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FRANCESCO GIARDINAZZO

  • CANZONI CON VISTA
    3) CHE MENZOGNA ROMANTICA
    LA MUSICA E LA VOCE

    data: 19/04/2020 15:59

    Era stata Chiara Valerio, se ricordate, ad aver sfiorato questo tema quando collegava Battiato, o un certo Battiato, alle situazioni della giovinezza, e quindi rievocando il “potere magico, abiettamente poetico” che ha la canzone di rievocare il tempo perduto. Una sorta di “madeleine” sonora, che si trascina dietro, nel bene e nel male, un vissuto personale ed epocale che forse, e non sempre, a tutti piace. Si può legittimamente soffrire di simpatie e antipatie profonde per i cantanti e le melodie (vedi Wilson contra Dion) che possono essere anche il risultato dei ciclici revisionismi (per esempio, la mia personale riscoperta della qualità della disco music, un tempo ritenuta colpevole più o meno delle cose che Pasolini dice della “canzonetta”: e tra “disco” e “rock”, in certi contesti, l’opposizione era di “classe sociale” non solo musicale); e c’è anche, naturalmente, chi si costruisce una reputazione facendosi notare nel sostenere che una musica disprezzata da chiunque, sia invece geniale. Ed è vera anche un’altra cosa, cioè che il critico accademico (non è il caso di Murgia e Valerio) può anche permettersi di tralasciare completamente il gusto popolare (ricordate Orazio? Odi profanum vulgus et arceo…; Odi, III 1, 1) e privilegiare ciò che è “strano”, “eccentrico”, “esoterico” o “mistico”. Un critico professionista (musicale, intendo, e Murgia e Valerio nemmeno questo sono) che provasse a comportarsi nello stesso modo, credo verrebbe licenziato e senza lavoro. Nel frattempo, anche l’underground, luogo del bizzarro (in senso creativo) per antonomasia, si è dovuto accodare al mainstream perché ora chi comanda davvero è la comunicazione e la diffusione “liquida” della rete.
    Se invece di fermarci alla provocazione superficiale, scendiamo un po’ nella sostanza del discorso, possiamo identificare, a mio avviso, almeno due elementi su cui vale la pena riflettere. Ci sono delle cose importanti che in questa conversazione assumono un significato ben più interessante del “mi piace Battiato. Anzi no!” (qualcosa di simile scriveva Croce inaugurando il suo saggio su Pascoli).
    Il primo sta in queste frasi: “La musica è il doping dei non-significati. Questo trovo agghiacciante. Vuol dire che la musica è un grande inganno. Io la guardo con diffidenza. Quando scrivo, io non ascolto musica”. Dopare i non-significati è proprio il primo e più schietto “oggetto d’orrore” (per citare Mozart-Da Ponte) per lo scrittore, oggetto che va rimosso dall’attenzione e dalla psiche (magari), perché scrivere, in questo concezione, è sempre un “pieno”, è sempre una costruzione i cui mattoni sono robusti e ben connessi (cosa che non certo va disprezzata) ma che impongono, io credo, uno statuto di fedeltà a quanto chiamiamo il “reale” (in qualsiasi dimensione, pubblica o privata, lo vogliamo pensare). Roman Jakobson ci ricorda che esistono almeno una mezza dozzina di concetti di “realismo”, e non starò qui a rievocarli. Dopare il non-significato significa, renderlo contestuale, se non simile, alla realtà, a quel “pieno” il cui rovescio è l’horror vacui di una parola non in grado di aggredire la scorza delle cose e lavorarle da dentro. La “verità romanzesca”, come ha magnificamente dimostrato René Girard, è l’altro della “menzogna romantica” –e in fondo, il melodramma ne è uno dei precursori eccellenti, come potrebbe testimoniare, per esempio, Stendhal: la mediazione del desiderio nella letteratura e nella vita. La canzone è, in scala minore, quasi sempre un micro-melodramma, i cui contesti, scenari, personaggi, retoriche, non sono poi così differenti, oltre alle distanze dei linguaggi, nel praticare questa mediazione del desiderio (a livelli diversi di complessità e di linguaggi, come ad esempio la già citata La cura). Quando ricordo ai miei studenti che “Laura non c’è” l’ha scritta per primo Petrarca e non Filippo Neviani (alias, Nek) loro ci ridono sopra, ma in fondo la “battuta” non è così lontana dal vero. La codificazione del “discorso amoroso”, così funestamente caro al melodramma –eccetto Così fan tutte- è un processo di selezione e accumulazione che, nella realtà della lingua, diventa inestricabile dai suoi stessi contenuti. La “lingua del vero”, la “verità romanzesca”, secondo Michela Murgia, non può lasciarsi irretire dalla “verità altra” dalla “menzogna romantica”. La musica è il “grande inganno” (quasi “The great rock’n’roll swindle”) il cui agghiacciante effetto è la diffidenza, naturalmente, il rifiuto del potere seduttivo. Perciò, quando si scrive, non si ascolta musica. La volontà di essere, qui e ora, non accetta, in questa visione, la potenzialità generativa del desiderio.
    L’altro elemento su cui vale la pena riflettere riguarda una questione cui, come nel primo caso, si allude quasi indirettamente, ed è l’aver completamente omesso il discorso sulla “voce”, cosa a mio avviso, tanto più deludente e carente nel dialogo Murgia-Valerio – quanto più, paradossalmente, partita proprio dal “melo-dramma”. Per anni io e un mio caro amico (melomane assoluto) abbiamo ricordato ridendo l’orrendo (per entrambi) “poco spruzzo e monde son” della Lady Macbeth di Verdi-Piave, più adatta a reclamizzare un pulitore multiuso che commentare la follia scaturita da un delitto orribile. Ma il punto era che la voce e la musica ti facevano concentrare sul focus drammatico, non sulle qualità lessicali di “quei più modesti romanzi” (come li ha chiamati Mario Lavagetto) noti col nome di “libretti” (anche in questo diminutivo possiamo già leggere un giudizio estetico?).
    Lorenzo Da Ponte, primo titolare di una cattedra di Letteratura italiana alla “neonata” Columbia University, ha trovato in Mozart il suo corrispettivo ideale, la stessa arguzia, lo stesso humor e felicità del vivere, l’irregolarità, la sessualità gioiosa sintonizzata sull’epoca del libertin-age: cose che nella coppia Lennon-McCartney o Mogol-Battisti non credo funzionasse altrettanto bene.
    Inutile discettare di Mozart o di Battiato, o di qualsiasi altro interprete, lasciando in ombra ciò che fa la differenza vera: la voce. Michela Murgia lo ha anche riconosciuto, involontariamente: “(…) a volte nelle canzoni sottotitolate, azzeri l’audio… e vedi scorrere il testo e improvvisamente ti rendi conto che hai cantato delle cazzate immani, proprio!”

    Voglio dire, a qualcuno sarà mai venuto in mente di dire che Mina (Sua Maestà, oggi, non più la “urlatrice” di ieri) ha cantato anche delle “cazzate immani” (usando il lessico murgiano) come Tintarella di Luna o Una zebra a pois e per questo decidere di radiarla dal pantheon? A qualcuno sarà venuto in mente che fu la sua incisione de La canzone di Marinella a far decollare la carriera di De André, come lui stesso ha ammesso? La voce di Mina ha trasformato, e trasforma, in eccellenza qualsiasi cosa, pur prescindendo dall’angoscia del significante. Aretha Franklin ha interpretato Nessun dorma, ma nessuno l’ha accusa d’empietà o disprezzato il suo meraviglioso e immenso talento; Rocco Tanica ha giocato con certe attitudini interpretative di Ivano Fossati (ritenuto spesso “pesante”) ma non mi risulta sia stato vittima di un regolamento di conti organizzato da un qualsiasi club di fan del genovese. Checco Zalone ha elevato la parodia stilistico-vocale di celebri autori pop al punto che costoro hanno partecipato alla parodia con effetti di successo personale altrimenti insospettabili. E come non ricordare Loretta Goggi che “interpretava” le interpreti maggiori della nostra canzone (Ornella Vanoni, Mina)? E il “catalogo” per le “madamine” dell’indignazione potrebbe snocciolare molti altri esempi. Ricordo il dileggio supercilioso che ha anche accolto, spesso e volentieri, il “Pavarotti & Friends” –dileggio che naturalmente sorvolava sulla questione essenziale dell’universalità della musica”, cosa che non è toccata (a parte i custodi “puri e duri” dell’ortodossia) a De André in versione orchestrale o a Sting che, parimenti, propone un arrangiamento per orchestra dei suoi successi targati The Police, o la scelta di calarsi nel repertorio classico di John Dowland accompagnato dal liutista bosniaco Edin Karamazov (Songs from the Labyrinth, disco pubblicato, nientemeno, che dalla Deutsche Gramophon).
    Temere l’invasività della voce, è questo il pericolo cui non si riesce a porre argine se non “mettendo a tacere”, letteralmente, la voce (sia dell’interprete, sia di chi ne dissente). E quando ci si rende conto del suo immenso potere? Quando, leggendo e non solo ascoltando le parole, ti rendi conto che hai “cantato delle cazzate immani” proprio grazie a questa qualità elettiva della voce che va ben oltre il mero rapporto significante/significato, contro cui invece lotta la pagina scritta attraverso lo stile, nel racconto o nel romanzo.
    Del resto, vorrei vedere chi, fosse stato il caso –poniamo- di qualsiasi altro interprete più “pop”, ne avrebbe preso indignato le parti. Dubito. Secondo me, qui si sono confrontate due forme di limite: il limite di chi non approfondisce la propria opinione (anche perché il contesto, non dimentichiamolo, è quello di una conversazione “informale”, non un’assemblea di musicologi) pronunciandola come un’interpretazione/giudizio (cosa che invece non è, formalmente e strutturalmente); e dall’altra chi, anche solo per essere superficialmente “contro”, ne stigmatizza le parole. Naturalmente, la scia “social” amplifica, distorce, ritorce, contorce, estorce questo e altro, fino all’offesa personale anche piuttosto violenta, segno che c’è del rancore represso contro una persona (forse solo perché diverge dallo stereotipo cui dovrebbe appartenere, chissà poi perché) e dunque ogni occasione è buona per “linciare” la vittima prediletta, soprattutto sfruttando “l’immunità di gregge” (mi si perdoni l’accostamento con ben altri problemi) e magari in cuor suo detestando anche peggio il “guru” etneo. Chissà quanti difensori della libertà costituzionale di espressione e di opinione avranno postato impressioni al veleno, magari solo fidandosi del titolo sommario col quale veniva presentata sui social la chiacchierata Murgia-Valerio. Le quali provocano sapendo di provocare, e quindi, alla fine, vincendo la loro scommessa.
    Ma dovremmo ricordare, citando Niccolò Fabi, che “la minoranza non è una debolezza, / la maggioranza non è una qualità (…)”. C’è gente che adora John Cage ma non ho visto per questo scatenarsi una sequela di suicidi di massa o petizioni all’Alta Corte per i Diritti Umani per far cessare questo scempio. Apprezzo Elodie e Achille Lauro pur amando i Clash, i Led Zeppelin, e i reietti Sinatra e Beethoven (per Battiato). Qual è il problema? Il problema sta nel pre-giudizio, alla lettera. Condivido, per esempio, il giudizio negativo di Wilson su Céline Dion per il fatto che il suo stile vocale, molto semplicemente non mi emoziona, non sollecita una risposta che di solito la vocalità sa trovare e far reagire –non sto parlando di tecnica vocale, questo sarebbe un altro argomento- parlo di quello che è un “effetto di stile”, che funziona come funziona nella scrittura, né più né meno. Allora non lasciar influenzare lo stile di una scrittura da uno stile vocale (e/o strumentale) a me sembra un elemento decisivo per capire che anche nella leggerezza provocatoria di una conversazione fra due amiche (“impegnate nel sociale”) possiamo trarre degli spunti più interessanti rispetto alla boutade su Battiato, ovviamente espressa ad arte e, se anche realmente sentita come vera, del tutto lecita (secondo quanto previsto dalle garanzie costituzionali). Nella scrittura, la voce è un “fantasma” che prende corpo, se vogliamo, solo nella lettura “ad alta voce”, e che modifica sostanzialmente le nostre reazioni: una pagina “scritta” di Gadda susciterà emozioni e reazioni del tutto differenti dalla sua “lettura ad alta voce” (si ascolti, in questo caso, la performance di Fabrizio Gifuni).
    Forse dovremmo, per buona pratica, ripensare alle parole che Proust dedica alla “cattiva musica” nel suo I piaceri e i giorni:

    Detestate la cattiva musica, non disprezzatela. Dal momento che la si suona e la si canta ben di più, e ben più appassionatamente, di quella buona, ben più di quella buona si è riempita a poco a poco del sogno e delle lacrime degli uomini. Consideratela per questo degna di venerazione. Il suo posto, nullo nella storia dell’Arte, è immenso nella storia sentimentale della società. Il rispetto, non dico l’amore, per la cattiva musica non è soltanto una forma di quel che si potrebbe chiamare la carità del buon gusto, o il suo scetticismo, è anche la coscienza dell’importanza del ruolo sociale della musica. Quante melodie, di nessun pregio agli occhi di un artista, fan parte della schiera dei confidenti scelti dai giovanotti sentimentali e delle innamorate! (…) Come il popolo, la borghesia, l’esercito, la nobiltà hanno gli stessi postini, portatori del lutto che li colpisce o della felicità che colma i loro cuori, così hanno gli stessi invisibili messaggeri d’amore, gli stessi confessori prediletti. Sono i cattivi musicisti. Un certo ritornello insopportabile, che ogni orecchio ben nato e ben educato rifiuta all’istante di ascoltare, ha accolto in sé i tesori di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite, di cui fu la viva ispirazione, la consolazione sempre pronta, sempre aperta sul leggio del pianoforte, la grazia sognante e l’ideale. Certi arpeggi, una certa “ripresa” han fatto risuonare nell’anima di più di un innamorato, di più di un sognatore le armonie del paradiso o la voce stessa dell’amata. Uno spartito di mediocri romanze, consumato per aver troppo servito, ci deve commuovere come il cimitero di un villaggio. Che importa che le case non abbiano stile, che le tombe spariscano sotto le iscrizioni e gli ornamenti di cattivo gusto. Da questa polvere può levarsi in volo, davanti a un’immaginazione abbastanza benevola e rispettosa per far tacere un istante la sua alterigia estetica, lo stormo delle anime recanti nel becco il sogno ancora verde che faceva presentire l’altro mondo, e le induceva a gioire o a piangere in questo. (M. Proust, I piaceri e i giorni, Torino 1988, pp. 124-125)

    A mio avviso, quello su Battiato è un giudizio sullo stile di scrittura che però omette il nesso parole-voce-arrangiamento, il che, in questo contesto, è abbastanza imperdonabile. Michela Murgia ha tutto il diritto di non apprezzare Battiato, come credo sia naturale riconoscere (compreso lo strategico “contentino” di riconoscere La cura e Povera patria come uniche cose degne di essere salvate dall’oblio). Aggiungo, infine, che uno dei meriti di Battiato sia stato quello di aver acclimatato in maniera definitiva il linguaggio della musica elettronica che, al di fuori del pop, è stato oggetto d’indagine dei massimi compositori “seri” contemporanei, da Stockhausen a Berio (che osservava come ci siano musiche che usano e valutano le parole innanzitutto come suono –è il caso di Cuccuruccuccù paloma-, per far loro acquistare un nuovo significato, così come ci sono musiche che rinforzano o mimano il discorso, o viceversa che ribadiscono la struttura convenzionale del discorso musicale) a Nono (che non nascondeva il suo apprezzamento per i cantautori) a Boulez (fra i cui meriti riconoscerei anche Boulez conducts Zappa: The Perfect Stranger, lavoro pubblicato nel 1984 diretto in parte dal compositore francese, eseguito dall’Ensemble InterContemporain con Frank Zappa al Synclavier).
    Insomma, tanto rumore per nulla? Un po’ sì, perché si sono decontestualizzate delle frasi (e il contesto è decisivo per la comprensione di esse) assumendole come una sorta di decalogo, di partizione tra “buoni” e “cattivi”, cioè tra senso e non-senso (anche secondo le indagini di Maurice Merleau-Ponty). In parte no, perché le dinamiche interpretative sollecitano un approfondimento che invece è stato tralasciato a favore non della “verità romantica” ma di quella “romanzesca” nella quale le cose e le parole hanno una solidità irrefutabile e coerente. Il cui tono assertivo, trasferito nella comunicazione, diventa immediatamente irricevibile –sia a chi di un determinato artista ha quell’adorazione nei termini pasoliniani (“I fanatismi per i cantanti sono peggio dei giochi del circo”) e di chi, più modestamente, voleva consumare una vendetta non contro le parole in sé ma contro chi le pronunciava. Se tutto ciò sia ammissibile non sta a me dirlo. Ma certamente vale per tutti la riflessione di George Bernard Shaw: “con il tono giusto si può dire tutto, con quello sbagliato non si può dire nulla”. E il “tono”, oltre che avere a che fare col bon ton, è anche una questione squisitamente musicale, nevvero?

    3. Fine
     

  • CANZONI CON VISTA
    E BUON VICINATO
    2) SE BATTIATO
    E' UNA MINCHIATA

    data: 15/04/2020 20:17


    …E BUON VICINATO.

    ARRABATTADORA, OVVERO GL’INFORTUNI DELLA CRITICA MAL TEMPERATA

    […] – L’uomo
    Che non ha musica in se stesso, né è commosso
    Dal concerto dei dolci suoni, è adatto
    Ai tradimenti, agli inganni, alle rapine: in lui
    I moti del cuore sono spenti come la notte,
    E gli affetti scuri come l’Erebo: non fidarti
    D’un tale uomo. Ascolta la musica.
    (W. Shakespeare, Il Mercante di Venezia)


    A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata
    a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie…
    (F. Battiato, Bandiera bianca)

    Minima immoralia… nell’esprit di Adorno & Battiato (che coppia sarebbe stata! E in effetti, in un certo senso, lo è). Ripartire dal confine tra “gusto” e “disgusto” –dimenticare l’appeal dell’inorganico (dixit Perniola!)- pare un ottimo sistema per riconfigurare una regione dei saperi che fino ad oggi risulta attraversata, colonizzata e dismessa dai più diversi interessi e attenzioni più o meno occasionali: lo spazio della canzone, della sua storia, del suo significato.
    Scommettendo sull’esistenza di qualcuno che ignori il fatto in questione, ne offro un breve, ma spero plausibile, ragguaglio. Oltre all’attività di narratrice, intellettuale, e di ospite di alcune trasmissioni televisive, anche una rubrica radiofonica, a due voci, insieme a Chiara Valerio, dal titolo “Buon vicinato”. Ho ascoltato più volte la conversazione, estrapolando e trascrivendo alcuni passaggi che mi sembravano opportuni alla riflessione.
    Guarda caso, si parla di Mozart, le regie dell’opera liriche di Mozart a cura di Damiano Michieletto, cui si contrappone, sul versante partenopeo, il preclaro Martone. Poi: centralità di Da Ponte e il “senza lui, così crepan tutte”: in effetti, la lista delle sventurate, orfane, vedove, tutte indistintamente condannate a morte varia è sé secondo solo al catalogo Disney (che forse dal melodramma pure trae ispirazione). L’amica replica che, comunque, nonostante il “personaggione” Da Ponte, la musica di Mozart qualche merito potrebbe accamparlo. La musica? Va bene, vediamo, le risponde l’altra. La musica dà qualcosa: “Mettiamo che Da Ponte e Mozart sono i Mogol e Battisti del Settecento. Ma può capitare che a volte una voce autorevole dal punto di vista musicale dia spessore, faccia apparire di spessore, anche testi che sono fragili. Che ne so? Battiato, per esempio, è considerato un autore intellettuale. E invece tu ti vai a fare l’analisi dei suoi testi e sono delle minchiate assolute! citazioni su citazioni e nessun significato reale. Togli due testi, forse (dirà più avanti essere La cura e Povera patria) e il resto…”. Frase interrotta dalla spiegazione dell’amica: “Ma perché è mistico!” Eh, no! “Ma non è perché tutto quello che non capisci è mistico!”. Si passa perciò a una definizione di mistico, matematica compresa (e Wittgenstein escluso, però)… Murgia: “Perché Battiato sta dentro questo equivoco clamoroso per cui lui è un cantante intellettuale”. Replica: “Beh, è cantante intellettuale. Il punto è che non è un intellettuale classico, è un intellettuale col sintetizzatore”. Murgia replica di non avere nulla contro il sintetizzatore, essendo cresciuta negli anni ’80 e quindi… Anzi, tanto perché si sappia che non è una bacchettona rétro, il suo gruppo “cult” sono i Depeche Mode. Perciò…
    Valerio: “Secondo me il significato delle canzoni di Battiato dipende dal ritmo in cui le parole in cui sono dette, non tanto dal significato che porta…” Intanto l’amica evoca in sottofondo il famoso “Cuccuruccuccù paloma”… e il seguito della strofa, che suggeriscono alla Murgia di interrogarsi (e interrogare) sulla “pregnanza del testo. E aggiunge: “Anche Parco Sempione di Elio e le storie tese mi evoca un mondo, ma c’è anche un significato. Battiato che cosa mi sta dicendo?” L’amica suppone che racconti cosa sia la giovinezza, e conclude: “Secondo me Battiato è un cantautore e un musicista di suggestioni. Battiato è una suggestione.” Infine viene fuori Fleur Jaeggy e i suoi romanzi, la collaborazione con Battiato… Insomma, se manca un appiglio, conclude Michela, “dobbiamo tornare alla lallazione”. Raccontare, non suggestione: questo è l’imperativo più che categorico. Sennò per la malinconia serve De Gregori. Rincaro della dose: “Che il lato intellettuale di Battiato sia la tastiera, sono d’accordo”. “Sì ma è musica ‘disco’, ma proprio “disco”... Murgy… L’era del cinghiale bianco (…) Mi piacciono tutte le cose che esercitano all’attitudine alla comprensione. E alla fine comprendere significa interpretare. Ascolti da piccolo Battiato, capisci, e non diventi fascista”. Murgia: “Ci sto, e questa cosa qui, però, l’ha fatta Da Ponte con Mozart. Questo è il significato di Così fan tutte.” Valerio: “Io non riesco a staccare… Non si può dividere le parole dalla musica. E’ un tutt’uno”. Murgia: “Non ce la faccio… io non posso… a volte nelle canzoni sottotitolate, azzeri l’audio… e vedi scorrere il testo e improvvisamente ti rendo conto che hai cantato delle cazzate immani, proprio! La musica è il doping dei non-significati. Questo trovo agghiacciante. Vuol dire che la musica è un grande inganno. Io la guardo con diffidenza. Quando scrivo, io non ascolto musica”. Opinione condivisa dalla sodale: quando si scrive, conferma l’amica, non si fa altro. Si rimane perciò divise su Da Ponte e su Battiato. “Mozart non è una cosa da lasciare in pochi minuti”. Il prossimo obiettivo è Michieletto alla Fenice impegnato con Strauss. “Se crolla il mondo, spero di trovarmi in quarantena con Michieletto”. Ciao, ciao. Questi, se non proprio questi, i pensieri e le parole…
    La cosa che mi colpisce davvero è la diffidenza, professata apertamente, nei confronti della musica: la musica come “grande inganno”, qualcosa che non può entrare mai nello spazio della scrittura. Ne deduco che né Mozart né la canzone possono invadere lo spazio sacro della pagina scritta in proprio.
    Spazi multipli e difficilmente separabili, se vogliamo, ma apparentemente più “facili”, più adatti a incursioni superficiali rispetto ad ambiti più consolidati dal punto di vista dell’autorevolezza di codici e interpretazioni. Eppure, c’è gente alla quale non piace Mozart, anche se non credo vada in giro a sostenere le proprie “ragioni” (come vedremo fra poco, c’è una bella differenza tra “giudizio” e “determinazione del significato”) tra conferenze, forum, piattaforme varie, eccetera eccetera.
    L’altro elemento che vale la pena di esaminare è l’affermazione che, alla fine, comprendere significa interpretare. Un vero maestro della critica come George Steiner ha qualcosa da insegnarci in proposito:

    “L’atto e l’arte della lettura seria [NdR: mia la sottolineatura] comprendono due moti principali della mente: l’interpretazione (l’ermeneutica) e la valutazione (la critica, il giudizio estetico). Tutte e due sono assolutamente inseparabili. Interpretare significa giudicare. Nessuna decodificazione, per quanto filologica, per quanto testuale sia nel senso tecnico, è neutrale. Viceversa, ogni valutazione critica e ogni commento estetico comprendono anche un’interpretazione. La parola stessa “interpretazione”, poiché include i concetti di spiegazione, di traduzione e di esecuzione (nel caso dell’interpretazione di un ruolo a teatro o di uno spartito musicale) è rivelatrice di questo intreccio complesso.
    La relatività, l’arbitrarietà di ogni affermazione estetica e di ogni giudizio valutativo è inerente alla consapevolezza e al linguaggio degli uomini. Si può dire tutto di tutto. Se qualcuno dichiara che il Re Lear di Shakespeare è “indegno di una critica seria” (Tolstoj) oppure che Mozart ha composto soltanto banalità, le sue affermazioni sono assolutamente inconfutabili. La loro falsità non può essere dimostrata né con argomenti formali (logici) né per quanto riguarda la loro sostanza esistenziale. Le filosofie estetiche, le teorie critiche, le concezioni strutturate del ‘classico’ o del ‘canonico’ possono soltanto essere descrizioni più o meno convincenti, più o meno generali, più o meno coerenti del percorso che porta a questa o quella preferenza. Una teoria critica o un’estetica è una politica del gusto. Cerca di rendere sistematico, visibilmente applicabile e atto a essere insegnato, un ‘insieme intuitivo’, una tendenza di sensibilità, la soggettività conservatrice o radicale di un osservatore eminente o di un consenso di opinioni.” (G. Steiner, Nessuna passione spenta, Milano 1997, p. 33).

    Le interpretazioni, insomma, non fondano una scienza del giudizio e della confutazione, del progresso sperimentale e della conferma o falsificazione: esse rappresentano il gioco alterno di reazioni individuali, di “intuizioni inoppugnabili” (dixit Quine).
    Non è che a volte il gesto “inattuale” sia anche motivato dal bisogno di “mettere in questione” anche quelle consolidate retoriche per cui si dice di apprezzare un artista anche se in cuor proprio lo si detesta? Se da una parte di laudatores di Shakespeare o Mozart rappresentano un pubblico da stadio, viceversa notiamo che quelli che la pensano diversamente formano una minoranza esigua (la cima dell’icebrg?) letteralmente eccentrica, che le loro critiche hanno poco peso e che le motivazioni che possiamo intravedere al di là del loro dissenso sono psicologicamente sospette (vedi Tolstoj contra Shakespeare). Ciò che invece sembra più interessante, insomma, è la determinazione del significato vero –o quanto meno, probabile- di un testo. Obiettivo ragionevole e pregio della lettura ben informata come della filologia. Ora dobbiamo chiederci se tutte queste cose, determinazione del significato, obiettivi e pregi possano far parte della faccenda o no.
    L’infortunio mediatico riguarda, in buona sostanza, non tanto Battiato (poteva essere qualsiasi altro personaggio e, a conti fatti, sarebbe stato lo stesso): il giudizio tranchant si colloca, buon ultimo ma non ultimo, in una lunga sequela pregressa e, immagino, futura, e dunque non capace di suscitare novità. Colta forse da un eccesso di “bellettrismo” vagamente snob (se non miope) il giudizio confinerebbe il musicista catanese nel limbo degli “incomprensibili”, i cui testi non reggerebbero alla richiesta di senso qualora venissero interrogati in proposito. Banalità anche questa, se vogliamo, perché se dovessimo ragionare sulla letteratura in questo senso, potremmo cassare tranquillamente dal nostro già esiguo e ipercolto pantheon letterario almeno due terzi della letteratura Novecento (vedi alla voce Avanguardie italiane e no, basta con Palazzeschi e i suoi divertimenti, la Neo-avanguardia a morte, fuciliamo per primo Toti Scialoja, eccetera). Altra questione di non minore peso: cinquant’anni fa, occuparsi di televisione o musica pop sarebbe stata considerata, al meglio, una stravaganza se non un’aberrazione –lo stigmatizza Bianciardi in una sua pagina de La vita agra, quando prende per i fondelli gli accademici che studiavano i comics (immagino, Eco & soci). Oggi è un anacronismo pensare così, ma non c’è dubbio che esista ancora chi pensa in questi termini. Ciò non vuol dire, del resto, capire l’evoluzione e la complessità delle forme della comunicazione? E in fondo, ciò servirebbe per quella famosa “determinazione del significato”? Penso di no.
    Se la richiesta di senso si accontenta quasi esclusivamente di accettare (anche se come “cazzate immani” cantate senza pensare) “bicchieri di vino con un panino” e simili, allora anche qui molti talenti del nostro patrimonio musicale sarebbero ricacciati senza appello nelle smunte lande dell’oblio. Riconsiderando le discriminazioni non dissimili che all’epoca toccarono Elvis, Beatles, Rolling Stones, eccetera, oggi non possiamo che sorriderne, con un vago senso di pietà annesso. Per non dire, infine, quale posto occupi in tutto questo discorso, la competenza che si suppone si debba possedere nel voler affrontare determinati ambiti discorsivi.
    Michela Murgia voleva insegnarci qualcosa, a parte la nobile arte del dissenso? Non credo, non di certo ricorrendo a questa tipologia di valutazione superficiale, tipica del “letterismo” radicale. Credo che sia una persona molto più dotata di strumenti e di strategie.
    Per me il punto essenziale, cruciale, della questione, che rende quanto detto dalla signora Murgia né più né meno di un “giudizio” di gusto personale, è proprio la mancanza della determinazione di un significato che, nel caso della canzone, proprio non può prescindere da un elemento inaggirabile: l’organizzazione delle parole in musica. Ha sottovalutato, o ignorato (consapevolmente?) il versante musicale delle canzoni: il che è davvero imperdonabile, perché sarebbe come giudicare Traviata dal solo libretto, escludendo la musica di Verdi e trasgredendo, ulteriore erroraccio, il nesso musica-parola che vale per Puccini quanto per Michael Jackson, The Police, Carlos Antonio Jobim o Franco Battiato. Non basta qualificare il musicista attraverso lo strumento che suona, voce compresa (sembra almeno sospetto di poca considerazione per l’artista che è comunque colui che rende artisticamente significativo lo strumento).
    E allora? Qual è il punto vero della questione? Michela Murgia nei panni di una intemerata “internet hater”? Non mi sembra proprio il tipo. Un semplice (e certamente ben architettato) espediente per attrarre l’attenzione, sempre e comunque? Risultato raggiunto in pieno, nel caso, come anche queste righe testimoniano. Un capitolo ulteriore della preclara Estetica del Brutto di Karl Rosenkranz, o un caso, da verificare in seguito, di eterogenesi dei fini che farà scoppiare una nuova “Battiato mania”? Non so se il discepolo di Hegel approverebbe, ma sono certo, invece, che un contributo costruttivo alla querelle possa venire dalle pagine, eloquenti sin dal titolo, del saggio di Carl Wilson: Musica di merda. Ovvero: perché pensiamo di avere gusti migliori degli altri. Già il paragone (ironico? provocatorio?) di Da Ponte-Mozart con Mogol-Battisti dà già da pensare: e perché non Lennon-McCartney, già che c’eravamo? Quella leggerezza nel trasporre epoche e nomi come in una sorta di pensiero analogico puerile, ci dice qualcosa di molto significativo. Quest’analogia, come cazzata immane, non scherza. Ma tende anche a dimostrare la prevalenza al livellamento generale, che viene usata come “arma di ritorno” contro chi ne fa uso spensieratamente.
    Le pagine si aprono sul discorso, schietto fino alla brutalità, dell’odio:

    “L’inferno è la musica degli altri”, scrive nel 2006 il musicista di culto Momus sulle pagine di Wired. Il riadattamento sartriano fa riferimento all’ossessiva invasione di musiche (spacciate spesso come “ambient”) che saturano i locali pubblici a tutte le ore del giorno e della notte. “Quando si odia una canzone, aggiunge Wilson, la reazione tende a essere spasmodica. Udirla può diventare come avere uno scarafaggio che ti si arrampica sulla manica: non lo si scaccia mai in fretta. Ma perché? E perché, poi, ciascuno di noi odia alcune canzoni, o l’intera produzione di alcuni musicisti, che milioni e milioni di altre persone adorano? (op. cit., p.11)

    Già, perché?
    Come ho già riconosciuto attraverso Steiner, l’accademico e il metalmeccanico hanno lo stesso diritto all’opinione. Ma chi vuole fare la differenza la può fare soltanto se imprime una diversa curvatura e consistenza al proprio giudizio. Interpretare vuol dire giudicare, e viceversa. Solo che in questo caso, l’interpretazione manca quasi completamente, banalizzata apparentemente dalla consuetudine di luoghi comuni che vengono attribuiti a questo o a quello uniformemente (come si fa di solito quando si dice che l’Italia è la patria del canto, della pizza, eccetera…). Cose abbastanza ripugnanti oltre che banali. Anche in merito al “gusto degli altri”, si potrebbero formulare alcune riflessioni, e scelgo quelle che espone Pasolini a proposito delle “canzonette”, rispondendo a un’inchiesta di “Vie Nuove” (8 ottobre 1964):

    Sulle “canzonette” potrei dare due tipi di risposte del tutto contrarie. Niente meglio delle canzonette ha il potere magico, abiettamente poetico, di rievocare un “tempo perduto”. Io sfido chiunque a rievocare il dopoguerra meglio di quello che possa fare il Boogie-Woogie, o l’estate del ’63 meglio di come possa fare Stessa spiaggia, stesso mare. Le “intermittences du coeur” più violente, cieche, irrefrenabili sono quelle che si provano cantando una canzonetta. (Chissà perché i ricordi delle sere o dei pomeriggi o dei mattini della vita, si legano così profondamente alle note che fila nell’aria una stupida radiolina o una volgare orchestra. E anche la parte odiosa, repellente di un’epoca aderisce per sempre alle note di una canzonetta: pensate a Pippo non lo sa…)
    Il modo immediato che ho io di mettermi in rapporto con le canzonette è dunque particolare, e non so prescinderne. Non sono un buon giudice. Soffro inoltre di antipatie e simpatie profonde per i cantanti e le melodie (il massimo d’antipatia è per la canzonetta “crepuscolare” di cui potrei dare come paradigma Signorinella pallida…). Aggiungo infine che non mi dispiace il timbro orgiastico che hanno le musiche trasmesse dai juke-boxes. Tutto ciò è vergognoso, lo so: e quindi contemporaneamente devo dire che il mondo delle canzonette è oggi un mondo sciocco e degenerato. Non è popolare, ma piccolo-borghese. E come tale profondamente corruttore. La Rai Tv è colpevole della diseducazione dei suoi ascoltatori anche per questo. I fanatismi per i cantanti sono peggio dei giochi del circo.

    2. Continua
     

  • CANZONI CON VISTA
    1) UNA SOLITUDINE
    IN COMUNE

    data: 13/04/2020 11:47

    Brevissimo preambolo: se avete voglia, in questo nuovo tempo ampio/coatto, di interrogare un dizionario storico della lingua italiana, troverete che “comunicazione” nel suo significato originario, stava per “accomunamento”. Comunicare significa, in buona sostanza, accogliere chi riceve la comunicazione ed escludere chi ne rimane fuori. Interrogata su questo proposito (e confortata dagli studi di un esperto come Giacomo Devoto) il vocabolo italiano deriva dal latino communicatio, e condivide con comunicare una relazione con communis – a propria volta derivante da cum munis- il cui significato è “che subisce una autorità insieme”. Interessante è anche notare che la radice di munis è la stessa di moenia, cioè mura, “segnali dei limiti cui si arresta l’autorità”. 

    L’etimologia di comunicazione la correla semanticamente all’azione di mettere insieme sotto una stessa autorità, entro gli stessi confini, di accomunare. Se la comunicazione accomuna, nel momento stesso in cui lo fa separa i comunicanti dagli altri, da quelli che non partecipano alla comunicazione. Questo è ciò che l’etimologia porta alla comunicazione: la sottolineatura che ogni atto di accomunamento è anche un atto di separazione. Non è quindi senza significato, ovviamente, che accomunamento venga riportato nel vocabolario come significato “antico” di comunicazione. Il tempo si è incaricato di cancellarne le tracce con le successive trasformazioni semantiche per far trionfare la comunicazione come trasferimento, trasmissione, scambio di informazioni. Questo oblio dell’antico significato non è stato certo casuale. La modernità ha accantonato il senso originario, ed è certo legittimo considerare la comunicazione a trasferimento; lo è meno se, facendo questo, perché si riduce a unica, istituzionalizzata, una casistica molto più complessa che è fatta anche del libero dispiegarsi delle relazioni sociali nella comunicazione e ne distorce un poco le caratteristiche più complesse. Le scienze sociali se ne sono impadronite, l’ingegneria e la cibernetica hanno fatto lo stesso quando la complessità delle nostre relazioni sociali mette in crisi l’ordine consolidato che le regola, diventando il lineamento caratterizzante la condizione postmoderna (Jean-François Lyotard docet).
    Ma torniamo dai massimi sistemi, al minimo comune multiplo nostro: separati per decreto, viviamo il paradosso di separare a nostra volta attraverso un evento collettivo. Ciò è vero considerando il significato “post-moderno” del termine; mentre invece, considerandone l’antichità, esso appare del tutto verosimile e condivisibile. Siamo tornati, attraverso un modo “antico” di comunicare, a riconoscere la parte originaria (e la partizione originaria) di ciò che conserviamo nella nostra condizione “postuma” (o, come direbbe Nietzsche, di epigoni). Il luogo architettonico, per ciò stesso, diventa uno strumento allegorico in piena regola e che funziona a pieno regime: il balcone, cioè quella struttura architettonica costituita generalmente da una “struttura sporgente a sbalzo dalla facciata dell’edificio, in modo da formare un ripiano accessibile attraverso una o più porte-finestre e circondato da un parapetto in muratura o balaustrata, o da una ringhiera metallica” (qui, come nel caso precedente, si cita dall’edizione online del Vocabolario della Lingua Italiana dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana). L’etimologia (dal longob. balk, “trave, palco di legname”) rimanda al contestuale, e teatrale, “palco”. E quest’ultima è la sua più recente “ragione sociale”.
    Ah, il balcone… solo architettura? No, almeno per noi italiani. Il balcone suggerisce le più svariate ipotesi d’impiego: dal topo d’appartamento emulo di Spiderman, a Romeo e Giulietta, al balcone di Piazza Venezia (negletta memoria) alla loggia di S. Pietro da dove riecheggia il fatale “gaudium magnum” dell’avvenuta elezione del successore di Pietro… Insomma, ce n’è per tutti i gusti (e vertigini). Ed è naturale che questa estensione esposta all’aperto del nostro spazio quotidiano riemergesse in tutta la sua popolare fortuna e morfologia di piccolo palcoscenico condominiale per farlo diventare luogo e scenario di un fenomeno collettivo musicale che ha contribuito non poco a risollevare gli animi immagoniti del popolo dei cantanti per eccellenza. Noi.
    Per molti, dato il regime di quarantena suggerita, raccomandata o coatta, è stato un salto qualitativo di socializzazione: dal bancone (gli imperterriti dell’aperitivo) al balcone: cambi una consonante e passa la paura. Insomma, un po’ “Romeo&Giulietta”, un po’ chiacchiere col telefono senza fili, juke box a battenti spalancati, ma anche festival della fantasia (e liberatoria fine del concetto di canto intonato). Si canta tanto pe’ canta’, perché ci va, perché ci si organizza, perché a fare caciara è sempre bello se sono in tanti. E in fondo, come cantava l’immortale Petrolini, “per far la vita meno amara”.
    Questo “flash-mob che esclude il piano terra e il “basso”, diventa la piattaforma massmediale, una radio senza fili, che trasmette canzoni, musiche, il tutto condito da ri-arrangiamenti occasionali o ben studiati, vocalizzi più o meno improbabili, cori da stadio o da reunion degli alpini, lasciando che il flusso dei decibel percorra libero da mascherine e distanze minime di sicurezza, l’ambiente esterno, più silenzioso e più purificato, però, dallo smog del traffico abituale… Ci vuole poco per sognare, e anche meno per mettersi a cantare, comunque vada e chiunque ascolti (più o meno apprezzando, se non la performance, almeno l’intenzione).
    Questo contagio (o cantagio?) sonoro nazionalpopolare è stato un po’ quello che dell’Italia è stato trasmesso altrove.
    Basta sporgersi dalla balaustra di una melodia per invitare o partecipare al gioco. Lo spontaneismo, per una volta, ha buon agio nel liberare angosce e tormenti altrimenti repressi nel “picciol spazio” –direbbe il poeta- delle case, degli appartamenti, nei quali la felicità è diventata più di prima inversamente proporzionale ai metri quadri calpestabili e/o cantabili. In fondo il balcone, come dicevo, non è una piattaforma, e il nostro “canto libero” non è l’archetipo dello streaming wi-fi?
    Il balcone torna ad essere la versione vintage dei social iper-moderni che attualmente ospitano i nostri “altrove” così come le identità acconciate per essere gradite al party virtuale dove non ci si contagia ma certo ci si annoia un bel po’. Un po’ come l’etimologia di comunicazione suggerisce, n’est-ce-pas?
    Progettavamo di colonizzare Marte, e oggi ci accontenteremmo di piantare la bandierina dell’aperitivo alla meta di una gita fuori porta… È proprio il caso di dire il macrocosmo nel microcosmo. Anomico per cliché, l’italiano, puntando sull’altro e parallelo cliché, deve trovare il modo di evadere la regola che lo costringe. Fatta la legge, trovata la performance che la inganna. Senza necessità di studi giurisprudenziali, senza ricorso alle sentenze della Cassazione, Corte Costituzionale o Consiglio di Stato, si opta per l’assise sul palco –in nome della libertà di espressione (garantita dalla Costituzione) e di stonatura (non garantita, però, dai Padri Costituenti) ma di certo aborrita dai cultori e tecnici del canto: quelli fuori dal coro o, magari, la maggioranza rimasta silenziosa –chissà…
    Quello che emerge è, di fatto, la con-cordia. Parola che certo, si presta anch’essa a diverse “interpretazioni” (il legame tra ermeneutica e tecnica vocale qui è necessario). Se prendiamo un grande poeta come Quinto Orazio Flacco, troveremo nelle sue Epistulae metricae una locuzione che è passata in proverbio: “concordia discors”, propriamente una “concordia discordate” –il che ci descrive benissimo con duemila anni di anticipo su qualsiasi sociologo “à la page”. Nella fattispecie, il verso integrale recita (e non lo dico a caso, come capirete leggendo l’altro microsaggio che segue): “quid velit et possit rerum concordia discors”, cioè “quale sia il significato e il potere dell’armonia discorde” –riferendosi alla teoria di Empedocle (il primo dei due siciliani di cui parlerò qui e poi altrove) che concepisce l’universo come lotta perpetua fra due principî opposti: Armonia (“Philotes”) e Discordia (“Neikos”). Per non affaticarsi sulla Forza e il suo “Lato oscuro” (come farà invece l’empedocleo George Lucas) la locuzione, proverbialmente, significa un’armonia che risulta da una discordanza di opinioni, un contrasto positivo di idee o sentimenti (quindi, se solo per un momento avete intravisto una metafora del nostro Parlamento, l’accezione di positività deve farvi subito ricredere).
    Se interroghiamo il nostro maggiore linguista e performer poetico-vocale, ossia Dante Alighieri, troveremo che il vocabolo indica nel suo valore fondamentale “uniformis motus plurimum voluntatum” (“conformità di sentimenti, di voleri”; Monarchia I XV 5) l’armonia spirituale che, nel Convivio (XIII 1 e 7) è fonte di amicizia. Concordia assoluta delle anime che si manifesta nel loro canto monotono e uniforme (“una parola in tutte era e un modo / sì che parea tra esse ogne concordia”; Purgatorio XVI, 21-22). E siccome il canto e il Purgatorio qui sono davvero ad hoc, cerchiamo di capire meglio.
    In effetti, dal punto di vista dell’escogitazione teologica, il Purgatorio può ben essere considerata la “terza via” (con molto anticipo su quella economica di Anthony Giddens) che consente, almeno a coloro che ne sono ritenuti degni dalla volontà divina, di risolvere l’eterno conflitto empedocleo (e lucasiano) con la specifica di espiare i peccati in questo “inferno a tempo” (magistrale definizione di Jacques Le Goff) percorrendone le “cornici”, veri e propri “balconi” che caratterizzano la morfologia immaginata dal Poeta. Il quale, ospitato nei diversi “flash mob” episodici del suo iter, ne condivide e ne riflette limiti e aspirazioni, pentimenti ed espiazioni, a volte inclinando, come nel caso della cornice dei superbi, l’immedesimazione verso un sentimento che onestamente confessa di provare. Immedesimazione, tornando a noi, che abbiamo provato o possiamo provare verso la “performance ai tempi del COVID-19” (mi perdoni Garcia Marquez) che ci consente di partecipare ed essere resi partecipi nel senso in cui l’antico significato di comunicazione ci invita a considerare. E chi ne resta, quindi, “fuori”. Mai stata così esemplare la duplice portata semantica dell’avverbio e preposizione: se non sei “fuori” sul balcone, sei “fuori” dalla comunicazione. Si può anche essere “fuori” in senso cinematografico (“fuori campo”) o in un senso popolar-psichiatrico (nel senso di “matto”). In termini spicci: chi c’èc’è –e si vede e si sente. Chi non c’è, lo è altrettanto in termini negativi. Questa condivisione “en plein air”, insomma, mette in moto dei meccanismi che, altrimenti, non saremmo portati a considerare, e che si riflettono nell’habitus sociale odierno riconfigurandone limiti e potenzialità.
    Va inoltre osservata, e come poteva non mancare, la declinazione “patriottica” (o presunta tale) che ha fatto accostare questo fenomeno alle vittorie dei mondiali di calcio (per esempio) che comunica il messaggio che “uniti si vince” e che, quando si vince di solito sono molti a festeggiare perché sul carro dei vincitori c’è molto più posto di quanto non ne offrano le transenne dell’aeroporto dove gli inviperiti delusi –non sempre numerosi- attendono di consumare le scorte di pomodori e altri vegetali scagliandoli contro i maramaldi che hanno deluso, con la loro sconfitta, un’intera nazione. Nel rovesciamento metonimico di queste due situazioni “i molti per, o contro, i pochi” e i “pochi al posto dei molti”, riemerge Empedocle e il suo dilemma essenziale: amore, armonia oppure odio, discordia? Una questione amletica, che suggerirebbe al principe danese il rifugio della follia, nell’essere “fuori” e considerato “fuori” dalla comunità del regno di Danimarca. A patto che ciò serva a consumare la propria vendetta, come ogni “revenge tragedy” prescrive. La “vendetta”, al netto della declinazione sanguinaria del termine, consisterebbe nell’osservare la prescrizione, piuttosto che “evaderla” non dal balcone, ma contravvenendo al divieto di prossimità con gli altri.
    Tornano a proposito alcuni versi di Saper cantare non basta di Lucio Dalla e Francesco De Gregori:

    Proprio all’angolo della finestra c’è un bel quarto di luna
    e stelle come se piovesse dal cielo una fontana
    sarebbe da venirti a prendere e portarti a ballare
    se non l’avessimo già fatto, se non avessimo da fare.

    Ci vuole orecchio e pazienza
    per questa piccola voce,
    muscoli e competenza
    anche per portare la croce…

    Dalla e De Gregori confortano i performer improvvisati di questi giorni: saper cantare non basta; però aiuta (come le gelèes della pubblicità) a sentire in questa lontana vicinanza un dovere e un diritto essenziali che coincidono nella garanzia propria e altrui a un’immunità non solo dal contagio ma da una socialità discorde che alcuni pensano come un caso di concordia. (il popolo degli aperitivi che continuava a brindare come nulla fosse, come l’orchestra del Titanic a suonare mentre il colosso affondava) Un aperitivo canoro si può consumare anche senza essere appiccicati l’uno all’altro come un live allo stadio prescrive, no?
     

    1. Continua

  • SANREMO FAMOSI

    data: 13/02/2020 20:33

    Come per la Nazionale calcistica, il Festival di Sanremo opera una prodigiosa metamorfosi: un popolo intero diventa produttore discografico, direttore artistico, paroliere, arrangiatore e, infine, anche interprete dei brani presentati. Il tutto, naturalmente, perlopiù condito da una visione critica, indice di una competenza che si accompagna benissimo all’immagine dell’Italia paese del “belcanto” (sic!). Paradossalmente, la cosa di cui si è più lamentata l’assenza quest’anno, come sempre, secondo alcuni melomani vecchio stile. Ma, lasciando da parte questo irrisolvibile nodo, torniamo alla struttura del festival, la cui meccanica primaria prevede un disciplinare che dal produttore al consumatore/ascoltatore si articola in un processo la cui origine, eccetto il lavoro di pre-produzione delle case discografiche, ha come origine la Commissione artistica, il cui compito consiste nella scelta delle canzoni. Il giudizio è insindacabile e inappellabile, come è noto, e certo molti dei commenti malevoli saranno stati più o meno inopinatamente pubblicati da coloro che sono stati esclusi (“Non sempre si può vincere, / bisogna saper perdere”…). Ma ci sta, sono regole del gioco anche quelle non scritte e bisogna farci l’abitudine oltre che la tara.
    Diciamo, quindi, che secondo la Commissione le canzoni finaliste sono il meglio di quanto presentato dai produttori discografici per questa edizione 2020, la settantesima.
    Se il paragone numerologico col codice biblico non è troppo sconnesso e forzato, l’edizione numero 70 del Festival verrebbe e coincidere con l’Apocalisse se la prima è da considerarsi, giustamente, la Genesi.

    IL LAURO DI ACHILLE (E D’ANNUNZIO C’ENTRA, ECCOME!)
    Ho deciso di concentrare le mie osservazioni su alcuni artisti e i brani da loro presentati, in una sorta di saggio “a campione” che spero possa dare un’idea del panorama che è stato offerto alla platea dell’Ariston e a quella dei radioascoltatori e telespettatori, senza che necessariamente le scelte coincidano col gusto di chi scrive.
    Facciamo un’ipotesi: diciamo che la piccola co-protagonista di Balocchi e profumi non sia spirata tra le lacrime di pentimento della sciagurata madre-Medea, più Emma Bovary, a dire il vero, che vindice maga colchica. Diciamo che questa bambina sia sopravvissuta, elaborando il dramma infantile in un’ambiguità androgina che puntualmente configura una tensione definibile oggi come “politica dei generi” che avrebbe certamente incuriosito Foucault e la questione della “politica dei corpi” o dell’uso del corpo, suscitando al contempo la rancorosa censura conservatrice che relega nel gulag delle perversioni contro natura tale atteggiamento. Va detto, ci vuole del coraggio a sintetizzare tutto questo in una performance ispirata nettamente alla body art in chiave canora. Intendo le esibizioni di Achille Lauro.
    Una canzone al veleno, letteralmente, quella di Achille Lauro, che tradisce citazioni nell’ipotesto –o ipogeo- partenopeo, di noblesse repertoriale come Indifferentemente di Umberto Martucci e Salvatore Mazzocco (1963):

    (…)
    E ride pure
    Mentre me scippe ‘a pietto chistu core
    Nun sento cchiù dulore
    E nun tengo cchiù lacreme pe' te
    Famme chello che vuò
    E damme stu veleno
    Nun aspettà dimane
    Ca, indifferentemente
    Si tu mm’accide i’ nun te dico niente.

    Laddove lo stesso titolo (provocatoriamente ispirato allo slogan fascista) è l’equivalente dell’avverbiale napoletano che dà il titolo alla canzone. Né si può dimenticare, nel repertorio, Vipera di Luciano Virgili (1952) che pure è stato interprete di Balocchi e profumi:

    Ella portava un braccialetto strano
    una vipera d’oro attorcigliata
    che viscida parea sotto la mano
    viscida e viva quando l’ho toccata
    quand’ella abbandonavasi fremente sul mio seno
    parea schizzasse tutto il suo veleno
    Vipera vipera
    sul braccio di colei
    c’oggi distrugge tutti i sogni miei
    sembravi un simbolo
    l’atroce simbolo
    della sua malvagità.
    (…)
    il suo bacio che mi rende insano
    la sua perfidia che mi fa piacere
    e quando mi divincolo ribelle a questo amore
    qualcosa mi si annoda in fondo al cuore.

    (…)

    Tutto questo può essere accettabile, ma questo gioco di rimandi allusivi non viene dimentica nemmeno la Nannini di Fotoromanza:

    quest’amore è una camera gas
    (…)
    questo amore è una lama sottile
    (…)
    quest’amore è un gelato al veleno…

    Qui la citazione si fa più stringente, sebbene camuffata dalla soluzione, pure suggestiva e analogamente organolettica del dire: “l’amore è panna montata al veleno”. Una canzone che si muove dunque con moto pendolare fra passato e presente, agglutinando nuove e vecchie metafore in un contesto performativo che distrae dai contenuti in sé concentrando l’ascolto nello spazio puramente visivo. E qui è proprio l’uso del corpo che sopravanza e carica di significazione il testo del brano. Artaud ci sarebbe andato a nozze, magari con Andy Warhol sottobraccio a chiacchierare nel foyer nell’intervallo tra la prima e la seconda parte dell’apocalisse che chiude una certa idea di coerenza all’ideale di decoro borghese della kermesse sanremese.
    Ma la sublime impostura è la tessitura del brano, evidentemente debitrice, soprattutto nel chorus, all’archetipo della “vita spericolata” made in Zocca del classicissimo Vasco d’antan. Il tutto, come se non bastasse, con annesso chitarrista alla “diavoletto” Gibson nei panni, altrettanto impertinenti, di Angus Young, “bad boy” per definizione coi suoi AC/DC.
    Certo, la memoria più educata storicamente, fa collimare questa neo-gidiana mise en abyme con quelle di Bowie, Freddie Mercury, Elton John lo stravagante, un pizzico di Marilyn Manson –che non guasta mai- ed è tutto plausibile. Ma non è tutto qui. A mio avviso, aggiungerei come ultima fattispecie il personaggio di Frank-N-Furter in The Rocky Horror Picture Show, la sua maschera sadiana di noia incrudelita da tormenti che prima di infliggere si è inflitto, in un sabba di gioia e rivoluzione pronta a rieditare le 120 giornate di Sodoma. La sfilata dedicata per ciascuna serata a S. Francesco, David Bowie, la Marchesa Casati, Elisabetta I (la “regina vergine” sulla quale ha scritto un libro importante Frances Amelia Yates dal titolo Astrea. L’idea di Impero nel Cinquecento, Torino, 1978) il tutto con una spinta “punk” che ricorda molto da vicino i Sex Pistols più genuini, non fosse altro per la necessità di dimostrare che una canzone ha bisogno di un contesto performativo che ne espanda provocatoriamente il significato –dice che questo artista è molto più complesso di quanto non appaia, e che il processo di costruzione dello spettacolo va ad approfondire –attraverso figure eterogenee ma appartenenti trasversalmente all’immaginario collettivo di generazioni diverse- ad una forma di ricapitolazione che assume i tratti di un’allegoria del rapporto fra potere e sottomissione. Se qualcuno si ricorda del saggio di Camille Paglia, Sexual personae. Arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson (Torino, 1993) le cose saranno più chiare e tutte catalizzate dalla connotazione di “decadenza”. Qui, secondo me, si gioca l’incrocio più intelligente e ambizioso: connettere decadenza, riproducibilità dell’arte, feticismo (merceologico e sessuale) e performance.
    Ma sopra ogni cosa, quello che per me conta è che dai tempi di D’Annunzio non si assisteva nel nostro spazio socio-culturale ad una modalità così potentemente provocatoria che sembra ottemperare ai principi fondativi del modo di essere, di scrivere e di vivere del poeta pescarese. Opto per la maggiore simpatia di Achille, la cui intelligenza nel leggere e interpretare la società di oggi è stata ignorata dalla maggior parte dei commenti –spesso omofobi, gratuiti, o semplicemente idioti- che hanno accompagnato i suoi quattro show sanremesi. La cosa più interessante di questo è stato rovesciare l’immagine del machismo destroide dannunziano (ancora molto amato nel nostro Paese, piuttosto che la qualità artistica del poeta) nel suo esatto opposto.

    AMARE TUTTO, E SAPERLO DIRE
    Tosca ha imparato l’arte della recitazione, e dunque l’aspetto attoriale dell’interpretazione di Ho amato tutto, che pure si declina a sinonimo nell’arte della canzone e la sua performance, entra a pieno titolo nella sostanza del brano da lei esemplarmente eseguito. Ha imparato, e imparato bene, magari rubando con gli occhi e tutti gli altri sensi dal compagno Massimo Venturiello, attore e regista di calibrata ed efficace misura, che certo deve averle trasmesso questo carattere stupendamente emozionante di un “recitar cantando” che a me ricorda, in confronto e senza offesa, l’arte drammatica di Maria Callas, alle cui doti meravigliose di canto doveva aggiungersi nella somma una perizia d’attrice incredibilmente efficace che fa da trampolino alla voce, persuadendo oltre che seducendo. “Ho amato tutto” non è un titolo, ma una confessione, senza mezzi termini, senza malinconie inconsistenti, ma tutto in primo piano e in una luce senza sconti. Non so perché, ma ascoltandola mi tornava nella mente la Gelsomina de La strada, cioè quella innocenza originaria e intoccabile che tuttavia si sazia di vita senza risparmio e senza nulla lasciare d’intentato, nel bene e nel male, pagandone il prezzo.

    IL BOMBAROLO 2.0
    Anastasio. Figlio più degli improvvisatori e stornellanti nostrani che di Eminem, la sua iperbolica e funambolica virtus creativa lo porta a uno scontro diretto con la realtà più spigolosa e meno amabile della nostra epoca, che di cose inguardabili e indicibili non ha nulla da invidiare alle epoche del passato. Ed è questa la sua meta, questa la sua patria d’origine e putativa.
    Se non fosse eccessivo, io penso a una certa vis che apparteneva a Luigi Tenco e Faber, in primis. Certo, la grana linguistica e l’impasto sono diversi: rigore da standard stilistico nella scrittura di Tenco, ma non di meno capace di sferzanti ritratti; punti di vista rigorosamente “in direzione ostinata e contraria”, marchio speciale della scrittura deandreiana. Sintesi ingenerosa, ma giusto per cogliere alcuni tratti “ereditari” che poi si svolgono nella sopraffazione della pausa, elogio dell’oratio ligata alla frequenza del respiro che diventa meccanica del pensiero in Anastasio. L’ironia si fa rabbia, le melodie in bianco e nero virano nel rock blues pulsante di altrettanto furore di Rosso di rabbia.
    Nato nell’ultima sbavatura del secolo, il cantautore sorrentino è cresciuto completamente nel nuovo millennio, e tuttavia sembra essersi portato dietro il fardello del cosiddetto secolo “breve”, che a tutti invece sembra infinito, soprattutto nello sciame delle conseguenze che ne hanno accompagnato l’epilogo.
    Il riff, naturalmente, è la versione rivista per l’occasione in chiave rock-blues di Rock is dead di Marilyn Manson...


    FREE ANDROMEDA NOW!
    Andromeda liberata. Ruggiero, Angelica e l’Orca. Nina Simone “I want a little sugar in my bowl”…

    Forse ho solo bisogno di tempo forse è una moda
    Quella di sentirsi un po’ sbagliati
    Ci penso qua sul letto mentre ascolto da ore
    La solita canzone di Nina Simone…

    Personaggio quanto mai raro nel panorama musicale “popular”, Andromeda rappresenta uno dei tratti caratteristici della trasformazione del simbolo che ha interessato lungamente soprattutto le arti della poesia e quelle figurative. Liberata da Perseo, da poco trionfatore su Medusa, essa diviene un personaggio letteralmente iconico nella tradizione pittorica occidentale: Piero di Cosimo, Paolo Veronese, Rembrandt, Tiziano, Rubens, Filippo Lippi, Edward Burne-Jones, Gustave Moreau, Gustave Doré, Ingres, Böcklin fino a Tamara de Lempcika ne hanno indagato e analizzato ogni singolo dettaglio. Né si può dimenticare che nel Furioso, Ariosto nel libro X° ne ripercorre la vicenda facendo del saraceno Ruggiero il sostituto di Perseo e Angelica quello di Andromeda., ispirandosi peraltro ai poemi omerici, Virgilio e Ovidio su tutti.
    Allora la domanda è: per quale ragione una tale raffinatezza d’ispirazione? Va detto che Elodie assomiglia molto alla tipologia femminile della Lempcika, e forse è quest’ultima che davvero bisogna guardare per capire.
    Il “saraceno” Ruggiero-Mahmood è responsabile della scrittura di questa epo-melopea (composta e prodotta da Dardust) nella quale Elodie, naturalmente, si riscopre Andromeda & Angelica.
    Quale femminilità, quindi, oggi rappresenta Andromeda? Vittima incolpevole degli dèi, nel mito, oggi –quando gli dèi non ci sono più- rimane essenzialmente “vittima” oppure rappresenta una delle tante donne che si devono redimere “all by miself”. In effetti, nel chorus, questo viene dichiarato abbastanza palesemente:

    La mia fragilità è la catena che ho dentro ma
    se ti sembrerò piccola non sarò la tua Andromeda…

    In effetti, nella tela della Lempcika Andromeda è sola: né mostri, né cavalieri antichi o rinascimentali che svolgano il loro ruolo di liberatori, impossibile, in questo immaginario, alle sole forze di una donna. Una donna sola con la sua femminilità. Essere fragili e forti non è più una contraddizione, perché tanto la forza quanto la debolezza non sono arbitrariamente avocabili alla prospettiva patriarcale. Io vedrei invece una rinascita del “matriarcato” techno-pop, naturalmente aggiornato agli anni Duemila, ma in fondo molto sollecitato anche da quanto in questo Festival si è visto e ascoltato a proposito della violenza sulle donne, da Rula Jebreal in poi, con l’immancabile corollario di stupidità verso un discorso ineccepibile, duro e umanissimo.
    E mentre “lucevan le stelle”, alla fine, viene annunciato il vincitore: Diodato. Un nome, un destino. Biblico, naturalmente, come tutto il resto.
    Molte altre cose si sarebbero potute dire e annotare, naturalmente, e non è nemmeno detto che quanto qui riportato sia condivisibile. Ma, tornando al paragone iniziale, siccome ognuno di noi è il commissario tecnico della Nazionale, non ho fatto altro che calarmi nella parte, e proporre la mia “formazione-tipo”.
     

