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LEONARDO COEN

  • LA GRANDE BELLEZZA
    DEL CICLISMO

    data: 28/05/2023 20:10

    Che meraviglioso sport è il ciclismo! Ventisette maggio, ventesima tappa del Giro d’Italia 2023, la penultima. La più breve. Una cronoscalata da spasimo. La tappa più difficile (ed è un eufemismo: decidono pendenze che sono sentenze). Insomma, la resa dei conti.

    Prima del via decisivo, alle cinque in punto della sera (o giù di lì, ma è il senso fatidico del momento) la maglia rosa Geraint Thomas va a salutare i rivali Primosz Roglic ed Joao Almeida, il secondo ed il terzo in classifica. Un gallese. Uno sloveno. Un portoghese. Nella classifica generale, i primi dieci sono corridori di altrettante nazionalità. Oggi, il ciclismo è questo: cosmopolitismo, più incontro che scontro di culture, di identità, di memorie. Quello di Thomas, a pochi istanti dal redde rationem, è più che un nobile gesto di grandissima sportività. Come ha spiegato il presidente Mattarella al mio amico Pier Bergonzi della Gazzetta dello Sport, “lo sport è tante cose insieme. È emozione, divertimento, salute. Ma anche educazione alla vita di comunità. Una vita per formare cittadini consapevoli. Lo sport, nel nostro Paese ha avuto, e mantiene, un ruolo importante nella costruzione di una memoria condivisa e, in questo senso, di una componente significativa della nostra identità collettiva”.

    Dunque, il saluto prima che la competizione tra i tre favoriti abbia inizio, è perfetto, nella cornice entusiasta della più grande festa popolare italiana che per tre settimane, ogni anno dal 1909, salvo gli stop bellici, rianima un Paese anestetizzato da malgoverno e diatribe infime. Sulla strada, si è riversata la gran folla di chi ama le due ruote. È gente felice. Allegra. Rumorosa: più da sagra che da stadio. Anzi.  È  generosa: per oltre quattro ore ha dispensato applausi ed urla di incitamento a tutti i corridori, nessuno escluso: certo, poiché la penultima tappa di questo Giro 2023 si disputava quasi al confine con la Slovenia, in migliaia sono venuti a tifare Roglic, e tuttavia, hanno anche incoraggiato i suoi avversari (salvo qualche isolato buu, ma gli imbecilli erano pochi). Bandiere slovene in stragrande maggioranza, per ovvie ragioni geografiche…ma anche tantissime portoghesi, americane, canadesi, australiane, belghe, olandesi, tedesche, spagnole, colombiane, ecuadoregne, italiane. Alessandro De Marchi che è “furlan” di San Daniele, all’arrivo ha sventolato la bandiera del Friuli: da quasi mezzo secolo è la regione che sostiene il principio di uno sport senza frontiere, sognando i Giochi Olimpici organizzati assieme da Tarvisio, Klagenfurt (Austria) e Kraniska Gora (Slovenia), lle tre regioni di tre Paesi vicini e sodali.

    Che cosa avrà detto Thomas in quei pochi secondi rivolgendosi ai suoi avversari? Conoscendo il gallese, avrà incitato Roglic e Almeida a dare tutto, almeno quel tutto che è rimasto nelle gambe dopo oltre 3200 chilometri di durissimo Giro: “È  stato bello pedalare assieme e battagliare sulle salite”, magari non proprio queste parole, i corridori parlano spesso anche solo con sguardi e mezze frasii, è l’economia del fiato quando sei in sella e cerchi di sprecare meno ossigeno che puoi, ma in gruppo c’è sempre qualcuno che chiacchiera, o fa gossip, e qualcun altro che bisticcia (come Thibaut Pinot) o chi rimprovera con qualche urlaccio (uno dei “sergenti” più burberi è Salvatore Puccio, gregario di Thomas), quando si obbliga il plotone ad inutili rincorse…

    Il Giro è un romanzo. E nei romanzi, c’è sempre spazio per pensieri che angustiano i protagonisti. Thomas sa che i 18,6 chilometri a cronometro da Tarvisio al santuario del monte Lussari sono più che un’insidia, un’autentica trappola: gli ultimi sette chilometri e mezzo non lasciano scampo, o hai le gambe o accusi distacchi, giacché le pendenze sono drastiche, con rampe al 22 per cento, e una malefica stradina - spesso in cemento - che tira sempre verso il cielo, inesorabilmente. Ce la farò, si chiede Thomas, o verrò punito dall’anagrafe? Giovedì 25 maggio ha compiuto 37 anni: vincesse il Giro sarebbe il corridore più anziano a riuscirci nella secolare storia della corsa rosa. Un record. Roglic, invece, ha 33 anni e mezzo. Ed è motivato dal risentimento di una disfatta che lo ha ferito profondamente: ha infatti perso rocambolescamente il Tour del 2020 proprio nella penultima tappa a cronometro, battuto dal più giovane connazionale Tadej Pogacar, in un epico quanto doloroso ed umiliante duello: “Fu una brutale sconfitta”, disse in un’intervista al quotidiano l’’Equipe. Quel secondo posto all’epoca lo visse come l’esperienza più frustrante della sua carriera, “ma a volte si vince, a volte si perde. Quando hai fatto tutto il possibile, devi accettare” il destino. E la sfortuna. Però, fin dai primi metri della sua cronoscalata, lo sguardo di Roglic era quello di uno che non aveva affatto scordato l’onta. Altro che episodio “metabolizzato”. In una cosa, però, è risoluto: l’esperienza lo ha rafforzato. Una sfida. Per migliorare. Per imparare. Chissà quante volte ne avrà parlato con Thomas. Già. Perché i due sono rivali in corsa ma amici, i figlioletti si frequentano, escono spesso insieme perché entrambi hanno preso residenza a Monaco (guadagnano milioni all’anno, se lo possono permettere, è il paradiso non solo fiscale dei campioni…).

    Thomas è consapevole che i 26 secondi di vantaggio in classifica che ha su Roglic sono un filo sottile: lo sloveno in salita, se sta bene, è nettamente più forte. Spera non sia al massimo. Poi sa che Primosz è stato piuttosto meticoloso, nella preparazione della tappa, a cominciare dalla scelta delle due bici - quella classica da crono per il tratto in falsopiano, quella per l’arrampicata con moltipliche assai agili da cambiare nel breve tratto in cui è permessa la sotituzione e la spinta del meccanico per il rilancio. Oh, anche la Ineos di Thomas non è stata da meno, nell’approccio alla tappa. La scelta del gallese è più conservatrice: rapporti più duri, cambio di casco (in salita quello da crono è una tortura). Si affida alla potenza. Mentre lo sloveno conta sull’agilità e sul maggiore ritmo delle pedalate (tra 100 e 110 al minuto). Per dirla in poche parole, l’opzione della maglia rosa è pedalata più dura per fare più metri. Roglic preferisce alzare le frequenze della pedalata e diminuire il metraggio. Una scommessa?

    La corsa in bicicletta contro il tempo è la sfida contro noi stessi, perché siamo soli, tra strada e nuvole, perché in questa prova misuriamo i nostri limiti, cerchiamo di andar oltre, senza tuttavia andare fuori giri. Il corpo umano, anche di un fuoriclasse, è un motore complesso, delicato: va messo a punto ogni giorno. Talvolta s’ingrippa. Succede: i corridori la chiamano cotta. Nelle gare a cronometro, che sono le prova estreme del ciclismo su strada, specie se si tratta di una cronoscalata mista in cui si combinano le alte velocità della pianura (o del falsopiano) con l’asfissìa delle drizzate senza tregua, non c’è rimedio alla cotta. Sei solo. Senza compagni di squadra che ti aiutano a superare la crisi o a contenere i distacchi. È la solitudine dei numeri primi. Nel caso, dei numeri…Primosz.

    E tuttavia, ieri c’è stato tutto e il contrario di tutto. I favoriti hanno spinto sui pedali con tutta l’anima: hanno onorato il Giro. E i tifosi. Si sono dannati, scovando energie residue, dopo oltre 3200 chilometri ed un tempo quasi sempre infame, dopo il gran freddo, la pioggia (per quindici giorni), i ritiri per Covid e le cadute che hanno decimato il gruppo (si sono ritirati 51 corridori su 176). Sino all’ultimo, si è rimasti sospesi al tica tac del cronometro, e ai giudizi sommari delle immagini, o a quelli inesorabili degli intertempi, che davano la misura delle varie prestazioni. La resa dei conti non poteva essere orchestrata meglio, pareva quasi il copione di un thriller. Anzi, di più. È successo che a Roglic, in un tratto di salita per fortuna non mostruosa, sia saltata la catena. Un attimo: tutti abbiamo gridato: “Noo! Ha perso il Giro, come tre anni fa ha perso il Tour! Poveraccio, è sventurato”. I secondi trascorrevano implacabili, il vantaggio che aveva su Roglic (in quel momento, 16 secondi), veniva dissipato dall’inopinato stop. Ci si metteva pure il meccanico, ad intralciare Roglic che cerca di risistemare la catena, perché era balzato dalla moto (in quella stradina le “ammiraglie” non potevano transitare) con la bici di riserva. Roglic gli ha gridato “spingimi!”, ed il meccanico, sbilanciato dall’altra bicicletta, lo ha fatto maldestramente. Insomma, pareva una fine ingloriosa di una tappa magnifica. Invece, Roglic ha reagito con una rabbia agonistica spaventosa. Si è inarcato sui pedali, ha aumentato la velocità, ha aggredito la strada, aveva addosso tanta di quell’adrenalina da abbattere un toro. Era come chi rischiava di perdere l’ultimo treno, prima della chiusura della stazione. Una corsa disperata per afferrare la balaustra dell’ultima carrozza.

     

    Ecco. Col senno di poi, è stato grazie all’incidente e all’orgogliosa reazione che Roglic è andato non a vincere ma a stravincere la tappa, l’ultimo chilometro lo ha sorvolato mentre più sotto Thomas arrancava alle prese con la fatica accumulata in tutti questi giorni. Ora, il gallese poteva capire cosa si provava a perdere il primato nel momento chiave di un Giro sino a quel momento abbastanza equilibrato. Frastornato dal tripudio di una folla in stragrande maggioranza slovena, in delirio perché era evidente che Roglic saliva come un angelo mentre Thomas pedalava pesante, e sgrumava sudore come una fontanella. Lassù, al santuario, ad aspettare Roglic, c’era la moglie, e il figlioletto con la magliettina rosa, come se tutto fosse stato già scritto…epperò, che intensità questo tifo per uno sport della fatica in cui ogni corridore è stato rispettato e festeggiato ed ha avuto il suo piccolo momento di gloria, che fosse tra i migliori, o tra gli ultimi, che fosse Roglic o i rivali più diretti. A cose fatte, e in bilico tra sogno, emozione e rivalsa, Roglic confesserà che non aveva perso la fiducia di poter conquistare il Giro, nonostante l’incidente meccanico. Ha vendicato la beffa del Tour. Si è preso, da uomo solo al comando, il Giro d’Italia del 2023. Chissà, forse l’anno prossimo riproverà alla Grande Boucle. Nel castello dei destini incrociati a pedali, è un predestinato persino nel nome: Primosz. E il suo è stato un magnifico colpo di scena, nel giorno più atteso non ha illuso né deluso. Il Giro d’Italia è la corsa a tappe più dura che ci sia, vorrà dire pur qualcosa- Certo, il Tour paga meglio, rende di più commercialmentre, attira capitali e corridori di alto rango. Ma il Giro d’Italia è più bello. È la Grande Bellezza del ciclismo.

