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TERESA MADONIA

  • UN SECOLO DI SCIASCIA

    data: 07/01/2021 19:39

    Sono passati cento anni dalla sua nascita e trentuno dalla sua morte, ma le opere di Leonardo Sciascia non sono ancora passate di moda. “Ce ne ricorderemo, di questo scrittore”, bisognerebbe dire, per parafrasare l’epitaffio che ha voluto sulla sua tomba: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”, un verso del poeta francese Villier de L’Isle-Adam. Cosa avrà voluto dirci? Probabile abbia voluto seminare un indizio, da scrittore che aveva saggiato anche il noir, su tutta la sua produzione letteraria: è vero, scriveva dalla piccola cittadina di Racalmuto, di sé, delle cose della sua terra, la Sicilia, ma con uno sguardo sul mondo intero. E poi, come lui stesso afferma, voleva partecipare alla “scommessa” di Pascal, di cui era grande conoscitore; in fondo “una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano”, quasi ipotizzando un’inconsueta, per lui, fede in una vita oltre la morte. «Sono stato un uomo che ha ricordato anche le cose che gli altri hanno voluto dimenticare e che continuerò a ricordare, cioè ad essere scrittore, anche nell’al di là…», forse in questa frase, insieme a quell’epitaffio, è racchiuso tutto il suo testamento. La pronunciò nel corso di un’intervista apparsa su L’Automobile del 26 aprile 1983, con il titolo “La mia auto è un sogno da bambino”. Lui che la patente non la prese mai, ma che di “patenti” ne ha avute tante.
    La prima, quella dell’uomo che non guarda in faccia nessuno: una vita, la sua, passata a combattere ingiustizie, bugie, disparità, poteri forti, “imposture e mistificazioni”, con senso critico e non senza ironia; servendosi di una scrittura che era uno strumento di conoscenza, ma anche di lotta e di stimolo alla coscienza civile.
    La seconda, quella del laico che visse “religiosamente la sua vita, perché si è atei come si è cristiani”, così soleva dire quasi a voler ribaltare il paradosso della religione stessa. Qualcuno parla, almeno riferendosi all’ultima parte della sua vita, di “ateismo religioso”, percorso da molti dubbi. Ma aspetti di tale propensione si riscontrano anche in alcuni piccoli accadimenti della sua giovinezza. Basti ricordare un gesto raccontato dal nipote, lo scrittore Vito Catalano, sulle pagine de Il Messaggero di qualche giorno fa: nel 1944, quando ormai la storia con la fidanzata – che diventerà sua moglie – si era consolidata, le fece un regalo: un Vangelo, con una dedica: “For Ever”. Magari per alcuni non significherà granché, ma quel gesto ci dà la cifra dell’uomo che fu e della religiosità accennata. E insieme per sempre Leonardo e Maria stettero davvero, fino alla scomparsa di lui e, anche dopo, perché la Andronico curò e pubblicò due opere postume del marito, mise ordine tra le sue carte e catalogò tutti i volumi dell’immensa biblioteca. Lei fu la protettrice del tempo dello scrittore, si prese cura della sua concentrazione, del suo bisogno di scrivere in certe ore prestabilite, della sua ispirazione.
    Ma andiamo alla terza patente, quella del pessimista, che gli avevano affibbiato, anche se lui non l’ha mai pienamente condivisa: «La verità è che nel mio pessimismo siciliano, il pessimismo di una terra dove il verbo al futuro praticamente non esiste, tanta è l’incertezza del domani, io sono un siciliano ottimista. Voglio dire che ci sono in giro tante rovine, eppure in mezzo alle rovine io vedo tante energie che si ricreano, che resistono. Sono uno scrittore che ha il coraggio della paura e il coraggio della fiducia».
    E, infine, l’ultima, quella della solitudine, dell’isolamento: perché restò da solo a parlare di mafia, ne svelò le trame e le connivenze, tanto da essere tacciato lui stesso di essere mafioso, perché troppo addentro ai suoi meccanismi. Eppure Sciascia fu il primo a conferire a questa piaga – di cui veniva addirittura negata l’esistenza da parte di molti notabili, – la forma che acquisirà negli anni successivi agli occhi dell'opinione pubblica, e poi fino ai giorni nostri. Il suo Capitano Bellodi, de Il giorno della civetta – il romanzo più celebre – icona della lotta e antesignano dei Falcone e Borsellino, è il personaggio che più ce lo rappresenta; quello che “ci si romperà la testa”, come lo stesso Sciascia. Lo stesso isolamento era toccato a due scrittori e intellettuali a lui cari: a Georges Bernanos, dal mondo cattolico, dopo aver scritto “I grandi cimiteri sotto la luna” (libro contro il franchismo) e ad André Gide, dal mondo comunista, dopo aver scritto “Ritorno dall’Urss” (in opposizione allo stalinismo). Per Sciascia, Bernanos e Gide diventeranno “i modelli più alti d’impegno”.
    Lo scrittore visse buona parte della sua vita a Racalmuto, in una casetta prima appartenuta alle zie, che poi occupò con la moglie e le figlie. Una di loro racconta che scrivesse solo di mattina, con la sua macchina da scrivere su di un tavolino ricoperto da una tovaglia. Oggi quella casa è stata trasformata in un piccolo museo e quel tavolino è possibile toccarlo e vederlo. Scriveva immerso nella letteratura, tra lo “scaffale stendhaliano”, composto da 224 libri di e su Stendhal, e i ritratti di Pirandello (sembra che ne avesse uno in ogni casa), i suoi mentori ideali.
    Tra i luoghi di Sciascia anche la contrada Noce, il teatro Regina Margherita, la grotta di Fra Diego La Matina, la Chiesa della Madonna del Monte. Tutti questi fanno parte, da qualche anno, di un percorso turistico siciliano, “la Strada degli scrittori”, ideato dal giornalista Felice Cavallaro. E se proprio vogliamo dirla tutta, un altro luogo molto più lontano ce lo rammenta e diventa quasi simbolico. Lui che voleva ricordarsi di questo pianeta, di pianeta ne riceve addirittura uno in dono: un astronomo belga gli dedica, infatti, un asteroide scoperto nel 1994.
    Per concludere, ricordiamo le sue amicizie: due siciliani come lui, in primis, Gesualdo Bufalino con il quale condivideva la passione per le lettere e il cinema. e il maestro Piero Guccione, di cui lo scrittore amava i bellissimi mari dei suoi quadri.
    Bufalino e Sciascia erano coetanei. Da poco, il 15 novembre dell’anno appena passato, abbiamo celebrato, infatti, i 100 anni dalla nascita di Bufalino. Quando l’amico Leonardo morì, nel 1989, Gesualdo scrisse che era stata una scorrettezza: “Tante volte, io che sono più vecchio di lui di appena tre mesi, mi son visto cedere il passo quando dovevamo varcare una porta, con la scusa scherzosa della mia anzianità. Stavolta è lui che si è arrogato il diritto di precedermi nel buio”. Una vita di sodalizi culturali impareggiabili, insomma, – come anche quelli con Borges, Calvino, Moravia, – di amicizie profonde e di passioni condivise. In questo, no, non era solo.

