Era stata Chiara Valerio, se ricordate, ad aver sfiorato questo tema quando collegava Battiato, o un certo Battiato, alle situazioni della giovinezza, e quindi rievocando il “potere magico, abiettamente poetico” che ha la canzone di rievocare il tempo perduto. Una sorta di “madeleine” sonora, che si trascina dietro, nel bene e nel male, un vissuto personale ed epocale che forse, e non sempre, a tutti piace. Si può legittimamente soffrire di simpatie e antipatie profonde per i cantanti e le melodie (vedi Wilson contra Dion) che possono essere anche il risultato dei ciclici revisionismi (per esempio, la mia personale riscoperta della qualità della disco music, un tempo ritenuta colpevole più o meno delle cose che Pasolini dice della “canzonetta”: e tra “disco” e “rock”, in certi contesti, l’opposizione era di “classe sociale” non solo musicale); e c’è anche, naturalmente, chi si costruisce una reputazione facendosi notare nel sostenere che una musica disprezzata da chiunque, sia invece geniale. Ed è vera anche un’altra cosa, cioè che il critico accademico (non è il caso di Murgia e Valerio) può anche permettersi di tralasciare completamente il gusto popolare (ricordate Orazio? Odi profanum vulgus et arceo…; Odi, III 1, 1) e privilegiare ciò che è “strano”, “eccentrico”, “esoterico” o “mistico”. Un critico professionista (musicale, intendo, e Murgia e Valerio nemmeno questo sono) che provasse a comportarsi nello stesso modo, credo verrebbe licenziato e senza lavoro. Nel frattempo, anche l’underground, luogo del bizzarro (in senso creativo) per antonomasia, si è dovuto accodare al mainstream perché ora chi comanda davvero è la comunicazione e la diffusione “liquida” della rete.
Se invece di fermarci alla provocazione superficiale, scendiamo un po’ nella sostanza del discorso, possiamo identificare, a mio avviso, almeno due elementi su cui vale la pena riflettere. Ci sono delle cose importanti che in questa conversazione assumono un significato ben più interessante del “mi piace Battiato. Anzi no!” (qualcosa di simile scriveva Croce inaugurando il suo saggio su Pascoli).
Il primo sta in queste frasi: “La musica è il doping dei non-significati. Questo trovo agghiacciante. Vuol dire che la musica è un grande inganno. Io la guardo con diffidenza. Quando scrivo, io non ascolto musica”. Dopare i non-significati è proprio il primo e più schietto “oggetto d’orrore” (per citare Mozart-Da Ponte) per lo scrittore, oggetto che va rimosso dall’attenzione e dalla psiche (magari), perché scrivere, in questo concezione, è sempre un “pieno”, è sempre una costruzione i cui mattoni sono robusti e ben connessi (cosa che non certo va disprezzata) ma che impongono, io credo, uno statuto di fedeltà a quanto chiamiamo il “reale” (in qualsiasi dimensione, pubblica o privata, lo vogliamo pensare). Roman Jakobson ci ricorda che esistono almeno una mezza dozzina di concetti di “realismo”, e non starò qui a rievocarli. Dopare il non-significato significa, renderlo contestuale, se non simile, alla realtà, a quel “pieno” il cui rovescio è l’horror vacui di una parola non in grado di aggredire la scorza delle cose e lavorarle da dentro. La “verità romanzesca”, come ha magnificamente dimostrato René Girard, è l’altro della “menzogna romantica” –e in fondo, il melodramma ne è uno dei precursori eccellenti, come potrebbe testimoniare, per esempio, Stendhal: la mediazione del desiderio nella letteratura e nella vita. La canzone è, in scala minore, quasi sempre un micro-melodramma, i cui contesti, scenari, personaggi, retoriche, non sono poi così differenti, oltre alle distanze dei linguaggi, nel praticare questa mediazione del desiderio (a livelli diversi di complessità e di linguaggi, come ad esempio la già citata La cura). Quando ricordo ai miei studenti che “Laura non c’è” l’ha scritta per primo Petrarca e non Filippo Neviani (alias, Nek) loro ci ridono sopra, ma in fondo la “battuta” non è così lontana dal vero. La codificazione del “discorso amoroso”, così funestamente caro al melodramma –eccetto Così fan tutte- è un processo di selezione e accumulazione che, nella realtà della lingua, diventa inestricabile dai suoi stessi contenuti. La “lingua del vero”, la “verità romanzesca”, secondo Michela Murgia, non può lasciarsi irretire dalla “verità altra” dalla “menzogna romantica”. La musica è il “grande inganno” (quasi “The great rock’n’roll swindle”) il cui agghiacciante effetto è la diffidenza, naturalmente, il rifiuto del potere seduttivo. Perciò, quando si scrive, non si ascolta musica. La volontà di essere, qui e ora, non accetta, in questa visione, la potenzialità generativa del desiderio.