  • AVETE VOLUTO
    UN'ESTATE SCONSIDERATA?
    ECCO IL CONTO...

    data: 26/10/2020 14:54

    Siamo ostaggi di bottegai, baristi, ristoratori, camorristi, spacciatori, ultras, fascisti, no Mask, negazionisti. Pur di far soldi, se ne fregano della salute collettiva, fingono di non capire che i clienti senza mascherina (altrimenti come bevi, come mangi?) sono potenziali veicolatori del virus. Non è colpa loro. Ma certamente è colpa di chi fomenta rabbia e scatena disordini per ricattare il governo nella speranza di mettere le mani sul bottino dei miliardi Ue. L’emergenza fa l’uomo ladro, imbroglione, alimenta l’ingordigia.

    Dire che l’economia del Paese va in malora perché bar e ristoranti non incassano come prima (pagavano le tasse o dichiaravano introiti miserabili per frodare il fisco?) vuol dire pigliare per il naso la gente. E pure i decreti di Palazzo Chigi sono il riflesso di questa ipocrisia. L’economia vera è quella delle fabbriche, del commercio, dell’agricoltura, della tecnologia avanzata, dei prodotti finanziari: un pianeta complesso, sofisticato, problematico dove ogni giorno si combatte la pandemia senza rivoltare le piazze, cercando di preservare la salute dei lavoratori, spesso grazie al buon senso e all’intesa tra le parti. Esistono priorità ben diverse da quelle futili delle movida. C’è un’Italia seria e responsabile sempre più stufa dei ducetti che incitano alla ribellione per nascondere le magagne. C’è l’Italia della cultura che soffre per la drammatica crisi del settore ma che sta reagendo con creatività e intelligenza alla mazzata del virus, purtroppo questi sforzi non trovano sempre il necessario sostegno da parte delle istituzioni.

    La pandemia è globale, bisognerebbe affrontarla uniti e non litigando per meri interessi di partito o meschine convenienze personali. Si è smarrito il senso della comunità e della solidarietà, si sta cinicamente sacrificando la generazione dei più anziani, colpita da contagi sciagurati - continuo ad incontrare gente che se ne frega di indossare la mascherina e vedo bar e ristoranti dove i clienti siedono uno accanto all’altro senza rispettare la distanza di sicurezza. Assisto ad un menefreghismo diffuso, rilanciato da ignobili trasmissioni tv, persino quando le telecamere inquadrano gli spalti delle tribune, negli stadi che possono ospitare solo mille tifosi per partita, vedo che presidenti (ad esempio Lotito della Lazio, tanto per non far nomi) con mascherine abbassate o senza, in spregio alle disposizioni. Domenica, i panchinari della Juve, in primis Buffon, stavano uno accanto all’altro senza mascherina, è ben gli sta allora se poi devono rinunciare a vedere in campo molti loro compagni, come Ronaldo. O come Donnarumma stasera assente per Covid nella delicata sfida con la Roma (pure il giovane aitante vichingo Hauge si è beccato il coronavirus). Baci, abbracci, ammucchiate dopo ogni gol e a fine partita...in barba ad ogni precauzione.  

    Che messaggio arriva da questa anarchia? Che ci stiamo ritrovando sulla ripida strada in discesa diritti ad un nuovo lockdown. Sopportabile da chi ha adeguati strumenti culturali per affrontare isolamento e per sopperire al vuoto delle relazioni sociali tenute in piedi solo virtualmente (ma non tutti se lo possono permettere). Sopportabile se gli spazi domestici consentono, quando necessario, privacy, o, almeno, la possibilità di disporre di un proprio spazio. Il proprio territorio. Fisico e mentale. Grazie alla sconsideratezza di un’estate all’insegna della sfrenata gioia e dell’inosservanza d’ogni precauzione, ora ne paghiamo le conseguenze. Invece di vigilare sull’operato delle istituzioni e di baccagliare sui banchi di scuola se cambiarli o no con quelli a rotelle, non abbiamo controllato se gli ospedali si attrezzavano per parare la “seconda ondata” pandemica prevista è ineluttabile. Non sono stati fatti acquisti per tempo di vaccini antinfluenzali, al contrario degli altri Paesi (in Francia basta recarsi in farmacia...).

    Potrei continuare con l’elenco di quello che si poteva e doveva fare a luglio, ad agosto, a settembre, dal rafforzamento dei trasporti per garantire spostamenti più sicuri per studenti ed impiegati allo scaglionamento degli orari di scuole e aziende. Come carenti sono i servizi di controllo da parte delle forze dell’ordine, specie di notte. Siamo sull’orlo del baratro, ormai. 

  • LA COMUNISTA
    CHE RICONOBBE SUBITO
    LE RADICI INQUIETANTI
    DEL BRIGATISMO

    data: 20/09/2020 12:55

    Una brutta domenica, per l’Italia che non si piega alla beceraggine e alla malafede delle destre casareccio. È scomparsa infatti Rossana Rossanda, grande donna della sinistra e timoniera del movimento femminista italiano. Fu tra le fondatrici del Manifesto, per me, soprattutto negli anni del Sessantotto, il giornale più bello, creativo e coraggioso. Lei ne era fulgida bandiera, assieme a Valentino Parlato. Di lei conservo “l’anno degli studenti”, libriccino formidabile in cui valutava positivamente il movimento che stava fiorendo nelle università e nelle scuole, in quella nostra indimenticabile ed irripetibile stagione di collettivi, comuni, assemblee, rivolte, piazze ribelli, manifestazioni che cambiarono la nostra società.

    Allora, come spiegava Rossana, aveva ancora grandissima forza la parola "futuro". In essa si racchiudevano le speranze dei giovani. Gli studenti e gli operai sfilavano assieme scandendo gli stessi slogan, parole d’ordine di una politica che nelle intenzioni e nei programmi della base doveva scuotere le istituzioni per modernizzare il Paese e livellare le feroci disuguaglianze. Ma fu solo una stagione che si smarrì nella palude dei compromessi e dei tradimenti di gran parte dei dirigenti del Movimento. L’emancipazione vagheggiata rimase zoppa. 

    Rossanda cercò di resistere a questa deriva, ma lottava contro il conformismo del partito Comunista, contro un potere che non accettava dissensi, specie se “manifestati” pubblicamente e non nelle stanze di Botteghe Oscure. Lei era bravissima a scrivere, descrivere ed esprimere il disagio di una generazione che lei considerava ostaggio di una società “assente”. La sua critica toccava i nervi scoperti di un comunismo divenuto statico alibi per gestire il potere del contropotere (la chiesa rossa contro la chiesa bianca democristiana). E quando ci fu la deriva brigatista, Rossana riconobbe in essa radici inquietanti: “Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle BR. Sembra di sfogliare l'album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria. Il mondo, imparavamo allora, è diviso in due. Da una parte sta l'imperialismo, dall'altra il socialismo. L'imperialismo agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazionale”. 

    Fu una narrazione che dette molto fastidio, spiegava la contraddizione in cui si scontrava il terrorismo: “Vecchio o giovane che sia il tizio che maneggia la famosa Ibm, il suo schema è veterocomunismo puro. Cui innesta una conclusione che invece veterocomunista non è: la guerriglia”. Rossana aveva aperto il vaso di Pandora della sinistra comunista ingessata dalla paura di condannare, non solo a parole, il brigatismo.

    Che la terra dei sogni rivoluzionari ti sia lieve, geniale Rossana. 

  • LÀ BELLEZZA
    E L'AMBIGUITÀ DI SERRA,
    BARICCO E CACCIARI

    data: 12/09/2020 21:57

    Poi qualcuno potrebbe pensare che c’è l’ho col mio ex giornale, perché di tanto in tanto segnalo la castroneria del giorno, o mi soffermo su palesi contraddizioni, ancor più dolorose se frutto di qualche “firma” del cerchio magico di cui si adorna Repubblica. È che non mi arrendo di fronte all’opportunismo mascherato da virtù e da correttezza politica, sociale, culturale. Per esempio, continuo a riflettere sull’ambiguità della risposta di Serra a Michela Murgia per giustificare la sua presenza ad un Festival sulla Bellezza dove gli invitati sono solo uomini (ventuno i relatori, cui si contrappone appena una relatrice più una pianista): “Hai ragione ma io ci vado lo stesso”, asserendo testualmente che “non avevo la benché minima idea del programma complessivo del Festival, che si sviluppa, come tutti i Festival, attraverso settimane di eventi”. Una scusa da bambino preso con le mani sul barattolo di Nutella. Il buon Serra ci vuole pigliare tutti per allocchì? Per scemi di guerra? Chiunque venga invitato ad una manifestazione del genere riceve il suo programma. Generalmente, anche gli aggiornamenti. Per attenzione e serietà, sia da parte degli organizzatori sia da chi vi partecipa, è normale informarsi dell’evoluzione di ogni iniziativa, specie se vi sono ospiti di un certo peso, come dimostra l’elenco, tutti maschi Alfa della cultura italiota vigente, anzi come ha sottolineato la Murgia, molti dei quali “bei nomi dell’intelligenza progressista”, accusa non da poco tanto che lo stesso Serra si affretta a citarla nelle sue prime righe, aggiungendo che questa intelligenza progressista certe domande ha “l’indubbio onere di doversele fare”. Sebbene resti comodo farsele dopo che le polemiche sono scoppiate, ed hanno lasciato il giusto segno.
    Non nascondo lo stupore per l’abile manovra dialettica di Serra nell’argomentare la decisione di andare lo stesso al Festival. “Sto cercando di glissare?”, si chiede infatti retoricamente il vecchio direttore de il Male, e chi l’ha letto deve essersi risposto, “certo che sì”; invece lui si autoassolve, non ho aderito per grullaggine o misoginia, dice, e dopo avere spiegato le possibili soluzioni ad un problema che consente solo soluzioni sbagliate vuol convincerci che un problema del genere è “enorme, molto intricato, spinoso, pieno di opacità e trabocchetti”. Peccato che il problema non si sarebbe posto se si avesse l’accortezza di pensarci prima.
    Comodo farlo adesso.
    Ora, ipotizziamo che Serra e qualche suo amico non avessero ricevuto la “chiamata” a Verona. Cosa avrebbe scritto Serra nella sua rubrica l’Amaca, o in quella che tiene sul Venerdì? Avrebbe stigmatizzato, come hanno in realtà fatto migliaia di donne sul web, che si trattava di una manifestazione in cui la discriminazione di genere era tanto evidente quanto ignobile. Una brutta cosa. Ogni uomo può dire la sua sulla Bellezza. Ma un Festival sulla Bellezza non può prescindere dal proporre, con equilibrio e con alternanza, interventi di uomini ed altrettanti di donne. Altrimenti è solo una passerella, l’esibizione di vedettes della pop cultura nostrana, nonostante un cartellone tanto inopportuno quanto infelice. Alessandro Baricco, tuttavia, si difende perché “abbiamo convinzioni che sono indipendenti da qualsiasi cornice in cui ci può accadere di finire”.
    Beh, francamente è troppo. Assisto a virtuosismi dialettici degni di un Houdini della parola. Uno per tutti: Massimo Cacciari. Il filosofo osserva che forse può esserci stata “una leggerezza”, in questi tempi di politicamente corretto, però da buon sofista aggiunge: “Non sarebbe stato difficile trovare letterate e filosofe”. Ma, attenti, “gettare la croce è sbagliato”. Chissà perché è stata subìto scaraventata in faccia all’opinione pubblica una scusa penosa, le donne erano state contattate ma non sono potute venire per colpa del Covid. Dal che si deduce che invece gli uomini hanno aderito coraggiosamente, impavidamente. Un plebiscito...il sottinteso, secondo Nadia Ferrigo (la Stampa di giovedì 10 ottobre) è una deduzione ovvia: “Non è colpa nostra se le donne brave sono poche”. Sempre la brava Ferrigo che segnala come per Pupi Avati e Mogol la polemica sia pretestuosa e “i problemi veri sono altri” (risposta pilatesca), “una donna in più in realtà c’era, ma il suo nome è stato nascosto: si tratta di Maggie Taylor, l’autrice delle opere riprodotte nel programma del Festival. Senza i diritti del copyright. Altra italiana, italianissima (cattiva) abitudine”.
    Morale della favola. Cane non morde cane. Guai ad ammettere l’infelice realtà di un convegno furbetto nel cuore della maschilista Legalandia, nella città che ha già ospitato un controverso convegno mondiale sulla Famiglia degno del Medio Evo, soprattutto in questi tempi di confusione e di manipolazione dogmatica.
    ps: mi accorgo di non aver messo il nome di Serra. Si tratta di Michele. 