     


     

  • MENO PARLAMENTARI,
    MENO DEMOCRAZIA

    data: 09/10/2019 00:18

    La riduzione del numero di parlamentari è legge. Il ddl costituzionale che riduce i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, è stato definitivamente approvato a Montecitorio con 553 voti a favore, 14 contrari e due astenuti. Una maggioranza netta, molto più che assoluta (quella necessaria per l’approvazione: 316 voti) dei componenti dell'Assemblea.
    Ma quanta democrazia si rischia di perdere con una legge siffatta?
    A fronte di un risparmio irrisorio di 57 milioni di euro l’anno circa - (queste le stime dell’Osservatorio sui Conti pubblici) praticamente meno di 1 euro all’anno ad abitante - si registrerà un grande danno alla democrazia.
    Con il sistema elettorale attuale, soprattutto in Senato, la diminuzione dei parlamentari porterà a una minore rappresentanza dei partiti minori, soprattutto nelle regioni più piccole. Se poi si deciderà di orientarsi verso una legge elettorale quasi interamente proporzionale, il risultato sarà a dir poco disastroso: avremo un Parlamento più frastagliato, con accordi di governo improbabili e difficilmente decifrabili prima delle elezioni e, successivamente, molta difficoltà a governare. Alcuni vogliono combattere i governi non realmente eletti nella loro interezza, ma creati con “inciuci” a tavolino e, invece, non si farà che peggiorare il sistema.
    Non solo: il rischio di illiberalità è dietro l’angolo. Con un sistema proporzionale senza sbarramento, potrebbero entrare in Parlamento anche forze antisistema, anti-democratiche (come accadde nel 1919).
    E ancora, se si abbandonassero i collegi uninominali, rischieremmo di avere il solito sistema con liste decise dall’alto dai vertici dei vari partiti e la solita impossibilità per il corpo elettorale di votare per la persona, per il proprio rappresentante. Con il risultato che la disaffezione verso la politica, già abbastanza dilagante, non farebbe che accrescersi.
    Ma poi si farà veramente questa legge elettorale? E quando?
    Se, inoltre, ci rivolgiamo al fronte “ordine dei lavori”, la situazione non migliora. Quali saranno i tempi di approvazione di una legge? Se non si modificano i meccanismi istituzionali, regolamenti parlamentari, bicameralismo perfetto e il rapporto tra Parlamento e Governo, non si farà che allungare i tempi e rendere, in molti casi, inefficace il Parlamento stesso. Se nella XVII legislatura per approvare una legge occorrevano in media 237 giorni, e ovviamente la precedenza era data sempre alle leggi di iniziativa governativa e mai alle leggi di iniziativa popolare o ai disegni presentati dai parlamentari, la riduzione dei parlamentari porterà di certo a un aumento dei tempi e anche a un conseguente surclassamento (già parzialmente in atto) del Parlamento da parte del Governo, che si troverebbe costretto a ricorrere sempre di più (anche più di adesso) alla decretazione d’urgenza.
    E poi tagliare i parlamentari significherà anche ridurre le commissioni? Esse sono il perno del lavoro, direi il perno della democrazia rappresentativa: un’attività egregia quella che svolgono durante l’esame dei disegni di legge, dalle indagini conoscitive alle discussioni sugli emendamenti. Sono il vero luogo in cui deputati e senatori possono dire la propria sulle varie problematiche e trovare accordi e compromessi. Sarebbe un vero peccato.
    Tanta diminuzione di democrazia l’Italia propria non se la merita. Ma lo capiremo quando sarà troppo tardi!
     