L’altro elemento su cui vale la pena riflettere riguarda una questione cui, come nel primo caso, si allude quasi indirettamente, ed è l’aver completamente omesso il discorso sulla “voce”, cosa a mio avviso, tanto più deludente e carente nel dialogo Murgia-Valerio – quanto più, paradossalmente, partita proprio dal “melo-dramma”. Per anni io e un mio caro amico (melomane assoluto) abbiamo ricordato ridendo l’orrendo (per entrambi) “poco spruzzo e monde son” della Lady Macbeth di Verdi-Piave, più adatta a reclamizzare un pulitore multiuso che commentare la follia scaturita da un delitto orribile. Ma il punto era che la voce e la musica ti facevano concentrare sul focus drammatico, non sulle qualità lessicali di “quei più modesti romanzi” (come li ha chiamati Mario Lavagetto) noti col nome di “libretti” (anche in questo diminutivo possiamo già leggere un giudizio estetico?).
Lorenzo Da Ponte, primo titolare di una cattedra di Letteratura italiana alla “neonata” Columbia University, ha trovato in Mozart il suo corrispettivo ideale, la stessa arguzia, lo stesso humor e felicità del vivere, l’irregolarità, la sessualità gioiosa sintonizzata sull’epoca del libertin-age: cose che nella coppia Lennon-McCartney o Mogol-Battisti non credo funzionasse altrettanto bene.
Inutile discettare di Mozart o di Battiato, o di qualsiasi altro interprete, lasciando in ombra ciò che fa la differenza vera: la voce. Michela Murgia lo ha anche riconosciuto, involontariamente: “(…) a volte nelle canzoni sottotitolate, azzeri l’audio… e vedi scorrere il testo e improvvisamente ti rendi conto che hai cantato delle cazzate immani, proprio!”
Voglio dire, a qualcuno sarà mai venuto in mente di dire che Mina (Sua Maestà, oggi, non più la “urlatrice” di ieri) ha cantato anche delle “cazzate immani” (usando il lessico murgiano) come Tintarella di Luna o Una zebra a pois e per questo decidere di radiarla dal pantheon? A qualcuno sarà venuto in mente che fu la sua incisione de La canzone di Marinella a far decollare la carriera di De André, come lui stesso ha ammesso? La voce di Mina ha trasformato, e trasforma, in eccellenza qualsiasi cosa, pur prescindendo dall’angoscia del significante. Aretha Franklin ha interpretato Nessun dorma, ma nessuno l’ha accusa d’empietà o disprezzato il suo meraviglioso e immenso talento; Rocco Tanica ha giocato con certe attitudini interpretative di Ivano Fossati (ritenuto spesso “pesante”) ma non mi risulta sia stato vittima di un regolamento di conti organizzato da un qualsiasi club di fan del genovese. Checco Zalone ha elevato la parodia stilistico-vocale di celebri autori pop al punto che costoro hanno partecipato alla parodia con effetti di successo personale altrimenti insospettabili. E come non ricordare Loretta Goggi che “interpretava” le interpreti maggiori della nostra canzone (Ornella Vanoni, Mina)? E il “catalogo” per le “madamine” dell’indignazione potrebbe snocciolare molti altri esempi. Ricordo il dileggio supercilioso che ha anche accolto, spesso e volentieri, il “Pavarotti & Friends” –dileggio che naturalmente sorvolava sulla questione essenziale dell’universalità della musica”, cosa che non è toccata (a parte i custodi “puri e duri” dell’ortodossia) a De André in versione orchestrale o a Sting che, parimenti, propone un arrangiamento per orchestra dei suoi successi targati The Police, o la scelta di calarsi nel repertorio classico di John Dowland accompagnato dal liutista bosniaco Edin Karamazov (Songs from the Labyrinth, disco pubblicato, nientemeno, che dalla Deutsche Gramophon).