  • TUTTO SOMMATO, CONTE OK
    ORA ATTENTI A PESCECANI
    E FURBACCHIONI

    data: 21/07/2020 10:49

    Difficile riassumere in poche righe cinque giorni e mezzo di durissime trattative tra i leader dei 27 Paesi membri dell’Ue. L’accordo c’è stato ed ha, per la sua ampiezza e la sua articolazione, una portata storica. Ha prevalso, sia pur tra “distinguo” e sussulti nazionalistici dettati soprattutto da tensioni politiche e mediatiche interne a ciascun membro dell’Unione, lo spirito di una comunità variegata e eterogenea ma unità dalla necessità di aiutare i Paesi più colpiti dalla crisi, come Italia (la più beneficiata), Spagna e Francia.

    Tutto sommato Conte si è ben destreggiato e Frugalandia ha ottenuto solo la soddisfazione che se uno o più Paesi dell’Ue ha il sospetto che i soldi vengano male impiegati allora può ricorrere e chiederne conto alla Commissione, ma non ha diritto di veto, cioè non può far saltare il banco. Può soltanto sollecitare controlli e ammonimenti, ma non sabotare il Recovery Fund erogato, pretendendone l’immediata restituzione.

    In questo senso comunque - ma secondo me questo è un bene per l’Italia è una sorta di garanzia per i suoi cittadini - l’Italia resta sotto diciamo così sorveglianza. Speriamo che questo indica i nostri politici a non dissipare i 209 miliardi strappati in sussidi e prestiti. E speriamo che non ci sia il solito forsennato assalto alla diligenza. Già il caso della ministra Castelli che non ha detto cose dissennate dimostra che lobbies e furbacchioni stanno digrignando i denti e spalancando le fauci, in barba ai meccanismi del libero mercato e quindi del rischio d’impresa. I ristoratori indignati vorrebbero socializzare le perdite - facendole pagare da noi - e tenersi ben stretti i ricavi, come peraltro hanno sempre fatto. Non mi risulta che collettivamente abbiano dato prova, visto quanto poco pagano all’erario, di grande lealtà e senso di responsabilità nei confronti del fisco e quindi nei confronti del bene comune.

    Quando tutti gli italiani che non sono dipendenti fissi e pensionati (ai quali lo Stato preleva le tasse automaticamente è mese per mese) capiranno che evadere ed eludere il fisco non solo è un crimine ma un ignobile comportamento sociale - in Germania, per esempio, chi evade le tasse è considerato un delinquente alla stregua di un assassino e viene trattato come un reietto dalla comunità - allora potremmo considerarci un popolo civile e non un’accozzaglia di furbacchioni e di persone che se ne fregano dei doveri ma pretendono di disporre dei diritti, sfruttando il welfare pagato da chi le tasse le versa come deve e, proprio per colpa di questa feccia sociale, più di quanto sarebbe giusto pagare. Impariamo a non invidiare e a non ascoltare le sirene di questi mascalzoni. Staremmo tutti meglio. Queste, in fondo, sono state le obiezioni e le argomentazioni dei Frugali: che condivido, specie quando chiedono di non spendere gli aiuti per rafforzare privilegi e ingiustizie. Come Quota 100... 

  • IL CORRIERE
    BUONO CON FONTANA
    LA REPUBBLICA
    BUONA CON TRUMP

    data: 21/06/2020 23:45

    Ambiguità, ipocrisia, omissione. Sfoglio cronaca milanese, pagina 4 del Corriere della Sera di domenica 21 giugno. Interamente dedicata alle manifestazioni contro la giunta regionale. Peccato che non sia scritto in nessuno dei titoli. Al punto che il titolo d’apertura “‘Dimissioni subito’ La giunta nel mirino delle proteste di piazza” potrebbe essere facilmente frainteso è riferibile alla giunta municipale. Nemmeno l’occhiello aiuta: “Migliaia in Duomo con sinistra, Sentinelli, ARCI e Acli/“Commissariamento”. I centri sociali: ”Cacciamoli”. Bisogna aguzzare la vista e, a sinistra, nella prima didascalia (Luoghi), si legge che erano tre le manifestazioni convocate sabato “da ambienti diversi ma con un bersaglio comune: il governo di centrodestra della Regione”. Strano modo di esercitare la cronaca... tant’è che per compensare questa coraggiosa informazione si concede il “piede”, ossia l’articolo in fondo pagina alla visita del presidente regionale Fontana in Vaticano: “Fontana dal Papà con i medici. Ci rialzeremo”. Sommario: “Francesco: i sanitari sono un riferimento. Debolmente positivo un tampone su due”. Si suppone, in Lombardia. E questo dovrebbe inquietarci.
    Ma l’ordine di scuderia in casa Corriere è minimizzare: come si evince dall’uso (o abuso?) dell’avverbio pompiere “debolmente” che accompagna per ben due volte le ultime dieci righe tipografiche, nella quarta colonna che conclude il pezzo siglato S.Lan. per dire nel primo caso che uno su due dei tamponi giornalieri risulta appunto “debolmente positivo”, quindi come spiegano “la maggior parte degli scienziati” (quali?) “non sarebbero contagiosi”. Un dato “in controtendenza con i primi giorni dell’epidemia, quando i tamponi debolmente positivi, con una bassa carica virale, oscillava (penso che S. Lan intendesse scrivere oscillavano, ma ha sbagliato soggetto) “tra lo O è il 5 per cento”. Un pezzo debolmente memorabile.

                                                                               ***

    La Repubblica conferma la sua decisa svolta a destra con l’ennesima intervista a Salvini (pagina 7, titolo soft: “Salvini ‘È vero ho fatto tanti errori. Ma a destra il leader sono ancora io’), ma soprattutto quando racconta di Trump. Come abbiamo visto nei telegiornali, il suo comizio a Tulsa è stato un flop. Il palazzetto dello sport dove ha parlato era mezzo vuoto, grazie alla beffa di alcuni gruppi giovanili che hanno prenotato i posti per non andarci. Ebbene, nessuna traccia di questo infortunio della campagna elettorale di Donald. Anzi.
    L’ineffabile titolo camuffa lo smacco: “Trump riparte da Tulsa/in migliaia per il comizio/“L’America resta grande”. Mentre piccola resta invece la scelta di ignorare ciò che è successo. Peggio, in un titoletto si enfatizza che “i suoi fan hanno fatto la fila per molte ore per vederlo”, il che non risulta a guardare i filmati diffusi dalle emittenti di tutto il mondo. Ho letto con attenzione l’articolo firmato da Alberto Flores d’Arcais, e non vi è traccia del boicottaggio, al contrario ha scritto (ma dov’era?) sui tifosi di Trump: “Con ore di anticipo hanno sventolato bandiere a stelle e strisce con impresso il faccione del presidente, hanno urlato slogan (Keep America Great!) nella speranza di essere tra i 19mila fortunati a poter entrare”. Trump i 19mila non li ha visti proprio, il Bok Center, l’arena sportiva della città, presentava migliaia di posti vuoti.

  • CEDE L'EQUILIBRIO SCALFARIANO
    ESTABLISHMENT-SINISTRA
    E GAD LERNER SE NE VA

    data: 26/05/2020 19:31

    Gad Lerner è passato al Fatto quotidiano: scelta accorta, e tutto sommato logica. Ma non scontata. Lui stesso spiega di avere accettato l’invito di Marco Travaglio a collaborare “benché sussistano divergenze profonde su politica giudiziaria, carceri, immigrazione”. Ha pure provato a motivare quella che reputa una scelta obbligata quanto stimolante, condensato nel titolo del suo articolo in cui si presenta ai lettori: “Che ci faccio al Fatto giornale senza padroni”. Titolo ovviamente di parte: i padroni ci sono, sono gli azionisti, e Travaglio, innanzitutto. Che fa e disfa, come ritiene, magari inviando mail in cui annuncia che per ragioni di restyling grafico è costretto a cancellare alcune rubriche, come è successo in questi giorni. Però Travaglio non è la Fca, non è Elkann, tantomeno De Benedetti. Con la famiglia dell’Ingegnere Gad non è poi tanto tenero: “L’amicizia cui mi sento legato non impedisce di constatare come essa abbia scelto di rinunciare a sentirsi parte della classe dirigente italiana, in un momento difficile per questo Paese. Si è chiamato fuori. Faccio molti auguri a Carlo, nella speranza che riesca a difendere Domani quel che non è riuscito a difendere ieri, da proprietario”.
    Gad è sempre stato uno di quegli abili giornalisti a muoversi in diversi contesti - da Telecom per la fondazione della 7 all’Espresso, dalla Rai a Repubblica, tanto per ricordare i passaggi più importanti della sua carriera - ma avendo sempre in mente di essere coerente con il suo sentirsi uomo di sinistra, le cui idee e i cui legami esistenziali ha sempre messo in primo piano. Aver lavorato con Repubblica, per esempio, ha avuto per lui - come per me che ho partecipato alla sua fondazione - un grande significato poiché il giornale ha “rappresentato il luogo d’incontro fra l’establishment e il popolo della sinistra. Un equilibrio, di cui va riconosciuto il merito all’intuizione geniale di Eugenio Scalfari”.
    Ma ormai Repubblica sta mutando in qualcosa che si avvia a diventare subalterna rispetto al capitalismo italiano e alle sue ramificazioni globali. Eugenio, il mio amico edicolante, mi ha detto che da quando è cambiato il direttore, vende sempre meno copie di Repubblica: “Chi ha smesso di comprarla mi ha confessato che prova malessere a leggerla”.
    Travaglio ha agito come Raiola fa nel calcio: ha preso al volo il campione che si era appena svincolato. E Gad, nell’ultimo capoverso della sua auto presentazione, rivela quale sarà la musica che intende suonare: “Non occorre essere né rivoluzionari né anticapitalisti per rendersi conto che alla ricostruzione del Paese non basterà solo l’erogazione di risorse pubbliche. Serviranno soluzioni inedite, dal mutualismo a un ruolo di garanzia dello Stato e dei lavoratori nella proprietà delle imprese in difficoltà, da nuove politiche fiscali a forme di condivisioni degli utili. Anche per questo sarò contento di lavorare in un giornale senza padroni”.
    Sappiamo quanto oggi il giornalismo italiano sia una macchina del vento che soffia dove vogliono i macchinisti. Speriamo che Gad Lerner sia non una brezza ma una bufera, di quelle che sorgono improvvise e furiose. Per spazzare il pattume del nostro cortile. 