  • LE IMPRESE RICOMINCIANO
    AD INVESTIRE IN CULTURA

    data: 24/07/2019 00:45

    Per uno Stato che toglie, un tessuto economico aziendale che, invece, offre sostegno alla cultura e che da essa sa trarre benefici per sé e il territorio. Sono stati presentati lo scorso giovedì 18 luglio a Perugia, nell’ambito del convegno “Più cultura, più crescita”, i risultati della ricerca “Investire in cultura”, realizzata da RSM – MAKNO per Impresa Cultura Italia – Confcommercio. Dai dati si evince che gli imprenditori italiani negli ultimi anni investono di più in eventi culturali.
    Nella prima metà del decennio erano diminuiti considerevolmente tali investimenti, perché le imprese, a causa della crisi economica, avevano dovuto razionalizzare le risorse. Il 36% delle attività intervistate dichiara però di aver ripreso a fare cultura negli ultimi tre anni e per oltre il 70% di esse il sostegno a progetti ed eventi culturali è assolutamente strategico.
    Ma quali sono le motivazioni che spingono le imprese in tale direzione? Il 33% dichiara di investire in cultura per migliorare la reputazione aziendale, perché la promozione culturale accresce la considerazione che i clienti hanno dell’azienda. L’investimento diventa, quindi, parte della strategia di marketing per il 13% di esse. Inoltre, per le piccole e medie imprese si tratta di una questione di tradizione (17%): l’impegno nella cultura è elemento costitutivo dell’azienda e permette un maggior radicamento nel territorio.
    Molti si chiederanno se l’impresa organizzi direttamente gli eventi o si limiti solamente a sponsorizzare/finanziare? Ebbene sì, il 47% si limita a dare contributi economici, ma ci sono anche molte aziende che forniscono servizi (21%) e quelle che non solo investono in denaro, ma contribuiscono anche in competenze e co-progettazione/co-organizzazione dell’evento (20%).
    Che l’investimento in cultura sia importante per le aziende è evidente anche in virtù del fatto che in molti casi gli eventi culturali organizzati/finanziati siano oggetto di una comunicazione dedicata (41%) e di azioni di marketing communication generale (53%).
    Ma qual è l’impatto economico di tali eventi sui territori? Sono stati presi a campione 14 eventi culturali che si svolgono nel territorio nazionale e dall’incrocio/somma dei dati economici, l’indagine ha offerto un quadro molto confortante: ogni euro speso nella gestione di un evento culturale genera ricadute sul territorio per oltre due euro e mezzo. Un dato molto interessate, che deve far riflettere: molti pensano che “con la cultura non si mangi” e non mi riferisco solo alle parole dei vari politici nazionali che ogni tanto si lasciano andare a queste dichiarazioni, ma anche a quelle di chi nel proprio “piccolo orticello”, per una sorta di miopia generalizzata, non si rende conto del potenziale indotto generato dagli eventi culturali.

    Se si sostiene la cultura, si alimenta il commercio, il turismo, l’artigianato, la ristorazione e così via. Il lavoro per i cittadini, la ricchezza di un Paese, la prosperità di un territorio, non sono entità astratte, ma fini da perseguire con azioni mirate e oculate. Per non parlare poi degli effetti diretti: più cultura significa più cittadini consapevoli e meno manipolabili e, di conseguenza, più crescita e sviluppo. E ne abbiamo bisogno. 