  • TANTO PE' CANTA’
    8) L'IMMENSITA'
    FRA GIORDANO BRUNO,
    PASCAL E BATTIATO

    data: 14/11/2019 13:11

    Con L’immensità, Don Backy porta il nostro sguardo verso l’universo e soprattutto a contatto con la paura, poetica e terribile, dell’individuo posto dinanzi alla sua immensità e la sua misteriosa natura, quasi fosse una sorta di moderno Giordano Bruno (1), non più colpevole nel suo proclamare l’esistenza di mondi infiniti, ma modernamente calato nel profilo di un uomo innamorato della domanda più che della risposta da trovare. Come si sa, lo “spazio” si chiama così perché ce n’è molto…
    Si tratta di un pezzo che esercita un proprio fascino, dalle intense atmosfere della melodia che richiama la musica classica per l’uso dell’orchestra e nella quale la dizione del cantante, precisa e quasi mai eccessiva, si colloca con naturalezza, permettendo a tutto quello che è al di fuori dall’interpretazione dell’artista, cioè i sentimenti e i pensieri di chi ascolta, di aprire lo sguardo allo stupore di fronte alla profondità del cosmo che si avvicina alla nostra percezione.
    Ci troviamo dinanzi ad un esempio di canzone pop che coniuga in modo piano “romantico” ed “esistenziale”, nella quale i furori visionari dell’eretico di Nola sono attenuati dalla consapevolezza di un Pascal che in uno dei suoi Pensieri formula la celebre sentenza: “Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi sgomenta” (2). Si tratta di una riflessione che già i latini avevano definito “horror vacui”, la paura che il vuoto suscita nell’uomo, la cui esistenza per definirsi ha bisogno di punti di riferimento concreti. Suggestioni riprese e ampliate in modo straordinario da Giacomo Leopardi in una celebre poesia, L’infinito, appunto, il cui ultimo verso dà il titolo a questa scheda. E come autore di testi, Leopardi non è secondo a nessuno.
    Questa tendenza esistenziale non rimane isolata nel mondo della canzone, anzi troverà in Franco Battiato (3)  un costante esploratore di “mondi infiniti e lontanissimi”. Battiato inserisce nei suoi testi numerosi riferimenti colti, citazioni da pensatori che sembrerebbero inappropriati per una canzone (Schopenhauer, Nietzsche, fra gli altri) e quindi capace di pensare alla canzone come a un mezzo per elevare la riflessione che invece in questa canzone parte da una constatazione semplice e tuttavia intrigante: l’universo è infinito e nessuno può sperare di conoscerlo fino in fondo. Questa constatazione colloca il punto di vista in una ben centrata visione che mette in primo piano il mondo come un elemento fra i molti dell’universo, non più centro di esso come invece ritenevano gli antichi. Va infine annotato che l’anno dopo questa passeggiata nel cosmo, nel mondo del cinema Stanley Kubrick ci darà la visione e l’ascolto definitivi sul tema con la sua “odissea” spaziale. Per chiudere, naturalmente, come dimenticare l’immancabile “Figli delle stelle” dell’ex Prog votato alla “disco” Alan Sorrenti –corregionale del Giordano di cui sopra?

    (1) Giordano Bruno (Nola 1548 – Roma 1600) entra a diciotto anni nell’Ordine domenicano e ne esce nel 1576 per sospetto di eresia; trascorre un lungo periodo di vagabondaggi per l’Europa fino alla sua morte. A Ginevra si converte brevemente al calvinismo, fuggendo poi per contrasti con le autorità locali in Francia, a Tolosa e Parigi dove pubblica le sue prime opere dedicate alla mnemotecnica e la commedia in italiano Il candelaio. Si rifugia in Inghilterra al seguito dell’ambasciatore francese, a Oxford e Londra dove pubblica nel 1584 i suoi dialoghi italiani (La cena delle ceneri, De la causa, principio e uno, De l’infinito universo e mondi, Spaccio della bestia trionfante); Cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’asino cillenico, Degli eroici furori (1585). Fu in seguito a Wittenberg, Praga, Helmstaedt e Francoforte. Dopo un soggiorno a Zurigo, rientra a Venezia chiamato dal nobile Mocenigo che, insoddisfatto del suo insegnamento, lo denuncia come eretico all’Inquisizione. Viene così trasferito a Roma dove trascorre in carcere otto anni. Lungamente interrogato, rifiuta di ritrattare le sue dottrine e viene infine condannato al rogo come eretico e arso vivo in Campo dei Fiori a Roma. La fermezza dimostrata durante il processo e il coraggio nell’affrontare la pena capitale ne fecero un martire del libero pensiero.
    (2) Blaise Pascal (Clermont 1623 – Parigi 1662) scienziato e filosofo, riceve i rudimenti dell’educazione dal padre, insigne magistrato e studioso di problemi fisici e matematici. Trasferitosi a Parigi col padre, ha modo di approfondire i suoi studi, distinguendosi precocemente nello studio della matematica, della geometria e della fisica, pubblicando a sedici anni un fondamentale trattato, il Saggio sulle coniche. Nel 1646 si converte al giansenismo e al suo modello di vita austera ispirata ai precetti di Sant’Agostino. Nascono i suoi interessi più propriamente filosofici dedicati allo studio dell’uomo che troveranno luogo nella sua opera più celebre le Pensées (Pensieri, 1670) intese a combattere il libertinismo e lo scetticismo oltre all’indirizzo razionalista di tipo cartesiano.
    (3) Per maggiori approfondimenti su Battiato e il suo mondo artistico, si vedano le Unità…
     

    SCHEDA CANZONE

    TITOLO: L’IMMENSITÁ
    45 GIRI: L’IMMENSITÁ / NON PIANGERE STASERA
    ANNO: 1967
    AUTORE/I: Parole: Don Backy, Mogol; Musica: Detto Mariano
    INTERPRETE: Don Backy (pseudonimo di Aldo Caponi)
    SITO UFFICIALE DELL’ARTISTA: www.donbacky.it


     

  • TANTO PE' CANTA’
    8) E TI VENGO A CERCARE
    (MA NON TROVARE)

    data: 01/11/2019 22:36

    Battiato non scrive canzoni d’amore nel senso classico, sia dal punto di vista testuale che musicale del concetto, anche quando a noi sembrerebbe che egli lo faccia. Egli è piuttosto concentrato in una meditazione che si organizza nella struttura ritmica e tematica del brano, lasciando alle parole il compito di segnalare la necessità di esporre ed esplorare gli angoli meno conosciuti di una situazione. In questo egli è sincero, anche se i turbamenti del cuore non lo lasciano indifferente e non gli suggeriscono parole facili da accettare, anche se a volte sembra così difficile legare insieme i pensieri e comunicarli a qualcuno.

    E ti vengo a cercare
    anche solo per vederti o parlare
    perché ho bisogno della tua presenza
    per capire meglio la mia essenza.

    Addirittura si potrebbe sospettare, e magari indovinare, che questo “tu” sia oltre ogni cosa o persona che possiamo conoscere vicino a noi, che ci sia l’invito a cercare altrove, magari verso mondi lontanissimi ed entità che potremmo definire, se non Dio, almeno il “divino”.
    Se questa ipotesi può essere valida, ancora più stupefacente è quello che segue. Si rimane molto colpiti da questo avvicinamento fra un livello espressivo “colto” e un altro “popolare”, quantomeno insolito nella tradizione lirica e musicale italiana:

    Questo sentimento popolare
    nasce da meccaniche divine
    un rapimento mistico e sensuale
    mi imprigiona a te.

    O forse, più semplicemente, il “sentimento popolare” può essere un concetto che rende più immediata la comunicazione, la rende efficace sia nei confronti di un pubblico esigente sia a quello più abituato alla dimensione “popular” (se non proprio “pop”) delle parole che descrivono i sentimenti umani nel loro fondamentale significato, quello che tutti possono comprendere. Lo stupore, semmai, nasce dall’improvviso ingresso sulla scena delle “meccaniche divine” che apre quella prospettiva che si annunciava nella prima strofa, e che fa del viaggio e della ricerca un’esperienza molto più complessa e totale della ricerca di un amore, per quanto questo possa essere importante per ciascuno di noi. Qui ancora una volta, come sempre accade nella scrittura e nella musica di Battiato, le culture si confondono, non è possibile adottare una chiave di lettura unica capace di escludere le altre o le possibili altre. E ancora, è possibile pensare che si tratti di un viaggio interiore, di una scoperta dentro di sé di ciò che invece, e invano, si cercherebbe fuori da sé:

    Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri
    non accontentarmi di piccole gioie quotidiane
    fare come un eremita
    che rinuncia a sé.

    Questo secolo oramai alla fine
    saturo di parassiti senza dignità
    mi spinge solo ad essere migliore
    con più volontà.

    Chi vuole percorrere la vera strada, sembra suggerire Battiato, deve percorrere una strada interiore, fatta di rinuncia, di ascetismo e di silenzio: nulla delle cose mondane può essere interessante per questa saggezza che invita a puntare lo sguardo altrove, verso un altro orizzonte che altrimenti non potremmo nemmeno intuire:

    Emanciparmi dall'incubo delle passioni
    cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male
    essere un'immagine divina
    di questa realtà.

    E ti vengo a cercare sembra per queste ragioni un convincente manifesto di adesione alla rinuncia, scegliere qualcosa che si oppone in modo netto e senza compromessi ai desideri che sono indotti in noi dalle mode e dai bisogni che alla fine non risultano davvero necessari e vitali. Come si diceva all’inizio, si tratta di una canzone d’amore che è fuori dagli schemi abituali perché invita soprattutto a rinunciare all’apparenza e alle sue seduzioni che facilmente trovano posto nei nostri sentimenti.

    SCHEDA CANZONE

    TITOLO: E TI VENGO A CERCARE
    ALBUM: FISIOGNOMICA
    ANNO: 1988
    AUTORE/I: Parole: Franco Battiato; Musica: Franco Battiato
    INTERPRETE: Franco Battiato


     

  • TANTO PE' CANTA’
    7/ MILANO E VINCENZO
    E MILANO SENZA VINCENZO

    data: 22/10/2019 17:45

    Non è una storia sentimentale, magari immersa in una qualche forma di realismo come il titolo potrebbe suggerire. Si tratta invece di un atto d’accusa, sospeso fra rabbia e amore, che minaccia gesti violenti, prese di posizione radicali. Quando amore e rabbia combattono per la vittoria, è sempre il giocatore più gentile quello che vince. Autore sensibile e profondo, Alberto Fortis è capace di queste polemiche come di altrettanto dolci malinconie.
    Qui diciamo che prevale l’aspetto dissacrante, che suggerisce all’ira versi di odio e di pentimento, dove nessuno dei due sentimenti sembra prevalere fino in fondo, quanto piuttosto trovare uno spazio nel quale entrambi possano convivere nella melodia che ne accompagnalo svolgimento.
    La storia racconta di un incontro (umano e artistico) mancato tra un produttore musicale, Vincenzo (Micocci) e un artista esordiente, Fortis appunto, che costringe il nostro autore a un periodo di lontananza, da una capitale all’altra, da Milano a Roma e ritorno, dove l’equilibrio e la creatività sembrano risentire dei chilometri e delle diverse atmosfere. Per un lombardo come Alberto Fortis, la calma e monotona, a volte stanca, vita musicale di un’importante casa discografica come la RCA italiana (diretta appunto da Micocci ed Ennio Melis con sede a Roma) sarà ben presto apparsa troppo opprimente tutt’altro che creativa. Si può immaginare quale delusione stia alla base di una libertà artistica che diventa, col passare del tempo, una specie di prigionia imposta dalle regole della produzione e non dall’ispirazione dell’autore: la casa discografica prende tempo e ritarda la produzione e la pubblicazione del disco.
    Il progetto discografico non arriva alla conclusione, portando il nostro protagonista su posizioni ostili, fino alla rottura dei rapporti con la RCA e il ritorno nella più accogliente Milano, città adottiva del cantante originario di Domodossola, di nuovo nel cuore dell’efficienza e del rispetto del lavoro altrui, cosa che evidentemente a Fortis bruciava più del contratto andato fallito e un disco mai pubblicato –in realtà uscito dopo per la casa discografica Philips Records, dopo la mancata occasione molto desiderata e molto deludente. Perciò la congiunzione che apparentemente dovrebbe legare Milano a Vicenzo è invece un ironico rovesciamento, il segno di una incompatibilità, non solo personale ma ambientale.
    La canzone perciò si colloca in un panorama molto nutrito di luoghi comuni: quelli della differenza che nella nostra Penisola riguarda il modo di concepire il lavoro e i rapporti umani a seconda del luogo in cui ci si trova a lavorare (il Nord efficiente opposto al Sud fannullone; la sincerità e la schiettezza del cittadino settentrionale contro l’ambiguità e la doppiezza del meridionale, eccetera eccetera). Questa canzone (insieme a un’altra dello stesso genere, se non più cattiva, A voi romani, che suscitò grande polemica e indignazione fra gli abitanti della Città Eterna).
    Nel frattempo, nel 2009, Vincenzo Micocci pubblica la propria autobiografia Vincenzo io t’ammazzerò (Coniglio Editore, Roma) con la prefazione di Alberto Fortis, segno evidente che la pace era fatta e che nessuno serbava rancore. E anche questo ci ricorda un altro carattere nazionale diventato proverbio: “Italiani, brava gente”. Ricordatevi però, cari lettori, di diffidare dei luoghi comuni.

    SCHEDA CANZONE

    TITOLO: MILANO E VINCENZO
    ALBUM: ALBERTO FORTIS
    ANNO: 1979
    AUTORE/I: Parole: Alberto Fortis; Musica: Alberto Fortis
    INTERPRETE: Alberto Fortis

     

  • TANTO PE' CANTA’
    6/ FLOWER POWER
    DA MANZONI A ENDRIGO

    data: 14/10/2019 15:13

    Un fiore, scrive Vittorio Sereni, se lo si guarda bene può essere un Paradiso in terra, completo. E se vogliamo accettare il vecchio adagio, “ditelo con un fiore”, esso può esprimere la gamma completa dei sentimenti umani, buoni o cattivi che siano. Questa è una qualità intrinseca, che pare le altre specie dei regno vegetale stentano a riassumere: ad ognuna pertiene una nobiltà letteraria ben precisa. I poeti giardinieri, da Omero a Pascoli (il più scrupoloso classificatore della nostra letteratura, capace di bacchettare anche Leopardi sull’incongruenza stagionale del mazzetto di rose e viole portato dalla donzelletta ne Il sabato del villaggio) ne hanno identificato le fattispecie con un’accuratezza da vivaio lussureggiante, dimenticando però un dettaglio: la semplice complessità che è tipica di un fiore, capace d’incantare tutti i sensi e, in tutti i sensi, di essere incantevole.
    Dunque è sulla semplicità che conviene spostare l’attenzione, sulla ellissi perentoria che, come vorrebbe Ungaretti, racchiude tra un fiore colto e donato, l’inesprimibile nulla: che poi può essere, com’è, tutto l’indicibile che spesso la poesia sfiora ma non riesce a trattenere: come un fiore, essa può essere sciupata. Lo sa anche un maramaldo come il Griso de I promessi sposi che replica al suo padrone come non si possa cogliere un fiore senza almeno toccarlo; o ci riporta alla famosa riflessione di Amleto sulla violetta che manterrebbe inalterata la propria grazia anche se il suo nome fosse diverso. E Gertrude Stein, che in un’iterazione paradossale afferma che una rosa è una rosa è una rosa. Semplice. O Mallarmé che sostiene che di tutti i fiori in un bouquet il profumo che vince è quello del fiore assente, giù giù fino al nome della rosa, memore di poemi medievali e di sottili distinzioni logiche: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (Bernardo da Cluny).
    Che sia una questione di nominalismo o di assoluto poetico, il fiore sta lì, come nelle acqueforti o i dipinti di Morandi, a sollecitarci la sua impareggiabile unicità. Come nel Cantico di Francesco d’Assisi, la celebrazione del creato è frutto di una complessa riflessione che passa attraverso la creaturalità stessa, con un equilibrio raro di profondità e meraviglia – le cose che più di ogni altra interessano alla poesia (e a un certo tipo di canzone).
    La semplicità del fiore esprime molto bene, per quanto ci riguarda, l’essenziale successo di una canzone. Naturalezza e una giusta miscela di componenti che ne garantiscono la “durata”, il successo. Sergio Endrigo appartiene certamente a questa rara categoria di autori che hanno saputo contenere il paradiso in un fiore, aprendo gli occhi, oltre che le orecchie, del pubblico all’attenzione verso le cose che sembrano umili e trascurabili; ha saputo raccontare storie difficili o “sconfitte” senza cedere di un passo al facile consenso, alla formula adeguata a tutti i gusti o disgusti, giocando da maestro con la rima che Umberto Saba giudicava la più difficile: cuore e amore, aggiungendone una terza: fiore.

    SCHEDA CANZONE

    TITOLO: CI VUOLE UN FIORE
    ALBUM: CI VUOLE UN FIORE
    ANNO: 1974
    AUTORE/I: Parole: Gianni Rodari; Musica: Luis-Enrique Bacalov, Sergio Endrigo
    INTERPRETE: Sergio Endrigo
     

  • TANTO PE' CANTA’
    5/ AZZURRO CELENTANO

    data: 08/10/2019 09:37

    Un ruolo fondamentale nella canzone italiana è occupato dal clima. È incredibile quanto il sole, la pioggia o la neve possano influenzare l’esistenza e l’umore delle persone, esattamente come poi succede nella vita di tutti i giorni. In questa serie così importante di successi legati alle alternanze delle stagioni, Azzurro cantata da Adriano Celentano è popolare almeno quanto l’altro grande classico del clima all’italiana, ossia O sole mio (1), passando da Volare di Modugno, naturalmente “nel blu dipinto di blu” fino a Di sole e d’azzurro interpretato da Giorgia (testo e musica di Zucchero Fornaciari). Per fortuna sono brani dove il bel tempo impera, dopo temporali e tempeste, inverni lunghi e freddi che lasciano il posto a stagioni più miti, se non addirittura torride, come nel caso del nostro pezzo.
    L’estate mediterranea, come si sa, non risparmia calore e debolezza, sensazioni fisiche che diventano, col passare delle ore estive, una vera e propria condizione spirituale, avviando un processo di rallentamento e di incapacità di prendere decisioni davvero preoccupanti. La stessa scelta di raccontare in prima persona questo mondo dominato dalla calura estiva è un’ottima strategia per mettere a confronto speranze e desideri con la realtà che quasi sempre non corrisponde mai a tali premesse. Non si può nemmeno evitare di sottolineare che questa canzone conserva tutto il fascino dell’estate italiana della fine degli anni Sessanta, stagione ricca di grandi eventi e cambiamenti sociali che fanno da sfondo a questo racconto, gli danno ironia e una malinconia per qualcosa che stava per finire: la capacità di sognare. La stessa struttura lineare della storia indica la volontà di raccontare semplicemente questo insieme di sensazioni che sottolineano il vuoto di una giornata estiva quando ormai tutti sono in vacanza lontano dalle grandi città rese invivibili dalla calura del sole, dov’è rimasto il nostro solitario e accaldato protagonista.

    Cerco l’estate tutto l'anno e all'improvviso eccola qua.
    Lei è partita per le spiagge e sono solo quaggiù in città
    sento volare sopra i tetti un aeroplano che se ne va.

    Chi vive in una grande città, soprattutto del Nord, sa bene quanto l’inverno può essere rigido e feroce, sa bene come la muraglia impenetrabile di nebbia e gelo costringano a stare chiusi nelle case a fissare la finestra attendendo il segnale del risveglio della vita, il ritorno dei giorni più miti e via via più caldi che alla fine esplodono all’improvviso, senza nemmeno avvertire del loro arrivo. Il nostro personaggio osserva con estrema sintesi che “lei” è partita per le vacanze, sul genere del film Quando la moglie è in vacanza, celebre pellicola di Billy Wilder del 1955 con una indimenticabile Marilyn Monroe, mentre lui, invece, è rimasto “quaggiù”, avverbio che indica che chi parla si trova in un luogo posto più in basso rispetto alla persona alla quale si parla o a cui si riferisce: la città, lontana e inferiore rispetto alla favolosa lontananza delle spiagge. In questo racconto dell’abbandono, non c’è molto che difenda dalla solitudine, soprattutto se si sente passare in alto nel cielo, limpido e caldo, un aeroplano che se ne va, anche lui certamente verso un luogo esotico col suo carico di turisti e viaggiatori.

    Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo, per me
    mi accorgo di non avere più risorse senza di te
    e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te.
    Ma il treno dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va.

    Il ritornello è anche qui, come sempre, il punto forte della coppia testo-musica. Tutto sembra svolgersi nel modo migliore, la decisione, o quasi, di prendere il treno per raggiungere lei è naturale, scontata. Eppure qualcosa non lo permette, al punto che i desideri, che assumono la forma del treno, sembrano procedere in una direzione contraria a quello che la logica impone di fare.

    Cerco un po’ d’Africa in giardino, tra l’oleandro e il baobab
    come facevo da bambino, ma qui c’è gente, non si può più
    stanno innaffiando le tue rose, non c’è il leone, chissà dov’è.

    La fantasia si fa sempre più dominante, lascia libero sfogo all’immaginazione di un paesaggio lontano e anch’esso esotico, l’Africa, avvicinando o confondendo specie vegetali locali (l’oleandro) o quelle caratteristiche di quei luoghi (il baobab) come in effetti si fa da bambini fantasticando –magari sui romanzi di Emilio Salgari- di paesaggi remoti e misteriosi; ma intanto altri e pure loro stanchi personaggi si ritrovano nel giardino, interrompendo il sogno. Lo sguardo ritorna sulla realtà, e osserva il giardiniere che innaffia le rose, e insieme al baobab è scomparso pure il leone, ovvio compagno esotico di quell’albero e della sua ombra fragile sotto il cocente sole africano.