  • E IL METODO ASPEN
    FA IL SUO ESORDIO
    NELLA NUOVA "REPUBBLICA"

    data: 15/05/2020 23:07

    A proposito della “sterzata” politica di Repubblica verso posizioni più atlantiste e liberali. A pagina 26 - quella dei commenti - è ospitato un articolo di Marta Dassù (“E gli europei non sono morti”). In calce all’articolo due righe per annunciare che l’autrice, “saggista e studiosa di politica internazionale, dirige la rivista Aspenia. Con questo articolo inizia a collaborare con Repubblica”.
    Non un cenno a spiegare quale pubblicazione sia “Aspenia”. Che è un dettaglio niente affatto trascurabile. Al contrario. è invece assai significativo.
    Aspenia si occupa di affari internazionali; è la testata ufficiale e trimestrale di Aspen Institute Italia, un’associazione strettamente legata alla casa madre The Aspen Institute nata negli Stati Uniti nel 1950, spesso al centro di polemiche da parte delle sinistre che l’accusano d’essere connessa agli apparati del governo USA e del Dipartimento di Stato (cosa ovviamente smentita).

    In Italia inizia la propria attività nel 1984 con una forte caratterizzazione transatlantica. Il “metodo Aspen” è quello del confronto e del dibattito a porte chiuse. Per favorire, grazie a segretezza e riservatezza, sia le relazioni interpersonali tra i soci, sia per favorire “un effettivo aggiornamento dei temi in discussione” (il virgolettato è tratto dalle scarne informazioni concesse sul sito aspen istituto.it). La rivista si occupa in modo continuativo, “con taglio politologico, di Stati Uniti-Europa”, cioè di discussione transatlantica. Interessante l’elenco, sia pure parziale, dei suoi collaboratori: Giuliano Amato, Zbigniew Brzezinski, Carlo Azeglio Ciampi, Lawrence Freedman, Francis Fukuyama, Timothy Garton Ash, Bob Geldof, Bronislaw Geremek, Anthony Giddens, Samuel Huntington, Robert Kagan, Charles Kupchan, Gilles Kepel, Arrigo Levi, Kishore Mahbubani, Mario Monti, Condoleezza Rice, Jeffrey Sachs, Paolo Savona, Joseph Stiglitz, Strobe Talbott, Giulio Tremonti.

    Aspenia è pubblicata dal Sole 24 Ore. Nel numero in vendita intitolato “L’anno del cigno nero”, in copertina sono richiamati due interventi legati all’attualità: “Virus e deglibalizzazione”, “Contagio britannico?” e “la Persia e i suoi vicini” (chissà perché non chiamare la Persia col suo nome attuale Iran...). John C. Hulsman ci spiega “l’epidemia come rischio politico”, da pagina 38 a pagina 87 si parla di “Global Britain: la scommessa di Boris”, con Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro che scrivono su “Londra alla prova del commercio globale”: disattendo il “grido” di copertina “virus e deglobalizzazione”...Oltre sessanta pagine sono invece dedicate all’Unione geopolitica, ossia la “promessa di Ursula, dove i ma sono assai. Dal tallone d’Achille delle migrazioni al colpo di arresto del “cuore” tedesco, dal “centro e periferia: l’Europa più piccola e i Balcani” alla staffilata di Giorgio La Malfa sull’euro, “la moneta incompleta”. Mentre il “corpus” che si occupa di Persia ha un commento firmato Atlanticus in cui si esalta “la strana coerenza della politica estera di Trump”.

    In questo Forum “la Persia e i suoi vicini: la mossa di Trump” scontati alcuni temi legati al prezzo del petrolio e alle relative tensioni geopolitiche (Fabrizio Pagani), nonché alla Turchia, Ankara infatti va “a tutto gas nel Mediterraneo”. Lo firma il generale Carlo Jean che, se ricordo bene, è stato anche direttore del Centro Militare di Studi Strategici e poi consigliere del presidente Cossiga. Tra i mille prestigiosi incarichi, pure quelli di editorialista al Messaggero, al Tempo, all’Occidentale.

    Questo dovevo, ad uso e consumo dei vecchi lettori di Repubblica

  • BEPPE ZACCARIA
    E' MORTO NEI BALCANI
    SUO VERO, GRANDE AMORE

    data: 13/04/2020 14:13

    Un altro amico se ne è andato, così, il giorno di Pasqua. A Belgrado, città dove aveva deciso di vivere, dopo anni e anni di cronache di guerra, di interminabili nottate a raccontare, a flirtare, a bere un Lagavulin invecchiato di almeno sedici anni, il suo scotch preferito. Giuseppe Zaccaria aveva 69 anni. Era barese. Milanista come me. Scorpione come me. Scaltro. Bravissimo a scrivere. Inviato della Stampa nella guerra dei Balcani, abbiamo spesso - per mesi e mesi - lavorato insieme. Anche quando a Belgrado gli americani bombardavano la capitale serba: con noi, in quei giorni, Massimo Nava del Corriere della Sera.

    Un giorno decise di andare a intervistare la direttrice dell’ospedale più grande di Belgrado, per avere un quadro preciso sulle vittime dei bombardamenti. Andammo tutti e tre, avevano un appuntamento. Ma la direttrice preferì incontrare una troupe americana della Cnn. Ci arrabbiammo, ovviamente. La troupe della Cnn uscì dall’ospedale proprio mentre passava un bus della Jna, l’esercito popolare jugoslavo. I soldati videro i giornalisti Usa e li chiamarono a gran voce per farsi riprendere, erano tutti ammiratori del sogno americano... Invece dell’intervista, scrivemmo di quell’incontro ma significativo episodio.

    Il giorno dopo Beppe mi portò in giro per la “sua” Belgrado. Gli piaceva i serbi “perché sono fatalisti, feroci ma anche ironici”. Di loro avrebbe rivelato le pulizie etniche, ma quella mattina mi fece conoscere i giovani che nella via principale dello “struscio” belgradese vendevano T-shirt con un bersaglio stampato sul centro è un invito (ai piloti dei bombardieri americani) di mirare bene. Altri ragazzi vendevano cartoline dello stesso tenore, pareva d’essere in una strada di Londra o in un vicolo di Manhattan, tutti sfoggiavano un inglese impeccabile, tutti erano stufi della guerra, ma tutti erano fieramente patriottici.

     

     

    Un guazzabuglio culturale che affascinava Zac (tombeur impenitente des femmes...). Fumava come un turco, anzi, come un serbo. Smise di fare l’inviato e rimase a Belgrado come consulente di aziende italiane. L’ultima volta che l’ho incontrato è stato quando mi hanno inviato a Belgrado per un incontro col primo ministro (ne feci un pezzo per il Venerdì), quattro o cinque anni fa. Lui faceva l’addetto stampa per la Fiat, perché in Serbia venivano prodotte le nuove grosse 500L che poi erano imbarcate in Montenegro per essere distribuite ai concessionari europei. Ebbi allora una strana impressione: mi accorsi che dietro l’impeccabile maschera professionale di Beppe c’era insoddisfazione. Gli mancava la vita nomade dell’inviato, il rischio dei servizi di guerra, gli incontri casuali del giornalismo avventuroso, non la vita comoda e ben retribuita dietro la scrivania. A cena, gli ricordai gli anni sul filo del rasoio, l’immondo assedio di Sarajevo (per 54 giorni, ero con Walter Skerk e Raffaella Menichino che allora lavorava per il Manifesto, lui era riuscito a filarsela via); gli eccidi che denunciò, i riconoscimenti che ebbe - la Stampa gli fu sempre grata per i servizi che aveva fatto.

    Mi disse: Leo, perché resti in quel giornale che con te è sempre stato carogna? Ecco: rammento proprio la parola “carogna”. E poi aggiunse: “Ho capito che anche il mio tempo da inviato di guerra era finito”. Che il giornalismo non era più quello “nostro”. Che saremmo stati sommersi dall’informazione del web, dei cellulari... mentre noi ci dannavamo per trovare un telefono, un posto dove scrivere...

    Nel suo ufficio di Belgrado teneva in bella vista la Olivetti Lettera 32. Mi disse: siamo come i dinosauri, per questo ho cambiato mestiere. Ho più tempo per scrivere e guadagno di più. Vivo in una città dove sono rispettato e sono amico di chi oggi governa la Serbia. Vado spesso in Italia, ma me ne scappo via subito. Dovresti fare lo stesso, non credere alle balle che ti promettono. Fu profeta. Ci siamo sentiti per telefono a Natale. Mi chiedeva come stavo. Mi confessò che non stava bene, fumo troppo, e consumo la vita ogni giorno come se sia l’ultimo. Era un grande amico cui bastava uno sguardo, una piega ironica delle labbra per comunicarti ciò che pensava. Aveva il grande dono d’essere un narratore anche in poche righe.

    È morto nei Balcani che furono il suo vero grande amore. Ciao, vecchio complice! 

  • CHI SEMINA DUBBI SULLE PRECAUZIONI PIU' PERICOLOSO DEL COVID-19

    data: 05/04/2020 12:19

    Oggi ho visto correre tre runner in mezzo alla strada. Nessuno portava la mascherina. Alla faccia del decreto che vieta di uscire senza la mascherina. Peraltro, correvano male, a cominciare dalla postura delle spalle e dalla spinta mediocre e dissipatrice. Da giovane ho fatto atletica (mezzofondo, prima alla Pro Patria poi all’Atletica Riccardi ), e ho seguito per lavoro una decina di Olimpiadi. Me ne intendo, insomma. Ma lasciamo andare le osservazioni tecniche. Il fatto è che qualcuno ha diffuso un virus assai più pericoloso di quello che provoca il Covid-19: la messa in dubbio delle precauzioni per contenere il contagio.

