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RITA LOPEZ

  • IL CASO CRIMINALE
    DI EULAU

    data: 05/03/2022 19:47

    Piombarono nel nostro villaggio all’improvviso, nel momento in cui i nostri uomini erano quasi tutti fuori, alcuni alla ricerca di legna, altri al lavoro nei campi. Piombarono come uccelli rapaci sulle prede, con urla agghiaccianti a squarciare la quiete delle nostre vite. Conoscevano le abitudini della nostra gente, la gente di Eulau, e non fecero altro che aspettare il momento propizio. Sapevano che eravamo sole con i nostri bambini e solo due uomini rimasti con noi. Attaccarono all’improvviso. Fummo presi alla sprovvista e cercammo di difenderci, coprendo con i nostri corpi i nostri figli. Anche i due uomini rimasti al villaggio lottarono disperati, ma loro, gli assassini, erano più numerosi, erano meglio organizzati, avevano armi efficienti ed erano assetati di sangue come belve feroci. Ci uccisero tutti. Tutti. Quando gli altri uomini tornarono all’accampamento, si trovarono di fronte a una carneficina. In preda alla disperazione scavarono quattro fosse di forma rotonda e ci deposero con cura all’interno. Ci sistemarono abbracciate ai nostri bambini. Uniti nella vita. Uniti nella morte.
    ***
    Nel 2005 gli archeologi Meller e Ganslmeier hanno scoperto a Eulau, in Sassonia, un sito con quattro fosse di forma rotonda che ospitavano tredici individui. Erano stati deposti con cura, in posizione fetale. Alcuni erano abbracciati. Altri si tenevano per mano. Tutti i cadaveri, donne, bambini e due uomini, erano morti di morte violenta. Tutti gli scheletri riportavano tremende ferite: crani fracassati con le asce, braccia e mani mutilate, vertebre distrutte dalle pietre.
    Quella che divenne nota come “la famiglia di Eulau”, e che fu definita come il primo nucleo familiare scientificamente accertato, la prima famiglia della storia, fu sottoposta ad analisi genetiche che confermarono che tutti i componenti erano strettamente imparentati tra loro.
    Ma chi e perché commise un assassinio del genere?
    I due archeologi notarono delle particolari punte di frecce conficcate nelle ossa dei cadaveri. Riconobbero che appartenevano ad armi usate da clan vicini, detti di Schönfelder. Dalle analisi dentali si scoprì inoltre che le donne uccise, al contrario dei due uomini e dei bambini, avevano seguito una dieta diversa che non era quella tipica di Eulau, ma dei territori dei clan di Schönfelder. Era proprio da lì che le donne provenivano. Si trattò quindi di una vendetta? Le donne di Schönfelder furono rapite dagli uomini di Eulau? Oppure decisero di andarsene autonomamente dal loro clan d’origine? Non lo sappiamo. Non lo sapremo mai.
    L’unica cosa certa sono quei corpi che dormono insieme da millenni.
    L’unica cosa certa sono quell’uomo e quella donna stretti nell’abbraccio d’amore più lungo della storia, che contiene anche i corpi dei loro due bambini.
    Il giallo di Eulau, in Sassonia, rimarrà uno dei primi casi criminali irrisolti.
    ©RitaLopez
    (nella foto: la “famiglia di Eulau”).
     

  • LA FANCIULLA DEI GHIACCI
    CHE DORMIVA DA 25OO ANNI
    IN UN TRONCO DI LARICE

    data: 05/02/2022 16:42

    Incastonati tra Russia, Cina, Mongolia e Kazakistan ci sono i monti Altaj, i monti più alti della Siberia, il cui nome deriva dal mongolo “altan” che vuol dire “oro”. Le montagne d’oro.
    Quando gli archeologi la trovarono, lei dormiva nel suo tronco di larice da più di 2500 anni. Giaceva in una tomba di epoca scizia, perfettamente conservata grazie al ghiaccio che l’aveva protetta come in una culla, a quasi tremila metri di altezza, sull’altopiano di Ukok. Era giovane, alta e indossava una elaborata parrucca sul capo rasato. Forse era una sciamana, o una guaritrice, o una cantrice di racconti popolari. Sicuramente doveva godere di grande rispetto e avere un ruolo importantissimo nella sua comunità. Con lei vennero seppelliti anche sei cavalli, uno specchio e dei semi di coriandolo, utilizzati nelle sepolture reali. Una delle cose che lasciò stupiti gli archeologi fu il gran numero di tatuaggi che ricopriva il corpo ancora intatto della fanciulla. Il più bello era tatuato sulla sua spalla sinistra: un cervo con il becco da grifone e le corna da capricorno. Nel tumulo funerario c’era anche un contenitore con della cannabis.
    La fanciulla degli Altaj fu caricata su un elicottero e trasportata lontano, in città, dove sarebbe stata studiata, fotografata, inondata dai flash, analizzata, sottoposta a risonanza magnetica, esaminata nel suo DNA. Scoprirono che aveva un cancro al seno. Quindi la cannabis le serviva anche per lenire i dolori, oltre che per favorire le visioni che le permettevano di mettersi in contatto con l’aldilà.
    In poche ore la sua scoperta stupì tutto il mondo, ma si scatenò anche la maledizione. L’elicottero che la trasportava subì un guasto e riuscì ad atterrare miracolosamente. L’altopiano di Ukok fu funestato da terremoti, frane, siccità e carestie. Gli sciamani delle montagne dell’Altaj dissero che nessuno doveva toccare le reliquie della fanciulla dei ghiacci e che le sciagure non sarebbero finite fino a quando lei non fosse tornata nella sua terra. Nemmeno le prove del DNA, che rivelarono che la donna non aveva caratteristiche mongole e quindi le sue origini venivano da molto lontano, riuscirono a calmare il malcontento e le proteste per il suo rapimento.
    Dopo tanti anni, la fanciulla dei ghiacci tornò finalmente nella sua terra. Riposa in una stanza del museo, così come il popolo indigeno degli Altaj voleva.
    Solo qui, sulle montagne dorate che da sempre l’hanno cullata, può riprendere a viaggiare libera nell’aldilà, guidata dai suoi sei cavalli
    © RitaLopez
    (Nella foto: ricostruzione del volto della fanciulla dei ghiacci, fatta dall’esperto di tassidermia svizzero, Marcel Nyffenegger)
     

  • COSIMO IL CUSTODE
    E LA VILLA DEI PAPIRI

    data: 13/05/2021 16:29

    «Cioè, scusi, lei mi sta dicendo che io sono venuta da Roma, qui a Napoli... per niente?».
    «Mi dispiace, ma la domenica non c'è abbastanza personale. Sa... i tagli finanziari... la spending review... Siamo costretti a chiudere alcune delle sale del Museo. Non so che dirle».
    «Ma io sono venuta qui apposta!!! Devo fare delle foto proprio nella sala della Villa dei Papiri... e lei mi dice che è chiusa??? La prego, per favore, non può farmi accompagnare da qualcuno? Mi aprite. Faccio le foto e poi sparisco, giuro. La prego. È questione di vita o di morte...».
    Devo aver esagerato un po'. Lo so.
    Devo essergli sembrata disperata. Lo so.
    Ma devo aver colpito proprio al centro il grande cuore napoletano dell'impiegato, lì nell'ufficio della segreteria del Museo Archeologico di Napoli.
    «E va buo' va'...aggio capito». Compone un numero di telefono.
    «Cosimo? sienti cà: dovresti venire ad accompagnare una persona nella sala della Villa dei Papiri. Deve fare solo un po' di fotografie. Fa' all'ambrest!».
    Dopo cinque minuti, Cosimo, uno dei custodi, arriva. È un signore anziano, con i capelli brizzolati e le guance rubiconde.
    «Venga cu mme dottore'».
    «La prego, signor Cosimo, mi chiamo Rita».
    Saliamo la meravigliosa scalinata del Museo, fino al primo piano. Mi apre la porta della sala dedicata alla Villa dei Papiri. Mi fa entrare. Accende le luci e richiude la porta a chiave, per non far entrare nessuno.
    «Guardi, signor Cosimo, faccio prestissimo. Il tempo di fotografare gli affreschi e la lascio libera».
    Faccio le mie foto. Ci metto davvero cinque minuti.
    «Ecco qua, possiamo andare» gli dico.
    Cosimo cerca di aprire la porta, ma non ci riesce. Sta là a smanettare con la chiave. Impreca. Niente. La porta è completamente bloccata.
    «Non ne va bene una oggi» penso tra me e me.
    Cosimo prende il cellulare e chiama la direzione.
    «Ora non può venire nessuno» gli dicono. «Dovete aspettare che finisce il turno Pasquale, così che possa salire e aprirvi da fuori».
    Cosimo mi ripete la conversazione.
    E poi aggiunge: «Stimm in mezz a nu casino, ccà. I tagli... la spendi reviù...».
    «Lo so, lo so», gli rispondo.
    «Vabbè, Cosimo, che ne dice se io, intanto, mi faccio un giro qui, tra le statue?».
    «Ma ci mancherebbe altro, dottore'. Facite come a casa vostra».
    Mi aggiro nella sala. Cosimo, il custode, mi segue. E inizia a chiedermi della Villa dei Papiri. Cosa rappresenta questa statua, cosa rappresenta quell'altra. Ed io gli racconto. E Cosimo è attento. E continua a fare domande. Ed io gli racconto ancora... Di quando hanno scoperto la Villa nel '700, e degli scavi durante i secoli, e dei reperti pazzeschi che sono venuti fuori... E poi del proprietario della Villa, che doveva essere una specie di fanatico megalomane, che amava circondarsi di meraviglie... E che la sera si intratteneva nel tablino, a leggere i rotoli di papiro dei più famosi autori greci e latini... E che nelle tiepide mattine di primavera passeggiava nell'immenso peristilio rettangolare, circondato da colonnati e statue di bronzo, proprio quelle che adesso erano lì esposte... E che godeva come un matto a stupire i suoi ospiti, accompagnandoli fino al belvedere, impreziosito dallo stupefacente pavimento mosaicato, da cui si poteva ammirare il mare e sentire il profumo dell'origano selvatico...
    È un piacere raccontare a Cosimo. È attento. È curioso. Fa domande. Dopo circa una mezz'oretta arriva quel tizio, Pasquale. Infila la chiave dalla parte esterna e per fortuna riesce ad aprire la porta della sala.
    «Bene, Cosimo, non so come ringraziarla, davvero. Mi ha fatto un grande favore».
    «Dottore', ma che dicite? O favor l'avit fatt vui a mè. Cà inda nisciun m'avia spiegato mai nu cazzo, e mò aggio capito tutto. E almeno si quaccheduno me face na dumanda, nun faccio ‘na figura emmerda».
    Grande Cosimo.
    Grande, grandissimo Cosimo.