    Sembra quand’ero all'oratorio, con tanto sole, tanti anni fa.
    Quelle domeniche da solo in un cortile, a passeggiar,
    ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiacchierar.

    La memoria, come si sa, può procedere per impercettibili movimenti, e in questo caso l’oratorio è stato per molti ragazzi una seconda casa, un vero e proprio luogo di ritrovo e di amicizie: quindi immaginare il cortile di un oratorio desolato è una specie attentato alla vita sociale, ai limiti dell’incredibile.

    Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo, per me
    mi accorgo di non avere più risorse senza di te
    e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo vengo da te.
    Ma il treno dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va.

    Così come esiste il “rosso Tiziano”, il “verde Veronese”, il “blu Klein” o il “giallo Van Gogh”, Adriano ha stabilito una per la canzone una nuova tonalità di colore, quella che potremmo chiamare: “Azzurro Celentano”.

    TITOLO: AZZURRO
    ALBUM: AZZURRO / UNA CAREZZA IN UN PUGNO
    ANNO: 1968
    AUTORE/I: Parole: Vito Pallavicini; Musica: Paolo Conte, Michele Virano
    INTERPRETE: Adriano Celentano
    SITO UFFICIALE DELL’ARTISTA: www.ilmondodiadriano.it


    (1) Una delle più celebri canzoni di tutti tempi, scritta nel 1989 da Giovanni Capurro e musicata da Eduardo Di Capua. Per dare l’idea della celebrità della canzone, nel 1920 in occasione dei giochi olimpici di Anversa, durante la premiazione del marciatore milanese Alberto Frigerio alla presenza del re Alberto del Belgio, la banda che doveva suonare l’inno non avendo a disposizione lo spartito della Marcia Reale, eseguì, accompagnata da tutto lo stadio, ‘O Sole mio che fu, dunque, temporaneamente, l’inno nazionale italiano. Tra le decine di interpreti di questo brano, bisogna ricordare Elvis Presley (nel 1960 col titolo It’s Now Or Never), Josephine Baker, Bryan Adams, Luciano Pavarotti, José Carreras, Dalida, Mina, Tito Schipa, Lucio Dalla, Beniamino Gigli, Andrea Bocelli, Gianna Nannini.
     

  • TANTO PE' CANTA’
    4/ IO VORREI, NON VORREI...
    IL MONDO IN UNA CASA

    data: 30/09/2019 15:16

    “Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi”: una frase che esprime bene l’indecisione del protagonista che si muove per le stanze di una casa nella quale, più forte di ogni cosa, domina l’assenza della donna che l’ha abbandonata. Questo, in sintesi, il contenuto di base che percorre questo ennesimo successo della premiata “ditta” Mogol-Battisti. Canzone inserita nell’album Il mio canto libero il cui brano omonimo è certamente fra le hit più celebrate dell’artista, ci presenta una scena drammatica e combattuta in questo scontro fra volontà e debolezza. Una sorta di bovarismo al maschile, nel quale “il ricordo, come sai, non consola”: c’è quanto basta per suggerire malinconie, anzi quell’ipertrofia del nesso memoria-malinconia (o “malinconoia” “à la Masini”?) che trasforma il ricordo in una sorta di presenza “inquietante”, l’Unheimlich di tanta freudiana e preromantica ascendenza; la presenza femminile è il fantasma onnipresente nella casa-tempio (“trasformai la mia casa in tempio”: va notato l’uso del “passato remoto” che è un concetto narrativo prima che un fatto di grammatica) che ci fa vedere le stanze ingombre di oggetti di un mondo oramai finito. Solo il “tu” a cui le parole si rivolgono può assumere il profilo di chiunque, immediatamente quelle di un nuovo amore o, per meglio dire, della prossima abitante-coinquilina-sovrana della casa-museo.
    Il fatto è che Mogol a volte sembra imprimere alla sua scrittura una fisionomia che non rinuncia alle immagini provocatorie: la casa che diventa un tempio, la camera da letto occupata da stalattiti, e così via. In questo scenario le stanze si aprono ad una visione cinematografica che però s’interrompe quando trova il limite: “senza ali non si vola”. La voce lenta e profonda di Battisti che quasi sembra recitare le strofe fa davvero immaginare che ogni frase sia come una ferita dolorosa che segna i pensieri in modo definitivo. Siamo proprio sull’orlo della vertigine che tenta il grande salto: “io vorrei, non vorrei, ma se vuoi”…

    Dove vai quando poi resti sola
    il ricordo come sai non consola.
    Quando lei se ne andò per esempio
    Trasformai la mia casa in tempio.
    E da allora solo oggi non farnetico più
    a guarirmi chi fu
    ho paura a dirti che sei tu.

    Ora noi siamo già più vicini
    Io vorrei non vorrei ma se vuoi.

    Probabilmente, non poteva venire in mente una situazione così complicata, dove il letto sembra quasi una pista d’atterraggio o un paesaggio desolato e vasto nel quale il nostro protagonista vaga senza una meta, senza un ritorno (avete presente The Road di Cormack McCarthy?). Una sorta di apocalittico post-amore dove le rovine decadono in macerie cui può opporsi la memoria solamente. Come a dire che il limite tra il sublime e la depressione è proprio questione di un niente, così come la solida nudità di una stanza può dispiegarsi a diventare, di colpo, l’opera-mondo della passione (e delle scuole del sospetto che da essa germinano):

    Dove vai quando poi resti sola
    senza ali tu lo sai non si vola.
    Io quel dì mi trovai per esempio
    quasi sperso in quel letto così ampio.

    Terzo ingrediente inserito da Mogol è quello che potremmo definire il momento di unione fra l’erotismo e la morte, una vera e propria “Todeslust” metafora che occupa un ruolo importantissimo nella definizione dell’amore nell’Occidente dalla storia di Tristano e Isotta in poi (si veda a proposito il grande saggio di Denis De Rougemont, che tante preziose vie interpretative offrirebbe). Ci sembra infatti che in questo spazio si siano accumulate delle sensazioni che fanno tutte capo all’analogia principale, cioè l’equivalenza amore/morte. Il corpo amato e abbracciato, desiderato e posseduto si trasforma, in una sorta di fantasia scapigliata, in un amplesso di morte, dove la “piccola morte” diventa la celebrazione non del desiderio ma della sua sottrazione (sulle cui cause o responsabilità la voce narrante sembra derogare).

    Stalattiti sul soffitto i miei giorni con lei
    io la morte abbracciai
    ho paura a dirti che per te
    mi svegliai.
    Oramai fra di noi solo un passo
    Io vorrei non vorrei ma se vuoi.

    In questa stanza-tempio-caverna accade una vicenda dove le regole dell’attrazione e dell’abbandono regolano il corso del testo mettendo in discussione i canoni della situazione amorosa come la conosciamo per abitudine. E proprio a quel punto, il ritornello non può che essere un abbandonarsi alle parole, veramente senza limiti, alle forze difficilmente arginabili della natura dove predomina il senso della vastità in evidente opposizione alla dimensione dello spazio chiuso che non può finire che in un “grande salto”, forse quello in una nuova storia.

    Come può uno scoglio
    arginare il mare
    anche se non voglio
    torno già a volare
    Le distese azzurre
    e le verdi terre
    le discese ardite
    e le risalite
    su nel cielo aperto
    e poi giù il deserto
    e poi ancora in alto
    con un grande salto.

    Come dimostrerà la futura collaborazione artistica fra Battisti e il poeta Pasquale Panella (1) la capacità di trovare nuove soluzioni, anche improbabili sul piano delle convenzioni, al discorso sull’amore rappresenta un dato importante nella carriera di questo artista con i suoi “parolieri” e forse ne giustificano il grande successo che ancora oggi, dopo la sua scomparsa, continua a riscuotere. Una collaborazione che avrà in questo distacco la sua forza propulsiva e il suo interesse, purtroppo non accompagnato da quella attenzione e da quei riconoscimenti che meriterebbe. Speriamo che in questo, il tempio-culto dedicato a Battisti trovi una nuova consacrazione.


    SCHEDA CANZONE

    TITOLO: IO VORREI, NON VORREI, MA SE VUOI
    ALBUM: IL MIO CANTO LIBERO
    ANNO: 1972
    AUTORE/I: Parole: Mogol; Musica: Lucio Battisti
    INTERPRETE: Lucio Battisti

    (1) Don Giovanni, L’apparenza, La sposa occidentale, Cosa succederà alla ragazza, Hegel, lavori firmati fra il 1986 e il 1994.

     
     

     

  • TANTO PE' CANTA’
    3/ SI', VIAGGIARE... TEORIA
    E PRASSI DEL PARTIRE

    data: 23/09/2019 17:29

    Il titolo ricorda più un notiziario per automobilisti del fine settimana (e in effetti una nota rubrica televisiva della seconda rete RAI porta proprio questo titolo) che l’evocazione di un sogno per conquistare il quale bisogna avere un amico molto ferrato in meccanica e motori; una specie di Sancho Panza con chiavi inglesi e sensibilità nella regolazione del carburatore per ogni Ronzinante a quattro ruote. Un titolo e un brano che sarebbero senz’altro piaciuti a due viaggiatori moderni, Jack Kerouac e Bruce Chatwin. “Partire è un po’ morire”, recita un noto proverbio nostrano. Una contraddizione per un popolo che si voleva composto da “santi, eroi e navigatori”… oltre che poeti, naturalmente.

    Ma in questa visione all’italiana della “invitation au voyage”, il punto di partenza, cioè da dove un viaggio comincia, possiede una caratteristica talmente singolare, da essere quasi un elemento indispensabile, un necessario pretesto, lontano dal quale, in qualche modo, si rischierebbe addirittura di non capire le reali scoperte del viaggio stesso. È il punto di vista che vede solo cosa si lascia, tutte le certezze, invece di fissare ciò che si cerca, quello che manca. In questa canzone, in effetti, morire è stare o restare, cioè non partire. Oltre a ciò, s’impone la figura di questo amico “geniale” e capace di risolvere qualsiasi problema pratico che potrebbe impedire di viaggiare tranquillamente.

    Le frasi gergali relative alla manutenzione o ai difetti del motore, indicano anche una volontà di riportare la metafora principale del testo ad una quotidianità e ad una condivisione del discorso che non rimane soltanto limitata agli esperti della materia. Anzi, proprio la chiarezza di questi contenuti trasforma gradualmente l’apparente oscurità dei riferimenti tecnici in metafore trasparenti per quanto riguarda l’equazione “viaggio = vita”, di per sé uno dei modelli principali su cui si articola la rappresentazione dell’esistenza. L’amicizia, in questo caso più dell’amore, può offrire un valido sostegno che insegni al viaggiatore ad essere il protagonista dell’avventura e perciò esperto nel guidare il mezzo di trasporto (una macchina, una moto?) che resta comunque un simbolo di libertà e di autodeterminazione. Così anche il tragitto molteplice e vario per percorribilità e difficoltà risulta più affrontabile, quasi eliminando del tutto quelle incognite che rendono affascinante e misterioso il viaggio. Non che l’imprevisto non ci possa essere: qui non si allude a un “viaggio organizzato” che renderebbe il “viaggiatore” un semplice “turista”. Anche la stessa alternanza notte/giorno, così significativa dal punto di vista simbolico nella letteratura di viaggio o d’invenzione, viene ad essere in parte esorcizzata, poiché tutto si concentra nella capacità del viaggiatore di dosare velocità, attenzione, grinta e rilassamento, senza mai eccedere: quasi che il “nulla di troppo” che esprime la misura e il limite dell’uomo come saggezza della vita, diventi la principale ed unica norma tanto del libretto d’istruzioni del veicolo quanto della mappa di viaggio che fissa partenza, tappe intermedie e meta. Nulla di certo esclude che una dose d’incoscienza o un imprevisto possano arricchire l’esperienza di qualcosa di assolutamente nuovo e singolare. Forse, infine, la canzone vuole ricordarci che nessun viaggiatore e nessun viaggio sono “incantati”, come potrebbe essere nel mondo delle favole. Per viaggiare bisogna saper mettere le mani nel motore, saper aggiustare, sporcarsi di grasso e olio, rimettere tutto a posto e ripartire, senza arrendersi mai a nessun inconveniente.

    Una nota di non minore importanza riguarda l’anno in cui questa canzone viene pubblicata, il 1977, cioè uno dei più duri e difficili per quanto riguarda il terrorismo e la presenza del fenomeno terrorista sia di destra che di sinistra. A molti parve che una così spensierata visione del viaggio fosse un suggerimento esplicito a sfuggire, a lasciarsi alle spalle le difficoltà storico-sociali del presente per rifugiarsi nell’ennesimo paradiso da cercare, sempre altrove e sempre molto distante da qui. Anche questo ordine di riflessioni ha pesato sulla fortuna di Battisti come “cantautore” o come autore “impegnato”, nel senso politico del termine. Certamente una lettura di questo genere getta un’ombra su un brano del tutto godibile e trascinante dal punto di vista puramente musicale, che si ispira al genere musicale funky soprattutto nel chorus, che non potevano essere sconosciuti ad un musicista che soprattutto insieme al suo gruppo d’accompagnamento storico, Formula 3 (1), sapeva inserire delle atmosfere ritmicamente rockeggianti nella sua canzone che comunque, pur rispettando i modi della canzone italiana, come altri artisti aveva saputo aprirsi ai sapori e alle suggestioni della musica angloamericana, semmai senza riferirsi in modo aperto a particolari asprezze o ricerche strumentali tipiche del rock classico. Ma come sappiamo bene, Battisti-Mogol è un duo che ha un posto consolidato nel nostro immaginario collettivo musicale, e questo non può che essere un merito.  

    SCHEDA CANZONE
    TITOLO: SÌ, VIAGGIARE
    ALBUM: IO TU NOI TUTTI
    ANNO: 1977
    AUTORE/I: Parole: Mogol (Pseudonimo di Giulio Rapetti);
    Musica: Lucio Battisti
    INTERPRETE: Lucio Battisti

    (1)  Il gruppo viene fondato nel 1969 ed è composto da Alberto Radius (chitarre e voce) Tony Cicco (batteria e voce) Gabriele Lorenzi (tastiere). La Formula 3 ha accompagnato dal vivo, in due tournées del 1969 e 1970 Lucio Battisti che scrive e produce per loro numerosi brani. Tra i maggiori successi si ricordano: Questo folle sentimento, Io ritorno solo, Sole giallo sole nero, La folle corsa (presentato a Sanremo nel 1971 insieme a Little Tony) e la più celebre Eppur mi son scordato di te (cantata anche da Lucio Battisti). Il gruppo si scioglie nel 1974 per volontà di Mogol e della casa discografica Numero Uno per dare vita al gruppo Il Volo. La band si riunisce nel 1990 con la medesima formazione originale, partecipando a due Festival sanremesi, nel 1992 2 nel 1994. Dal 1992, dopo l’uscita dal gruppo di Gabriele Lorenzi, alle tastiere si sono alternati Andrea Pistilli, Maurizio Metalli e infine Ciro di Bitonto.

  • TANTO PE' CANTA'
    2/ VOGLIO UNA VITA
    COME STEVE MC QUEEN

    data: 16/09/2019 19:16

    Una missione suicida, meglio, impossibile: andare a Sanremo con una canzone così e piazzarsi penultimo, un’esperienza che normalmente significherebbe la fine di una carriera. Neanche per idea: questo è invece l’inizio di un successo strepitoso del rocker di Zocca che ancora oggi lo accompagna. Diciamo che spesso le canzoni nascono dal risentimento, più che dal sentimento, o forse anche quello fa parte, anche se nella categoria deprimente, di ciò che un uomo è in grado di provare e di esprimere. Potrebbe sembrare l’affermazione di una vita senza regole, una vita “maleducata” di quelle vite “fatte, fatte così” che sembrano non avere un verso giusto, o semplicemente vite controcorrente che non solo accettano il rischio ma gli vanno incontro con una serenità fiduciosa che ad altri può apparire semplicemente una follia.

    Voglio una vita spericolata
    voglio una vita come quelle dei film
    voglio una vita esagerata
    voglio una vita come Steve McQueen

    Ma il protagonista, anche se citato brevemente, è uno solo: Steve McQueen . McQueen è uno dei pochi miti veri nella grande finzione chiamata Hollywood. Un uomo coerente, sul set come nella vita, al punto da confonderle entrambe nella sua stessa persona, nella sua faccia da buono cattivo (o viceversa) sempre riconoscibile e sempre sopra le righe, mai convenzionale o ripetitivo. In una parola: un uomo carismatico. Pare del tutto evidente che un personaggio come questo, lontano da altri miti consolidati della gioventù “ribelle” o “bruciata” come Marlon Brando o James Dean, venga scelto come personaggio esemplare a cui fare riferimento; la scelta colpisce anche per questo, perché riporta alla ribalta un attore e una “maschera” molto personali e molto fuori dalle linee dello star system e del significato che esprimono.
    Il testo non può che tener fede a queste idee, e perciò diventare un romanzo che forse sarebbe piaciuto più a un romanziere americano (sul genere Kerouac o Hemingway) giocando tutto sull’eccesso e sulla sua ricerca sistematica, il rifiuto delle regole accettate senza discutere. In definitiva, sentirsi padroni del proprio destino da costruire ogni giorno, da guadagnarsi come un giocatore d’azzardo che punta tutto sul tiro più disperato e difficile, rischiando di perdere ogni cosa ma incapace di rinunciare a quel brivido che solo la scommessa può dare (lo racconta magnificamente Dostoevskij ne Il giocatore).
    Ma questa canzone è anche un rifiuto di una società e di un mondo chiaramente in crisi: siamo nel 1983, buona parte dei sogni e delle spinte ideali affermatisi nel decennio precedente sono finite in frantumi, in parte per colpa del terrorismo di destra e di sinistra, in parte per l’incapacità di una società intera di dialogare e comprendere il disagio giovanile, etichettandolo maldestramente e univocamente come ribellismo idiota, emarginazione dall’impegno e dalla responsabilità di prendere in mano le redini della società stessa. Si tratta di un’incomunicabilità che nel tempo, a partire dagli anni Sessanta, aveva diviso le generazioni in un’accusa reciproca di tradimento e disfattismo dalla quale era difficile uscire se non commettendo gesti estremi e inequivocabili –come appunto il terrorismo, purtroppo, aveva ben dimostrato.
    Dunque la scelta di una vita “spericolata” è innanzi tutto la scelta di una riappropriazione della propria vita: azzerare la voce dei “doveri” e riaprire e dare maggior spazio a quella dei “diritti”, visto che la società non è capace di difenderli. Quali sono questi diritti? Il diritto di pensare a se stessi in modo diverso; usare un linguaggio e una moda diversi (le cose procedono di pari passo, come si sa); scegliere modelli diversi, non importa quanto irraggiungibili, ma a portata di mano solo per il fatto di averli scelti; segnalare come le cose possono essere viste da un punto di vista diverso, meno “solido” e tranquillizzante. Ma è un punto di vista sincero, perché non ci si preoccupa di rappresentare una commedia già recitata o già scritta; si tratta, semmai, di una commedia “da inventare”, magari improvvisandosi drammaturghi delle scene che si devono vivere: una vita “fatta, fatta così”, senza aggettivi, senza concetti, senza mete luminose da toccare prima o poi fra gli applausi generali. Anzi, una vita senza applausi, tutt’altro. L’incertezza, il non programmare è tutto: una vita dove non si fa mai tardi, nessuno ti aspetta per rimproverarti e farti la morale; una vita insonne, come nelle migliori tradizioni romanzesche, una vita fatta di una sola certezza: l’imprevisto.
    E poi? In questo viale del tramonto tutto emiliano, la configurazione del destino è del tutto chiara:

    E poi ci troveremo come le star
    a bere del whisky al Roxy Bar
    o forse non c’incontreremo mai
    ognuno a rincorrere i suoi guai
    ognuno col suo viaggio
    ognuno diverso
    e ognuno in fondo perso
    dentro i cazzi suoi.