    Un politico irresponsabile ed incosciente, per esempio, ha appena chiesto che vengano riaperte le chiese, quando invece il Papa raccomanda prudenza e invita i credenti a pregare, ma in sicurezza. Altri manipolano l’opinione pubblica fomentando polemiche sull’uso e l’utilità delle mascherine. Altri ancora inzigano stimolando l’insofferenza per gli “arresti domiciliari”, sollecitando rabbia e risentimento soprattutto tra i più disagiati, costretti a scontare l’obbligo di restare a casa in appartamenti angusti, mentre sul web gli vengono sciroppate le immagini degli italiani che dispongono di terrazze, ampi balconi, giardini, ville (vedi quella di Renzi) e sui giornali nugoli di commentatori si affannano a raccontare le loro “prigioni” in realtà assai dorate. Facile quindi scatenare la ribellione di chi sta peggio. Che, per il momento, si traduce nel trasgredire le limitazioni imposte. Sciamando per le strade. Affollando i mercatini. Ritrovandosi lungo le ripe dei Navigli. I ricchi, i fortunati, tanto, stanno rintanati nelle loro belle dimore in città ma soprattutto in campagna: possono perciò criticare e pontificare sull’inciviltà dei peones. I quali accettano il rischio di infettarsi, ma non sopportano più l’angheria di essere carcerati nelle loro celle domestiche in nome del bene comune e della responsabilità verso gli altri.

    Per adesso, è solo una sfida diciamo così psicologica, uno sfogatoio umano, forse troppo umano. Ma è l’indizio più drammatico delle enormi diseguaglianze economiche e sociali che serpeggiano sotto traccia nel nostro fragile tessuto sociale. Perché devo sacrificarmi quando lor signori non soffrono le nostre reali limitazioni? Questo molti lo pensano e lo scrivono in Rete. Spostare il dibattito sull’Europa è sviare la sostanza del problema, aggiungono. Perché non si spiega invece come negli altri Paesi europei ci siano più tutele nei confronti di chi lavora o ha perso il lavoro? Lasciamo stare Germania (dove le retribuzioni sono alte e i servizi sociali efficienti) o la Francia. Scartiamo le opulente Olanda, Belgio e i paesi virtuosi del Nord. Ma la Spagna? Vogliamo parlarne? Lì il sussidio di disoccupazione è di circa mille euro netti. Se un lavoratore va in cassa integrazione, lo Stato gli garantisce il 70 per cento del reddito perduto e il 100 per cento dei contributi, il restante 30 per cento del reddito lo versa il datore di lavoro che è tenuto a riassumerlo appena ci sono le condizioni di riassetto aziendale (verificate).

    Quasi Ovunque, in Europa occidentale, le cifre per disoccupati e cassaintegrati sono molto più consistenti di quelle che hanno imposto gli imprenditori italiani. I quali ora pretendono fondi finanziamenti e prestiti per fronteggiare la crisi, per continuare a lucrare coi soldi pubblici - cioè i nostri - ed imboscarli appena possibile. Nel settore agricolo-alimentare in questi giorni abbiamo visto i proprietari di aziende che non sanno come andare avanti e che battono cassa “altrimenti sarà una catastrofe”. Mentre in Germania hanno appena chiamato a lavorare nelle campagne 500mila persone (dall’Est), inquadrati ovviamente secondo le norme vigenti, da noi le telecamere hanno inquadrato campi vuoti. Per forza: prima ci lavoravano addetti in nero, le restrizioni impongono controlli più serrati, questi svelerebbero l’illegalità praticata e tollerata da ciechi o conniventi controllori. Il paradosso è esplosivo: centinaia di migliaia, forse milioni di lavoratori in nero sono rimasti senza più reddito, consumano i loro risparmi esentasse e ora vogliono gli aiuti dallo Stato. Il quale potrebbe concederglieli se costoro rivelassero chi li assoldava, per punire giustamente i furbetti dell’agricoltura (o dell’edilizia o dei servizi...) che accumulano profitti e ricchezze.

    Ma apriti cielo! Guai ad agire in questo modo: le mafie scatenerebbero l’inferno, i politici contigui alle mafie e a chi prospera sfruttando i lavoratori in nero farebbero saltare i governi, insomma, il sistema dell’illegalità è ormai così radicato, al Sud come al Nord, che i fessi onesti contribuenti sono in trappola. Anzi, la crisi del coronavirus sarà l’ennesima grande pappatoria, per aumentare le distanze sociali, accrescere i divari e rafforzare le ingiustizie. E chi difende questo modello di sviluppo asimmetrico, noto come “economia sommersa”, divoratrice di mancati introiti fiscali che aiuterebbero il Paese a dotarsi di un welfare come nel resto d’Europa? Le destre che fingono di stare dalla parte degli italiani ma che in realtà li hanno sempre fregati. 

  • "LA REPUBBLICA"
    COL BAZOOKA FA TORTO
    ALLA PROPRIA STORIA

    data: 26/03/2020 15:51

    Ho per ovvi sentimentali motivi una certa affezione a Repubblica, alla cui fondazione ho partecipato - anche durante i lavori preparatori - firmando il mio primo articolo sul primo numero del 14 gennaio 1976 e lavorandoci sino al 31 maggio del 2010, con un contratto successivo di collaborazione triennale che poi non mi è stato rinnovato (continuai a scrivere per il Venerdì sino alla scomparsa del suo direttore, il bravissimo Attilio Giordano). Ma questo filo emotivo che mi tiene ancora legato al giornale è stato progressivamente eroso sino a rischiare di strapparsi nel corso di queste ultime drammatiche settimane. La principale, la più imbarazzante delle cause è in certe titolazioni grossolane e nella grafica e nel lessico che violentano la prima pagina, in questo modo non all’altezza del prestigio a suo tempo conquistato e consolidato grazie al talento editoriale di Eugenio Scalfari e alla qualità assai elevata della redazione.
    Le circostanze dell’evoluzione mediatica, gli avvicendamenti alla direzione, la scomparsa delle firme più rappresentative (Gianni Mura, sabato scorso), hanno via via impoverito la testata (a proposito: avete notato che Walter Veltroni scrive ora sul Corriere della Sera?), già ferita dai tagli del personale che gli azionisti hanno imposto. Il colpo letale è giunto con la crisi del cartaceo che ha falcidiato la stampa, penalizzando il settore. Tutto ciò ha scaturito la brutale riduzione delle tirature e quindi delle vendite, con progressiva erosione degli introiti pubblicitari. Insomma, difficoltà oggettive imponenti ed implacabili hanno costretto la direzione di Repubblica a cercare una formula più “urlata” per attirare un pubblico più popolare e meno esigente di una volta (sempre tuttavia offrendo collaborazioni di prestigio e spazi di riflessione, come si conviene ad un prodotto che continua ad avere l’ambizione d’essere sentinella della democrazia).
    Ma è proprio davvero così? Si possono conciliare titoli di prima pagina come quello di oggi 26 marzo 2020 “Bazooka da 50 miliardi” (*) - più consono a giornali come Libero - e velleità di aggregazione intellettuale associando a questa “sparata” degna piuttosto di un tabloid come The Sun o la Bild Zeitung, a interventi che si pretenderebbero di qualità come quello di un Alessandro Baricco (“Questo è il momento dell’audacia”, un déja-lu di profumo lemondiano e che l’astuto scrittore subalpino ammette di “averla già raccontata, ma è il momento di ripeterla”...). O come l’ennesima instant-analysis del competente Federico Rampini sulla “vera guerra di Trump”?
    Infatti sono sempre di più i lettori fedeli che abiurano, e non si ritrovano più in questa Repubblica, forse non si ritrovano più in un certo modo di proporre giornalismo, almeno quello che esacerba la politica, e che offre reportages velleitari, nel senso che chi scrive lo fa per se stesso e non sempre per chi legge, ma non è Giorgio Bocca, o Giampaolo Pansa, o comunque non ha la stoffa dei grandi cronisti che hanno costruito la fama di Repubblica.
    Oggi prevale l’autoreferenzialità come sistema, costringe chi non è incluso nella “cupola” che governa le redazioni - una verticale del potere - ad arrendersi, a obbedire. Inutile resistere: resti fuori. Come scriveva Flaiano, non si appartiene ad un gruppo soltanto professandone le idee e adottandone le regole di comportamento, ma accettandone prima di tutto l’abito, che è lampante, e che fa il monaco.
    (*)“Bazooka”, vuol dire la sola cosa che preme a chi ha deciso il titolo: l’attenzione. 

  • CALCOLI EFFERATI
    DIETRO L'IDEA
    DELL'IMMUNITA'
    DI GREGGE

    data: 18/03/2020 17:32

    Un disgraziato rappresentante della Lega ha proposto - in un canale Mediaset stamani - di adottare la strategia che porta all’immunità di gregge, cioè lasciarsi contagiare tutti. È bene si sappia che essa si fonda su una inevitabile strage, e che le vittime predestinate a tale sacrificio sono soprattutto gli anziani, considerati un peso che grava sulla società. I vecchi infatti costano troppo. In termini di welfare. E perché facili al contagio di cui sono l’ineluttabile moltiplicatore. Dietro si celano calcoli economici efferati: meno vecchi meno pensioni da erogare, meno spese sanitarie, meno assistenza da accollare alla comunità. Una strategia nazista, di selezione naturale.
    E soprattutto, non chiude il discorso col coronavirus. Perché funzioni l’immunità di gregge, presuppone innanzitutto un’immunità almeno temporanea una volta superata la malattia. Uno guarisce perché crea anticorpi. Ma il coronavirus ha già avuto dei casi di ritorno della malattia. Ovviamente, per adesso non ci sono certezze, e forse si tratta di casi speciali. Inoltre, l’immunità di gregge è il risultato tipico della vaccinazione di massa non del sacrificio di buona parte della popolazione. È un metodo darwinismo. Ai tempi della peste, il contagio si esaurì ma a quale prezzo? Percentuali mostruose di mortalità.
    Non sapendo quanto dura poi l’immunità sviluppata dalle persone guarite, è difficile sapere a priori l’orizzonte temporale della protezione indotta dal gregge (cioè noi). Il disgraziato leghista che ha veicolato tale concetto ha semplicemente giocato sulla nostra pelle. Un gioco d’azzardo. Un rischio che è comodo pigliare per conto degli altri. Il problema è che già l’idea di fregarsene delle precauzioni per evitare il contagio “grazie al l’immunità di gregge” sta...contagiando molti. Il vero problema è come impedire che degli sciagurati la propugnino in tv e sul web. Peraltro, anche in Inghilterra questa ipotesi propugnata da alcuni cattedratici (legati a multinazionali farmaceutiche) è contestata ferocemente dagli epidemiologi e dagli esperti, al punto che lo stesso Boris Johnson ha subito capito d’aver commesso una clamorosa gaffe (leggete the Guardian...).
    Devo queste sommarie righe a molti esperti, e alla fortuna d’avere avuto un fratello che si specializzò in epidemiologia. State sempre in guardia da chi si ostina, nonostante la gravità della situazione, a diffondere il virus della disinformazione e della divisione. Sono tempi in cui bisognerebbe tutti remare vigorosamente nella stessa rotta. E non rompere il fronte continuando a denigrare il lavoro (ottimo, ormai lo riconoscono tutti all’estero) del governo, a spiegare - dopo - come loro avrebbero risolto nel modo giusto quello che avrebbero fatto prima. Queste voci sono piccole piccole. Meschine. Ululati di sciacalli.
    Ps. A supporto dei miei sospetti, sempre su un canale tv Mediaset, si è enfatizzata l’opzione immunità di gregge avanzata martedì sera dal premier liberale Mark Rutte perché chiudere tutto costerebbe troppo e ci vorrebbe almeno un anno, mentre così si “ergerebbe un muro protettivo”. Certo, eretto coi cadaveri delle vittime esposte al contagio collettivo. 