    (Nella foto: la Villa dei Papiri di Ercolano. Ricostruzione)


     

  • OGGI E' IL GIORNO IN CUI
    FABRICIUS DIVENTA UOMO

    data: 12/04/2021 18:16

    È l'alba del 17 marzo, il giorno della festa dei Liberalia, dedicata al dio Liber, il cui tempio è sull'Aventino. Sono già sveglia da ore. Mi alzo dal letto e in punta di piedi mi avvicino alla finestra per spiare nella stanza di Fabricius, che abita nella casa di fronte alla mia. Il ragazzo di cui sono innamorata compie sedici anni e, insieme agli altri giovani della sua età, festeggerà oggi il passaggio allo stato di uomo.
    Fabricius si toglierà la bulla, la collana che i bambini ricevono quando sono ancora in fasce, come simbolo di protezione, e la deporrà sul piccolo altare dei Lari, gli spiriti protettori dei nostri antenati, che si trova in un angolo di ogni casa di Roma. Accanto alla bulla lascerà anche una ciocca dei suoi capelli castani e la prima rasatura della sua barba ancora sottile.
    Poi il mio amato si sfilerà la toga praetexta bordata di porpora, quella che portano i ragazzi, ed io mi sentirò morire alla vista di quelle spalle che conosco così bene e di quelle braccia che mi stringono forte, di nascosto, ogni volta che attraverso con lui l'ingresso buio di casa mia, mentre i miei fratelli più piccoli giocano rincorrendosi nell'atrio.
    Sua madre gli porgerà la toga virile, quella che portano gli uomini, bianca, come i petali del giglio.
    Fabricius farà colazione con un uovo, che rappresenta un nuovo inizio, e con una focaccia di latte e farro. Infine uscirà per strada e guarderà alla mia finestra, sapendo che io sto dietro le imposte.
    Il cuore mi batterà forte nel petto.
    Lo vedrò seguire la processione diretta al tempio, sull'Aventino, mentre le sacerdotesse del dio Liber, con i lunghi capelli intrecciati con rami di edera, offriranno alla folla torte impastate con olio e miele.
    Ci saranno sacrifici, e musiche, e maschere appese ai rami ad adornare gli alberi.
    Un grande fallo, in cima ad una pertica, precederà la processione, per augurare fertilità alla terra e agli uomini.
    Io aspetterò a casa mia, affacciata alla finestra, fino al tramonto. Aspetterò paziente il ritorno di Fabricius.
    Quando lui arriverà, solleverà la testa e mi vedrà.
    Per la prima volta mi guarderà con gli occhi di uomo.

    (Nella foto: statua di Pugile - I sec. d.C. - copia romana da un originale greco della prima metà del IV sec. a.C.).
     

     

  • LA LEGGENDA DELLE NAVI
    SEPOLTE PER DUEMILA ANNI
    RISCOPERTE E POI BRUCIATE

    data: 13/03/2021 19:41

    C’è una storia che i miei nipoti amano ascoltare di continuo.
    “Nonno” mi chiedono, “parlaci della leggenda del lago!”. Come non accontentarli? Anche io, da bambino, non mi stancavo mai di sentirla ripetere da mio padre, che a sua volta se la faceva raccontare da suo padre che era un pescatore nel lago di Nemi.
    La mia famiglia abita da generazioni qui, a Nemi, un paese bellissimo, affacciato sul cratere di un antichissimo lago vulcanico. Nelle notti di luna piena la superficie dell’acqua brilla come uno specchio. Per questo il lago veniva anche chiamato “lo specchio di Diana”, la dea che a Nemi era celebrata in un santuario a lei dedicato.
    I miei nipoti mi si stringono in cerchio.
    La storia parla di due grandi navi che rimasero per quasi duemila anni sul fondo del lago. La loro presenza nelle acque buie e profonde era stata narrata fin dal I secolo dopo Cristo, fino a trasformarsi in leggenda nei secoli successivi. Di generazione in generazione si continuò a favoleggiare delle due grandi navi romane affondate nello “specchio di Diana”.
    Fu Caligola, il re “folle” a farle costruire lì, sul lago. Erano due navi immense, magnificenti. Si diceva che fossero in legno di cedro. Che fossero abbellite in maniera sfarzosa con decorazioni preziose. Che le prue fossero dei gioielli. Che fosse piena di sculture rotanti su sfere di piombo. Che fosse stracolma di vasi d’oro e d’argento. Pavimenti in marmi e mosaici. Balaustre. Edicole sostenute da colonne. Padiglioni coperti da tegole in terracotta e rame. Che le sue vele fossero di seta viola. Che il giovane re facesse il bagno in vasche di bronzo e alabastro.
    I miei nipoti spalancano gli occhi.
    Si tramandava che l’imperatore Caligola, passato alla storia come uomo crudele e dissoluto, celebrasse su queste navi festini sfarzosi e desse sfogo con orge ai suoi vizi depravati.
    Il giovane imperatore fu assassinato a soli 28 anni e insieme a lui la maledizione colpì anche le sue splendide navi. I senatori, per cancellarne il ricordo, fecero distruggere tutte le opere da lui costruite. Tra queste, anche le due imbarcazioni sul lago, che furono fatte affondare. Ma la leggenda delle navi attraversò i secoli. Generazioni di pescatori stupefatti, molto spesso, insieme alle reti, issavano in superficie ora pezzi di legno finemente lavorati, ora oggetti preziosi.
    Con l’avvento del regime fascista e il trionfo della romanità, la leggenda delle navi funzionò da potente mezzo di propaganda.
    Dopo anni di lavoro, il lago fu letteralmente prosciugato e le due navi rividero la luce.
    I miei nipoti battono le mani e sorridono.
    Le imbarcazioni furono portate a riva e messe al riparo in un museo che fu costruito proprio per l’occasione.
    E poi arrivò la guerra, con tutto il suo bagaglio di follia. La notte del 31 maggio 1944, si sparse la notizia che i soldati tedeschi, in ritirata, avessero appiccato l’incendio alle navi. Per sfregio. Il giorno dopo, al posto delle due imbarcazioni, c’era soltanto un enorme, fumante cumulo di cenere.
    I miei nipoti mi guardano commossi.
    Le due navi, realizzazione folle di un imperatore folle, che pure resistettero per due millenni sott’acqua, scomparirono nel giro di una notte folle, in seguito a un gesto folle.
    Le navi di Caligola che erano state leggenda e che per breve tempo divennero realtà, tornarono per sempre ad essere leggenda.
    I miei nipoti mi guardano increduli.
    Pensano che sia tutta una storia inventata.
     

  • CHIUSO NEL SACCO
    CON GALLO, CANE,
    VIPERA E SCIMMIA

    data: 08/02/2021 17:59

    Emilio ha sgozzato nostro padre con la lama affilata di un coltello. Lo ha sgozzato davanti ai miei occhi. Ho visto il sangue uscire a fiotti dalla sua gola e sporcare il mio letto e le mie gambe.
    Emilio è mio fratello minore e oggi viene condannato dal diritto romano criminale, perché accusato di parricidio. Il peggiore dei delitti.
    Eccolo, il fratello con cui giocavo da bambina. Gli hanno fatto indossare degli zoccoli di legno ai piedi e un cappuccio di pelle di lupo sulla testa, perché non possa contaminare il suolo con il suo corpo e l'ambiente circostante con il suo sguardo. Lo costringono a compiere la sua ultima passeggiata infamante, esponendolo al pubblico ludibrio e agli sguardi pieni d'orrore della folla.
    Eccolo, il fratello che prendevo in giro da bambina. Lo frustano con verghe rosse di corniolo, gli squarciano la carne delle spalle e delle gambe, ma neanche un grido esce dalla sua bocca.
    Eccolo, il fratello che spaventavo con le mie storie terribili. Lo richiudono in un enorme sacco di cuoio impermeabile, insieme ad un gallo, un cane, una vipera e una scimmia.
    Il gallo, feroce e battagliero, tanto da terrorizzare persino i leoni.
    Il cane, impuro e immondo, come lo è un parricida.
    La vipera, che nella nostra tradizione partorisce una vipera al giorno e che a volte viene dilaniata dall'interno e uccisa da quelle che hanno fretta di nascere e sono stanche di aspettare.
    La scimmia, considerata la caricatura dell'uomo, così stupida da soffocare talvolta i propri cuccioli con i suoi abbracci.
    L'enorme sacco viene chiuso ermeticamente. Si muove in modo orribile e osceno sulla terra polverosa, tra le risate sguaiate della folla.
    Immagino il forte becco del gallo che si scaglia sugli occhi di mio fratello.
    Immagino la scimmia impaurita che urla e gli strappa i capelli.
    Immagino il cane che morde le sue gambe con la bava alla bocca.
    Immagino la vipera che gli inietta il suo veleno nel petto.
    Prego gli dei di regalargli al più presto la morte, per porre fine al suo supplizio terribile.
    Dopo un tempo interminabile, il sacco viene issato su un carro trainato da un bue nero e portato verso il Tevere. La folla lo segue lentamente e in mezzo alla folla ci sono anch'io.
    Eccolo, il fratello che facevo piangere con i miei pizzichi dispettosi. Gettano il sacco, col suo corpo dilaniato e sbranato, nelle acque del fiume.
    Per la folla affamata di giustizia, il mostro non c'è più.
    Per me non c'è più mio Emilio. L'amico della mia infanzia. Il compagno dei miei giochi.
    Colui che mi ha salvato dalle voglie incestuose di un padre violento.
    Mio fratello. Mio fratello, il parricida, non c’è più.
     