  • NUOVA LEGGE SUL LIBRO
    MA BISOGNA FARE DI PIU'

    data: 28/06/2019 23:39

    È stata appena licenziata dalla Commissione cultura della Camera, non è ancora legge e già fa discutere. Il testo unificato del progetto di legge sul libro (C. 478) è sicuramente un buon tentativo di aiutare un settore fortemente in crisi del nostro Paese, ma ha delle pecche. Sostenere la filiera del libro è un dovere del governo, ma non bisogna dimenticare i consumatori finali: i lettori. Cosa penseranno questi ultimi quando vedranno abbassarsi ancora di più il loro potere d’acquisto? Ridurre dal 15% al 5% il limite massimo di sconto applicabile ai libri (anche venduto via internet o per posta) è una norma che non salva nemmeno le piccole librerie. Qui non si tratta di fare la guerra ad Amazon, che è sacrosanta, ma di aiutare le nostre librerie a crescere e non è certo scoraggiando i lettori che questo obiettivo verrà raggiunto. Attenzione, non stiamo parlando dei lettori forti, quelli che coprano i libri anche a prezzo pieno, ma i lettori deboli o medi. Non credete che vedranno la riduzione degli sconti come un disincentivo in più al loro desiderio, già abbastanza flebile, di leggere?
    L’alibi degli altri paesi europei non può essere utilizzato. Non possiamo sempre dire che “in Francia ha funzionato, in Germania ha funzionato”. In Francia e in Germania funzionano tante altre cose che in Italia non funzionano e sarebbe uguale se ragionassimo a parti invertite: in Francia o Germania potrebbero non funzionare cose che in Italia vanno bene e per il solito motivo che ogni realtà è a sé stante e i paragoni sono riduttivi. I francesi hanno una propensione alla lettura molto più alta rispetto agli italiani, al di là di sconti e incentivi. Ed è nient’altro che un fattore culturale. Certo, con questa legge il rischio è che questo gap si accentui ancora di più.
    E per fortuna che i limiti massimi “non si applicano alle vendite di libri alle biblioteche, purché i libri siano destinati all’uso dell’istituzione, restando esclusa la loro rivendita”, né ai libri scolastici. I libri scolastici sono già inacquistabili per molte famiglie italiane. Un abbassamento della possibilità di sconto sarebbe stata la débâcle.
    E poi leggiamo: “Per un solo mese l’anno, per ciascun marchio editoriale, le case editrici possono offrire uno sconto sul prezzo di vendita dei propri libri maggiore del limite di cui al comma 2, primo periodo, ma comunque non superiore al 20% del prezzo apposto ai sensi del comma 1. L’offerta è consentita nei soli mesi dell’anno stabiliti, da un decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, da adottare, in sede di prima attuazione, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. L’offerta non può riguardare titoli pubblicati nei sei mesi precedenti a quello in cui si svolge la promozione. È fatta salva la facoltà dei venditori al dettaglio, che devono in ogni caso essere informati e messi in grado di partecipare alle medesime condizioni, di non aderire a tali campagne promozionali”. Mi sembra un po’ farraginosa questa norma e forse per la sua confusione anche facilmente aggirabile.
    Ed è un bel dire quando si parla, sempre nel testo, di “Piano nazionale d’azione per la promozione della lettura”, per “diffondere l’abitudine alla lettura, come strumento per la crescita individuale e per lo sviluppo civile, sociale ed economico della Nazione, e favorire l’aumento del numero dei lettori, valorizzando l’immagine sociale del libro e della lettura nel quadro delle pratiche di consumo culturale, anche attraverso attività programmate di lettura comune”. Ma come? Sicuramente un plauso va alle disposizioni dell’articolo 6 (Promozione della lettura a scuola) che - se realizzate e non abbandonate sulla carta, come spesso avviene - potrebbero aiutare le scuole a farsi promotrici della creazione del lettore di domani. Certo le risorse messe a disposizione, 1 milione di euro annui, non sono tante, ma già la presa di coscienza ci lascia ben sperare.
    La Adei (Associazione degli editori indipendenti) plaude in tutto e per tutto alla proposta della Commissione che “per la prima volta introduce regole ineludibili che permettono concorrenza più equa fra tutte le aziende che operano nel nostro settore. Questa Legge sancisce una cosa importantissima: la delimitazione chiara di sconti e campagne promozionali, sulla base di quanto avviene da decenni in gran parte dell’Europa, che permette di recuperare dal mercato quanto serve per offrire giusti compensi ad autori, traduttori, redattori, grafici, alle decine di migliaia di addetti del nostro settore, garantisce il pluralismo e la diversità culturale”.
    Credo che ci sia un errore di fondo in queste affermazioni. La filiera del libro in Italia è in crisi non solo per una questione di concorrenza sleale da parte dei grandi colossi e delle vendite online, ma anche perché manca un vero piano di incentivi alle librerie per permettere loro di promuovere la lettura con eventi, reading, ecc… Gli incentivi già presenti, varati con la legge di bilancio 2018 dal governo Gentiloni e che, fortunatamente, questa nuova legge sul libro incrementerebbe, non bastano. E non basta nemmeno l’istituzione dell’albo delle “librerie di qualità”, previsto all’art. 10, che non sarebbe altro che un “bollino” da affiggere sulla vetrina, a mo’ di tripadvisor, e che poco ha a che vedere con la diffusione della cultura. E poi quali sono le librerie di qualità, chi lo decide? Non sarebbe meglio che il bollino venisse dato a monte: alle “case editrici di qualità”? Ma questa è un’altra storia.