  • RICONOSCIAMOLO:
    IL GOVERNO SI STA
    COMPORTANDO IN MODO
    CORRETTO E SAGGIO

    data: 17/03/2020 18:09

    Il “modello Italia” per contenere l’epidemia da coronavirus è stato appena adottato anche da Israele, dopo Spagna, Francia, Stati Uniti... La odiosa e sciacallesca campagna della destra e dei governatori leghisti (dovrebbero chiedere scusa ai loro elettori per i furibondi tagli che hanno operato negli ultimi anni alle strutture sanitarie regionali) contro il governo sa tanto di assalto alla diligenza, ossia acchiappare più fondi possibili da gestire in nome dell’emergenza e purtroppo sappiamo come va a finire...

    La gran parte della gente ha compreso la gravità della situazione e ha accettato i sacrifici richiesti perché non sono stati dettati da un’ideologia politica ma da protocolli sanitari che possono avere risultati efficaci solo se percepiti e adottati da tutti. Ma alcuni politici continuano impunemente a ostacolare gli sforzi comuni, per dividere e non per unire: lo fanno sistematicamente in compiacenti programmi televisivi, dove manipolazioni e mistificazioni s’intrecciano criminalmente, senza alcun serio contraddittorio.

    Il quotidiano Le Monde, per esempio, oggi ha un titolo in prima pagina che descrive una situazione critica della sanità francese, come sta succedendo dovunque dinanzi all’incremento del contagio ed ai ricoveri: “La situation sanitaire se dégrade rapidament”. Nell’editoriale di Jerome Fenoglio si legge che sarà un “combat de longue haleine”, e che non “è più il tempo di alimentare polemiche sulla somma dei piccoli calcoli”... Non conviene aggiungere la collera al legittimo timore, la divisione alla necessaria separazione... La stessa Germania si barrica e stringe le maglie del contenimento, cioè delle costruzioni sociali; il severo The Economist nel numero appena uscito elogia le scelte italiane per lottare contro il Covid-19, definendole un “modello per tutti i Paesi”.

    Forse darà fastidio a qualcuno, ma tutto sommato il nostro governo si sta comportando in modo corretto. E saggio. 

  • TORNARE AL SUD
    E ABBRACCIARE
    E CONTAGIARE TUTTI...

    data: 12/03/2020 14:49

    A San Pietro dì Caridà, un paese calabrese della provincia di Reggio proprio sotto Serra San Bruno, sono arrivati nei giorni scorsi un sacco di profughi da Torino e Milano. Non contenti di mettere a repentaglio i delicati equilibri sanitari del paese, se ne vanno in giro a salutare tutti, ad abbracciare parenti e vecchi amici, ostentando così il menefreghismo di chi si ritiene oltre le regole e le responsabilità che invece sono richieste perché necessarie, a tutela e rispetto di chi ci sta vicino.

    Sono purtroppo i guasti di chi non ha mai avuto, potuto o voluto apprendere le minime nozioni di educazione civica, di emigrati a caccia di lavoro e benessere e di una vita senza doveri, i quali si rendono indispensabili in tempi di grande emergenza come questi. Essendo nati in luoghi dove lo Stato spesso latita e dove l’Antistato invece è presente, considerano ogni raccomandazione che viene dalle istituzioni come qualcosa che li danneggia e gli limita la libertà. Non hanno coscienza delle esigenze della collettività, tantomeno se si tratta di contrastare un presunto nemico invisibile, dal quale peraltro sono scappati a gambe levate, contagiati - è il caso proprio di scrivere così- dal panico. Ciononostante, si credono al sicuro, garantiti dalla distanza che li separa dalle terre impestate, e non accettano di essere considerati degli “untori” sia pure inconsapevoli. Anzi. Dicono che sono fobie. Che è tutto un complotto. Che stare reclusi tutti in casa è una follia.

    Quando Sky ha trasmesso la partita di Champions, al bar hanno consumato cinquanta caffè e un sacco di alte bibite. E il mattino dopo, nello slargo davanti alla farmacia i vecchietti del posto stavano tutto assieme a chiacchierare, tranquilli, imperturbabili. Come se le grandi città deserte descritte nella loro alienante nuova realtà fossero immagini di un nuovo reality, una fiction, un Montalbano del virus, perché anche quest’anno in fondo si snoda in una Vigata dove le strade sono senza passanti...
    “Ma non vi rendete conto che siete imprudenti? Andate a casa!”, ha gridato ai vecchietti un loro compaesano, prima di entrare in farmacia, “le cose sono serie e il contagio è ovunque!”. I vecchietti hanno brontolato ma si sono lentamente allontanati, guardando di sghimbescio chi li aveva appena rimproverati.
    Ma qualche minuto dopo, controllato che se ne fosse rientrato a casa, hanno ripreso i loro posti nello slargo davanti alla farmacia. Per sfida. Per cocciutaggine. Perché non si sentono cittadini di uno Stato remoto se lo Stato gli impone dei sacrifici. Se il virus verrà a cercarci, ci penseremo noi a scansarlo. A nostro modo. 

  • GRIMALDELLO SANITARIO
    PER MANOVRA SOVVERSIVA:
    FACCIAMO FRONTE COMUNE

    data: 11/03/2020 18:14

    I governatori di Piemonte, Lombardia e Veneto chiedono misure ancora più restrittive e una “guida” forte dello Stato d’emergenza. Qualche militare già scalpita...l’eversione che ha il fetore del fascioleghismo è in agguato. Prove di golpe e di esautoramento della democrazia con l’alibi della maggiore sicurezza e della tutela sanitaria. Non ci scoraggia il coronavirus, figuriamoci questi sciacalli della politica sovranista e populista. Siamo pronti ad affrontarli. I governi non si commissariano la democrazia non si zittisce. Un conto è gestire l’emergenza, un altro è approfittarne per sostituirla con un altro modello - la democratura praticata in Russia - di potere istituzionale illiberale.

    Non vi siete accorti della strategia di questi farabutti che giocano sulla pelle nostra? All’inizio del contagio, avevano minimizzato rischi e provvedimenti. Ora pretendono pieni poteri terrorizzando, tramite i media compiacenti, gli italiani sul disastro imminente. Gli stessi che hanno fatto trapelare la bozza del primo decreto Conte, scatenando la fuga da Milano e Lombardia di 23mila pavidi ospiti, incapaci di affrontare responsabilmente la situazione. Chi vuole in mano i pulsanti del potere istituzionale sono gli stessi che all’interno delle regioni da loro governate hanno tollerato e tollerano evasione ed elusione fiscale, dislocazioni produttive e commerciali (in primis con la Cina che è all’origine del contagio).

    Sono coloro che hanno minimizzato nei primi giorni la portata dell’epidemia e che adesso la enfatizzano. Sono coloro che alimentano allarmismi e sabotaggi, che stimolano ondate di emotività collettiva e che inzigano con situazioni drammatiche (vedi la curiosa coincidenza delle rivolte carcerarie, terreno fecondo di proselitismo criminale ed estremista). Una narrazione mediatica sensazionalistica condisce il tutto.

    Si tentano operazioni di rovesciamento politico con interviste su giornali assai ospitali ed in ginocchio: scandalosa quella a Salvini di oggi sul Corriere della Sera, dove non vi è il benché minimo accenno ad un contraddittorio giornalistico. Negli Stati Uniti sarebbe scoppiato un putiferio, in nome della deontologia professionale. Qui da noi si accettano cose da repubblica delle banane, vedi l’altra intervista sorellastra di quella salviniana, condotta dalla Gruber al suo “padrone” Urbano Cairo, guarda caso editore del Corriere.

    Tale contemporaneità dimostra che è in atto una pericolosa manovra sovversiva, e che si vuole usare come grimaldello l’emergenza sanitaria, fingendo di non sapere chi l’ha in parte provocata (vedi i tagli regionali in Lombardia al comparto Sanità, tartassato da scandali e corruzione). La realtà è che un gran pezzo del sistema economico pretende che i costi di questa emergenza siano pagati solo da chi lavora, cioè da noi, e che al resto ci pensi lo Stato, cioè ancora noi. Poiché questo gran pezzo del sistema economico è anche il proprietario della stampa e delle tv, ecco che da giorni è in atto una campagna di disinformazione che mira a scardinare il pesante lavoro delle istituzioni, e lo fa con implacabile e capillare costanza. Se il Paese è fermo e già ingabbiato, questa spregiudicata e fellona politica si muove con la grazia di un elefante in un negozio di cristalleria.

    Ora tutti noi sopportiamo gli stessi sacrifici, che mai corrispondono a quelli sopportati dai nostri nonni e genitori per le criminali scelte di un regime che portò il Paese alle guerre di conquista, ai massacri indiscriminati, all’alleanza con Hitler; che procurò centinaia di migliaia di morti e la distruzione dell’Italia. Qualcuno si domanda come mai nel resto d’Europa le misure di contenimento e di prevenzione del contagio siano più blande che da noi e questo diffonde un altro pericoloso virus, quello del dubbio. Il fatto è che negli altri Paesi il contagio sta arrivando ora. Chi sminuiva i rischi - si muore non per coronavirus ma con il coronavirus, è la vulgata che circola nel web, un amico medico mi ha mandato un testo in francese che lo enfatizza, irresponsabilmente - ora deve fronteggiare un brusco cambiamento della situazione, perché il virus semina vittime e colpisce, come è trapelato qualche minuto fa, persino ambienti che si ritenevano al di fuori del rischio di contagio: un calciatore della Bundesliga è risultato positivo...come la ministra della Sanità britannica o quello della Cultura francese.

    È pur vero che sinora l’Europa sta ancora andando in ordine sparso, ma sempre di più sulle testate giornalistiche straniere si comincia ad apprezzare l’intervento italiano, e il suo governo che ha avuto il coraggio di assumere misure drastiche, sfidando l’impopolarità. Se l’Europa non riesce a essere un gigante politico nemmeno in queste drammatiche circostanze, è soprattutto perché i colossali interessi economici e finanziari si sentono minacciati e temono squilibri irreversibili. Purtroppo per loro, ci saranno lo stesso. E tuttavia, neanche di fronte ai peggiori scenari futuribili, in Europa i vari Paesi sono sotto attacco, come da noi, da forze politiche sciacallesche. Perché di fronte ai grandi pericoli le società civili uniscono sforzi e finalità. Facciamo anche noi fronte comune contro questi parassiti che sfruttano paura e fomentano rabbia. 

  • VIA BETTINO CRAXI?
    MA SE NON C'E' NEMMENO
    UN LARGO MANI PULITE...

    data: 09/02/2020 10:53

    A volte ritornano... le solite polemiche. Per cittadini smemorati. Per esempio, il can can sulla via da intitolare a Bettino Craxi, idea che ha scatenato vagonate d’interventi. Pure il sottoscritto ci ha messo del suo. Ma tre anni fa.

