Che meraviglioso sport è il ciclismo! Ventisette maggio, ventesima tappa del Giro d’Italia 2023, la penultima. La più breve. Una cronoscalata da spasimo. La tappa più difficile (ed è un eufemismo: decidono pendenze che sono sentenze). Insomma, la resa dei conti.
Prima del via decisivo, alle cinque in punto della sera (o giù di lì, ma è il senso fatidico del momento) la maglia rosa Geraint Thomas va a salutare i rivali Primosz Roglic ed Joao Almeida, il secondo ed il terzo in classifica. Un gallese. Uno sloveno. Un portoghese. Nella classifica generale, i primi dieci sono corridori di altrettante nazionalità. Oggi, il ciclismo è questo: cosmopolitismo, più incontro che scontro di culture, di identità, di memorie. Quello di Thomas, a pochi istanti dal redde rationem, è più che un nobile gesto di grandissima sportività. Come ha spiegato il presidente Mattarella al mio amico Pier Bergonzi della Gazzetta dello Sport, “lo sport è tante cose insieme. È emozione, divertimento, salute. Ma anche educazione alla vita di comunità. Una vita per formare cittadini consapevoli. Lo sport, nel nostro Paese ha avuto, e mantiene, un ruolo importante nella costruzione di una memoria condivisa e, in questo senso, di una componente significativa della nostra identità collettiva”.
Dunque, il saluto prima che la competizione tra i tre favoriti abbia inizio, è perfetto, nella cornice entusiasta della più grande festa popolare italiana che per tre settimane, ogni anno dal 1909, salvo gli stop bellici, rianima un Paese anestetizzato da malgoverno e diatribe infime. Sulla strada, si è riversata la gran folla di chi ama le due ruote. È gente felice. Allegra. Rumorosa: più da sagra che da stadio. Anzi. È generosa: per oltre quattro ore ha dispensato applausi ed urla di incitamento a tutti i corridori, nessuno escluso: certo, poiché la penultima tappa di questo Giro 2023 si disputava quasi al confine con la Slovenia, in migliaia sono venuti a tifare Roglic, e tuttavia, hanno anche incoraggiato i suoi avversari (salvo qualche isolato buu, ma gli imbecilli erano pochi). Bandiere slovene in stragrande maggioranza, per ovvie ragioni geografiche…ma anche tantissime portoghesi, americane, canadesi, australiane, belghe, olandesi, tedesche, spagnole, colombiane, ecuadoregne, italiane. Alessandro De Marchi che è “furlan” di San Daniele, all’arrivo ha sventolato la bandiera del Friuli: da quasi mezzo secolo è la regione che sostiene il principio di uno sport senza frontiere, sognando i Giochi Olimpici organizzati assieme da Tarvisio, Klagenfurt (Austria) e Kraniska Gora (Slovenia), lle tre regioni di tre Paesi vicini e sodali.