    Ridurre gli sconti non è la strada. O, meglio può esserlo se a questo viene aggiunto un incentivo per i lettori. Una proposta in tal senso che andrebbe a favorire anche le librerie è, secondo me, l’introduzione di un credito d’imposta a persone fisiche e giuridiche per l’acquisto di libri (come per le medicine, in fondo i libri curano l’anima), maggiore se i libri vengono acquistati nelle librerie e minore se acquistati online. 

  • BREXIT IN LETTERATURA

    data: 02/04/2019 15:19

    La chiamano BrexLit, la letteratura della Brexit, quella scaturita dal clima caotico pre e post referendum. La Gran Bretagna sta attraversando un momento difficile della sua storia, fatto di preoccupazioni per il futuro e nostalgia per il tempo che fu e per la potenza che si è stati. Questa incertezza si riversa, com’è naturale, anche nella produzione culturale, la letteratura in primis.

    Una delle prime autrici a parlare di Brexit in un suo romanzo è stata Ali Smith. Nel suo Autunno (SUR, 2018) affida ai suoi personaggi le riflessioni più disastrose. La madre di Elisabeth, la protagonista, è forse il suo alter ego, almeno per quanto riguarda i pensieri critici verso la Brexit e verso il mondo della comunicazione britannica che tanto ha influito sul risultato del referendum: «Oggi le notizie sono come un gregge di pecore che procedono a doppia velocità verso l’orlo del precipizio».

    In molti dei romanzi della Brexit, i personaggi si contrappongono per problemi privati, ma soprattutto per il loro approccio alla questione politica. In Middle England (Feltrinelli, 2018), l’ultimo di Jonathan Coe, ad esempio, è palese l’atteggiamento di remainer di Sophie e quello di brexiter del marito Ian. Il 23 giugno 2016 il loro matrimonio finisce, proprio il giorno del referendum. Significativa rottura, verrebbe da dire. Emblematico anche il dialogo tra Nigel, collaboratore del Primo Ministro e Douglas, giornalista e opinionista. In un bar si scambiano, come fanno ormai da tanti anni, le loro impressioni sulla politica e, in questo caso, sulla Brexit prima del referendum. Nigel è sicuro che David Cameron vincerà e la Gran Bretagna rimarrà in Europa. Douglas no, perché, più vicino alle persone di quanto possa essere Nigel, chiuso nei palazzi della politica. «Nigel, sei fuori di testa se credi che la gente parli così. Ci sarà al massimo una dozzina di persone in tutto il paese che sa come funziona l’UE, e ce n’è ancora meno che sa come i regolamenti europei si incastrano nel sistema dell’economia globale. Non lo capisci tu, di sicuro non lo capisco io e se credi che nel giro di tre mesi la gente sarà meglio informata vuol dire che vivi nel mondo dei sogni. Voteranno come hanno sempre votato… con la pancia. Questa campagna la si vincerà con gli slogan e le battute a effetto, con gli istinti e le emozioni. Per non parlare dei pregiudizi ai quali, detto per inciso, Farage e la sua cricca fanno appello in modo egregio».
    E questa riflessione, mi sento di dire, al di là del caso specifico, è valida in UK come in Italia, purtroppo!
    Voglio citare altri due scritti che si possono annoverare tra le opere letterarie della Brexit. Una favola, - mi piace definirla così - perché ha molto degli antichi scritti di Esopo o Fedro: Rosie e gli scoiattoli di St. James di Simonetta Agnello Hornby e George Hornby (Giunti, 2018). Tutta la storia, illustrata sapientemente da Mariolina Camilleri, è metafora della Brexit. I genitori di Rosie Watson, due autisti di bus, lei siciliana e lui giamaicano, che vivono a Peckham (Londra), il giorno del referendum accompagnano la loro bambina di 9 anni al parco St. James. Il parco diventa simbolo delle Gran Bretagna tutta. Le volpi, che vi vivono dai tempi dorati della caccia alla volpe, rappresentano gli inglesi nazionalisti, sovranisti, incapaci di adattarsi ai cambiamenti; gli altri animali - gli scoiattoli, i pappagalli, i pellicani, - sono allegoria degli immigrati, degli altri europei, di coloro che in UK usurpano, rubano il cibo ai nativi. Ed è battaglia aperta. Ecco come la Hornby, siciliana che vive a Londra da molti anni, ha voluto spiegare la Brexit ai suoi giovani lettori.
    Un altro recentissimo romanzo incentrato sulla Brexit e il suo clima difficile è Il taglio (66thand2nd, 2019) di Anthony Cartwright. Cairo e Grace, i due protagonisti, ritraggono le due anime contrapposte della Gran Bretagna: Cairo, quella operaia, delusa e abbandonata, quella della Black Country (e non solo); Grace, quella della realtà radical-chic londinese. Le disuguaglianze economiche che i governi non hanno saputo colmare, riversando sull’Unione Europea colpe che andrebbero cercate all’interno del paese e dei suoi poteri forti, hanno portato alla vittoria del “Leave”. Capro espiatorio è stato in molti dibattiti pubblici il fenomeno dell’“immigrazione”, appunto, ma le cause della Brexit sono più ampie e l’autore fa pronunciare parole dure al protagonista: «Quello che voialtri volete dire è che è tutta colpa dell'immigrazione. Che noi siamo tutti razzisti. Che siamo tutti stupidi. Non volete sentire che le cose magari sono un po' più complicate. Così vi sentite meglio. Non avete mai preso in considerazione l'ipotesi che magari il problema siete voialtri». Il taglio che dà il titolo al romanzo è in pratica il punto di rottura della storia di un paese: prima e dopo referendum. Taglio che andrà ricucito, si spera in tempi brevi, per il bene della Gran Bretagna e dell’Europa stessa. In patria Cartwright viene definito il nuovo Charles Dickens per gli argomenti sociali che tratta nelle sue opere.
    Ma cosa direbbe proprio Charles Dickens oggi, di fronte allo sfacelo britannico? Forse riadatterebbe una riflessione del suo Casa desolata: «Ma l’ingiustizia porta l’ingiustizia e il combattere con le tenebre e l’essere sconfitti da esse porta necessariamente l’inizio dei combattimenti». O forse si limiterebbe a dire: «Tutte le forze troppo a lungo imprigionate, quando esplodono, portano distruzione» (“Tempi difficili”, Feltrinelli, 2015). Chissà!?
     