    30/1/2017 • LO STIVALE ROVESCIATO • Milano
    Via Craxi? Per par condicio come minimo ci vuole almeno un largo Mani Pulite. E, se proprio vogliamo riabilitare personaggi controversi e famosi, perché no un corso Lutring, celebre gangster detto “il solista del mitra” (ne teneva sempre uno dentro una custodia di violino)? La sua è una storia, a suo modo, esemplare. Su Wikipedia Luciano Lutring è definito “criminale, scrittore, pittore”. L’ho conosciuto: era pure un ineguagliabile affabulatore. Raccontava la sua vita con arguzia e fantasia, un antesignano della post-verità. Fu graziato due volte: dal presidente Pompidou, in Francia. E da Leone, in Italia. Un “nemico pubblico numero uno” con modi da bandito gentiluomo. Realizzò più di 500 colpi. In prigione scrisse molto, e si convertì all’arte. Mise su uno studio, le sue opere denotavano talento. Morì nel 2013. Peccato e redenzione valgono un corso Lutring? Magari dalle parti di via Novara, dove i genitori gestivano un bar. Che si chiamava, guarda il l destino, “Crimen”…

    Ci sono 4.194 strade nella toponomastica maschilista di Milano: infatti 2.435 sono intestate a uomini, appena 130 alle donne. Il resto (1.630) riguarda nomi geografici, date, ricorrenze, casati, persino eroi mitologici e letterari. Dedichiamone una a Bettino Craxi, hanno proposto (in due mozioni) gli smemorati che siedono in consiglio comunale, suscitando l’ira di Cinquestelle: “A Dario Fo, non a Craxi! È un insulto ai milanesi”. Intitolate le vie alla cultura, non alla politica corrotta. Ma incombono revisionismi alla Napolitano: Craxi, vittima della lettura “sacrificale” di Tangentopoli. Tradotto: condannato a furor di popolo, più che di giustizia. Nel 2002 la Corte di Strasburgo giudicò che Craxi aveva subito un processo non equo. Per evitare le manette, era scappato in Tunisia, ad Hammamet, dove morì nel 2000. Aveva buscato oltre 10 anni per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Reati documentati dal pm Di Pietro. In effetti, anche allora la gente invocava “via Craxi”. Ma nel senso di “vattene”.
    (rubrica che tengo su il Fatto Quotidiani). 

  • LA REPUBBLICA E LA LEGA
    DA PASSALACQUA A LERNER

    data: 29/05/2019 18:15

    Il supponente Gad Lerner si domanda, a proposito della fulminea metamorfosi realizzata in un anno della Lega guidata dal ducetto del rosarietto, “alzi la mano chi li aveva presi sul serio trent’anni fa”. Stupisce che lo chieda dalla prima pagina di Repubblica, perché il quotidiano di Scalfari è stato il primo grande giornale a seguire, con la dovuta attenzione, il movimento fondato da Umberto Bossi ed, in particolare, Guido Passalacqua - purtroppo non più con noi - che già da allora aveva messo in guardia i superficiali analisti (i soliti che i giornali elevano ad esperti) dal sottovalutare le potenzialità della Lega Lombarda e la capacità di attrarre i moderati, come infatti è avvenuto.

    Passalacqua capì prima di tanti altri la possibile evoluzione a livello nazionale e come ciò potesse avvenire prima di tutto nelle “non-città “ e nella provincia del Paese, non presentandosi come un partito di classe bensì di interessi condivisibili, legati al territorio e alle necessità individuali.

    Il “prima gli italiani!” è stato preceduto dal “prima i lombardi!”, poi dal “prima i padani!”. Il populismo iniziale è stato mixato, su suggerimento putiniano (è il capo del Cremlino il vero burattinaio, il suo ideologo Aleksandr Dugin ha seminato in Italia grazie alla Lega e all’editore Novaeuropa - andate sul suo sito e capirete...). Ma Passalacqua aveva intercettato la critica leghista del neoliberalismo “egemone” nella postmodernità. Dugin, infatti predica la riscoperta dei valori come la giustizia sociale, la comunità di popolo, la libertà della persona nell’ottica di un nuovo progetto politico per scassare l’ordine prevalente. E' l’Europa che considera accentratrice, quindi “nemica” delle istanze sovraniste.

    Strano che Gad Lerner non abbia presente che Repubblica mise in guardia, grazie a Passalacqua, il mondo della politica tradizionale. È facile pontificare sfruttando la popolarità, e con la memoria sbrindellata. Ma certe volte ammettere che qualcuno, molto prima di te, era stato attento alle dinamiche della politica - non a quelle dello spettacolo - significa mettersi in ombra. E questo, alle volpi che sanno sempre come muoversi, non è gradito. 

  • CASALINGA DI VOGHERA?
    DI ARBASINO, NON DI ECO

    data: 25/05/2019 17:38

    Pagina 15 del pretenzioso “Robinson” supplemento al numero di Repubblica, in edicola questo sabato 25 maggio (0,50€). Titolo dell’articolo a tutta pagina: “Caro Cussler, stupiscici”. L’articolo è firmato da Luca D’Andrea. È lui a stupirci. Con una citazione grossolanamente sbagliata. D’Andrea attribuisce a Umberto Eco la paternità della mitica espressione “la casalinga di Voghera”. Che fu battezzata invece da Alberto Arbasino, scrittore raffinatissimo e geniale, soprattutto quando racconta mostre, spettacoli, opere liriche. D’Andrea è giovane, ha 40 anni, è di Bolzano. Non ha vissuto gli anni d’oro della scoppiettante Milano culturale negli anni Sessanta. Dovrebbe leggere i libri di Arbasino, come Fratelli d’Italia o il meraviglioso Anonimo lombardo. Arbasino è stato uno dei grandissimi primi collaboratori di Repubblica, quando il quotidiano di Scalfari aveva ottime pagine culturali e difficilmente sarebbe passato un errore del genere. Comunque, errare è umano. A me, per esempio, capita spesso. Maledizione... 

  • SE REPUBBLICA RIPUBBLICA...

    data: 05/05/2019 16:23

    All’inizio dell’avventura editoriale, Repubblica veniva sfottuta dai rivali e chiamata Ripubblica. In effetti, spesso capitava di rincorrere le altre testate che potevano vantare maggiori agganci e meno diffidenze all’interno delle istituzioni, delle forze dell’ordine e della magistratura. Ci vollero anni per capovolgere la situazione. Tuttavia... soprattutto negli ultimi tempi il quotidiano romano ha preso l’abitudine di riscrivere storie e inchieste proposte su altre testate, in Italia e all’estero. Queste scrivono e Ripubblica rilancia. Tanto, chi se ne accorge? Non certo gli scarsi lettori della carta stampata...
    L’ultimo caso? Domenica scorsa l’Avvenire pubblica un fondo sull’attacco alle ong e sulla strozzatura nei confronti delle politiche di solidarietà. All’interno, due belle pagine con dati, esempi, interviste. L’Avvenire è un buon giornale, è una miniera di articoli interessanti. Pure nello Sport, dove pesca spesso e volentieri Gianni Mura... Comunque, venerdì - cinque comodi giorni dopo - esce una pagina di Ripubblica che riassume il lavoro dell’Avvenire. Titolo: “Guerra alla solidarietà”, il sommario spiega che c’è l’attacco del governo al non profit “dai bambini all’accoglienza”, mentre l’occhiello è più dettagliato. Insomma, un sano riciclo valorizzato da una grafica colorata che l’Avvenire non aveva. D’altra parte, qualche pagina prima - sempre sul numero di venerdì della Repubblica - in fondo all’intervista su Leonardo di Renzo Piano, l’archistar enuncia la filosofia della spugna: “Ai ragazzi dico: non aspettate che qualcuno vi dia, prendete, rubate quel che vi serve. L’arte del fare è saccheggio. Non c’è niente di male. L’importante è prendere per poi restituire...”. Restituire, nel caso dell’articolo, dovrebbe essere un piccolo segno di correttezza professionale, ossia ricordare l’origine dell’idea, e citare il giornale che ha suggerito lo spunto sul Terzo Settore assediato dal governo. 

  • PERCHE' LA SINISTRA E' VIVA
    E PUO' TORNARE IN CAMPO

    data: 05/04/2019 16:06

    Non ne posso più degli opportunisti che hanno costruito la loro lucrosa carriera sfruttando la sinistra e adesso la ripudiano raccontandone la fine del ciclo storico, come se non avessero contribuito alla sua agonia. Nessuno nega l’erosione dei principali temi che hanno strutturato l’identità della sinistra (delle sinistre) nello scorso secolo, e mentirei se negassi l’oggettiva difficoltà di una ricostruzione - ideologica e movimentista. È chiaro che al centro di questo “rinnovamento” ci debbano essere i fondamenti della sua dottrina: per molti della mia generazione - quella postbellica - le referenze politiche si radicavano nelle lotte dei movimenti operai, nell’antifascismo, nella Resistenza, nel fatto che fosse depositaria di una certa idea del Bene: solidarietà verso gli emarginati, diritti civili, welfare state, democrazia parlamentare, rispetto delle minoranze, libertà, salvaguardia della Costituzione, lotta alla corruzione...
    Sono anche convinto che la sinistra - quella che ho sempre concepito, cioè progressista e “pluralista” - debba essere per sua natura la sentinella della democrazia e delle libertà, paladina degli ultimi e nemica delle diseguaglianze, perciò ostile a chi le favorisce. Ma mi rendo conto che l’evoluzione sociale, economica e tecnologica ha scombussolato gli equilibri globali e quelli politici. Il social-liberalismo sulle questioni culturali, di costume, sulla scuola, sul lavoro e soprattutto sull’immigrazione - divenute marcatori identitari essenziali - focalizza posizioni inconciliabili. La sinistra si è mostrata è ancora si mostra incapace di comprendere l’insicurezza culturale dinanzi alle sfide spesso estreme del comunitarismo, dell’islamismo, dei migranti. Non bastasse, le linee di frattura fra sinistra e destra sono oggi meno globali e più fluide che in passato. Mi spiego: si può essere d’accordo su una posizione particolare di un partito senza tuttavia aderire all’insieme del suo programma. Le differenze politiche non sono scomparse, ma su molte posizioni (economia, welfare, cultura, rapporti internazionali) le vecchie differenze schematiche non funzionano più. Bisogna affrontare il presente senza che il passato condizioni l’analisi della realtà. In questo senso, dire che la sinistra è morta è essere in malafede. Semmai, proprio perché la realtà al tempo del web è più reattiva che mai, possiamo dire è più difficile essere di sinistra, dinanzi all’invasione sistematica della propaganda e dei media in stragrande maggioranza (penso a tv e social network) manipolati dalle destre. Ma restano di base alcuni dei valori fondamentali della sinistra, quelli che ne forgiano sensibilità e comportamenti: la rivolta contro ogni forma d’oppressione e ogni regime illiberale; l’attenzione rivolta alla situazione economica e sociale delle fasce di popolazione più povere, la lotta contro soprusi, abusi di potere, la corruzione politica e le connessioni mafiosi nello Stato e nell’economia. A parole, anche le destre affermano di voler combattere mafie e corruzione...la crisi della sinistra sta tutta qui, nel fatto che ad un certo momento ha dimenticato quale fosse la sua autentica vocazione, quella di difendere gli interessi dei più deboli, gettandoli in pasto ai populisti che hanno captato malessere e rabbia, per convertirli in consenso e potere. 
    La Storia, ahinoi, si ripete. Arrivati al potere, i nemici della sinistra, dopo avete illuso chi li ha plebiscitati, li ha delusi. La delusione provoca spesso rancore. Il rancore cova, può esplodere. Gli ultimi e i penultimi della società chiedono il conto e se non sei in grado di saldarlo, te la fanno pagare. In questo turbolento passaggio non basta invocare giustizia e progresso accomunandoli a sacrifici e “la colpa è dei poteri forti”...
    La morale delle sinistre di una volta è degradata, anche se il principio basilare resta quello di far conciliare il bene individuale con quello dell’organizzazione collettiva. La globalizzazione e l’accelerazione tecnologica hanno destrutturato lo sviluppo dell’individualismo (legato alla società dei consumi) e l’idea della supremazia etica del movimento operaio. Non solo, in crisi è finita pure la famiglia tradizionale.
    La morale comune, ha spiegato lo storico Jean-Pierre Le Goff, “e le riserve di umanità” non sono scomparse ma non sono più appannaggio di una classe particolare, tantomeno appartengono ad un campo politico: sono legate a una educazione primaria, a un’esperienza umana è una formazione personale presenti in seno alle differenti categorie sociali e partitiche. Al contrario, come scrivevo prima, disonestà, cinismo e disprezzo riguardano tutti, sia a destra che a sinistra. Come gli scandali che hanno colpito le sinistre quando sono state al potere...(purtroppo). Il che ha minato quella pretesa d’essere moralmente superiori...la repubblica dei buoni sentimenti...
    Ovvio che queste sono notazioni, tracce per discutere ed approfondire. La sinistra che qualcuno vuole seppellire frettolosamente senza appurarne l’effettiva morte, è viva, e può tornare a combattere. Ma confrontandosi con i suoi errori, la sua ambiguità e le sue colpevoli negligenze. Chiedendo idealmente scusa per le promesse mancate e per il tradimento dei valori che la sua dottrina patrocinava. Valori attuali, quei valori che fanno paura a populisti e sovranisti, i quali stanno accelerando i tempi per estendere la propria egemonia. Sanno infatti che più passa più il tempo lì smaschererà. 