Temere l’invasività della voce, è questo il pericolo cui non si riesce a porre argine se non “mettendo a tacere”, letteralmente, la voce (sia dell’interprete, sia di chi ne dissente). E quando ci si rende conto del suo immenso potere? Quando, leggendo e non solo ascoltando le parole, ti rendi conto che hai “cantato delle cazzate immani” proprio grazie a questa qualità elettiva della voce che va ben oltre il mero rapporto significante/significato, contro cui invece lotta la pagina scritta attraverso lo stile, nel racconto o nel romanzo.
Del resto, vorrei vedere chi, fosse stato il caso –poniamo- di qualsiasi altro interprete più “pop”, ne avrebbe preso indignato le parti. Dubito. Secondo me, qui si sono confrontate due forme di limite: il limite di chi non approfondisce la propria opinione (anche perché il contesto, non dimentichiamolo, è quello di una conversazione “informale”, non un’assemblea di musicologi) pronunciandola come un’interpretazione/giudizio (cosa che invece non è, formalmente e strutturalmente); e dall’altra chi, anche solo per essere superficialmente “contro”, ne stigmatizza le parole. Naturalmente, la scia “social” amplifica, distorce, ritorce, contorce, estorce questo e altro, fino all’offesa personale anche piuttosto violenta, segno che c’è del rancore represso contro una persona (forse solo perché diverge dallo stereotipo cui dovrebbe appartenere, chissà poi perché) e dunque ogni occasione è buona per “linciare” la vittima prediletta, soprattutto sfruttando “l’immunità di gregge” (mi si perdoni l’accostamento con ben altri problemi) e magari in cuor suo detestando anche peggio il “guru” etneo. Chissà quanti difensori della libertà costituzionale di espressione e di opinione avranno postato impressioni al veleno, magari solo fidandosi del titolo sommario col quale veniva presentata sui social la chiacchierata Murgia-Valerio. Le quali provocano sapendo di provocare, e quindi, alla fine, vincendo la loro scommessa.
Ma dovremmo ricordare, citando Niccolò Fabi, che “la minoranza non è una debolezza, / la maggioranza non è una qualità (…)”. C’è gente che adora John Cage ma non ho visto per questo scatenarsi una sequela di suicidi di massa o petizioni all’Alta Corte per i Diritti Umani per far cessare questo scempio. Apprezzo Elodie e Achille Lauro pur amando i Clash, i Led Zeppelin, e i reietti Sinatra e Beethoven (per Battiato). Qual è il problema? Il problema sta nel pre-giudizio, alla lettera. Condivido, per esempio, il giudizio negativo di Wilson su Céline Dion per il fatto che il suo stile vocale, molto semplicemente non mi emoziona, non sollecita una risposta che di solito la vocalità sa trovare e far reagire –non sto parlando di tecnica vocale, questo sarebbe un altro argomento- parlo di quello che è un “effetto di stile”, che funziona come funziona nella scrittura, né più né meno. Allora non lasciar influenzare lo stile di una scrittura da uno stile vocale (e/o strumentale) a me sembra un elemento decisivo per capire che anche nella leggerezza provocatoria di una conversazione fra due amiche (“impegnate nel sociale”) possiamo trarre degli spunti più interessanti rispetto alla boutade su Battiato, ovviamente espressa ad arte e, se anche realmente sentita come vera, del tutto lecita (secondo quanto previsto dalle garanzie costituzionali). Nella scrittura, la voce è un “fantasma” che prende corpo, se vogliamo, solo nella lettura “ad alta voce”, e che modifica sostanzialmente le nostre reazioni: una pagina “scritta” di Gadda susciterà emozioni e reazioni del tutto differenti dalla sua “lettura ad alta voce” (si ascolti, in questo caso, la performance di Fabrizio Gifuni).