  • "SENZA SENO"? NO
    LE AMAZZONI ERANO
    DONNE E GUERRIERE

    data: 07/01/2021 17:48

    La nostra Terra era una distesa immensa che si allungava dal Mar Nero fino alle steppe dell’Asia Centrale. Scizia si chiamava. E Sciti era il nome del suo popolo misterioso, che qualcuno descrisse come gente dagli occhi cerulei e dai capelli colore del fuoco. Abitavamo in tribù nomadi. Eravamo abili domatori di cavalli, arcieri formidabili. I civilissimi Greci raccontavano su di noi storie terribili. Dicevano che facevamo collezione delle teste dei nemici morti. Che ci dissetavamo col sangue degli avversari caduti in battaglia. Che usavamo le loro pelli per farne degli spaventosi vessilli di guerra. I nostri antenati furono i primi a montare i cavalli. Furono i primi a usare l’arco ricurvo. Tutti i bambini, maschi e femmine, si allenavano a cavalcare e a tirare con l’arco. Le donne cacciavano e combattevano a fianco dei loro uomini, con le stesse armi, lasciando pieni di stupore gli antichi Greci le cui donne, invece, conducevano vite ritirate. Le nostre donne venivano seppellite con le armi, come i loro uomini. Avevano ferite da battaglia sul corpo. Tagli da spada sulle costole. Teschi sfondati da colpi di scure. Frecce calcificate nelle ossa. Esattamente come i loro uomini.
    Queste donne, queste guerriere, erano conosciute col nome di Amazzoni. La loro fama e le loro imprese si diffusero sempre di più nell’antica Grecia, fin dai tempi di Omero. I poeti narravano di quando combatterono nella leggendaria guerra di Troia e il loro potente esercito invase Atene. Giasone e gli Argonauti giunsero davanti alle loro spiagge, sfiorando le loro frecce mortali. Queste formidabili combattenti fronteggiarono i più grandi eroi: Eracle, Teseo, Achille. Furono proprio i Greci, che pure ne avevano ripugnanza, a tramandare il loro mito.
    Per questo si è sempre creduto che l’origine del nome Amazzone derivasse dalla lingua dei Greci, da “a mazos”, che significa “senza seno”. Secondo la loro leggenda, una delle nostre mammelle veniva amputata perché non impedisse il maneggio dell’arco. Secondo il loro immaginario, solo una donna privata della propria femminilità poteva diventare Amazzone. Secondo l’ethos di un eroe greco, sarebbe stato improponibile e poco onorevole il consapevole scontro armato con una donna. In realtà la parola Amazzone deriva dalla nostra lingua, da “ha-mazan”, che vuol dire “guerriero”.
    Sul fregio del Partenone di Atene si vede Achille che sconfigge Pentesilea, la Regina delle Amazzoni, davanti alla città di Troia. Si racconta che Achille ne scoprisse la bellezza solo quando, colpitala a morte, le cadde l’elmo e furono così svelati i bei tratti del volto. Ignorava, Achille, che dietro quella femminilità prorompente, quell’incanto che il suo popolo non accettava in una guerriera e che quindi cercava di negare, di nascondere, si celavano invece anni e anni consacrati alla guerra, all’addestramento, allo stesso rigore che regola la vita di un soldato. Ignorava, Achille, che femminilità e disciplina, femminilità e responsabilità, femminilità e rabbia non si annullano l’uno con l’altro.
    Le Amazzoni non sono mai morte. Il loro spirito ha attraversato nel tempo le anime delle Erinni e delle Gorgoni. Il loro grido di battaglia, capace di paralizzare i nemici, è risuonato nella bocca dell’argiva Telesilla che guidò le concittadine contro gli invasori spartani, e della celtica Budicca che vinse i Romani, e di Zenobia regina di Palmira, e di Camilla di cui si parla nell’Eneide, e di Giovanna d’Arco, e di Clorinda della Gerusalemme Liberata. Il loro coraggio, che non ha di certo scalfito la loro capacità seduttiva, ha viaggiato nel tempo fino a raggiungere il cuore delle streghe del Medioevo, delle partigiane, delle soldatesse curde…
    Lo spirito delle Amazzoni soffia ancora. C’è. C’è sempre stato. Lo so, perché io sono la loro Regina.
    Io sono Pentesilea.

    Nella foto: particolare di una scena di combattimento tra i Greci e le Amazzoni (Amazzonomachia) su un sarcofago” del 280 d.C. circa, proveniente da Tessalonica, odierna Salinicco.

  • L'ANTICA DEA STRENNA
    E I REGALI DI NATALE

    data: 09/12/2020 16:54

    C’era una dea, antichissima, che si chiamava Strenna. Una dea così antica da risalire al tempo dei Sabini, ancor prima che a quello dei Romani. Alcuni dicono che il suo nome derivi infatti dalla parola di origine sabina “strena”, che vuol dire “regalo”.
    Quando tantissimo tempo dopo fu fondata Roma, la leggenda dice che i cittadini raccolsero un fascio di rami tagliati dal bosco sacro dedicato a Strenna e lo offrirono a Romolo. Da allora rimase l’usanza di regalarsi a vicenda, durante le festività del nuovo anno, rami sacri di alloro e ulivo, insieme a fichi e mele, con l’augurio che il nuovo anno potesse essere dolce come quei frutti.
    Una processione partiva dal santuario della dea Strenna e risaliva lungo la via Sacra, fino alla Rupe Tarpea. Durante la festa ai bambini venivano regalati dolci di marzapane a forma di pupazzo, che molto probabilmente raffigurava la dea con più seni, simbolo di prosperità. Ancora oggi in molti paesi dei Castelli Romani si usa cuocere dolci a forma di donna con tre seni, immagine arcaica della dea Madre dalle molte mammelle. Statuette della dea, di colore bianco, si donavano in occasione delle nascite. Nere, in occasione delle morti. Forse da qui deriva l’usanza della Befana di portare lo zucchero, bianco, ai bambini buoni e il carbone, nero, a quelli cattivi.
    La dea Strenna avrebbe garantito la ricchezza, la salute, la potenza (da cui “strenuo”, cioè “forte”). Era la dea che legava la fine di un ciclo con l’inizio di uno nuovo. La dea che dava la vita e poi però se la riprendeva. La dea che “strinava” i campi, perché solo bruciando la terra e le sterpaglie, nel freddo dell’inverno, si garantiva la rinascita e la vita futura.
    Questa meravigliosa figura femminile fu trasformata in Strega dalla Chiesa di Roma, sfruttando anche l’assonanza con la parola greca “strix” (στρίξ, che vuol dire “barbagianni”). Condannata a essere raffigurata, nei secoli a venire, come una vecchia gobba e col naso adunco.
    Ma la meravigliosa dea Strenna, in qualche modo, ancora rivive nelle feste della Befana di alcuni paesi siciliani, quando orde di ragazzini "i figghi dâ Strina", girano per i vicoli e bussano alle case reclamando dolci, frutta secca, denaro.
    La prosperosa dea Strenna ancora rivive in alcune tradizioni calabresi, quando gli “Strinari” intonano “la strina”, un canto natalizio che augura un felice anno nuovo a tutti i componenti della famiglia.
    Quando sentiamo parlare di “strenna natalizia” ricordiamoci che è dal culto della dea Strenna, antica e pagana, che tutto ebbe origine.

    (nella foto: Paul Rubens (1577-1640), Abundantia)

     

  • 8 NOVEMBRE, IL MUNDUS
    SI APRE E I DEFUNTI
    TORNANO FRA I VIVI

    data: 08/11/2020 13:39

    Si delimitava uno spazio sacro, tracciando sulla terra due assi ortogonali. Al centro dei due assi si scavava una fossa, il mundus, il legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La fossa era chiusa da grandi lastre di pietra per tutto l’anno. Solo tre giorni veniva aperta.
    L'8 novembre era uno di quei giorni, quando il Mundus Patet, il mondo si apre.
    L’8 novembre le anime dei defunti tornavano nel mondo dei vivi e si aggiravano liberamente per la città di Roma.
    In quei giorni non si attaccava battaglia con il nemico. Non si prendeva moglie. Non si aprivano le porte dei templi. Non si faceva nulla se non ciò che fosse strettamente necessario.
    Il mondo invisibile era terrificante, certo, ma incuteva anche rispetto.
    Cercavamo un contatto, con cautela, con devozione, perché sapevamo che ne avremmo tratto energia e linfa vitale.
    Dai morti nasce la vita, come dal seme nasce il frutto.
    Solo alla sera dell'8 novembre i due mondi tornavano a separarsi.
    I vivi riprendevano le loro occupazioni terrene, più arricchiti, più rinnovati.
    I morti abbandonavano la città. Ridiscendevano sotto terra.
    Uno sprazzo di luce nelle orbite vuote dei loro occhi.
    Una speranza nelle nostre pupille.
    Noi e loro col cuore gonfio di nostalgia, prima che il Mundus fosse nuovamente ricoperto dalle grosse lastre di pietra.