Che cosa avrà detto Thomas in quei pochi secondi rivolgendosi ai suoi avversari? Conoscendo il gallese, avrà incitato Roglic e Almeida a dare tutto, almeno quel tutto che è rimasto nelle gambe dopo oltre 3200 chilometri di durissimo Giro: “È stato bello pedalare assieme e battagliare sulle salite”, magari non proprio queste parole, i corridori parlano spesso anche solo con sguardi e mezze frasii, è l’economia del fiato quando sei in sella e cerchi di sprecare meno ossigeno che puoi, ma in gruppo c’è sempre qualcuno che chiacchiera, o fa gossip, e qualcun altro che bisticcia (come Thibaut Pinot) o chi rimprovera con qualche urlaccio (uno dei “sergenti” più burberi è Salvatore Puccio, gregario di Thomas), quando si obbliga il plotone ad inutili rincorse…
Il Giro è un romanzo. E nei romanzi, c’è sempre spazio per pensieri che angustiano i protagonisti. Thomas sa che i 18,6 chilometri a cronometro da Tarvisio al santuario del monte Lussari sono più che un’insidia, un’autentica trappola: gli ultimi sette chilometri e mezzo non lasciano scampo, o hai le gambe o accusi distacchi, giacché le pendenze sono drastiche, con rampe al 22 per cento, e una malefica stradina - spesso in cemento - che tira sempre verso il cielo, inesorabilmente. Ce la farò, si chiede Thomas, o verrò punito dall’anagrafe? Giovedì 25 maggio ha compiuto 37 anni: vincesse il Giro sarebbe il corridore più anziano a riuscirci nella secolare storia della corsa rosa. Un record. Roglic, invece, ha 33 anni e mezzo. Ed è motivato dal risentimento di una disfatta che lo ha ferito profondamente: ha infatti perso rocambolescamente il Tour del 2020 proprio nella penultima tappa a cronometro, battuto dal più giovane connazionale Tadej Pogacar, in un epico quanto doloroso ed umiliante duello: “Fu una brutale sconfitta”, disse in un’intervista al quotidiano l’’Equipe. Quel secondo posto all’epoca lo visse come l’esperienza più frustrante della sua carriera, “ma a volte si vince, a volte si perde. Quando hai fatto tutto il possibile, devi accettare” il destino. E la sfortuna. Però, fin dai primi metri della sua cronoscalata, lo sguardo di Roglic era quello di uno che non aveva affatto scordato l’onta. Altro che episodio “metabolizzato”. In una cosa, però, è risoluto: l’esperienza lo ha rafforzato. Una sfida. Per migliorare. Per imparare. Chissà quante volte ne avrà parlato con Thomas. Già. Perché i due sono rivali in corsa ma amici, i figlioletti si frequentano, escono spesso insieme perché entrambi hanno preso residenza a Monaco (guadagnano milioni all’anno, se lo possono permettere, è il paradiso non solo fiscale dei campioni…).
Thomas è consapevole che i 26 secondi di vantaggio in classifica che ha su Roglic sono un filo sottile: lo sloveno in salita, se sta bene, è nettamente più forte. Spera non sia al massimo. Poi sa che Primosz è stato piuttosto meticoloso, nella preparazione della tappa, a cominciare dalla scelta delle due bici - quella classica da crono per il tratto in falsopiano, quella per l’arrampicata con moltipliche assai agili da cambiare nel breve tratto in cui è permessa la sotituzione e la spinta del meccanico per il rilancio. Oh, anche la Ineos di Thomas non è stata da meno, nell’approccio alla tappa. La scelta del gallese è più conservatrice: rapporti più duri, cambio di casco (in salita quello da crono è una tortura). Si affida alla potenza. Mentre lo sloveno conta sull’agilità e sul maggiore ritmo delle pedalate (tra 100 e 110 al minuto). Per dirla in poche parole, l’opzione della maglia rosa è pedalata più dura per fare più metri. Roglic preferisce alzare le frequenze della pedalata e diminuire il metraggio. Una scommessa?
La corsa in bicicletta contro il tempo è la sfida contro noi stessi, perché siamo soli, tra strada e nuvole, perché in questa prova misuriamo i nostri limiti, cerchiamo di andar oltre, senza tuttavia andare fuori giri. Il corpo umano, anche di un fuoriclasse, è un motore complesso, delicato: va messo a punto ogni giorno. Talvolta s’ingrippa. Succede: i corridori la chiamano cotta. Nelle gare a cronometro, che sono le prova estreme del ciclismo su strada, specie se si tratta di una cronoscalata mista in cui si combinano le alte velocità della pianura (o del falsopiano) con l’asfissìa delle drizzate senza tregua, non c’è rimedio alla cotta. Sei solo. Senza compagni di squadra che ti aiutano a superare la crisi o a contenere i distacchi. È la solitudine dei numeri primi. Nel caso, dei numeri…Primosz.