Forse dovremmo, per buona pratica, ripensare alle parole che Proust dedica alla “cattiva musica” nel suo I piaceri e i giorni:
Detestate la cattiva musica, non disprezzatela. Dal momento che la si suona e la si canta ben di più, e ben più appassionatamente, di quella buona, ben più di quella buona si è riempita a poco a poco del sogno e delle lacrime degli uomini. Consideratela per questo degna di venerazione. Il suo posto, nullo nella storia dell’Arte, è immenso nella storia sentimentale della società. Il rispetto, non dico l’amore, per la cattiva musica non è soltanto una forma di quel che si potrebbe chiamare la carità del buon gusto, o il suo scetticismo, è anche la coscienza dell’importanza del ruolo sociale della musica. Quante melodie, di nessun pregio agli occhi di un artista, fan parte della schiera dei confidenti scelti dai giovanotti sentimentali e delle innamorate! (…) Come il popolo, la borghesia, l’esercito, la nobiltà hanno gli stessi postini, portatori del lutto che li colpisce o della felicità che colma i loro cuori, così hanno gli stessi invisibili messaggeri d’amore, gli stessi confessori prediletti. Sono i cattivi musicisti. Un certo ritornello insopportabile, che ogni orecchio ben nato e ben educato rifiuta all’istante di ascoltare, ha accolto in sé i tesori di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite, di cui fu la viva ispirazione, la consolazione sempre pronta, sempre aperta sul leggio del pianoforte, la grazia sognante e l’ideale. Certi arpeggi, una certa “ripresa” han fatto risuonare nell’anima di più di un innamorato, di più di un sognatore le armonie del paradiso o la voce stessa dell’amata. Uno spartito di mediocri romanze, consumato per aver troppo servito, ci deve commuovere come il cimitero di un villaggio. Che importa che le case non abbiano stile, che le tombe spariscano sotto le iscrizioni e gli ornamenti di cattivo gusto. Da questa polvere può levarsi in volo, davanti a un’immaginazione abbastanza benevola e rispettosa per far tacere un istante la sua alterigia estetica, lo stormo delle anime recanti nel becco il sogno ancora verde che faceva presentire l’altro mondo, e le induceva a gioire o a piangere in questo. (M. Proust, I piaceri e i giorni, Torino 1988, pp. 124-125)
A mio avviso, quello su Battiato è un giudizio sullo stile di scrittura che però omette il nesso parole-voce-arrangiamento, il che, in questo contesto, è abbastanza imperdonabile. Michela Murgia ha tutto il diritto di non apprezzare Battiato, come credo sia naturale riconoscere (compreso lo strategico “contentino” di riconoscere La cura e Povera patria come uniche cose degne di essere salvate dall’oblio). Aggiungo, infine, che uno dei meriti di Battiato sia stato quello di aver acclimatato in maniera definitiva il linguaggio della musica elettronica che, al di fuori del pop, è stato oggetto d’indagine dei massimi compositori “seri” contemporanei, da Stockhausen a Berio (che osservava come ci siano musiche che usano e valutano le parole innanzitutto come suono –è il caso di Cuccuruccuccù paloma-, per far loro acquistare un nuovo significato, così come ci sono musiche che rinforzano o mimano il discorso, o viceversa che ribadiscono la struttura convenzionale del discorso musicale) a Nono (che non nascondeva il suo apprezzamento per i cantautori) a Boulez (fra i cui meriti riconoscerei anche Boulez conducts Zappa: The Perfect Stranger, lavoro pubblicato nel 1984 diretto in parte dal compositore francese, eseguito dall’Ensemble InterContemporain con Frank Zappa al Synclavier).
Insomma, tanto rumore per nulla? Un po’ sì, perché si sono decontestualizzate delle frasi (e il contesto è decisivo per la comprensione di esse) assumendole come una sorta di decalogo, di partizione tra “buoni” e “cattivi”, cioè tra senso e non-senso (anche secondo le indagini di Maurice Merleau-Ponty). In parte no, perché le dinamiche interpretative sollecitano un approfondimento che invece è stato tralasciato a favore non della “verità romantica” ma di quella “romanzesca” nella quale le cose e le parole hanno una solidità irrefutabile e coerente. Il cui tono assertivo, trasferito nella comunicazione, diventa immediatamente irricevibile –sia a chi di un determinato artista ha quell’adorazione nei termini pasoliniani (“I fanatismi per i cantanti sono peggio dei giochi del circo”) e di chi, più modestamente, voleva consumare una vendetta non contro le parole in sé ma contro chi le pronunciava. Se tutto ciò sia ammissibile non sta a me dirlo. Ma certamente vale per tutti la riflessione di George Bernard Shaw: “con il tono giusto si può dire tutto, con quello sbagliato non si può dire nulla”. E il “tono”, oltre che avere a che fare col bon ton, è anche una questione squisitamente musicale, nevvero?
3. Fine