    (Nella foto: il Mundus nel Foro Romano).
     

  • LE CICALE DI CNOSSO

    data: 11/10/2020 20:28

    “Le cicale cantano a squarciagola qui. Sempre. Eppure il loro frinire, in questo periodo, è assordante. Sono molti giorni ormai che mio padre, il Re-Sacerdote del grandioso palazzo di Cnosso, è preoccupato. La nostra Dea Madre, la Dea dei Serpenti, la Dea dal seno prosperoso, dice che una grande sciagura sta per arrivare dal mare sulla nostra isola, la nostra Creta.
    E che niente sarà più come prima.
    Giorno e notte mio padre compie sacrifici, versando nei pozzi sacri le offerte votive, per compiacere gli dei.
    Io però non ci credo.
    Io penso che la nostra Dea Madre, questa volta, si sbagli.
    Come possono svanire nel nulla il nostro palazzo, qui a Cnosso, e quelli altrettanto grandiosi di Malia e di Festo?
    Niente è più sicuro dei nostri lunghi corridoi ombrosi, dalle pareti affrescate con i grifoni color cremisi e con i delfini azzurri, simboli di gioia.
    Niente è più affidabile del labirinto di miriadi di stanze disposte su più livelli, dove è bello perdersi in mezzo alla foresta di fitte colonne, ricavate dai tronchi di cipresso.
    Come possono gli dei non gradire le nostre gloriose processioni dirette alla corte centrale, là dove le donne gareggiano insieme agli uomini, volteggiando sui tori, con abilità e coraggio?
    Come possono non gradire le larghe scalinate, che conducono ai santuari da cui si vede il mare?
    Certamente la nostra Dea Madre questa volta si sbaglia.
    Noi, sovrani dei mari,
    noi che viviamo in una natura rigogliosa, che ci permette di riempire di olio e di grano i magazzini stracolmi di giare,
    noi che sappiamo leggere e scrivere i caratteri impressi con i nostri sigilli,
    noi maestri nella lavorazione della ceramica, così come dell’oro, delle gemme e delle pietre preziose...
    Noi siamo benevoli agli dei. ”

    E invece gli dei, un giorno, smisero di apprezzare la devozione dei Minoici.
    Li colpirono proprio da dove essi avevano costruito la propria fortuna: dal mare.
    Un gigantesco maremoto, provocato dal vulcano della vicina Santorini, distrusse gli antichi palazzi.
    Niente fu più come prima.
    Solo le cicale cantano ancora a squarciagola qui. Sempre.
    Il loro frinire è assordante.

    (Nella foto: resti del palazzo di Cnosso a Creta).
     

  • LA TESSITRICE

    data: 18/09/2020 13:39

    Nel nostro villaggio la fabbricazione dei tessuti era una produzione importante, che veniva affidata alle donne giovani, come le ragazze non sposate o le spose non ancora assorbite dalla cura dei piccoli.
    Mia madre era arrivata qui da bambina, con la sua famiglia di origini greche, ma aveva imparato a tessere come e meglio delle donne locali. Non so se mio padre si innamorò delle sue dita bianche e sottili, che maneggiavano veloci fuseruole e rocchetti e pesi da telaio e pettini, o dei suoi capelli intrecciati come le trame di una stoffa. La trama di una stoffa è come la trama di una storia. I fili si annodano, si legano, si districano e si incontrano per avvilupparsi di nuovo, proprio come nelle vicende della vita.
    Come dono di nozze le regalò un piccolo vaso a fiasco su aveva fatto incidere un’iscrizione in greco, la lingua di mia madre.
    EULIN c’era scritto. Vuol dire “colei che fila bene”.
    Mia madre continuò a tessere anche quando cominciò a crescerle la pancia. Tesseva e mi accarezzava nella mia culla calda, fatta di carne e sangue. Mio padre però non mi conobbe mai. Morì poco prima che nascessi. Lo immaginavo sdraiato nella sua fossa, con i suoi oggetti personali posti ai suoi piedi, tra cui una brocca e un rasoio. Mia madre smise di tessere, ma dal piccolo vaso a fiasco che le regalò mio padre, non si separò mai.
    “Perché sei triste?” le chiedevo mentre lavoravo al suo vecchio telaio.
    “Perché non so se lui mi amerà ancora, quando vedrà che non sono più giovane e bella”.
    Piccoli solchi profondi le rigavano la fronte e i suoi capelli diventavano ogni anno più bianchi. Morì quando era molto vecchia.
    Decisi di cremare i suoi resti così che mio padre non si accorgesse dei segni del tempo che avevano stravolto quel viso e quel corpo che lui aveva amato così tanto. Misi le ceneri di mia madre in un grande dolio e, insieme ai vecchi e ai sacerdoti del villaggio, decidemmo di riporle nella stessa fossa dove era stato sepolto mio padre tanti anni prima. Accanto alle sue ossa bianche, sistemammo il grande dolio con le ceneri e vicino al dolio posai il vaso che lui le aveva regalato per le nozze. Fu in quel momento che me ne accorsi. Ebbi un brivido nella schiena.
    Da sinistra a destra si leggeva ancora il termine EULIN, “colei che fila bene”, nella lingua di mia madre, ma da destra a sinistra ho riconosciuto, solo allora, l’espressione latina NI LUE, che vuol dire “non sottrarmi”, nella lingua di mio padre.
    La trama di una stoffa è come la trama di una storia. I fili si annodano, si legano, si districano e si incontrano per avvilupparsi di nuovo, proprio come nelle vicende della vita.
    Non so perché, ma ebbi la certezza che l’avrebbe amata lo stesso, anche se non era più giovane e bella come l’aveva lasciata.

    (Nella foto: vaso a fiasco proveniente dalla necropoli di Osteria dell’Osa, con la più antica iscrizione in lettere greche rinvenuta in Italia. VIII sec. a.C. Museo dello Terme di Diocleziano, Roma.
    Da sinistra a destra si legge, in greco, EULIN, “colei che fila bene” e da destra a sinistra, in latino, NI LUE, “non sottrarmi”).

     

  • ASPETTARE IL TRAM
    E SCOPRIRE LA DEA
    FORTUNA DEL MO' PROPRIO

    data: 03/07/2020 18:05

    La dea Fortuna era legata a tutti gli aspetti della vita quotidiana, sia civile, sia morale, sia religiosa, di Roma antica. La città era disseminata di templi a lei dedicati e sono quasi trenta i nomi con cui si indicava la dea Fortuna. Fortuna Primigenia, la dea da cui provengono tutti gli dei. Fortuna Virile, nel senso di vir, forza. Fortuna Muliebris, che protegge le donne. Fortuna Manens, che resta, non si allontana. Fortuna Felix che dà prosperità...
    Ma fra tutte le Fortune, quella che più delle altre mi sta a cuore, soprattutto in questo istante, è la Fortuna Huiusce Diei, che vuol dire la Fortuna del Giorno Presente. Dell'adesso. Del qui e ora. Del “mo’ proprio” insomma.
    Perché penso che non ci sia fortuna più grande dell'energia, delle circostanze favorevoli, della concatenazione perfetta e mirabolante degli eventi propizi che si verificano in un solo, particolare, preciso momento.
    Nel saper cogliere quel momento, nel goderne e ubriacarsene, sta tutta la filosofia del "carpe diem".
    Quando vi trovate a Largo Argentina, come me in questo momento, e come me in questo momento avete perso il tram per un soffio, e vi predisponete con la santa pazienza ad aspettare il successivo sotto il sole cocente, e aspettate, aspettate, aspettate, e il tram non arriva, e non arriva, e non arriva, affacciatevi un attimo (sempre che ne abbiate le forze) alla balaustra al di sopra dell'Area Sacra.
    Il tempio della Fortuna Huiusce Diei è quello circolare. Non potete sbagliarvi. Fu fatto costruire dal console Quinto Lutazio Catulo per celebrare la vittoria contro i Cimbri, nel 101 a.C. Ciò che è rimasto è solo il basamento con sei colonne. Ha un impianto bellissimo perché evoca con la sua pianta circolare i luoghi di culto del mondo greco, come i tholoi, adattati però, con un podio così alto, al mondo italico. La statua della dea Fortuna, ritrovata accanto al tempio, era mastodontica. La sua testa, alta ben 1,46 m, è conservata nella Centrale Montemartini.
    Ecco, che dirvi di più? Mentre siete ancora lì, con la bava alla bocca e sulla via inevitabile della disidratazione, prima di stramazzare al suolo a causa di un colpo di calore, rivolgetevi fiduciosi alla dea della Fortuna Huiusce Diei e forse il vostro tram arriverà.
    Forse.