  • LA CORRUZIONE DELL'ONESTA'

    data: 21/03/2019 20:04

    Dunque, adesso il gioco è finito. Ci siamo adeguati al “sistema”, siamo andati oltre brevettando la corruzione dell’Onestà. Del resto, ci teniamo ben stretti alle poltrone ben pagate dagli stupidi - in buonafede, però - che hanno creduto al Cambiamento. Quale? Quello del “quando ci ricapita?”... come ha detto non a caso il giustizialista Marcello De Vito, gran paladino della legalità, ex candidato sindaco di Roma,presidente dell’Assemblea capitolina, “dividiamoci questi”, che non erano i tortellini ma torte da spartire di quattrini dei costruttori romani - oh, le intercettazioni sono chiare e precise, indubbie. Il probo moralista De Vito usava le parole come un randello per fustigare gli altri, gli avversari politici, scatenando l’indignazione e la rabbia della gente. La plebe gli ha creduto, l’ha votato, e come lui ha votato anche tutti i grillini che dicevano d’essere “meglio” e diversi da chi li aveva preceduti al potere. Illusi!
    Ormai, quasi ogni giorno, scopriamo che i fustigatori della malapolitica sono come i loro predecessori che additavano al pubblico ludibrio, anzi, sono peggio, perché ipocriti. Oh, non generalizzo: tuttavia, la cronaca è impietosa, e l’azione del governo confusa, sbracata, pura propaganda. Per brama di potere i Cinquestelle si sono alleati alla Lega pensando che si poteva far convivere due populismi divergenti, ma hanno clamorosamente sbagliato. La Lega li sta fagocitando. Impone un’agenda xenofoba, sovranista e scellerata che non a tutti gli elettori grillini è gradita. Ma i parlamentari 5S sanno che se rompono il patto, tornano a casa, i sondaggi lo certificano, hanno perso quasi la metà dei consensi. Perché hanno deluso. Perché i loro elettori si sono accorti che sono stati presi per i fondelli.
    L’Italietta sarà ignorante ed incolta, starà incollata davanti alla tv per farsi frullare il cervello da imbonitrici asservite e zotiche (basta scrollare i canali delle tv private per capire a che infimi livelli sono calati i cosiddetti talk show), ma non è del tutto scema. Passata la sbornia, si accorgerà per esempio che questo governo sta pilotando il Paese dritto nel pantano della recessione e del disastro finanziario ed allora, dopo aver ridimensionato i pentastellati, assesterà una bella pedata anche all’ex fidanzato della Isoardi. Infatti, il malcontento si sta diffondendo a macchia d’olio, già c’è chi non ne può più... i giovani sono disgustato, e lo dicono scendendo in piazza, pigliando a virtuoso pretesto la sacrosanta battaglia per la difesa della Terra contro gli sconvolgimenti climatici ed ambientali causati da un capitalismo selvaggio e predatorio.
    Nel frattempo, fra un condono e un regalo ai mafiosi (vedi le nuove norme sugli appalti...), fra deliranti manifestazioni sulla famiglia e svendita del Paese alla Cina (ma anche agli oligarchi russi e agli sceicchi), cerchiamo di sopravvivere il peggio del peggio, vacciniamoci contro la politica spazzatura e speriamo che la resa dei conti (e del Conte) si avvicini. Soffia di nuovo il vento ed ulula la bufera... occhio a non finire tutti per terra. O sottoterra. 

  • LA GENTE E' STUFA
    DEL BALLIFICIO SALVINIANO

    data: 19/03/2019 07:45

    I sondaggi più recenti hanno registrato il sorpasso del Pd rispetto ai Cinquestelle (21,1 contro 21 per cento) e un’avanzata minima della Lega che guadagna solo uno 0,2 per cento rispetto ad una settimana fa, restando comunque ben salda al 33 per cento. Contro la brutta e vergognosa stagione dei rancori, dell’odio e dei sovranismi, qualcosa si muove. I giovani, le donne, le persone di buon senso che non vogliono un’Italia fuori dall’Europa e dal contesto delle società civili. Anche un forte segnale contro i rigurgiti dei fascistoidi e degli xenofobi che usano il web per diffondere paura e allarmismi smentiti dalle cifre e dai dati ministeriali.

    La gente è stufa della macchina del fango che porta solo malora. La gente è stanca del ballificio continuo di un ministro degli Interni e dei suoi alleati di governo che mentono ad ogni piè sospinto. È venuto il momento di allontanare dalla partecipazione attiva alla vita pubblica coloro che sono perniciosi per gli equilibri democratici del Paese, coloro che ne minano la libertà ed attentano ai nostri diritti, coloro che promettono lavoro e invece lo distruggono, coloro che nuocciono al bene collettivo e tramano con disinvoltura e impudenza contro le istituzioni dello Stato, contro la scuola, la ricerca, la formazione, contro la memoria storica...e contro l’antifascismo, Il vaccino che ha permesso al nostro Paese di sopravvivere alle macerie fisiche e morali del Ventennio. L’antifascismo come valore al quale restare fedeli, ovviamente aggiornato e rapportato ai nostri giorni.

  • VIMINALE SENZA MINISTRO
    PER 20/25 GIORNI AL MESE...

    data: 14/03/2019 09:38

    Ho letto la bella inchiesta di Milena Gabanelli e Gian Antonio Stella apparsa oggi (13 marzo) a pagina 9 del Corriere della Sera, in cui smascherano il capo della Lega, ministro latitante degli Interni (c’è stato appena 5 giorni), che ha utilizzato spregiudicatamente e illecitamente voli di Stato per visite private, presente in Parlamento solo l’1,73 per cento delle sedute in cui si è votato.

    In 9 mesi di governo ha prodotto la miseria di due leggi, 4 question time,1 comunicazione in Parlamento ed è intervenuto in tre commissioni. Ha usato la maggior parte del suo tempo per scopi elettorali e per presenziare persino alla fiera delle armi di Doha, nel Qatar (30 ottobre). No comment. In altri Paesi sarebbe stato cacciato via a pedate. Nel nostro, fa il fanfarone di un governo che si prostra ai diktat del Cremlino e alle promesse di Pechino, ai quali non interessano le sorti dell’Italia ma quelle russe e cinesi, nonché indebolire e spaccare l’Unione Europea, compito che questo governo sta attuando ineffabilmente. (Facebook, 13 marzo 2019) 

  • L'ottava vittima italiana
    del volo Ethiopian, Al Bano e il KGB...

    data: 14/03/2019 09:32

    Otto le vittime italiane del tragico volo Ethiopian. Ma i giornali ne ricordano sette, raccontandone le biografie. Di Rosemary Mumbai, invece, non si dice nulla, si scrive solo il nome, ultima nell’elenco dei morti italiani. Repubblica la cita assieme all’inglese Joanna Tools: le due sventurate lavoravano alla Fao e vivevano a Roma, come si scopre nelle sei righe che chiudono - in fondo alla seconda colonna - un articolo che descrive chi erano le due ragazze romane Pilar e Virginia, funzionarie Onu che avrebbero dovuto partecipare alla conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite a Nairobi.

    Chi era Rosemary?

    Possibile che sia stata trascurata, travolta dall’effetto collaterale in chiave giornalistica del truce “prima gli italiani” (sottinteso: quelli “veri”...)?

    Ai tempi d’oro di Repubblica, quando il giornalismo cercava d’essere, nel limite del possibile, un mestiere serio, scomodo e complicato, se non fossimo stati capaci di scoprire chi era Rosemary ci avrebbero impalati (giustamente).

    D’altra parte, in linea con questi tempi grami per il giornalismo, nel sito di Repubblica.it si può leggere un articolo sulla vicenda che ha appena coinvolto Al Bano. Il cantante pugliese è infatti stato inserito dalle autorità di Kiev nella lista nera degli individui che minacciano la sicurezza dell’Ucraina. Come mai? Al Bano paga la sua ostentata ammirazione per Putin. Nell’articolo si riporta una recente intervista del cantante, che spiega come abbia conosciuto il leader del Cremlino: “L'ho incontrato tre volte. Nel 1986, durante una tournée in Russia, feci 18 concerti a Leningrado e altri 18 a Mosca. In uno di questi era presente anche lui, allora capo del Kgb. Il giorno dopo venne in albergo per complimentarsi."...
     
    Peccato che Al Bano abbia raccontato una supercazzola, ma chi lo cita non se ne è accorto. E questo è grave. Perché Putin non è mai stato capo del KGB, dove è entrato nel 1975 quando aveva 22 anni e mezzo, e dove è rimasto in servizio per sedici anni. Al momento del congedo, era tenente colonnello. Dal 1985 al 1990 ha vissuto a Dresda per conto del KGB collaborando con la Stasi, utilizzando come copertura un’identità di interprete. Bastava informarsi, ed evitare di diffondere simili sciocchezze. Le fake news sono sempre in agguato. Anche nelle redazioni di chi vuole combatterle... (Facebook, 11 marzo 2919)