    Mi sembra corretto soffermarsi su questa parte del brano, semplice e struggente, scritta da vero narratore che sarebbe tanto piaciuto a uno scrittore attento a questi fatti stilistici come Pier Vittorio Tondelli, oltre che competente e attento interprete della musica e della cultura giovanile. Nella scrittura di Vasco Rossi raramente si può trovare una sintesi perfetta tra narrazione (quasi cinematografica) e profondità nell’analisi psicologica. Rossi è uno scrittore cinematografico, uno sceneggiatore di talento delle vite difficili, anche per la diretta conoscenza dell’argomento e delle vicissitudini personali che rendono l’uomo e l’artista la stessa persona –altro elemento di straordinaria presa sul suo pubblico. Ecco, nelle canzoni di Vasco c’è sempre un fondo di verità che non va mai dimenticato, né sottovalutato: egli scrive come vive, e vive come scrive, senza con questo volergli mettere addosso i panni di un “poeta maledetto” che non gli servono. E oltretutto, lo spirito della canzone non è affatto questo, come superficialmente potrebbe sembrare. Vasco è un artista genuino, cioè un artista che nonostante i limiti che può avere riesce concretamente a tirare fuori dalle parole qualcosa di molto simile alla grande letteratura senza far pesare questo elemento, e soprattutto parlare alla gente in modo diretto e schietto, facendosi inevitabilmente amare e assorbire nel profondo.
    La sua verità è nella sua naturalezza, la sua spontaneità, mai fine a se stessa, è desiderio di raccontare ciò che ha vissuto e sentito, nella certezza che molti troveranno facile e naturale credergli e ascoltarlo con passione come se rivivessero frammenti della propria esistenza. Basterebbe a conferma di questo l’accenno al Roxy Bar, locale che non si trova a Hollywood ma nella centralissima via Rizzoli a Bologna, proprio sotto le due Torri Garisenda e Asinelli –e non si può nemmeno dimenticare il “pellegrinaggio” di fan e turisti curiosi di cui è stato oggetto proprio grazie a questa canzone nel corso degli anni.
    Proprio per queste ragioni possiamo credergli quando parla di Steve McQueen, perché Vasco Rossi riesce ad adattare il linguaggio alle circostanze, senza curarsi del decoro o del “galateo”. La filosofia di colui che dice “no” (come canterà in un’altra canzone, C’è chi dice no) sembra essere la sua arma narrativa più efficace e vincente; il prendersi gioco delle cose “serie”, il rovesciamento del mondo, l’insulto così come la “parolaccia” sono perfettamente coerenti ad una scena di una commedia irriverente e per niente desiderosa dell’applauso, appunto, come si diceva prima. È la filosofia del “cattivo necessario” senza il quale non può esserci una storia credibile: è la filosofia di Ivan Karamazov o di Dean Moriarty (per riandare ad alcuni personaggi celebri della letteratura). Anzi, direi che nessuno come Dean Moriarty rappresenti nel modo più giusto la tensione di cui parla questa canzone: la necessità di un vivere la vita in modo pieno e senza pregiudizi che fa afferrare e divorare la vita senza risparmio e senza risparmiarsi nulla (anche di ciò che per altri sarebbe semplicemente sconveniente o “illecito”).
    Un po’ come ha fatto Dario Fo nel teatro, o anche Rino Gaetano, il più grande cantautore fuori dalle righe mai capitato a Sanremo, qualcosa di simile ha fatto Rossi sulla scorta di un altro maestro da lui dichiaratamente riconosciuto, naturalmente Fabrizio De André, del quale è il più importante continuatore della generazione successiva. Parlare di questi artisti significa mettere da parte le convenzioni, rendersi disponibili ad accettare il loro mondo come parte integrante ed evidente del nostro, magari meno attraente o del tutto incomprensibile. Ma il rifiuto non basta per cogliere tutto quello che c’è da sapere. In qualche modo, se rifiuti la vita anche nei suoi aspetti meno convenzionali e attraenti c’è qualcosa che va perduto e che non può essere sostituito: il sogno della normalità è l’incubo inarrivabile di ogni “dannato”, come spiega in ogni suo romanzo Dostoevskij. L’impossibile normalità, per questo, diventa la salvezza in quei momenti di lucidità nei quali, magari in un dopo-sbornia con pestaggio, si riaprono gli occhi alle cose di sempre, come si può ascoltare in diverse canzoni di Vasco, da Siamo solo noi, Stupendo a Liberi liberi, per citarne solo alcune che riprendono ed espandono le premesse di questa canzone fondamentale nella produzione dell’artista modenese, l’ultima in particolare è una meditazione dolente sulla fine della giovinezza e di molte cose che si credevano infinite. Verso l’infinito, comunque sempre oltre.

    TITOLO: VITA SPERICOLATA
    ALBUM: BOLLICINE
    ANNO: 1983
    AUTORE/I: Parole: Vasco Rossi; Musica: Tullio Ferro
    INTERPRETE: Vasco Rossi

     

  • TANTO PE' CANTA'
    1/ UN ANGELO, NON SAREI PIU' ANGELO...

    data: 06/09/2019 12:52

    A partire da questo numero, racconterò alcune canzoni, o meglio, alcuni loro significati, usando come etichetta generale l’immortale brano composto e inseguito impareggiabilmente da Ettore Petrolini, una canzone che ci rimane nel cuore sempre e dalla quale facciamo fatica a distaccarci per quel suo equilibrio fra poesia e disincanto che solo ai grandi è concesso, ed è un modello di sicuro da seguire, anche come ascoltatori. Le canzoni hanno questo “dono” intrinseco e inaggirabile, possono dire tutto e vedere tutto, possono divertirci o commuoverci o tutte e due le cose, non fa differenza. Possono essere agganciate al tempo o sorvolarlo con magico distacco senza però perdere niente della loro incisività.
    Per inaugurare questo ciclo, ho scelto un autore molto amato - anche da me -, Lucio Dalla, e una canzone che non ha bisogno di presentazioni, come poi sarà del resto anche per le altre che seguiranno. Alcuni dati essenziali del brano sono riportati in calce alla scheda. Buon ascolto!
     
    “UN ANGELO, NON SAREI PIÙ ANGELO…”
     
    Non abbiamo un Angelo azzurro come cantava Marlene Dietrich (1), e non è nemmeno l’angelo che soccorre il disperato Modugno in Meraviglioso. Certo, abbiamo un angelo “caduto in volo” per il learning to fly all’italiana dove “cadere” presuppone delitto, castigo e (forse) redenzione… ma non si sa mai. Parliamo di un angelo vagabondo e scombinato, un santo che pone domande ingenue per capire cose tremende come il bene e il male, la pace e la guerra, i soldi e i sentimenti. Cosa sono, cosa valgono? E per chi? Nessuno di noi, credo, saprebbe dargli una risposta rassicurante, forse perché non ne esistono davvero.
    Non può stare nemmeno nelle “scatole dei presepi”, con buona pace degli spot pubblicitari e delle tradizioni natalizie. Quello che piace a quest’angelo senza tetto né legge è starsene seduto “al dolce fresco delle siepi” (un ricordo di Leopardi?) fumando una sigaretta, quasi più simile al Monello di Charlie Chaplin che a uno di quegli angioletti svolazzanti appiccicati vicino alla stella cometa che domina la scena.
     
    Ma poi l’inferno cos’è
    a parte il caldo che fa
    non è poi diverso da qui…
     
    Un angelo, non sarei più un angelo
    Se con un calcio mi buttano giù
    Al massimo sarei un diavolo
    E francamente questo non mi va
     
    La suggestione della strofa ci riporta a modelli letterari quanto mai illustri, le parole di Mefistofele nel Faust di Cristopher Marlowe, o le parole finali di Marco Polo a Kublai Khan ne Le città invisibili di Italo Calvino: l’inferno è il mondo in cui viviamo, ed è il luogo in cui dobbiamo stare.
    Qui lo straordinario incontro fra le intuizioni del testo e l’avvincente scenario della melodia pensata dal M.o Roberto Costa rappresentano uno dei migliori esempi di come si possa giocare con immagini condivise e importanti senza dissacrarle. Anzi, ad esse viene restituito un valore indiscutibile, perché fanno uscire la canzone dalla “scatola”, non del presepe stavolta, ma dalla scatola delle convenzioni e della retorica senza valore e che non sanno parlare davvero a chi vorrebbe ascoltare, cioè noi. Uno spettacolo che senz’altro Luca Cupiello amerebbe alla follia, mentre i disincantati per dispetto, tipo Tommasino – ladruncolo edulcorato dal mitico refrain “Nun me piace o’ presebbio!” - troverebbero posto in questo ecumenico scenario che mette insieme, con grazia e leggerezza, sacro e laico, perché è questa, in fondo, la sostanza dei sogni e di chi sogna.
    Tutti noi, quindi, siamo quelli che stanno un po’ stupiti a guardare questa scena antica e ci sentiamo spiazzati da questo irriverente e un po’ matto angelo che quasi quasi vorrebbe chiedere a Dio stesso delle risposte, pur sapendo che questo gli costerebbe un calcio che lo getterebbe fuori dal paradiso nel quale, provvisoriamente, si trova ad abitare. Un angelo a misura del probabile Giobbe che alberga in Lucio e in quelli come lui, sempre alla ricerca di una risposta, mai facile e mai addomesticabile, a costo di sembrare, nonché blasfemi, almeno irrituali. Con buona pace dei salutisti, almeno aspettando al “fresco delle siepi” (Leopardi dove sei?) “fumando una Marlboro”, come qualunque tabagista farebbe d’istinto.
    Una canzone che anticipa, quasi profetica, il tema di un film memorabile del regista tedesco Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino, racconto poetico e struggente di una città e dei suoi abitanti visitati da due angeli in incognito (interpretati da Bruno Ganz e Peter Falk) appena prima della caduta del muro che divideva in due blocchi e due ideologie il cuore dell’Europa.
    Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare che tutto questo è un’ipotesi, è il sogno di un uomo, Lucio Dalla, che vorrebbe conoscere, curioso, il cuore degli uomini, dare loro risposte che non sempre li raggiungono nel frastuono della quotidianità. È la magia del “se io fossi” che molti da bambini hanno pronunciato nelle loro avventure fantastiche, magari chiuse nelle scatole-appartamenti di un condominio.
     
    (1)  L’angelo azzurro (Der blaue Engel) è un film del 1930, diretto da Josef von Sternberg, tratto dal romanzo Professor Unrat di Heinrich Mann, romanzo che si segnala per la sua aspra e immediata efficacia narrativa ed espressiva e che ha suscitato l'interesse di sociologi e studiosi, oltre che degli psicoanalisti. Proiettato per la prima volta a Berlino il 1º aprile 1930, il film narra la tragica storia del professor Rath, rispettabile insegnante di un ginnasio di provincia, che si innamora di una cantante di varietà, impersonata da Marlene Dietrich, attrice che con questa opera troverà la sua consacrazione, riscattando così una già lunga, ma poco brillante, carriera svolta in precedenza.
     
     
    TITOLO: SE IO FOSSI UN ANGELO
    ALBUM: BUGIE
    ANNO: 1986
    AUTORE/I: Parole: Lucio Dalla; Musica: Roberto Costa
    INTERPRETE: Lucio Dalla

  • RADIOVINILE
    La canzone, le sue fonti
    e il caso-Dylan

    data: 17/02/2019 17:42

    Cercherò di illustrare brevemente la possibilità di trattare il tema della canzone dalla prospettiva della spiritualità. Naturalmente il termine attrae irresistibilmente nella sfera del “religioso”, almeno, o comunque, nel nostro caso, nella presunta correlazione tra questo termine e la religione rivelata dominante nella nostra storia culturale. Andrebbe precisato meglio che “spiritualità” è termine che non può essere assoggettato ad una teologia o al suo correlato confessionale. “Spiritualità” significa questo ma comprende anche ciò che di pertinente risulta al dominio “laico”. Fede o ragione, come termini oppositivi spaventano, “già pur pensando / pria ch’io ne favelli”, e comunque non rientrano affatto dentro il perimetro di queste pagine. Ma nemmeno del resto, le opposizioni cartesiane “ragione / passione”.
    Nel nostro caso, forse, torna più utile Antonio Damasio e la confortante certezza della congiunzione “e” che risolve i dilemmi: “ragione e passione”. Le neuroscienze hanno affrontato il discorso sull’immateriale che ci contraddistingue cercando anzitutto un riscontro nella fisiologia e nella biochimica dei processi cognitivi, costruendo su questo una rete di relazioni che intende portare ad una descrizione che su basi oggettive possa riconfigurare il discorso dell’interiorità, del rapporto fra mente e cervello, le relazioni fra il pensiero e il sentire che mettano in una luce più precisa anche tutto il discorso che il pensiero occidentale ha elaborato su questa dimensione. Naturalmente scomodare Spinoza per riflettere su De Gregori sembra fuorviante almeno quanto suscitare Tommaso D’Aquino per Paolo Conte… ammesso che sia possibile in entrambi i casi un paragone del genere.
    Altro pericolo è rappresentato dal mimetismo lirico e dal suo contrappeso espresso dal materialismo critico che virerebbe naturalmente sul versante storico-sociale (in verità, con qualche ragione in più, nettamente, del lirismo). Certo, se ci facessero una “T.A.C.” mentre ascoltiamo Disperato erotico stomp oppure Senza fine, chissà quante altre cose sorprendenti potremmo comprendere riguardo allo statuto della canzone e della sua fruizione.
    Si può proporre un esempio? Di certo, e scelgo uno direi più che noto a tutti per spiegarmi meglio, Like A Rolling Stone di Bob Dylan (da Highway 61 Revisited) facendo riferimento, dove necessario, soprattutto alle ricerche di Greil Marcus, Alessandro Carrera e Renato Giovannoli, che hanno dedicato a Dylan dei saggi davvero penetranti e significativi.
    Una versione, più aderente alla sostanza della canzone potrebbe intitolarsi così: “Once upon a time…”, “C’era una volta…” Chi? Forse una ragazza, che vestiva abiti lussuosi e che ora si aggira per le strade senza una direzione, senza una meta, senza un futuro. Si tratta solo di questo? Sapete, nella mente dell’ascoltatore, o del pubblico in genere, le suggestioni si intersecano, creano a volte contatti che sembrano impossibili o semplicemente assurdi, ma succedono. E a me, per esempio, questa immagine di grandezza e caduta mi ricorda un testo completamente diverso ma non lontano dalla comune fonte d’ispirazione del suo autore, Dante, e Bob Dylan – cioè la Bibbia.
    Nel VI° canto del Purgatorio (vv. 76-78) Dante pronuncia un’invettiva contro la situazione dell’Italia, oltraggiata dalla corruzione e dal tramonto della passata grandezza, e usa queste parole:
     
    Ahi serva Italia di dolore ostello,
    nave sanza nocchiero in gran tempesta,
    non donna di province, ma bordello!
     
    Quest’ultimo verso fa scoccare la scintilla: una donna che non è più signora (donna, da domina, “dominatrice”) di popolazioni ma ricettacolo di corruzioni. Questo è un chiaro e sapiente impiego verbale e stilistico di un modulo biblico dalle Lamentazioni di Geremia: “Ah! come sta solitaria la città di un tempo, ricca di popolo! È divenuta come una vedova, la grande fra le nazioni; un tempo signora delle province è sottoposta a tributo. Essa piange amaramente nella notte, le sue lacrime scendono sulle guance; nessuno le reca conforto, fra tutti i suoi amanti; tutti i suoi amici l’hanno tradita, le sono divenuti nemici.” (I, 1-2)
    Ora noi conosciamo bene la presenza della Bibbia nei testi di Dylan (basterebbe citare il solo titolo di All Along The Watchtower) che per alcuni anni l’ha considerata una fonte letteraria di metafore e suggestioni. La Bibbia è il grande codice della narrativa occidentale, come l’ha definita Northrop Frye, serbatoio della storia della caduta e della redenzione. Egli non sfugge a questa strategia, la sua opera potrebbe essere letta come una sorta di ripetizione della Bibbia, una grande storia di ritorno al paradiso perduto. I temi dell’Esodo sono fondamentali: l’essere esiliati dall’Eden e il doverci ritornare, affrontando delle prove, questi sono i temi di grandi canzoni che vanno da Gates of Eden alla recente Try to get to Eden.
    Perciò potremmo dire che la protagonista di questa favola, un tempo omaggiata e ora decaduta, potrebbe essere l’America di quegli anni stretta tra la morte di John Kennedy e il Vietnam, sbandata e confusa in cerca di un’identità, di un’ancora di salvezza che non sembra ancora manifestarsi all’orizzonte.
    Altre possibili interpretazioni? Jann Wenner, fondatore della rivista “Rolling Stone”, ne giustifica il titolo scrivendo nel primo numero che dalla canzone di Muddy Waters i Rolling Stones prendono il loro nome e Like a Rolling Stone è anche il titolo del primo disco R’N’Roll di Bob Dylan. E aggiunge: “Te lo getta nel ritornello: eccolo qui il tuo problema. Ecco quello che è successo. Ora sei senza casa, sei solo, un perfetto sconosciuto, come una pietra che rotola. È qualcosa che ti libera. Questa è una canzone sulla liberazione. Racconta come ci si libera dalle vecchie fissazioni, da quello che sapevi, dalla paura, dal terrore di affrontarla, in particolare quando arriva a scroccarti il pranzo: la cosa peggiore che ti accada. Oppure, “Do you want to make a deal?”, vuoi che ci mettiamo d’accordo? – c’è molta paura in questo, nel verso, nelle parole, nella melodia. (…) Il verso chiave è “You’ve got no secrets to conceal”, “non hai segreti da nascondere”. È stato raschiato il fondo. Sei solo, sei libero ora. Hai attraversato tutti questi livelli di esperienza. Hai provato che qualcuno in cui credevi ti ha proprio derubato di tutto, ti ha preso tutto quello che poteva rubare, e alla fine tutto ti è stato portato via. Sei inerme e non ti è rimasto niente. E sei invisibile, non hai segreti: questo ti rende libero. Non hai più niente da temere. È inutile nascondere quella merda. Sei un uomo libero.. Per me questo è il messaggio. Sai ‘Canzoni di innocenza e di esperienza’.” (cit. da Songs Of Innocence and Experience di William Blake, 1794).
    Questa spiegazione tocca direttamente l’oggi dell’apoteosi odierna, quando Dylan è stato insignito nel 2016 del premio Nobel per la Letteratura, una delle migliori intuizioni dell’Accademia di Svezia. Già nel 1996 il professor Gordon Ball, membro americano dell’Accademia, aveva perorato la causa motivandola come segue: «Per l’influenza che le sue canzoni e composizioni hanno avuto in tutto il mondo. Egli ha restituito dignità alla tradizione orale. Dagli inizi degli anni Sessanta ha creato, in parole e musica, un universo illimitato, che ha pervaso il globo». Niente. Undici anni dopo, nel 2007, il professore pubblica sulla rivista «Oral Tradition» un saggio intitolato Dylan and the Nobel, nel quale rinnova la sua proposta e la argomenta molto seriamente partendo dai due criteri stabiliti da Alfred Nobel stesso, cioè la massima rilevanza in campo idealistico e l’essere di beneficio per l’umanità.
    Gordon Ball ricorda la stretta relazione fra musica e poesia, la fondamentale funzione poetica svolta dall’oralità, e la uncompromising integrity richiesta al poeta perché la sua opera possa svolgere una funzione universale. Alla fine, l’identikit del premiato ideale coincide col ritratto di Dylan, senza una sola forzatura.
    Come un antico aedo, Dylan ha creato con la propria voce un mondo nel quale riconoscersi e ascoltarsi. Like A Rolling Stone è uno di quei momenti epocali in cui la tensione narrativa innescata da quel colpo sul rullante della batteria di Bobby Gregg, la grana della voce, e le idee convergono verso un punto centrale che diventa il ritratto di una nazione camuffato nella vicenda di una ragazza che è “caduta in basso” – come si diceva nei romanzi moralistici vecchio stile - o rammenta quello che scorreva nelle vene dell’America, nella letteratura di quel tempo, che Francis Otto Matthiessen chiama “American Renaissance”, la cui prefigurazione era stata colta da Melville nel presentare Nathaniel Hawthorne come colui che possiede la “grande arte di dire la verità” in opposizione al puritanesimo filisteo del New England, e di farlo “con voce di tuono!”. Questa convinzione che l’arte più alta americana corrisponda a questo “tono biblico” che si scosta dalle verità ufficiali a favore di quelle più scomode, diventa un leit-motiv che percorre questa cultura e la sua ricezione per tutto il Novecento, comprendendo nel proprio orizzonte tanto Faulkner, Hemingway o Steinbeck quanto il cinema, le arti figurative e, naturalmente, anche la musica.
    Dylan è stato premiato per le sue canzoni, non per i romanzi come Tarantula o il primo volume di Chronicles (che raccoglie materiali scritti tra il 1965 e il 1971).
    E dicendo “canzoni” intendo precisamente il fatto che non si possono estrapolare i testi ignorando la musica, errore grossolano che viene commesso anche chez nous con De André & Co. “Canzone” si riferisce alla parola orale di Dylan che si nutre del blues, del country, del gospel, del folk, della musica degli Appalachi, ed è grazie a queste risorse musicali che la sua voce diventa, appunto, una “spiegazione dell’America”, secondo l’eccellente definizione di Alessandro Carrera.
    Dylan non è un poeta, non dello stesso genere di T.S. Eliot o Montale. Lo è perché ha inserito nella canzone, tutta la forza della poesia, del simbolismo e del modernismo fra Otto e Novecento. Ma Dylan resta soprattutto un cantante, che è più di un autore di canzoni o di un autore di versi per canzoni, perché il cantante deve saper unire i differenti media che sta usando e trasformarli in qualcosa che è di più della somma delle differenti parti. Questo è ciò che Dylan è riuscito a fare: in lui si uniscono l’arte della parola, quella della musica e della voce, oltre quella della performance. Certo Dylan è anche un narratore, ed è forse più narratore che poeta: ha scritto dei versi bellissimi, ma soprattutto ha inventato storie e ha inventato un modo di raccontarle in canzone. Molti raccontano storie in canzoni, la ballata narrativa è un antichissimo genere della canzone. Dylan si è trovato a utilizzarla negli anni Sessanta, quando la ballata narrativa era impiegata per le forti esigenze del momento: era una ballata topical, che sta per politica impegnata, che tratta di argomenti del giorno. Ma Dylan non ha mai trattato questi argomenti in maniera strettamente lineare, o lo ha fatto molto raramente. Ha preferito creare delle situazioni allusive, vere e proprie allegorie o, certe volte, circolari, in cui la storia, una volta sentita, ci lascia sempre qualcosa di non ancora spiegato, ci fa venir voglia di riascoltare la canzone, perché non ci ha detto tutto al primo ascolto. Cosa che molti altri folk singer avevano fatto: lui stesso ha detto che scrivevano canzoni come articoli di giornali. Dylan invece non l’ha mai fatto, neanche quando ha raccontato fatti che aveva letto sul giornale del giorno prima, ha sempre trovato un modo poetico e allusivo per raccontarli.
    Altra spiegazione possibile: forse, Like A Rolling Stone è anche un’autobiografia personale attraverso una vita fittizia, attraverso una vita collettiva, che intende però sottolineare una caratteristica decisamente significativa di Dylan: “La vita di Dylan è un’avventura per la straordinaria capacità che lui ha avuto di togliersi di dosso l’identità d’origine e di crearsene un’altra, aprendo la strada verso una continua reinvenzione della propria vita. Ha rivissuto il grande mito americano, l’american dream, riscritto in maniera originale: non è il sogno di sistemarsi in un’altra terra – quello l’avevano già fatto i suoi nonni e i suoi padri – lui questa terra la esplora e la sente come sua, senza sentire alcuna divisione tra sé, la propria etnia e le altre culture di cui l’America è composta. Questa è la sua avventura.