     

  • LA VIGNA SUL FIUME
    NELLA TERRA
    CHE ERA STATA DEI CELTI

    data: 27/05/2020 16:16

    Vivevo alla periferia dell’Impero, là dove i Romani avevano posto il limes, il confine, il muro che separava fisicamente la civiltà, in nome della quale il mio popolo era ormai da secoli sottomesso, dalla barbarie dei miei antenati.
    Vivevo nella terra che era stata dei Celti, ma ero un legionario. Un legionario di Roma, con il compito di controllare le periferie anonime e desolate di un territorio sconfinato, la cui gloriosa capitale era per noi più distante della luna.
    Vivevo a Spira, sul Reno, in quel tratto del fiume da sempre noto per i vigneti che ricoprono le alture circostanti. Alternavo le mie giornate tra la divisa di legionario con i panni di contadino. A volte mi capitava di chiedermi chi fossi in realtà ma, come al solito, non trovavo mai una risposta. Forse è questo il destino di noi gente di frontiera. Non essere né carne né pesce. Stare in equilibrio sull’orlo di un muro che fa da delimitazione e non appartenere né a una sponda, né all’altra. Fare la guardia a un nemico esterno, che però ha la nostra stessa cultura, per difendere qualcuno, qualcosa che neanche conosciamo.
    Prima che il cielo diventasse scuro, un soldato veniva a darmi il cambio sul forte, e io correvo alla vigna, dove mi aspettava Ariana, la mia sposa. Riponevo l’elmo e lo scudo nell’atrio, mi sfilavo la lorica e mi mettevo la mia vecchia tunica da lavoro. Ariana aveva raccolto l’uva dai grossi acini dorati per tutta la mattina e adesso, dopo averla torchiata a legna, l’aiutavo a conservare il vino in grandi botti che lo avrebbero protetto dagli sbalzi di temperatura e dagli inverni rigidi della nostra regione. Era bello lavorare al fianco della mia donna, fino a tardi, fino a quando il cielo iniziava a oscurare e l’aria brumosa si sollevava sui campi. Tornavamo a casa, io e Ariana, e facevamo l’amore.
    L’ultimo vino fu eccezionale. Forse il vino migliore da noi prodotto. Decidemmo, io e Ariana, di conservarne un po’, per festeggiare un giorno la fine del mio servizio militare. I legionari del limes dopo venti anni di servizio potevano ritirarsi. Roma ci avrebbe ricompensati affidandoci un terreno, due buoi, dei semi e una somma in denaro.
    A me, di anni, ne mancavano più della metà, ma che importava? Invece di utilizzare il solito vaso di terracotta, versammo il vino in una bottiglia di vetro che Ariana aveva ricevuto come regalo di nozze, con i manici simili a quelli di un’anfora, a forma di delfino. Lo diluì con una miscela di erbe e lo ricoprì con dell’olio, perché si conservasse il più a lungo possibile. Chiuse infine la bottiglia con un sigillo di cera sciolta.
    Non lo bevemmo mai quel vino. Caddi sul limes, colpito dalla lancia scagliata da un barbaro, durante un’incursione. Prima di spirare, di nuovo, per un attimo, mi sono chiesto chi fossi in realtà, e di nuovo non ho trovato risposta.
    Ho pensato ad Ariana. Alla vigna sul fiume. Al nostro vino. Alla bottiglia con cui avremmo festeggiato la fine del mio servizio.
    Quella bottiglia non fu mai aperta. Ariana la pose nel sarcofago, accanto al mio corpo.
    Il vino, il nostro vino, si è conservato benissimo.

    (Nella foto: bottiglia di vino di Spira (Germania), (325-350 d.C.), Museo storico del Palatinato. È considerata la bottiglia di vino più antica al mondo).
     

  • 21 APRILE, ROMA
    NACQUE IN UN GIORNO
    DI FESTA E DI SANGUE

    data: 21/04/2020 13:01

    Quella giornata era iniziata con un presagio favorevole. Aveva vinto la contesa augurale con suo fratello e adesso, scagliata un’asta di corniolo verso il colle Palatino, questa era penetrata con un tonfo secco nella terra e si era immediatamente trasformata in albero. Era il 21 aprile, giorno ideale per la fondazione della nuova città, perché era il giorno in cui i pastori festeggiavano la dea Pales, l’antica divinità del Palatino. La dea della pastorizia. Parilia si chiamava la festa. Da parĕre, che vuol dire partorire. Aprile è infatti il mese in cui le capre partoriscono i capretti.
    Celebrò la festa davanti al Lupercale, la grotta in cui lui e suo fratello erano stati allevati da bambini. Furono accesi dei fuochi su cui gli uomini saltavano per purificarsi e per propiziare la nascita dei capretti.
    Sì. Era davvero un bel giorno quello. Un giorno di sole caldo e di cielo azzurro intenso.
    Chiamò a raccolta tutti i rappresentanti dei vari villaggi sparpagliati sui colli. Davanti a loro scavò quindi una fossa circolare e vi depose all’interno le primizie del raccolto. Quindi invitò ciascuno di loro a coprire la fossa. Uno alla volta gli uomini si avvicinarono e gettarono un pugno di terra proveniente dal proprio paese natale, in modo che le terre si confondessero e si mescolassero in un unico corpo. Senza distinzione. Quando la fossa fu completamente coperta, vi innalzò sopra un altare. Accese un grande fuoco e pronunciò i nomi di Roma. Il nome noto di Roma e i nomi segreti di Roma. Quelli che nessun nemico doveva conoscere. Così che nessun nemico potesse essere in grado di maledire.
    Indossò quindi una tunica cinta in vita, con un lembo che gli copriva la testa, secondo l’antico rituale etrusco. Fissò all’aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un bue e una vacca, entrambi bianchi, e li guidò lui stesso in senso antiorario, tracciando un profondo solco lungo il perimetro stabilito, per disegnare i confini della città.
    Dietro di lui gli uomini gettavano nello scavo delle pietre, perché la pioggia non potesse cancellarlo. Lungo quel solco sarebbero infatti sorte le mura. Ogni tanto sollevava l’aratro, lì dove ci sarebbero state le porte della città. Quello rappresentava il perimetro sacro e inviolabile, il limite che non poteva essere valicato in armi e la cui profanazione sarebbe stata punita.
    Ma improvvisamente qualcuno, un ragazzo, in segno di sfida, oltrepassò il solco. Gli si gelò il sangue nelle vene. Era suo fratello. Lasciare impunito quel salto, quell’offesa, avrebbe significato permettere che le mura diventassero attraversabili da chiunque. Lo uccise. La sua morte era la prova che le mura erano sanctae e nessuno, nessuno avrebbe potuto violarle impunemente. Neanche il fratello del re. E mentre il sangue ancora caldo penetrava nella terra smossa, ritornò all’aratro con un’ombra che gli era scesa nel cuore e continuò a tracciare il perimetro della città.
    Roma nacque in un giorno di festa, con la benedizione degli dei e un dolore profondo nel petto di uomo. Fu fondata secondo una sacralità che non poteva essere violata. Da niente e da nessuno.
    Roma nacque dalla mescolanza di terre diverse, come punto da cui ricominciare.
    Dall’orgoglio delle proprie diverse origini e culture, come ricchezza da cui partire.
    Per affermare la concordia al di sopra delle discordie.
    Per garantire la diversità senza, per questo, diventare nemici.

    (nella foto: Annibale Carracci, Romolo traccia con l’aratro il confine della città di Roma, 1590, Bologna, palazzo Magnani)
     

  • MARCO CURZIO

    data: 18/03/2020 17:16

    A volte gli dei provocano gli uomini, per sfidarli, per stuzzicarli, o semplicemente perché si annoiano a morte.
    E forse si annoiavano a morte anche quel giorno del 362 a.C. quando, nel bel mezzo del Foro Romano, si aprì una voragine senza fondo. Una voragine nera e spaventosa.
    I cittadini, costernati, guardavano la profonda ferita che deturpava la loro piazza più bella e che sembrava allargarsi, ora dopo ora, sotto i loro occhi.
    Guardavano e si sentivano impotenti.
    A volte gli dei si divertono a spiare le reazioni degli uomini. Forse fanno scommesse sul probabile svolgimento degli eventi, sbattendosene altamente delle paure, delle angosce, del dolore che possono provocare.
    Si chiese allora il parere dei sacerdoti e i sacerdoti interpretarono il mostruoso baratro come un segno di sventura, una maledizione che avrebbe inghiottito tutto il foro, per poi espandersi alla Subura e all'Argileto, al Campo Marzio e all'isola Tiberina, fino a fagocitare tutta quanta Roma, a meno che...
    A meno che i Romani non avessero gettato nell'orrida voragine, quanto di più prezioso possedessero.
    A volte gli dei dimenticano che tra la massa di uomini e donne senza personalità, senza fegato, senza passioni, può celarsi una scintilla eroica, una scheggia impazzita, la piccola boccia rossa che fa cambiare traiettoria al resto delle palle da bigliardo, mettendo in discussione tutto quello che si riteneva certo e inevitabile.
    Marco Curzio sapeva benissimo qual è il bene più prezioso, il bene supremo.
    E' il coraggio.
    La folla assiepata lo vide correre al galoppo sul suo cavallo nero, vestito della sua armatura dorata, il tondo scudo al braccio sinistro e la lancia ben salda nella mano destra.
    Neanche un attimo di esitazione sul volto.
    Neanche un attimo di paura.
    Marco Curzio si lanciò nella voragine.
    A volte gli dei diventano piccoli e miseri di fronte alla grandezza di certi uomini e di certe donne.
    A volte gli dei devono ritirarsi a occhi bassi, con la coda tra le gambe. E quel giorno del 362 a.C. fu così.
    La voragine si richiuse all'istante, dopo che Marco Curzio si precipitò nel buio della sua gola oscura.
    Quel posto è ancora lì, nel Foro Romano.
    Si chiama Lacus Curtius.
    E quando questo incubo sarà finito e verrete a trovarmi a Roma, ve lo farò vedere.

    (Nella foto: bassorilievo marmoreo rappresentante il cavaliere Marco Curzio mentre si getta nella voragine. Tabularium dei Musei Capitolini, Roma).
     

