bisognerebbe dire, per parafrasare l’epitaffio che ha voluto sulla sua tomba: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”, un verso del poeta francese Villier de L’Isle-Adam. Cosa avrà voluto dirci? Probabile abbia voluto seminare un indizio, da scrittore che aveva saggiato anche il noir, su tutta la sua produzione letteraria: è vero, scriveva dalla piccola cittadina di Racalmuto, di sé, delle cose della sua terra, la Sicilia, ma con uno sguardo sul mondo intero. E poi, come lui stesso afferma, voleva partecipare alla “scommessa” di Pascal, di cui era grande conoscitore; in fondo “una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano”, quasi ipotizzando un’inconsueta, per lui, fede in una vita oltre la morte. «Sono stato un uomo che ha ricordato anche le cose che gli altri hanno voluto dimenticare e che continuerò a ricordare, cioè ad essere scrittore, anche nell’al di là…», forse in questa frase, insieme a quell’epitaffio, è racchiuso tutto il suo testamento. La pronunciò nel corso di un’intervista apparsa su L’Automobile del 26 aprile 1983, con il titolo “La mia auto è un sogno da bambino”. Lui che la patente non la prese mai, ma che di “patenti” ne ha avute tante.
La prima, quella dell’uomo che non guarda in faccia nessuno: una vita, la sua, passata a combattere ingiustizie, bugie, disparità, poteri forti, “imposture e mistificazioni”, con senso critico e non senza ironia; servendosi di una scrittura che era uno strumento di conoscenza, ma anche di lotta e di stimolo alla coscienza civile.
La seconda, quella del laico che visse “religiosamente la sua vita, perché si è atei come si è cristiani”, così soleva dire quasi a voler ribaltare il paradosso della religione stessa. Qualcuno parla, almeno riferendosi all’ultima parte della sua vita, di “ateismo religioso”, percorso da molti dubbi. Ma aspetti di tale propensione si riscontrano anche in alcuni piccoli accadimenti della sua giovinezza. Basti ricordare un gesto raccontato dal nipote, lo scrittore Vito Catalano, sulle pagine de Il Messaggero di qualche giorno fa: nel 1944, quando ormai la storia con la fidanzata – che diventerà sua moglie – si era consolidata, le fece un regalo: un Vangelo, con una dedica: “For Ever”. Magari per alcuni non significherà granché, ma quel gesto ci dà la cifra dell’uomo che fu e della religiosità accennata. E insieme per sempre Leonardo e Maria stettero davvero, fino alla scomparsa di lui e, anche dopo, perché la Andronico curò e pubblicò due opere postume del marito, mise ordine tra le sue carte e catalogò tutti i volumi dell’immensa biblioteca. Lei fu la protettrice del tempo dello scrittore, si prese cura della sua concentrazione, del suo bisogno di scrivere in certe ore prestabilite, della sua ispirazione.
Ma andiamo alla terza patente, quella del pessimista, che gli avevano affibbiato, anche se lui non l’ha mai pienamente condivisa: «La verità è che nel mio pessimismo siciliano, il pessimismo di una terra dove il verbo al futuro praticamente non esiste, tanta è l’incertezza del domani, io sono un siciliano ottimista. Voglio dire che ci sono in giro tante rovine, eppure in mezzo alle rovine io vedo tante energie che si ricreano, che resistono. Sono uno scrittore che ha il coraggio della paura e il coraggio della fiducia».
E, infine, l’ultima, quella della solitudine, dell’isolamento: perché restò da solo a parlare di mafia, ne svelò le trame e le connivenze, tanto da essere tacciato lui stesso di essere mafioso, perché troppo addentro ai suoi meccanismi. Eppure Sciascia fu il primo a conferire a questa piaga – di cui veniva addirittura negata l’esistenza da parte di molti notabili, – la forma che acquisirà negli anni successivi agli occhi dell'opinione pubblica, e poi fino ai giorni nostri. Il suo Capitano Bellodi, de Il giorno della civetta – il romanzo più celebre – icona della lotta e antesignano dei Falcone e Borsellino, è il personaggio che più ce lo rappresenta; quello che “ci si romperà la testa”, come lo stesso Sciascia. Lo stesso isolamento era toccato a due scrittori e intellettuali a lui cari: a Georges Bernanos, dal mondo cattolico, dopo aver scritto “I grandi cimiteri sotto la luna” (libro contro il franchismo) e ad André Gide, dal mondo comunista, dopo aver scritto “Ritorno dall’Urss” (in opposizione allo stalinismo). Per Sciascia, Bernanos e Gide diventeranno “i modelli più alti d’impegno”.
Lo scrittore visse buona parte della sua vita a Racalmuto, in una casetta prima appartenuta alle zie, che poi occupò con la moglie e le figlie. Una di loro racconta che scrivesse solo di mattina, con la sua macchina da scrivere su di un tavolino ricoperto da una tovaglia. Oggi quella casa è stata trasformata in un piccolo museo e quel tavolino è possibile toccarlo e vederlo. Scriveva immerso nella letteratura, tra lo “scaffale stendhaliano”, composto da 224 libri di e su Stendhal, e i ritratti di Pirandello (sembra che ne avesse uno in ogni casa), i suoi mentori ideali.
Tra i luoghi di Sciascia anche la contrada Noce, il teatro Regina Margherita, la grotta di Fra Diego La Matina, la Chiesa della Madonna del Monte. Tutti questi fanno parte, da qualche anno, di un percorso turistico siciliano, “la Strada degli scrittori”, ideato dal giornalista Felice Cavallaro. E se proprio vogliamo dirla tutta, un altro luogo molto più lontano ce lo rammenta e diventa quasi simbolico. Lui che voleva ricordarsi di questo pianeta, di pianeta ne riceve addirittura uno in dono: un astronomo belga gli dedica, infatti, un asteroide scoperto nel 1994.
Per concludere, ricordiamo le sue amicizie: due siciliani come lui, in primis, Gesualdo Bufalino con il quale condivideva la passione per le lettere e il cinema. e il maestro Piero Guccione, di cui lo scrittore amava i bellissimi mari dei suoi quadri.
Bufalino e Sciascia erano coetanei. Da poco, il 15 novembre dell’anno appena passato, abbiamo celebrato, infatti, i 100 anni dalla nascita di Bufalino. Quando l’amico Leonardo morì, nel 1989, Gesualdo scrisse che era stata una scorrettezza: “Tante volte, io che sono più vecchio di lui di appena tre mesi, mi son visto cedere il passo quando dovevamo varcare una porta, con la scusa scherzosa della mia anzianità. Stavolta è lui che si è arrogato il diritto di precedermi nel buio”. Una vita di sodalizi culturali impareggiabili, insomma, – come anche quelli con Borges, Calvino, Moravia, – di amicizie profonde e di passioni condivise. In questo, no, non era solo.