  • LA LEZIONE DI JAN PALACH

    data: 18/01/2019 19:05

    Praga 19 gennaio 1969, moriva in un letto d'ospedale Jan Palach. Le ustioni su tutto il corpo non gli permisero di sopravvivere e di vedere com'è diventata oggi la città. Passeggio per le sue vie e cerco di immaginarmi come poteva essere a quei tempi. Il cielo è plumbeo, i tram sfrecciano lungo le strade, i turisti alzano la polvere con il loro incessante vagabondare alla ricerca di nuove bellezze. Cinquant'anni fa il cielo era ugualmente plumbeo, i tram si muovevano con più lentezza sulle rotaie, ma la polvere? La polvere era quella alzata dai carri armati sovietici. Cosa ci può essere di più soffocante di un'invasione che porta con sé censure e limitazioni delle libertà personali.

    La fiamma si alzò in Piazza San Venceslao quel 16 di gennaio, nel primo pomeriggio, e ruppe la monotonia di quei giorni. Dede un colpo alla rassegnazione che spesso alberga nell'animo umano. Il filo di fumo probabilmente venne visto in buona parte della città. I sovietici tentarono di sminuire il gesto addirittura nascondendo il nome del ragazzo e indicando solo le iniziali sui giornali. Ma lui aveva lasciato delle lettere nel cappotto, quasi un testamento ideologico, e il suo nome si sparse veloce per tutta la città. "Jan, lo studente Jan Palach si è bruciato vivo". Un gesto estremo, forse, ma che riuscì a scuotere le coscienze. Mi sento di dire che oggi Praga non sarebbe la stessa senza quel gesto e forse nemmeno l'Europa lo sarebbe. Dopo di lui altri giovani si bruciarono, nonostante le autorità, ogni volta, tentassero di sminuire la portata dell'accaduto.

    Nel 2019 Palach avrebbe 71 anni, probabilmente sarebbe un affermato docente di filosofia del suo Paese e avrebbe una moglie e dei figli già adulti.  E invece no. Scelse di bruciarsi vivo davanti a tutti, davanti al mondo, per protestare, per riavere la libertà, per spingere a una riflessione profonda. Riflessione che deve superare le polemiche nate in questi giorni. La figura di Jan Palach non è politicizzabile. La sua memoria non va inficiata e il suo contributo alla difesa delle libertà va letto in chiave universale.