  • IL TRACE

    data: 20/02/2020 12:13

    Mia madre non sapeva neanche quale fosse il suo vero nome.
    Il Trace, così lo chiamavano tutti.
    Il Trace. Il gladiatore rispettato dagli uomini e venerato dalle donne.
    Il Trace dai muscoli che scoppiavano sotto la pelle lucida. Dalle gambe forti come rocce. Dai capelli lunghi e castani.
    Il Trace dagli occhi di brace.
    Mia madre, che non aveva ancora quindici anni, perse la testa per lui.
    Lasciava la finestra della sua stanza socchiusa per permettergli, nel cuore della notte, di intrufolarsi nell'atrio della casa e poi nel suo letto.
    E il suo cuore batteva come impazzito di fronte alla realtà concretissima di trovarsi lì, tra le sue gambe d'acciaio, a due passi dalla camera dove suo padre e sua madre dormivano già da un pezzo.
    Prima dell'alba il Trace scioglieva le sue braccia possenti dalla sua vita sottile come un giunco del Tevere e sgusciava via da dove era venuto.
    Ogni volta che lui combatteva sulla sabbia infuocata dell’Anfiteatro, mia madre si recava nel tempio a pregare gli dei, perché la sua vita fosse risparmiata un’altra volta.
    Oh dei, vi prego, fate che viva ancora! Ancora una volta! Anche questa volta!
    Fu proprio in uno di quei giorni infuocati di Roma, mentre lui combatteva come un leone nell’Anfiteatro, che mia madre si accorse di essere incinta.
    Per nove volte il Trace aveva vinto nei combattimenti. Nove memorabili volte.
    Ma quel giorno gli fracassarono il cranio con la mazza chiodata e il suo sangue schizzò sulla faccia dell'avversario e tinse di rosso la sabbia bollente dell’Arena.
    Mia madre lo venne a sapere il giorno dopo. Si precipitò al tempio. I capelli sciolti, bagnati di lacrime.
    In un punto nascosto, poco prima della cella buia del tempio, dietro una colonna incise queste parole sul muro: “Il Trace ha vinto per la decima volta”.
    Si riferiva alla nuova vita che aveva dentro di sé. Si toccava la pancia. E piangeva.
    Quella scritta è ancora lì.
    Anche adesso che sono vecchio, di tanto in tanto, mi reco al tempio e vado a rileggerla.

    (Nella foto: iscrizione conservata nel Museo Epigrafico delle Terme di Diocleziano, Roma).
     

  • LA FAVOLA DEL DOLMEN
    DEI PALADINI

    data: 22/01/2020 13:05

    In un tempo lontanissimo, in cui il tempo come noi lo intendiamo ancora non esisteva, c’era un’enorme distesa di terra, alle pendici delle Murge, ricca di vegetazione e di animali selvatici.
    In quel tempo lontanissimo gli uomini e le donne non dovevano spaccarsi la schiena a zappare le dure zolle tra una roccia e l’altra, perché gli alberi offrivano frutti e olive e mandorle in quantità.
    Tra i boschi di querce e le pinete si rincorrevano volpi, lepri e cinghiali.
    Il barbagianni svolazzava col pettirosso.
    Il falco afferrava la lucertola tra gli artigli e poi la lasciava andare.
    In quella Terra benedetta c’era il mio villaggio, in cui la vita scorreva lenta e senza intoppi come l’acqua di un fiume diretta verso il mare. Passavamo i giorni nella lieta consapevolezza di vivere in pace. Nel nostro clan tutti gli uomini erano alti e forti, ma ce n’erano tre che battevano tutti gli altri in vigore e robustezza. Li chiamavamo “i giganti”. Forse era una mia impressione, ma quando uno dei tre giganti era nei paraggi, io sentivo tremare la terra e vedevo agitarsi i rami delle querce.
    Un giorno i tre giganti si sfidarono a chi innalzasse la pietra più grossa per costruire una casa.
    Tutto il villaggio si era radunato per assistere alla gara.
    Il primo gigante afferrò un enorme masso e lo pose verticalmente sulla terra brulla. Tutti battemmo le mani.
    Il secondo ne prese due, mastodontici, e li pose uno di fronte all’altro. Eravamo sbalorditi.
    Poi fu la volta del terzo. Sollevò, uno dopo l'altro, tre macigni giganteschi. Più giganteschi dei tre giganti messi insieme e li sistemò in modo da formare una specie di camera.
    Tutti rimanemmo senza fiato per quello che avevamo appena visto, ma il gigante non aveva ancora finito. Si guardò intorno, ansimando. I muscoli delle braccia gonfi come montagne. Ad un tratto scorse un enorme macigno, seminascosto dagli sterpi. Si diresse là, si chinò e lo sollevò tra le braccia. Lo trasportò verso i tre lastroni che aveva eretto poco prima e lo pose in cima, come se fosse un tetto. Ricordo i suoi muscoli che tremavano. Il sudore sulla schiena. Le vene del collo che sembravano esplodere.
    Niente e nessuno avrebbero potuto mai più smuovere quella costruzione, l’opera di un gigante.
    Né il maestrale che soffia dal mare. Né il sole cocente delle estati infuocate.
    Né i più forti tra gli uomini.
    Né i più feroci tra gli animali.
    Né guerre. Né saccheggi.
    Quella costruzione, il Dolmen dei Paladini, è ancora lì.
    Solo l’idiozia, l’incuria, l’ignoranza, potranno distruggerla.

    (Nella foto: il Dolmen dei Paladini, nei pressi di Corato. Monumento funerario utilizzato come sepolcro collettivo nell’età del Bronzo, 1500 a.C. circa).
     

  • UNA SETTIMANA
    DI DICEMBRE

    data: 29/12/2019 18:33

    Dal 17 al 23 dicembre gli uomini e le donne di Roma si liberavano dalle fatiche del lavoro. Disobbedivano alle costrizioni sociali. Disobbedivano alle convenzioni morali. Gli schiavi scambiavano i loro abiti con i padroni, per diventare essi stessi padroni dei loro padroni, trasformati in schiavi.
    I signori, abituati a essere serviti, dovevano a loro volta servire e omaggiare i propri servi. Sontuosi banchetti erano tenuti davanti al tempio di Saturno, dove a tutti era consentito partecipare.
    Le meretrici, sedute comodamente a tavola, davano ordini alle virtuose matrone che non vedevano l’ora di poter dare sfogo ai propri eccessi, senza essere additate. Di sguinzagliare le proprie fantasie, senza essere condannate.
    Si danzava. Si scherzava. Si scambiavano doni: miele, noci fresche, statuette d’argilla e ceri accesi.
    Si davano spettacoli e feste, e anche il gioco d’azzardo, per quei giorni, non era proibito.
    Per una settimana, dal 17 al 23 dicembre, veniva celebrata la mitica Età dell’Oro, quella dei tempi delle origini, quando il lavoro non esisteva. Quando non c’erano rigidi e convenienti comportamenti da seguire. Quando non si praticavano le guerre.
    In quella settimana, sotto i piedi degli uomini e delle donne di Roma, la Madre Terra, gelida, addormentata nel suo letargo, veniva fecondata e nutrita dai lazzi, dagli scherzi, dalle burle e dalle risate dei suoi abitanti.
    Solo così ci sarebbe stata abbondanza di raccolti.
    Solo così i rami si sarebbero chinati, in estate, ricolmi di frutti succosi.
    Piene di olio buono, sarebbero state le anfore.
    Palpitanti di nuova vita, i ventri delle giovani donne.
     

  • I GIGANTI DI NIMRUD

    data: 05/12/2019 14:00

    A fare da guardia all’ingresso dell’antica città di Nimrud, in Iraq, erano state poste delle meravigliose creature scolpite nella pietra, frutto dell’ingegno di una delle civiltà più antiche del pianeta Terra. Si trattava di esseri semidivini. Entità amichevoli. Protettive. Per nulla pericolose. Per nulla temibili.
    I Lamassù. Così si chiamavano.
    Nel 2015 questi custodi benevoli furono distrutti per mano dei miliziani di un’organizzazione jihadista. Mi sono chiesta più volte perché. In tanti, a dire il vero, si sono chiesti perché.
    Perché prendersela con questi giganti buoni?
    Forse perché il loro pericolo più grande era ciò che rappresentavano.
    Il Lamassù era un essere ultraterreno, dotato delle migliori qualità in ogni singola componente di cui era composto.
    La testa dell’uomo, per la saggezza.
    Il corpo del toro, o del leone, per il coraggio.
    Le ali dell’aquila, per la forza.
    Il Lamassù era l’unione di elementi apparentemente inconciliabili tra loro. Senza alcuna affinità. Messi rocambolescamente, coraggiosamente insieme, quasi a voler sperimentare una soluzione nuova. Inaspettata. Sbalorditiva.
    La fusione di cose diverse in una sola entità.
    Ecco cosa rappresentavano i Lamassù: il frutto della fantasia, della facoltà libera e associativa del pensiero. Qualcosa di molto pericoloso per chi è fautore dell’intolleranza.
    Nel 2015 l’idiozia ottusa ha distrutto queste creature surreali e maestose.
    I Lamassù non sono più lì, a fare da guardiani all’antica città di Nimrud.
    Ma la scintilla fantastica dell’immaginazione, della curiosità, dell’invenzione, la spinta a osare, la curiosità per il diverso, tutto ciò, miei cari, vola ancora nell’aria.
    La forza delle idee è ancora libera. Come una farfalla.
    "Provate a prenderci," dice "se ci riuscite".


    (nella foto: ingresso di Nimrud, prima del marzo 2015) 

  • ANTIGONE

    data: 18/11/2019 09:08

    Il vecchio re di Tebe, per motivi politici, non volle concedere la sepoltura a Polinice. Chi avesse violato il suo ordine, sarebbe stato lapidato: questo ordinava la legge. E già gli avvoltoi volavano bassi sul corpo rigido e senza vita del ragazzo.
    Ma Antigone, sorella di Polinice, spiava da lontano quel corpo adagiato sulla terra polverosa, e nel suo cuore meditava.
    Gli avvoltoi roteavano sempre più bassi.
    E Antigone nel suo cuore meditava.
    E alla fine prese la decisione.
    Nessuna legge scritta, nessuna regola giuridica, avrebbero potuto mettere a tacere il suo amore di sorella, la pietà per suo fratello, la propria moralità, la propria libertà di coscienza.
    La nobile e fiera Antigone violò l’ordine del re.
    Diede sepoltura al corpo di Polinice e scatenò il conflitto.
    Il conflitto tra uomini che comandano e donne che non obbediscono.
    Il conflitto tra vecchi potenti e giovani ribelli.
    Il conflitto tra lo strapotere di una rigida e impersonale burocrazia e la realtà realissima degli individui in carne e ossa.
    Il conflitto tra i diritti dei vivi e quelli dei morti.
    La nobile e fiera Antigone diede retta al suo cuore, anche se aveva paura.
    Per il vecchio re di Tebe, questo ... oh! questo era davvero intollerabile.
    (Dedicato a Ilaria, moderna e meravigliosa Antigone dei giorni nostri). 