    Per concludere, non dimenticando le stolte polemiche di casa nostra alla notizia del premio a Dylan, ricorderei le parole di uno scrittore americano pluri-candidato al Nobel, Don De Lillo, che alla notizia ha replicato come segue: “In questa decisione non c’è nulla che sia un problema per me. Ascolto la musica di Bob Dylan da decenni, penso da sempre che sia un grande artista”. 

  • RADIOVINILE
    Il fonografo di Darwin/4

    data: 10/02/2019 21:08

    Ferma restando la distinzione tra “ascoltare” e “udire”, rimane il fatto che la fruizione della musica oggi conosca una complessità, ed una caoticità, che in altri tempi non sembrava possibile. Tanta ricchezza può provocare, e del resto provoca, delle sovrapposizioni che generano, come detto, più confusione, che conoscenza. Gli equivoci vengono spesso promossi come tentativi di crossing over fra generi e culture che invece di risaltare vengono fatalmente sovrapposte e fraintese. Insomma, il “suono in cui viviamo” (come felicemente ha detto Franco Fabbri) ha ampliato a dismisura lo spazio sonoro e, contestualmente, la possibilità di una difficoltà sempre più crescente nei termini di affidabilità dell’ascolto stesso. L’enorme massa di produzione musicale, in genere, ha spesso privato la musica stessa di una qualche forma di attendibilità o di “durata”. Certo, ognuno ascolta quello che vuole, organizza le proprie scelte sulla base di un gusto che può essere più o meno fondato. Ma a questa forma di libertà, assolutamente plausibile, si affianca una altrettanto costitutiva incertezza sulla conoscenza delle musica stessa.

    In che senso l’ascoltatore è dunque destinatario dell’apostrofe baudelairiana per l’occasione ritoccata? Leggere e ascoltare non sono forse le due vie maestre della nostra Bildung, fermo restando il “primato della vista” come lo ha chiamato Hans Jonas? Forse dovremmo riflettere sulle conseguenze di questo primato rispetto alla dimensione “aurale” della nostra conoscenza. Siamo meno educati e sollecitati ad ascoltare che a leggere. Eppure viviamo immersi nel mondo sonoro molto più che in quello letterario. Il deficit legato alla scarsa propensione all’educazione musicale, primaria e secondaria, ha una parte di responsabilità, non tutta. Per cui, possiamo chiederci in che senso i cantautori siano stati o siano ancora (com’è meglio credere) capaci di esprimere una pedagogia, non teoreticamente ambiziosa, quanto piuttosto, nel loro essere magari “maestri controvoglia”, una pedagogia dell’impegno, della ragione, della critica e dell’ironia o dello sdegno, nella loro verità umana e perciò non elevati a sistema trascendente quanto piuttosto misurabili come strumenti conoscitivi della realtà, umani quanto basta per accettare l’errore e ricavarne la gioia di un insegnamento o la rabbia di un’occasione perduta. L’ipocrita ascoltatore, affratellato in questo alla radice umana di queste parole, si troverà spesso perplesso e bisognoso di un aiuto, oppure aderirà con consapevolezza alle storie sbagliate che spesso possiedono una morale alquanto provvisoria, ma sempre bisognosa di un adeguamento, di quel qualcosa in più che non sempre e non subito è dato, come nella migliore tradizione del pensiero perfetto, quello che rasenta un a forma di ipertrofia che a un certo punto smarrisce l’umano e si addentra per un sentiero che diventa impervio anche solo pensare.
    Con le canzoni questo non succede. Una canzone non pretende una cognizione delle cose che trascenda l’elemento umano. Le canzoni sanno raccontare l’umano proprio perché non derogano mai dalla vicinanza ad esso. E se la speculazione le porta a volte a varcare la linea dell’orizzonte del visibile, si portano dietro quel peso del corpo che consente alle loro parole di tornare sempre sulla terra e di essere ascoltate e comprese. Sia detto senza superbia, ma in questo segreto Dante trovava nella terza cantica il limite (“trasumanar”) ma anche la necessità di riconfigurare il limite non oltre la consapevolezza ma ben dentro la struttura senziente ed emotiva della parola, dell’anima e delle cose. Il paragone non impone ardite analogie, quanto piuttosto suggerisce che la realtà del linguaggio umano, tragica, drammatica o comica, rimane comunque il nostro spazio di esperienza primaria, è la scena su cui facciamo agire i nostri fantasmi interiori ed è ciò che ci serve per raccontare ed essere raccontati. “Il resto è silenzio”, proprio come quando la canzone finisce e per qualche secondo non si sa cosa dire.

  • RADIOVINILE
    Il fonografo di Darwin/3

    data: 02/02/2019 20:55

    “Tu hypocrite auditeur, mon semblable, mon frère”… Naturalmente la questione del “pubblico” della canzone raccoglie in sé tutti gli elementi che sono stati fino a questo punto declinati e annunciati come l’orizzonte di sfondo o, più modernamente, come le intenzioni di fruizione che caratterizzano la fortuna delle canzoni non solamente dal punto di vista del giudizio critico ma in particolare dal punto di vista del loro successo, passato e presente. Le fluttuazioni in questo caso sono costituite sia per costanti quanto per movimenti in parte carsici che rispecchiano la cogenza del periodo storico e della produzione artistica quanto l’effetto di durata se non il “ritorno” di alcune esperienze che hanno goduto di una intermittente considerazione.

    Le responsabilità dell’industria discografica nonché dei mezzi di comunicazione di massa, la stampa specialistica, hanno giocato e giocano un ruolo fondamentale – è chiaro -. Oltre alle etichette storiche, ossia Ricordi e RCA, che hanno di fatto scritto la storia della canzone italiana moderna e contemporanea, occorre tenere presente il contributo delle produzioni e dei cataloghi di etichette come “Ala Bianca Group”, i “Dischi del Sole”, la collana “Albatros” che hanno contribuito grandemente al recupero e alla diffusione di quella consistente parte del nostro patrimonio musicale rappresentato dalla musica popolare e dal folk (una storia straordinaria e ricchissima che conta narratori illustri come Alan Lomax, Diego Carpitella, Ernesto De Martino, Roberto Leydi, giusto per ricordare i principali nomi) che forse soltanto oggi, dopo decenni di oblio dovuto all’evidente e preponderante imperialismo anglo-americano, tornano con tutta la loro importanza assieme alla riscoperta del patrimonio folkloristico delle tante piccole patrie che formano il nostro Paese. Naturalmente abbiamo conosciuto fenomeni di contaminazione (il folk rock, ad esempio), abbiamo avuto già nel 1974 Branduardi che inseriva delle armonie celtiche mentre interpretava Yeats, fino ai Modena City Ramblers e l’Orchestra di Piazza Vittorio che rappresenta il punto di arrivo di una storia (anche questa molto difficile) di integrazione musicale oltre che culturale – nata dall’idea di Mario Tronco (Piccola Orchestra Avion Travel) e del documentarista Agostino Ferrante e dalla frequentazione del quartiere romano multietnico per eccellenza dell’Esquilino (i musicisti sono originari della Tunisia, Italia, Brasile, Stati Uniti, Ecuador, Argentina, Senegal, Mali, India).
    L’ascoltatore, musicofilo o meno (lasciando da parte le celebri categorie adorniane che del resto non reputano importante il genere musicale di cui ci occupiamo) ha avuto ed ha a disposizione, soprattutto attraverso Internet, un patrimonio pressoché incalcolabile di musica e di fruizione della musica stessa attraverso la “realtà liquida” (parafrasando Bauman) del formato Mp3 che permette la manipolazione dei documenti fino alla costruzione di una personale track list che non è affatto caratterizzata da criteri di rigorosità filologica quanto piuttosto governata dalle tendenze del momento e alla mescidazione di generi e contesti anche contraddittori fra loro. Questa “musica liquida” rappresenta anche dal punto di vista commerciale una svolta dopo quasi un secolo di dominio incontrastato delle varie majors che si sono spartite l’industria musicale planetaria, così come non va dimenticato il fiorire delle etichette “indies” che danno voce ad un mondo musicale e culturale che spesso non troverebbe luogo, in termini economici, nelle produzioni (sempre più esigue, in verità) delle etichette che oramai resistono solitarie nella produzione di artisti. O addirittura, date le possibilità offerte, è possibile autoprodursi inserendo nella rete le proprie composizioni senza per questo dover appunto ricorrere alla trafila della produzione artistica nel senso corrente del termine – e spesso succede che molti di questi documenti diventino dei successi planetari solo attraverso la fruizione dai vari motori di ricerca adibiti a questo tipo di produzione.
    Dunque il problema dell’ascolto non riguarda soltanto il “cosa” ma soprattutto il “come”. L’iPod rappresenta forse lo strumento di riproduzione musicale più importante e pervasivo, grazie anche alla qualità dei documenti che possono essere caricati ed eseguiti. Le possibilità combinatorie, come si diceva prima, sono pressoché inesauribili e perciò anche la cultura musicale ha ricevuto un impulso determinante. Fenomeni come la cosiddetta “world music” o la cosiddetta “musica mediterranea” sono da considerare come i fenomeni guida di una “globalizzazione” musicale che, se da un lato ha contribuito a far conoscere le “musiche del mondo”, ha dall’altra pericolosamente appiattito su determinati stereotipi questa ricchezza musicale, generando fastidiosi equivoci o consolidati errori che tendono a creare delle “illusioni di ascolto” che non rispettano la filologia quanto piuttosto la “vulgata” di certi generi musicali. (continua)

  • RADIOVINILE
    Il fonografo di Darwin/2

    data: 27/01/2019 20:35

    Questo secondo frammento potrebbe partire da un’osservazione tranchant di Adorno: “Noi non capiamo la musica, è la musica che capisce noi”. Quanto sia vero e opportuno ricordarlo spero di dimostrarlo con ciò che segue.
    Nella canzone di consumo l’ipotesi di base è che occorra trovare nel racconto e nella forma linguistica una possibile compensazione rispetto al realtà, di un “altrove” che comprende tanto l’essere che il dover-essere concedendo una forma di sollievo e di rivincita rispetto allo scacco del quotidiano. Il congegno sentimentale rappresenta un’ottima fonte di approvvigionamento, la durezza del confronto con l’altro scivola attraverso rime facili (solo per Saba la rima “cuore –amore” era la più antica e la più difficile del mondo) situazioni facilmente riconoscibili dal punto di vista mimetico, le occasioni d’incontro e di allontanamento-ritorno quasi sempre stereotipate – e con buona pace del Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso - il rapporto con l’assente è un monologo cui manca sempre, o quasi (vedi il genere del “duetto”) un termine di confronto, se non dialogico, almeno dialettico.
    La cantabilità e la facilità delle strutture melodiche e armoniche concedono degli atouts che ogni autore ben temperato sa sfruttare alla perfezione. Aggrappati all’imponderabile della “condizione umana” (come del resto sottolineava un severo e umanissimo moralista come Montaigne) la canzone di consumo ha costruito un vantaggio notevole in termini di memorabilità (e qui andrebbero ricordate alcune osservazioni di Pasolini (in Il fascino del juke-box) sul carattere invincibilmente “proustiano” di certe canzonette, cioè il loro essere latrici di una “memoria involontaria” e di essere, ciascuna, potenziali madeleines per l’ascoltatore) che nella canzone d’autore slittano invincibilmente su altri piani ben più complessi, ma che nella ricezione si caricano di una dimensione storicizzabile almeno quanto quella della canzone “minore”:
    “Sulle ‘canzonette’ potrei dare due tipi di risposte del tutto contrarie. Niente meglio delle canzonette ha il potere magico, abiettamente poetico, di rievocare un ‘tempo perduto’. Io sfido chiunque a rievocare il dopoguerra meglio di quello che possa fare Boogie-Woogie, o l’estate del ’63 meglio di quello che possa fare Stessa spiaggia stesso mare. Le ‘intermittences du coeur’ più violente, cieche, irrefrenabili sono quelle che si provano cantando una canzonetta. (Chissà perché i ricordi delle sere o dei pomeriggi o dei mattini della vita, si legano così profondamente alle note che fila nell’aria una stupida radiolina o una volgare orchestra. E anche la parte odiosa, repellente di un’epoca aderisce per sempre alle note di una canzonetta: pensate a Pippo non lo sa).
    Il modo immediato che io ho di mettermi in rapporto con le canzonette è dunque particolare, e non so prescinderne. Non sono un buon giudice. Soffro inoltre di antipatie e simpatie profonde per i cantanti e le melodie (il massimo d’antipatia è per la canzonetta ‘crepuscolare’ di cui potrei dare come paradigma Signorinella pallida…). Aggiungo infine che non mi dispiace il timbro orgiastico che hanno le musiche trasmesse dai juke-boxes. Tutto ciò è vergognoso, lo so: e quindi contemporaneamente devo dire che il mondo delle canzonette di oggi è un mondo sciocco e degenerato. Non è popolare ma piccolo-borghese. E come tale profondamente corruttore. La Rai Tv è colpevole della diseducazione dei suoi ascoltatori anche per questo. I fanatismi per i cantanti sono peggio dei giochi del circo.”
    Al netto delle idiosincrasie, la riflessione pasoliniana presenta molti punti interessanti su cui riflette, non ultimo il concetto di diseducazione dell’ascoltatore come componente scientemente perseguita per impedire lo sviluppo di uno spirito critico, lasciando piuttosto al “panem et circenses” il compito d’intrattenere, sviando dai punti critici della realtà l’attenzione dello spettatore-ascoltatore. Una critica fittamente intrecciata all’Elogio della cattiva musica che già Proust presenta ne Les plaisirs et les jours. Le “intermittances du coeur” sono una cosa da distinguere dalle “intermittenze comunicative” che la canzone presenta nel suo variegato panorama. Potrebbe porsi qui un discrimine, ancorché plausibile e definitivo, almeno interessante per la riflessione.
    Questa complessità di piani, unita alla tensione “socio-politica” ha strutturato la canzone d’autore secondo un’etica più esigente e linguisticamente squisita. Le generazioni cresciute a pane e cantautori hanno maturato una prospettiva diversa dalle generazioni ammansite dal melodismo e dal varietà, con tutta la significatività che queste tradizioni rappresentano. Chi si riconosceva in Claudio Villa difficilmente poteva accettare Modugno. Non a caso la loro rivalità divenne esemplare almeno quanto quella tra Bartali e Coppi. Chi imparava a compitare la realtà sull’alfabeto della nascente “scuola genovese” aveva dinanzi a sé delle strutturazioni sociali più vicine agli scrittori che non raccontavano il miracolo economico quanto l’incubo di una industrializzazione senza sviluppo: Ciao amore, ciao rappresenta un manifesto, tragico peraltro, di questo divario le cui conseguenze si vedranno meglio nel decennio successivo.
    La concomitante stagione del “beat” avrebbe contribuito ad approfondire lo iato generazionale tra il “Voi” dei padri e il “Noi” dei figli (da Tenco ai Rokes, in questo certamente assimilabili) con la conseguente operazione “sacrificale” perpetrata dai primi nei confronti dei secondi come dimostreranno sempre gli anni Settanta, il decennio più creativo della nostra storia recente tuttavia connotato univocamente come il decennio degli “anni di piombo”. Non che questo non sia vero, certamente, ma è altrettanto vero che una definizione univoca, tipica della categoria generalizzante, ha il torto di non aderire esattamente a un fenomeno intrinsecamente complesso come quello relativo al decennio in questione.
    Certo, le canzoni sottolineano dei precisi momenti, ma in seguito vengono intese in un modo diverso. L’apporto del rock e del blues alle ragioni della canzone italiana, contribuisce a innovare la tradizione melodica e l’impostazione belcantista del nostro repertorio musicale, ha offerto soluzioni nuove e diverse nell’assemblaggio di strumenti e voci, concedendo anzi alla voce dell’interprete quel carattere così inscindibile quando diciamo “cantautore”: s’intende soprattutto sottolineare quella particolare voce prima ancora che una certa canzone. Qualsiasi canzone d’autore, sottratta alla voce del suo interprete, diventa un capitolo a parte di una storia artistica, cosa che invece non è affatto prevista nella canzone di consumo, dove anzi il criterio d’immedesimazione vocale, contenutistica e sociologica deve essere del tutto priva di ostacoli, al netto delle difficoltà tecniche dell’interpretazione. Insomma, un conto è interpretare Come vorrei e un conto è interpretare La canzone dell’amore perduto. L’impronta vocale, nella canzone d’autore, è paritetica alla scrittura e alla composizione del brano, il che va anche spiegato col fatto che il cantante deve connettere fra loro elementi così apparentemente diversi come il testo, la musica, l’arrangiamento, la registrazione e, infine, l’interpretazione come unicum.
    Come qualsiasi altra tipologia discorsiva, la canzone ha stratificato nella propria memoria semantica e allocutiva cose molto diverse e distanti, per cui anche la “citazione”, ironica o meno, ha sempre il significato di un voler connettere fra loro zone altrimenti considerate del tutto distanti. Questo è stato anche uno dei registri compositivi tipici della nostra tradizione lirica, soprattutto, da Dante che cita “en travesti” Cavalcanti, Guittone o Guinizzelli (tacendo delle riscritture/traduzioni da Virgilio) fino a Montale che riverbera in molte sue composizioni un regesto di nomi altrimenti difficilmente avvicinabili, da d’Annunzio a Sbarbaro, da Petrarca e Dante a Leopardi.
    Quello che possiamo concludere, in forma provvisoria, è che esiste un memoria “involontaria”, strutturale, legata al lessico e alle sue esibizioni che s’intreccia, più o meno consapevolmente, nella percezione e nell’elaborazione dell’ascoltatore. Questo in parte giustifica la distinzione, già posta negli anni Settanta, da Barthes, quando inaugura la voce “Ascolto” sostenendo che “udire” è un fatto fisiologico, mentre “ascoltare” è operazione più complessa legata alla cultura individuale e storico-sociale entro la quale l’evento si pone. E questo è molto interessante e gravido di conseguenze.
     

     

     

  • RADIOVINILE
    Il fonografo di Darwin/1

    data: 20/01/2019 09:37

    Alcune cose vanno avanti, resistono alla pressione dei cambiamenti culturali, sociali ed epocali, continuano a collocarsi con un ruolo significativo; mentre altre, per le medesime ragioni, si attenuano, sbiadiscono, finalmente rimosse fino a quando il repêchage di turno le toglierà dagli imballaggi delle soffitte e li ripresenterà con la loro aria vetusta e la sensazione che forse il loro oblio sia il risultato di una malevola e ingenerosa svista e che, tutto sommato, in loro ci sia qualcosa di ancora non risolto che solo ora può trovare spazio e comprensione. Ma forse non è anche questo un caso di darwinismo applicato alla canzone?

    Qui la vicenda si fa più complessa perché non conta la qualità di un brano in sé, quanto piuttosto l’interazione dei mezzi di comunicazione di massa nonché gli eventi collettivi che danno spazio o conferiscono occasioni di interpretazioni degli stessi brani in una chiave non necessariamente aderente alla struttura originale. In questo senso, eventi come il “Premio Tenco”, ad esempio, a discapito della fortuna televisiva e dello share per nottivaghi, ha garantito fin dalle sue origini un momento di alto interesse nella conservazione e nella riproposizione di questo patrimonio anche all’insegna della contaminazione e del dare opportunità alle nuove generazioni di farsi avanti e di ottenere una riconoscibilità che altri contesti, penso al Festival della canzone italiana sanremese e, ancor prima, il Festival della canzone napoletana hanno sempre dato alla canzone italiana.