    Molte le commemorazioni in questi giorni, in patria, ma anche all'estero. La Fondazione Luigi Einaudi commemorerà Palach a Praga con una iniziativa in collaborazione con l'ambasciata italiana a Praga e l'istituto italiano di cultura. 
    E già nei giorni scorsi diverse manifestazioni si sono svolte in città; non a caso il memoriale di Piazza San Venceslao è già un tappeto di fiori. Appena vi sono arrivata, sono stata investita dal loro profumo e ho ripensato alle immagini del suo funerale. Una fiumana di gente...eh sì, caro Jan, sei riuscito nel tuo intento.
    Quale insegnamento dobbiamo trarre noi, giovani di oggi, dalla sua storia?
    Che non bisogna mai dare nulla per scontato. Non ci sono conquiste assodate, ma ci sono conquiste da difendere in nome di chi ha lottato per ottenerle. Le battaglie che si sono succedute nel corso dei secoli per il rispetto dell'individuo, della sua dignità e umanità, per il rispetto delle libertà dei popoli, devono essere sempre ferme nella nostra mente. Perché semmai a qualcuno venisse voglia di calpestare questi valori, dovrà portarsi sulla coscienza tutti coloro che sono morti per essi.

  • LIBRI: +EVENTI E -LETTORI

    data: 11/12/2018 22:17

    Si è appena conclusa l’edizione 2018 della Fiera della piccola e media editoria di Roma, Più libri più liberi. Presenza di pubblico in crescita e risultati soddisfacenti per gli espositori. Del resto in base ai dati Istat al momento disponibili, quelli pubblicati a fine 2017 e relativi al 2016, più della metà degli editori (51,2%) decide ogni anno di partecipare a saloni letterari in Italia e all’estero; e se questo accade vuol dire che, oltre a voler rimarcare la propria esistenza (soprattutto se si è piccoli), forse un ritorno economico c’è. A partecipare alle fiere sono tre grandi editori su quattro (77,5%), quasi due medi editori su tre (65,1%) e il 37% dei piccoli editori. Gli eventi quali fiere, festival, saloni della lettura sono al terzo posto tra i canali più efficaci di distribuzione, subito dopo librerie indipendenti, le librerie on-line e i siti e-commerce.
    Ma alla progressiva crescita degli eventi a tema libro, si registra lo stesso incremento della lettura? La risposta è no. Purtroppo.A partire dal 2010, e la tendenza continua negli ultimi anni, si è registrato un calo sensibile dei lettori. Si è passati dal 46,8 % del 2000 al 40,5% del 2016. Dato che sembra essersi stabilizzato anche nel 2017 e nel primo semestre 2018, secondo le statistiche dell’Ufficio Studi dell’AIE. Ma in base al rapporto diffuso dallo stesso ufficio ad aprile 2018, il mercato del libro ha chiuso il 2017 con 2.773 miliardi di euro di fatturato, con una percentuale di incremento nel 2017 pari al 2,8 %. Allora ci si chiede, perché cresce il fatturato ma non il numero dei lettori?
    Le risposte sono molteplici e vanno cercate nella crescita del numero delle case editrici attive – nel 2017 sono 4.902 quelle che hanno pubblicato almeno un titolo nel corso dell’anno (+0,5% rispetto al 2016) – ; nell’aumento del 10,1% della vendita dei diritti di edizione all’estero e nel calo del 2,5% nell’acquisto degli stessi; nel rialzo dei prezzi. A dire il vero quest’ultima motivazione è controversa. C’è chi sostiene, come l’AIE, che i prezzi medi di copertina (non ponderati e alla produzione) siano rimasti sostanzialmente stabili e rispetto al 2010 continuino a essere di quasi 3 euro inferiori (18,77 euro nel 2017; 21,60 euro nel 2010). Ma dal suo canto l’Istat sostiene che i libri pubblicati nel 2016 hanno un prezzo medio di copertina pari a 20,21 euro, contro i 18,91 dell’anno precedente, e questo trend non sembra essersi invertito negli ultimi due anni.
    Ora se un libro appena uscito costa così tanto, forse non c’è da stupirsi se in Italia i lettori diminuiscano invece che aumentare e, se a livello territoriale, la lettura risulti più diffusa nelle regioni del Nord-est e del Nord-ovest, rispetto al Sud e alle Isole, dove la situazione economica è più precaria e l’acquisto di un libro viene interpretato quasi come un lusso.
    E poi come non tenere in considerazione le nuove tendenze: non c’è più tempo per i libri, perché essi sono stati sostituiti da mezzi più immediati: i social su tutti, simulacri della morte sociale, nonostante il nome sembri indicare il contrario. Ed ecco che, a fronte della grande mole di produzione editoriale, quasi un quarto degli operatori dichiara di avere oltre la metà dei titoli pubblicati invenduti. Un peccato, se si pensa, come scriveva Pennac, che il “tempo per leggere…dilata il tempo vivere”.
    Quali le possibili soluzioni?
    Politiche mirate che prevedano sgravi fiscali per tutti gli stadi della filiera, dall’editore al distributore alla libreria e che consentano l’abbassamento dei prezzi; l’introduzione di una percentuale di detraibilità del costo dei libri per i lettori.
    Ma il problema è anche politico-culturale. Manca un investimento dello Stato sulla promozione del libro e della lettura. Se l’agenda dei governi non tratta i temi della cultura, se non si riescono a progettare e mettere in pratica piani di innovazione seri di tutto l’apparato culturale del Paese, non avremo mai la crescita sperata, in nessun ambito.
    Le scuole, ad esempio. Quante si possono permettere di avere una biblioteca, di acquistare libri, di organizzare eventi culturali per i propri alunni? Pochissime. La lettura, per tanti bambini/ragazzi le cui famiglie non hanno nemmeno un libro in casa, diventa sempre più lontana, sconosciuta. I libri? Solo quelli scolastici o poco più.
    Concentriamoci, allora, sulle scuole, sulle biblioteche, sui luoghi di aggregazione in cui si può iniziare a insegnare il piacere e il valore della lettura ai bambini, i futuri lettori forti di domani.
    «Mi piacerebbe mobilitare un esercito poderoso, che superi il numero dei bevitori di birra, di chi ha la testa per aria, dei fissati per la mostarda, un esercito di topi da biblioteca che si impegnino a spendere 10 sterline all’anno per i libri, e nei ranghi più elevati della Confraternita, a comprare un libro ogni settimana». Sono le parole di John Maynard Keynes, nel suo I libri costano troppo?.
    La lettura come «dovere sociale», novant’anni fa come adesso; quello dei lettori, sì, ma anche quello delle istituzioni, aggiungerei io. Recuperare la dimensione “social” e sociale del libro è missione ardua, ma non impossibile. 