  • LUCREZIA

    data: 23/10/2019 21:44

    Non c’è bisogno di mostrarsi licenziosa per suscitare gli istinti brutali di una mente depravata. Lucrezia era chiamata “la casta”. La pudica. Era l’esempio di virtù muliebre cui tutte le spose dovevano ispirarsi.
    A Roma, alla fine del VI secolo avanti Cristo, regnava un re sanguinario. Si chiamava Tarquinio, detto “il Superbo”, a causa della sua indole arrogante.
    Durante l’assedio di Ardea, nell’ambito di una guerra lunga e aspra, gli ufficiali, di sera, bevevano e discutevano attorno al fuoco. E, ovviamente, parlavano di donne.
    Sorse presto una disputa su quale fra le mogli dei presenti, fosse la più virtuosa. Pare che il primato andasse alla moglie di Collatino, Lucrezia. La più morigerata di tutte.
    Collatino stesso propose di tornare di nascosto a Roma per dimostrare la fedeltà della sua sposa.
    E così un gruppo di uomini, inebriati dal vino, si misero in viaggio. Giunti a Roma, proseguirono per Collazia, dove sorpresero Lucrezia intenta a filare la lana in compagnia delle sue ancelle.
    Il vanto di uomo è anche questo: la castità del corpo di sua moglie.
    In quel gruppo di uomini c’era anche Sesto Tarquinio, il figlio del Superbo.
    Non c’è bisogno di ammiccare con seduzione, per risvegliare il folle desiderio della bestia.
    Anche la mirabile castità di una donna può risvegliare il tarlo di un’insana libidine.
    Tempo dopo, una notte senza luna, Sesto Tarquinio tornò a Collazia da solo a casa di Lucrezia e la stuprò, violandola nello stesso modo in cui suo padre, il Superbo, aveva violato Roma.
    Il vile trionfo di un uomo è anche questo: il possesso del corpo di una donna, anche contro la sua volontà. Soprattutto contro la sua volontà.
    La giovanissima sposa, prostrata non solo dal dolore ma anche da un irragionevole senso di colpa, affondò la lama di un pugnale nel suo petto innocente, cercando di liberare l’anima dalla sozza prigionia che sentiva essere diventato ormai il suo corpo.
    Il tormento di un uomo è anche questo: il supplizio delle membra di una donna.
    Dopo che Lucrezia si squarciò il petto, i Romani, capeggiati da Collatino, suo marito, e l’amico Giunio Bruto, giurarono vendetta contro tutta la stirpe dei Tarquini.
    La rabbia cieca di un uomo nasce anche da questo: dal corpo di una donna trasformato in vessillo.
    Lucrezia si suicidò a Roma nel 509 avanti Cristo, dopo aver subito una violenza sessuale.
    Nel 509 avanti Cristo cadde la monarchia e sorse la Repubblica.
    Furono quindi eletti dal prefetto dell’Urbe due consoli, nei comizi centuriati. Sapete chi?
    Collatino e Giunio Bruto.
    A volte l’oltraggio privato di un uomo può trasformarsi in pretesto per una rivoluzione politica, con la benedizione del sangue sacrificale del corpo martoriato di una donna.
    Lucrezia fu uccisa due volte.
    Una volta dal mostro. E una volta dalla morale,

    Nella foto: Lucrezia, di Bartolomeo Passerotti (1529-1592). Pinacoteca Nazionale di Bologna.
     

  • PARTENOPE

    data: 25/09/2019 11:28

    Che compito scellerato quello che gli dei affidarono a me e alle mie due sorelle! Leucosìa, la dea bianca, Lìgeia, colei che ha la voce chiara, ed io, Partenope, la virginale, abitavamo sull’isola di Antemoessa, circondata dalle onde spumeggianti del Mediterraneo.

    Che destino infame il nostro, che non dovevamo consentire il passaggio, attraverso le coste rocciose, di essere umani che restassero vivi, pena la nostra stessa morte. Provavo pena per quei marinai, costretti a passarci davanti e a essere ammaliati dal suono di miele che usciva dalle nostre bocche. Obbligati a impazzire, fino a gettarsi in mare. Fino a essere scaraventati contro gli scogli acuminati che avrebbero ridotto le loro carni in brandelli.

    Che sorte avversa la nostra, che ci voleva appostate con le nostre brutte zampe d’uccello su una rupe, le ali spiegate al vento, costrette a impedire la gioia del ritorno a casa. Eravamo prigioniere di una terra ricoperta di cadaveri in putrefazione periti a causa della nostra voce, che pure era soave come un giglio.

    La voce di morte delle Sirene “dolci fino a morire”.

    Il canto come perdizione.

    Il canto come traviamento.

    Peccato mortale.

    E poi è arrivato il più grande mentitore dell’antichità, Ulisse, l’infaticabile esploratore dell’ignoto. Tappò con la cera le orecchie dei compagni e si fece legare all’albero maestro della nave, pur di ascoltare il nostro canto.

    La sua nave passò indenne e noi fummo sconfitte.

    Non ci rimase altro da fare che gettarci dalla rupe e andarci a schiantare sulle rocce. I nostri corpi, il mio e quello delle mie due sorelle, furono trasportati dalle correnti in tre direzioni diverse. Le mie spoglie giunsero sulla spiaggia di Megaride, in Campania. Lì mi trovarono dei pescatori che mi venerarono come una dea. In mio onore eressero un altare e organizzarono giochi sulla spiaggia.

    Nel punto esatto in cui il mio corpo si dissolse, fu fondata la città di Partenope.

    Che beffa atroce per gli dei, quando vennero a sapere che in quella città il canto era diventato simbolo di gioia, e di amore, e di passione.

    Che smacco, per loro, quando si resero conto che a Partenope si canta. Si è sempre cantato. Si canterà sempre.

    Si canta quando si è innamorati.

    Si canta quando si soffre.

    Quando ci si ribella.

    Il canto della Sirena s’è trasformato da simbolo di morte a simbolo d’amore e vita.

     

    “Viento

    trase dint'e piazze

    rump'e fenestre

    e nun te fermà'.

    Viento viento

    puorteme 'e voci

    e’ chi vo' alluccà'”.

  • 4 SETTEMBRE, ARCO DI LUCE AL PANTHEON

    data: 04/09/2019 14:48

    Non esiste un monumento della Roma antica, soprattutto se di committenza imperiale, che sia stato costruito così, "ad minchiam". Prendete il Pantheon per esempio. Tutti voi che vi fate i selfies là davanti e poi li postate su Feisbuk, sapete sicuramente (o forse no) che il Pantheon, originariamente edificato da Agrippa e poi ricostruito dopo l’ennesimo incendio da Adriano nel 125 d.C., era il tempio dedicato a tutte le divinità. Quelle passate. Quelle presenti. E quelle future. Tutti voi, mangiatori di gelato appena comprato dal vicino Giolitti, sapete sicuramente (o forse no) che al suo interno il Pantheon ospita la più grande cupola in cemento NON ARMATO del pianeta (primato eguagliato poi, secoli e secoli dopo, soltanto dalla cupola di Brunelleschi a Firenze). Quello che non tutti voi sapete però (o forse sì), è che il Pantheon funziona come una vera e propria meridiana. L’oculo sulla sommità della cupola crea un disco di luce che si sposta gradualmente a seconda delle stagioni e va a colpire il portale di ingresso solo nei giorni che segnavano occasioni importanti, come il 21 aprile, Dies Natalis di Roma, quando il disco di luce illumina esattamente il portale e il portico antistante. Ma ci sono altri due fenomeni, nel corso dell’anno, in cui avviene un evento prodigioso.

    Questi giorni sono il 7 aprile e il 4 settembre. In questi giorni il sole crea una arco di luce che collima perfettamente con quello sopra il portale di ingresso. Ora voi mi chiederete: si vabbe', ma che si faceva in quei giorni a Roma? Ebbene, miei cari, in quei giorni a Roma si celebravano le feste rituali di due delle più importanti divinità del pantheon romano. Dal 7 al 10 aprile c’era la festa in onore della dea Cibele (identificata poi con Magna Mater) e tra il 2 e il 5 settembre quella in onore di Giove Ottimo Massimo. Ve l’immaginate voi l’imperatore e i sacerdoti che entravano nell’edificio durante le cerimonie rituali, circondati da quest’arco di luce solare, che conferiva loro un’aura quasi sacra, anzi divina? Ripeto: niente era fatto così, "ad minchiam".

    E quindi, miei cari che avete avuto la pazienza di leggere fino alla fine questa roba (o forse no), se avete la fortuna di trovarvi nei paraggi, oggi, 4 settembre, alle ore 13,00 precise, entrate nel Pantheon e vedrete. Prima però, finite di mangiare il gelato, pulitevi la bocca e ... vabbè, fateve 'sto benedetto selfie. 