    Nel caso di Piedigrotta, in particolare, prima dell’avvento di Sanremo e del cantautorato in generale, si può dire che sia stato l’unica rassegna che consolidava una tradizione fondamentale della nostra canzone –quella napoletana- a forma d’arte indiscussa sempre in bilico fra tradizionalismo e innovazione (da Sergio Bruni a Roberto Murolo, da Gragnaniello a Enzo Avitabile, fino ai Mokadelic). Per non parlare della generazione da questo mainstream della nostra storia musicale, di frutti più o meno “puri” rispetto ad esso come la Nuova Compagnia di Canto Popolare (con la collaborazione di Roberto De Simone, tra il 1967 e il 1974), Musicanova, Napoli Centrale e, naturalmente, Pino Daniele. Né va dimenticato che il talento unico di Domenico Modugno ha raccolto incondizionati successi davanti a entrambe le platee ed anzi, nel suo caso, si potrebbe parlare di una vera e propria doppia anima sospesa tra lingua e vernacolo che rappresenta pienamente il ventaglio e la complessità dell’ispirazione del “cantattore” pugliese. Certo, il caso napoletano si presenta come un unicum assoluto, anche perché questa lingua, assurta già dai tempi di Giambattista Basile a lingua d’arte abbia sviluppato una propria linea di discendenza che altre tradizioni vernacolari non possono vantare per altrettanta robustezza (né Milano, né Roma o Milano, ad esempio, sebbene nemmeno in questo caso manchino casi importanti e interessanti).

    Ma il darwinismo funziona anche a questo livello, perché il modello linguistico risulta addirittura essenziale alla diffusione e alla fortuna della canzone. Se pensiamo all’impatto, in termini di successo, di un disco come Creuza de mä di De André, dovremo constatare che si tratta di un caso davvero unico anche per aver sfruttato un impasto linguistico che assolutamente non poteva contare precedenti solidi con la tradizione. Oppure, si pensi al caso, altrettanto unico dei sardi Tazenda (Gigi Camedda, Gino Marielli e Andrea Parodi) o, più recentemente, di Davide Van De Sfros, che però non possono contare su un uditorio altrettanto corposo e su un tipo di comprensione che invece all’interprete in napoletano è garantito da una storia solidissima e da un successo direi planetario.

    La lingua della canzone d’autore rappresenta un capitolo davvero importante della storia recente dell’italiano perché si è nutrita di diversissimi contributi ed ha soprattutto modellato un linguaggio che ben presto si doveva adattare all’essenzialità dell’inglese dei maestri del genere (Dylan, Cohen) e quindi lavorando sulla complessità polisillabica della nostra lingua, per lo più conservata attraverso una tradizione lirica raffinatissima e, per questo, depurata dalle scorie del reale, più concrete nel dialetto. Altro discorso è il nutrimento culturale di molti dei nostri autori, fatto di letture complesse e diversificate (Bukowski per Ligabue, o John Fante per Capossela, tacendo l’orizzonte di autori come De André, Dalla o Conte e Guccini). La lingua della canzone ha avuto anche una funzione di mediazione culturale molto importante, e naturalmente questo va a incidere in termini di sopravvivenza o di oblio. L’apparente cripticità di certi esempi (l’analisi linguistica di Rimmel, per esempio, dimostra la non congruità del testo se non nei termini di una pura enunciazione; Bandiera bianca, del resto grande successo popolare del Battiato post-sperimentale, mette insieme una rassegna sconcertante, all’apparenza, di elementi eterocliti: “A Beethoven e Frank Sinatra preferisco l’insalata / a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie…”). Oppure si pensi a dischi di straordinaria qualità come Anidride solforosa o Il giorno aveva cinque teste del duo Roversi-Dalla per comprendere come sia davvero interessante l’escursione stilistica e linguistica di cui è capace la canzone. E d’altra parte, se ripensiamo a testi come Dio è morto (evidente ispirata dal metodo compositivo di Ginsberg) o Auschwitz di Guccini, Il testamento di Tito o La pianta del tè rendano evidente la presenza di temi assolutamente maggiori rispetto all’ambito consueto della canzone e l’immissione di energie poetiche davvero rilevanti quali i Vangeli apocrifi per De André o la lezione di José Saramago per Fossati.
    Per queste ragioni il darwinismo implica anche una sociologia e un’antropologia della comunicazione che hanno radicato dei concetti e delle questioni che non sono semplicemente generazionali, come invece detterebbe il teorema aureo del “pop”. Questo costringe a considerare un aspetto davvero formativo del concetto di canzone d’autore, ovvero della componente socio-politica che questo genere contemplerebbe come marca distintiva genetica. Dire cantautore, non va negato, ha quasi sempre significato “di sinistra” o per lo meno “impegnato”. Chi non rientrava nel canone politico doveva essere retrocesso nel mondo informe e conformista del “pop” (Baglioni e Cocciante sono un caso particolare in questo senso), o addirittura potremmo pensare a Bruno Lauzi, la cui fortuna è dipesa non solo dalle sue straordinarie qualità artistiche quanto dalla sua irriducibilità ad un cliché nei termini che abbiamo detto.
    Altri ancora, come Piero Ciampi o Rino Gaetano, hanno addirittura sublimato il problema pur percorrendo strade dissimili in prospettiva ma simili nella sostanza di un rivoluzionamento del linguaggio della canzone portato a splendore narrativo e poetico da Ciampi, oppure nella complessa irridente sapidità creatività da Gaetano (con un coraggio ignoto alla classe politica coeva); Tenco e Paoli, così solidali, direi, al temperamento di Pavese l’uno, di Montale l’altro (come dimenticare che Sapore di sale deve moltissimo a Falsetto?). La grande tempra artistica e autoriale di Gaber è arrivata col teatro-canzone, proprio a partire dai fatali anni Settanta –il decennio fondamentale per il cantautorato- ad una elaborazione che superava il confine del concept album per proporsi come drammatizzazione cantata, o melologo se si preferisce, che crea una categoria a sé nel pur vario e articolatissimo orizzonte che percorriamo. Ancora a parte dobbiamo ricordare la lezione del cosiddetto rock progressivo, incarnato, seppure con le debite distinzioni, da Le Orme, dagli Area (Gianni Sassi, alias “Frankenstein”, ha dato alla scrittura dei testi una via maestra molto elitaria), dal Banco del Mutuo Soccorso tanto dal punto di vista della ricerca musicale quanto da quello della scrittura dei testi.
    Per quanto riguarda il confronto con la grande tradizione degli chansonniers francesi (Brassens e il grande Leo Ferré) il confronto poteva essere necessariamente impari, non contemplando la nostra tradizione un rapporto viscerale e ricchissimo con la poesia di Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e Apollinaire, dunque un impasto unico tra clarté illuminista, ironia e visionarietà che nella nostra tradizione poetica segnava un distacco abissale e perciò poco fruibile in termini di prestiti concettuali o di vere e proprie interpretazioni come nel caso del Rimbaud e Apollinaire di Ferré, appunto. Franco Brevini ha raccontato in un libro recente e ammirevole quanto sia grande il divario fra la “letteratura italiana” e la “letteratura degli italiani”, soprattutto dal punto di vista del linguaggio poetico e in secondo piano della prosa, avendo la nostra letteratura elaborato un modello ideale di lingua cui difficilmente corrispondeva il “paese reale”. Ora il punto focale del darwinismo credo concerna proprio il rapporto tra “testo” e “realtà”. Non si tratta perciò di identificare il senso delle canzoni nella loro proposta di un punto di fuga dalla realtà, ma nella proposta di tale punto di fuga a partire dalla realtà. Questo è certamente il tratto che più di ogni altro consente di accomunare la canzone e i suoi autori. Potremmo dunque distinguere a nostra volta tra la “canzone italiana” e la “canzone degli italiani”?... (continua)
     

  • RADIOVINILE
    Le canzoni nel tempo,
    il tempo nelle canzoni

    data: 13/01/2019 15:15

    «Che cos’è una canzone? Se nessuno me lo chiede, lo so. Se dovessi spiegarlo a qualcuno, ecco, non lo so più.» Sebbene in chiave minore, la perplessità corrisponde a quella più celebre di Sant’Agostino sulla natura del Tempo. Eppure, le canzoni e il tempo sono legate da una necessità contingente e da una prospettiva che tende a superare quella contingenza, perché c’è qualcosa di più; e questo qualcosa, nonostante le difficoltà che suscita, merita di essere, se non risolto, almeno esplorato.
    Dunque, le canzoni nascono e stanno nel tempo, lo caratterizzano e si lasciano modellare da esso, lo rievocano, lo sostituiscono e lo completano – ed è anche questo ciò che fa parte di quell’imponderabile che appartiene loro. E nello stesso modo, le canzoni vengono scritte, poi registrate, infine ascoltate e riascoltate, e ognuno di questi passaggi è un tempo diverso, graduabile fra due estremi più o meno determinabili (cioè: quando e come si scrive, quando e come e per quanto tempo si ascolta) con un centro fisso, direi tecnicamente determinato, cioè la “durata” della traccia, il suo tempo cronografico, dal quale poi s’irradiano le altre dimensioni principali: il tempo del racconto e il tempo del raccontare, l’orizzonte d’attesa e la sua dilatazione in un “tempo grande” che è la storia della ricezione di un brano. La traccia è appunto un segno, un indice, una sollecitazione.
    A dar retta al dizionario, la “traccia” è “un segno lasciato sul terreno da un corpo, un oggetto, un attrezzo”; oppure è “un’orma, impronta, pesta lasciata da un uomo o da un animale camminando, correndo, ecc.”; o ancora: “segno, indizio; ciò che resta a testimoniare di uno stato, un fatto, una condizione (anche figuratamente)”; oppure ancora, “abbozzo, schizzo che serve da guida per l’esecuzione di un disegno, la realizzazione di un quadro, un’incisione, un affresco”; o anche, in senso letterale, “cammino”, (o il desueto “fila di gente che procede insieme”); infine, “immagine luminosa che si forma sullo schermo dei tubi a raggi catodici in corrispondenza del percorso del pennello elettronico; la zona interessata sul nastro nella registrazione magnetica”.
    Ecco, molto si gioca proprio su quest’ultima definizione, anche se negli altri contesti metaforici è possibile afferrare qualcosa, quel segnale che ci può improvvisamente mettere in contatto con ciò che stiamo cercando (o che ci sta cercando).
    L’inclusione di un modello cronologico o cronografico rappresenta un metodo classificatorio primario perché fa riferimento allo svolgimento di una determinata serie di eventi affidati alla temporalità esterna; altro sarebbe definire la temporalità interna ai documenti, la cui stratificazione è certamente e maggiormente complessa (scrittura, registrazione, produzione, diffusione, ricezione). Tuttavia, come primum da cui partire abbiamo una sezione di registrazione magnetica che poi viene riversata su determinati supporti che ne garantiscono la “riproducibilità” (nel senso proposto da Walter Benjamin) e la diffusione, ossia la “riproduzione” in termini di ascolto.
    Nella sua esplorazione dei fondamenti della letteratura, Michail Bachtin in alcune sue opere capitali e originali, introduce i concetti di “cronotopo” e “tempo grande” designando col primo termine il nesso spazio-temporale che determina un fatto narrato e col secondo la sua collocazione in una dimensione più estesa che ne incrementa il significato e la sua comprensione. Se applicassimo questi concetti alla canzone, probabilmente verremmo a capo del paradosso di questo genere, cioè il suo stare e star fuori del tempo, carattere che lo allinea ai generi considerati artisticamente maggiori e sui quali è più consueto soffermarsi come il racconto, la novella o il romanzo. La natura labile e al contempo determinata della canzone esprime, nel suo paradosso, una condizione che ne determina il valore non solo in termini di fruizione (la sua pressoché infinita riproducibilità) ma conserva inalterata quell’aura che la sottrae dalla contingenza, dall’occasione, e la trasforma in qualcosa di molto più resistente.
    I supporti che ne conservano e ne tramandano i contenuti sono soggetti, come ogni altro materiale, ad un processo di decadimento cui la tecnologia cerca di porre rimedio divenendo sempre più sofisticata nel tentativo di conservare quella traccia originaria che non può essere intimamente modificata senza che il senso rimanga inalterato e genuino. E qui tocchiamo il suo segreto. La canzone è soprattutto l’immateriale, è il suono e l’aria attraverso le cui vibrazioni si propaga e dove si colloca il suo senso e significato. E da qui si apre un territorio difficilmente definibile ma altrettanto certo, che nasce dall’ascolto e interagisce col nostro essere, o con quella parte o condizione di noi che chiamiamo “anima”. Come direbbe Prospero nella Tempesta: “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”, e in fondo le canzoni ci toccano così profondamente perché questa è anche la loro natura.

  • RADIOVINILE.
    Voi che ascoltate in ordine
    sparso il suono...

    data: 06/01/2019 21:35

    Voi che ascoltate in ordine sparso il suono… In principio era la radio, e il vinile veniva trasmesso dalla radio, e il vinile era la radio… Bastava girare la manopola sospesa tra “on” e “off”, ascoltare… e il miracolo-magia aveva luogo. In un mix fra l’Evangelista e Proust, direi che tutto comincia da lì, da quell’incrocio fra tecnica e magia che erano per me, e non solo per me, il vinile e la radio, la porta sul mondo in modulazione di frequenza. Qualcosa di magico perché nel pensiero primitivo e basico, com’è quello dei bambini, questi oggetti nascondevano le voci e i suoni che viaggiavano nello spazio-tempo da un posto che non potevamo nemmeno immaginare, penetravano lo spazio domestico e s’insediavano nella nostra mente e nella nostra anima con una precisione e una sovranità incontestabili.

    Mi ricordo benissimo che la domenica mattina, ogni domenica mattina, e non sarebbe stata domenica, alla radio davano “Gran Varietà”, storica trasmissione della Rai capitanata, ricordo, da Johnny Dorelli, memorabile almeno quanto la “Hit Parade” condotta da Lelio Luttazzi che invece coronava la vigilia del week end post “miracolo economico”, il venerdì. Sul sabato del villaggio non ho ricordi certi, ma questi lo sono da sempre, perché “Hit Parade” andò avanti con enorme successo dal 1967 al 1976, così come “Gran Varietà” lo fece dal 1966 al 1979 con repliche pomeridiane il sabato (e perciò qualche sabato memorabile ce l’ho). Senza scomodare Wittgenstein, ricordo perfettamente che i confini del mondo e del linguaggio erano stabiliti da questi oggetti domestici e arcani che rendevano possibile qualsiasi cosa avesse a che fare con la parola o i suoni e, come avrebbe detto Lucio Dalla molti anni dopo, ci si chiudeva in casa la domenica per seguire le partite raccontate fissando un muro e non andando allo stadio (“Tutto il calcio minuto per minuto” è parte dell’immaginario collettivo di quelle generazioni).
    Poi subentrò la TV a pieno regime, in particolare i documentari, i cartoons e i grandi sceneggiati: Lea Massari era Anna Karenina, in una sorta di lapsus temporale che collegava l’Ottocento russo al Novecento post miracolo economico; Nino Castelnuovo e Paola Pitagora che incarnavano l’epos umile del Manzoni; la Tempesta di Shakespeare nella meravigliosa e per sempre insuperabile regia di Strehler… Perché anche la TV era magica quanto la radio…
    Insomma, era questo insieme di cose che per me equivaleva alla musica e al suo misterioso potere di coniugare suoni e immagini in un’emozione unica. Senza dimenticare, naturalmente, il mangiadischi e la piccola collezione di 45 rpm che mio padre e mia madre acquistavano nel negozietto rifornito in maniera sommaria dei successi trasmessi dalla radio e dalla TV alla scadenza annuale di Sanremo: ricordo “Vengo anch’io, non tu no” e il lato B “Giovanni telegrafista” di Jannacci, che aprì il mio mondo all’elemento ironico e melancolico oltre che lo spazio dell’onomatopea prima che ne conoscessi altri vertici con Louis Armstrong, la Fitzgerald o Dalla e prima ancora di trovarne traccia nella poesia di Pascoli (curiosamente, per me questo suo aspetto della poesia è quello più interessante e moderno, proprio il suo incrociare parola e pre-verbale, una sorta di antenato dello scat e del vocalese, una specie di ibrido fra Linneo e John Cage nostrano già pienamente avanguardistico e musicale); Iva Zanicchi che canta Teodorakis e il fiume amaro che può essere la ferita di un popolo schiacciato dalla dittatura; Caterina Caselli che implora perdono o, sfacciatamente, proclama da femminista avant-garde che nessuno la può giudicare (il che, in un ambiente come il mio, era quasi una blasfema e orgogliosa dichiarazione di guerra al patriarcato, ribadita nel suo essere cantato a squarciagola da casalinghe e ragazze d’ogni estrazione  eccetto le signore/signorine “perbene”, naturalmente, che magari la cantavano sottovoce ma la cantavano certamente); Rosanna Fratello che con altrettanta sincerità da Liala minore proclama di essere una donna e non una santa – una versione cupamente sospesa fra cronaca vera e castigo post-conciliare prima che tutto fosse spazzato via dalla Bocca di Rosa del più incisivo e memorabile Faber.
    Ma ricordo anche le incisioni di canzoni folk dedicate ai luoghi sacri e alle feste della mia terra, stornelli popolari che erano ancora più curiosi per me perché era incredibile che qualcuno potesse registrare delle cose che sentivo in versione “live” nelle feste comandate (ma all’epoca non sapevo cosa fosse l’antropologia musicale o l’etnomusicologia).
    Un mondo sostanzialmente eterogeneo, erratico, senza distinzioni fra sublime “alto” o “minore”, ma tutto e sempre perfettamente inserito in quello spazio di magia che era il suono modulato nell’aria, voci senza corpo ma che raggiungevano i corpi e provocavano emozioni dovunque, perché sia la radio che il mangiadischi erano le prime cose che si caricavano in macchina per le gite al mare o in montagna –non si poteva pensare di farne a meno, e guai se qualcuno si scordava il ricambio delle pile!
    Poi altre cose ancora sono accadute: la nascita delle radio “libere”, l’avvento dell’impianto stereofonico (quello è stato un riscatto generazionale di proporzioni sublimi, Anno Domini1982) il Walkman a cassette, il lettore cd portabile, poi collegato allo Hi-Fi e, infine, il formato MP3 (e relativo, e amatissimo, iPod) che ha trasformato e trasferito la magia dell’aria nel suo corrispettivo “liquido” e intangibile del tutto. Ma il ritorno del vinile, del “vile vinile”, l’amato vinile che non abbiamo mai smesso di ascoltare e collezionare, è come se richiudesse il cerchio di quella scena originaria dove la madeleine è appunto quella circonferenza sottile fitta di solchi che non solo erano il nostro modellino di sistema solare ma ne rappresentavano anche i movimenti fondamentali, quello di rotazione e rivoluzione, e la puntina non era altro che una sonda spaziale in perenne esplorazione di quei mondi lontanissimi e così vicini da diventare parte della nostra memoria involontaria, la sua immancabile dimensione auditiva che ci accompagna quotidianamente.
    Per tutto questo insieme minimo di ragioni, per questo desiderio di fare un omaggio alla compagnia più fedele di tanti anni, la musica, con il timore che necessariamente accompagna l’idea di esplorare un mondo che si ama con grande passione, ho deciso di intraprendere questa avventura dove le parole hanno il più che ingrato compito di riportare alla superficie i suoni che ci hanno allevati e cresciuti, con tutte le inevitabili discrepanze, limiti e lacune che tale operazione comporta. Questo primo assaggio ha lo scopo di anticipare alcuni temi delle prossime “puntate” che avranno cadenza settimanale, se nulla osta. A queste “puntate” seguiranno delle schede dedicate a brani o dischi di qualsivoglia origine (dal pop alla classica… ma sì, abbondiamo!) recensioni di libri dedicati alla musica (se li reputerò interessanti per parlarne) e dei “microsaggi” dedicati ai protagonisti che hanno costituito per me la mia “educazione sentimentale” come ascoltatore prima e come musicista dilettante oggi (dopo aver desiderato per vari decenni di suonare e finalmente avere avuto il coraggio di provarci: nella fattispecie, il basso elettrico).
    Un’ultima cosa dedicata all’incipit di queste “avventure nel suono”. Si tratta di un evidente richiamo alla letteratura “alta” e a un celebre “incipit” di un classico della nostra poesia. Non è però un richiamo così irriverente come potrebbe sembrare, perché i musicisti e i poeti hanno in comune questa straordinaria attenzione per i suoni, sia che compongano parole o note, oppure entrambe le cose nello stesso tempo (e si chiamano canzoni). Ma vorrei anche dissipare la possibile confusione fra le due arti, ritenendo che essere poeti ed essere musicisti non sono facoltà intercambiabili fra loro, anche se in alcuni casi potrebbe sembrare il contrario (e non faccio i nomi perché sono ampiamente noti e ricorrenti). Credo che distinguere gli ambiti porti chiarezza nella loro interpretazione e valore, e l’uso della parola “poesia” può essere ampiamente inteso e frainteso (accade spesso). Può darsi che ne parlerò altrove e con argomenti più accurati e approfonditi, ma per ora mi piace pensare che entrambi, il poeta e il musicista, si rivolgono a un “uditorio” e che l’arte dell’ascolto (o dell’ascolto “intenzionale” di cui parla Adorno, poniamo) sia molto più proficua di tante altre questioni.
    “Radio Vinile” invece è una sorta di ragione sociale nella quale si possono riconoscere le due fonti primarie della “bildung” musicale del sottoscritto, e per questo stanno all’origine, nel “principio” come la scherzosa ripresa evangelica suggerisce. Ciò detto, buona lettura e buon ascolto.