E tuttavia, ieri c’è stato tutto e il contrario di tutto. I favoriti hanno spinto sui pedali con tutta l’anima: hanno onorato il Giro. E i tifosi. Si sono dannati, scovando energie residue, dopo oltre 3200 chilometri ed un tempo quasi sempre infame, dopo il gran freddo, la pioggia (per quindici giorni), i ritiri per Covid e le cadute che hanno decimato il gruppo (si sono ritirati 51 corridori su 176). Sino all’ultimo, si è rimasti sospesi al tica tac del cronometro, e ai giudizi sommari delle immagini, o a quelli inesorabili degli intertempi, che davano la misura delle varie prestazioni. La resa dei conti non poteva essere orchestrata meglio, pareva quasi il copione di un thriller. Anzi, di più. È successo che a Roglic, in un tratto di salita per fortuna non mostruosa, sia saltata la catena. Un attimo: tutti abbiamo gridato: “Noo! Ha perso il Giro, come tre anni fa ha perso il Tour! Poveraccio, è sventurato”. I secondi trascorrevano implacabili, il vantaggio che aveva su Roglic (in quel momento, 16 secondi), veniva dissipato dall’inopinato stop. Ci si metteva pure il meccanico, ad intralciare Roglic che cerca di risistemare la catena, perché era balzato dalla moto (in quella stradina le “ammiraglie” non potevano transitare) con la bici di riserva. Roglic gli ha gridato “spingimi!”, ed il meccanico, sbilanciato dall’altra bicicletta, lo ha fatto maldestramente. Insomma, pareva una fine ingloriosa di una tappa magnifica. Invece, Roglic ha reagito con una rabbia agonistica spaventosa. Si è inarcato sui pedali, ha aumentato la velocità, ha aggredito la strada, aveva addosso tanta di quell’adrenalina da abbattere un toro. Era come chi rischiava di perdere l’ultimo treno, prima della chiusura della stazione. Una corsa disperata per afferrare la balaustra dell’ultima carrozza.
Ecco. Col senno di poi, è stato grazie all’incidente e all’orgogliosa reazione che Roglic è andato non a vincere ma a stravincere la tappa, l’ultimo chilometro lo ha sorvolato mentre più sotto Thomas arrancava alle prese con la fatica accumulata in tutti questi giorni. Ora, il gallese poteva capire cosa si provava a perdere il primato nel momento chiave di un Giro sino a quel momento abbastanza equilibrato. Frastornato dal tripudio di una folla in stragrande maggioranza slovena, in delirio perché era evidente che Roglic saliva come un angelo mentre Thomas pedalava pesante, e sgrumava sudore come una fontanella. Lassù, al santuario, ad aspettare Roglic, c’era la moglie, e il figlioletto con la magliettina rosa, come se tutto fosse stato già scritto…epperò, che intensità questo tifo per uno sport della fatica in cui ogni corridore è stato rispettato e festeggiato ed ha avuto il suo piccolo momento di gloria, che fosse tra i migliori, o tra gli ultimi, che fosse Roglic o i rivali più diretti. A cose fatte, e in bilico tra sogno, emozione e rivalsa, Roglic confesserà che non aveva perso la fiducia di poter conquistare il Giro, nonostante l’incidente meccanico. Ha vendicato la beffa del Tour. Si è preso, da uomo solo al comando, il Giro d’Italia del 2023. Chissà, forse l’anno prossimo riproverà alla Grande Boucle. Nel castello dei destini incrociati a pedali, è un predestinato persino nel nome: Primosz. E il suo è stato un magnifico colpo di scena, nel giorno più atteso non ha illuso né deluso. Il Giro d’Italia è la corsa a tappe più dura che ci sia, vorrà dire pur qualcosa- Certo, il Tour paga meglio, rende di più commercialmentre, attira capitali e corridori di alto rango. Ma il Giro d’Italia è più bello. È la Grande Bellezza del ciclismo.