  • ASSAGGIATRICE PER HITLER

    data: 04/12/2018 10:14

    «Che cosa permette agli esseri umani di vivere sotto a una dittatura?». Amara riflessione quella di Rosa Sauer, protagonista del romanzo Le assaggiatrici di Rosella Postorino, vincitore del Premio Campiello di quest’anno. Una domanda cui non è possibile rispondere perché in essa si nasconde il più recondito sentimento dell’animo umano: lo spirito di sopravvivenza per sé e i propri cari. Una domanda però che spinge a un’altra riflessione: quanto è stato ed è difficile resistere, opporsi alle logiche del potere?

    Il romanzo della Postorino è un mix esplosivo che tiene attaccato il lettore alle pagine: la storia di una donna costretta a lasciare Berlino a causa della guerra e che, rifugiatasi nella campagna di Gross – Partsch, dai suoceri, mentre il marito è al fronte, viene obbligata a servire il Führer, assaggiando assieme ad altre nove compagne, i pasti a lui destinati prima che gli vengano serviti. Un lavoro vero e proprio, retribuito con 200 marchi al mese… Ed ecco la paura, anzi due tipi di paura: quella di morire, ma anche la paura della ribellione. Sì, perché Rosa vorrebbe ribellarsi: Hitler in fondo è colui che ha mandato in guerra il suo Gregor. Lo rivedrà? E le altre donne rivedranno i loro uomini? E le leggi razziali...come giustificarle? Rosa, da vittima, improvvisamente si sente complice, carnefice, colpevole di assecondare il regime. Non si ribella nemmeno di fronte al Tenente Ziegler che la seduce. La sua coscienza è animata da pulsioni diverse sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista umano/spirituale. Chissà se anche Margot Wölk, la donna a cui l’autrice si è ispirata avrà provato gli stessi sentimenti? Non lo sapremo mai; ma se a 96 anni, prima di morire, ha voluto rivelare l’esistenza di quel “lavoro” svolto per il Führer ai tempi della guerra, forse l’ha fatto per chiudere un conto. Peccato che la Postorino non abbia fatto in tempo a raccogliere la sua testimonianza.
    Un romanzo meritevole di interesse, oltre che per la qualità della scrittura - il suo essere scorrevole e accattivante - anche per quello che rappresenta: gli effetti che può avere la guerra, un regime totalitario, una pazzia collettiva, sulla vita privata della gente.
    Il romanzo trasmetterà al lettore il sapore dell’amore, dell’amicizia tra donne, della trasgressione, dei sentimenti che rimangono vivi nel tempo, della solitudine e del ricordo; insegnerà l’importanza della memoria storica che deve fare da monito alle nuove generazioni. E poi? Infonderà una sicurezza in ogni uomo che ha un conto aperto con il proprio passato: quella che, alle volte, questo conto può essere saldato con un bacio, ultimo gesto di tenerezza tra due persone che si sono amate.