  • MIA SORELLA TULLIA

    data: 22/08/2019 14:49

    Portarono Tullia al tempio che non aveva ancora compiuto 10 anni. Ero gelosa di mia sorella maggiore, scelta per diventare una Vestale, la sacerdotessa della Dea del fuoco perenne di Roma.
    Mi infastidivano gli elogi di mia madre, gli occhi lucidi e gonfi di lacrime ogni volta che a casa si parlava di lei.
    Morivo di invidia quando incontravo Tullia per strada, insieme alle altre sacerdotesse.
    Persino i magistrati si inchinavano e le lasciavano passare.
    Tullia era tra le più belle. Il velo bianco, che le copriva il capo, abbagliava come il marmo di Roma sotto il sole d’estate.
    Ci guardavamo un attimo.
    Mi sorrideva ogni volta.
    Ma io non ricambiavo il sorriso.
    Mai.
    Volevo essere al suo posto.
    Ecco cosa volevo.
    L’ho incontrata per le strade del Foro quando ero bambina, e poi adolescente, e poi ancora quando sono diventata la moglie del ricco patrizio che non ho mai amato.
    Tullia mi ha sempre cercato con lo sguardo e con lo sguardo mi ha sempre sorriso.
    Ma questa mattina Tullia non mi guarda.
    Questa mattina portano Tullia al Campus Scelleratus per essere sepolta viva: è così che puniscono una Vestale quando perde la sua verginità.
    Mia sorella è sdraiata su una lettiga, legata alle braccia e alle gambe con delle cinghie di cuoio.
    E’ come se fosse già morta.
    Mia sorella, la vergine impura, procede nel corteo funebre che la porta alla tomba.
    La folla è silenziosa e costernata.
    Giungiamo presso Porta Collina.
    Tullia verrà introdotta in un sepolcro sotterraneo, dove hanno preparato una tavola imbandita, una fiaccola accesa, pane, acqua in un vaso, latte ed olio, quasi a volersi discolpare della morte di un corpo fino a quel momento considerato sacro e solenne.
    Mi intrufolo tra la folla e mi avvicino più che posso alla lettiga, dove mia sorella è sdraiata. La raggiungo. Sono accanto a lei. La guardo. E’ ancora bellissima, nonostante indossi il suo abito funebre.
    Mi guarda. E’ sperduta. Le sorrido.
    Io sorrido a mia sorella Tullia.
    Fra un attimo il sepolcro verrà chiuso.
    La sua memoria cancellata per sempre.
    © RitaLopez
    (nella foto: Casa delle Vestali, Roma)
     

     

  • IL PUGILE

    data: 23/07/2019 12:34

    Pensi che mi importi qualcosa di queste ferite, Clodia? Pensi davvero che mi importi qualcosa? Non sono neanche in grado di sentirli, questi colpi che mi piombano sulla faccia. Ho nella bocca il sapore del sangue, riesco a malapena ad aprire gli occhi tumefatti, eppure non provo dolore. Sono qui a combattere, a sferrare con violenza i pugni sul mio avversario, ma al suo posto immagino di avere di fronte il vecchio patrizio che hai sposato.

    Penso alla sua bocca vicino alla tua, dopo che si è ingozzato di cibo, ai suoi occhi umidi di rospo che ti guardano mentre ti spogli e sono sicuro di non avere mai odiato così tanto. Il tuo sguardo puntato su di me, mentre sono qui sull’arena per farvi divertire, ecco, quello mi fa più male dei colpi. E la rabbia mi sale dal profondo, mi fa essere più violento, e mi induce a colpire la faccia e la testa del mio rivale, che ha assunto ai miei occhi le sembianze di tuo marito. Sento il rumore delle ossa del suo cranio che si rompono sotto i miei pugni d’acciaio. Si accascia per terra, tramortito. L’ho battuto.

    Un profondo boato emerge dalla folla assiepata nella cavea. Mi siedo esausto, ho le gambe tremanti. Mi giro a fatica per cercarti sugli spalti. Ti intravedo, hai gli occhi bassi. Lui, il vecchio patrizio, ti sta accanto. Esulta, agitando per aria le sue braccia flaccide e bianche. Aveva scommesso su di me. E ha vinto.

    (Nella foto: Il Pugile, IV sec. a.C., Roma, Museo Nazionale Romano). 

  • PER UN ATTIMO ACCECATO
    DALLA LUCE DEL SOLE...

    data: 01/07/2019 21:47

    (III sec. a.C.)
    Non so bene come andarono i fatti, perché io non ero ancora nato.
    Non ne avevo avuto ancora il tempo.
    So soltanto che mia madre quel giorno aveva iniziato ad avere le doglie: si preparava per farmi nascere.
    So soltanto che camminò tanto, alla ricerca di un posto tranquillo dove poter partorire in pace.
    Riuscivo a sentirla, comodamente adagiato dentro la sua pancia.
    All’improvviso ha avuto un sussulto, quello l’ho sentito bene. Forte e chiaro. Ho sussultato anch’io.
    Sicuramente ha visto qualcosa, o qualcuno, che l’ha spaventata. Si è messa a correre, più veloce che poteva. Ho sentito  il suo respiro farsi sempre più corto, sempre più corto. Quel qualcosa, o qualcuno, continuava a seguirla. Senza tregua.
    Avvertivo la sua paura, l’affanno, l’angoscia, mentre le doglie  continuavano, aumentavano implacabili, sempre più ravvicinate. Sempre più forti.
    So soltanto che quel qualcosa, o qualcuno, alla fine l’ha raggiunta. Le ha fracassato la testa, fratturandole il cranio.
    Mia madre è caduta sulla terra umida e odorosa.
    Ancora viva. Il suo cuore che ancora batteva.
    Giusto il tempo perché io nascessi e fossi per un attimo accecato dalla luce abbagliante del sole. Solo per un attimo.
    Poi, più niente.
     
    ***
    (Settembre 2001)
    Sensazionale scoperta. Stamattina un gruppo di archeologi ha trovato lo scheletro, osteologicamente ben rappresentato, di un giovane adulto di sesso femminile e i resti ossei di un feto a termine, adagiato tra i suoi femori.
    Alcune lesioni riscontrate  sul cranio della donna, fanno supporre a una morte per cause violente.
    Per ora è tutto. Il prossimo notiziario alle ore 13. Pubblicità. 

  • SO CHE ALL'ALBA
    TI PORTERANNO VIA

    data: 14/06/2019 16:58

    Ti hanno lavato, unto e vestito come se dovessi ripetere la tua cerimonia nuziale.
    Ti hanno chiuso gli occhi e la bocca. Ti hanno posto sulle labbra la moneta per Caronte. Ti hanno avvolto infine il corpo e il capo con bende di lino bianco.
    Nessuno fa caso a me, che ho preso tra le dita un tuo capello, lungo e lucido, nero come questa notte, e lo tengo stretto nel pugno.
    Ti hanno incoronato con ghirlande di alloro, per aver combattuto la tua sfida con la vita, e ti hanno posto su un letto con la testa poggiata su un cuscino e i piedi in direzione della porta.
    Per tutta la notte le donne cantano il lamento funebre, con le braccia sollevate, i capelli sciolti e spettinati, in segno di lutto.
    Nessuno fa caso a me, piccola come sono, che mi sollevo in punta di piedi e a malapena riesco a guardarti il volto.
    All’alba ti porteranno via, nel luogo dove arderà la pira di legna di quercia. Tutti rimarranno attorno al rogo, fino a quando le fiamme si abbasseranno. Solo allora spegneranno il fuoco col vino lucente.
    Nessuno farà caso a me che, nascosta dietro l’albero di alloro, aprirò piano la mano e aspetterò che Borea faccia volare oltre i rami il tuo lungo capello, lucido e nero come questa notte.
    Libero. Per sempre.
    (Nella foto: Anfora 804. Proveniente dalla necropoli del Dipylon. 760-750 a. C. Atene, Museo Archeologico Nazionale).


     

  • LA NINFA DEL TEVERE

    data: 29/05/2019 18:33

    Ogni ragazza, alla vigilia delle sue nozze, deponeva la propria bambola sull’ara della dea Afrodite, come segno della fine dell’infanzia e della propria verginità. Ma Crepereia, che non aveva ancora vent’anni, promessa sposa di Filetus, non lo avrebbe fatto mai. Le sue amiche non le avrebbero mai consegnato, sull’uscio della nuova casa, il fuso e la conocchia, come si usava, per rimarcare il passaggio alla vita di moglie fedele e devota. Il suo futuro marito, Filetus, non l’avrebbe mai sollevata tra le braccia, per evitare che inciampasse nel varcare la soglia, scongiurando in questo modo ogni segno nefasto.
    Niente di tutto questo sarebbe accaduto, perché il corpo freddo di Crepereia venne adagiato nel sarcofago di marmo finemente decorato, all’esterno, da un rilievo bassissimo che la raffigurava sul letto di morte. Al momento della sepoltura portava sul capo una coroncina di foglie di mortella, trattenuta da piccoli fiori d’argento.
    Sua madre le aveva messo gli orecchini a pendente in oro e perle, che a lei piacevano tanto, e una collana d’oro con pendagli, formati da piccoli cristalli di berillo. Le aveva infilato nell’anulare sinistro l’anello nuziale su cui era inciso il nome di Filetus, l’uomo che avrebbe dovuto sposare.
    E infine, nel sarcofago, misero anche me, la bambola d’avorio creata dalle mani esperte di un giovane artigiano dagli occhi nocciola e dai capelli neri: Stenius.
    Crepereia mi adorava per via della mia mirabile fattura e per le mie articolazioni snodate, ma soprattutto perché mi aveva costruito Stenius.
    Stenius aveva intagliato la testa e il tronco in un unico pezzo. Aveva fissato i miei arti superiori e inferiori in appositi alloggiamenti incavati, grazie a un accurato sistema ad incastro, tenuto da piccoli perni perfettamente mimetizzati, così che io potessi muovere braccia e gambe nei loro movimenti naturali.
    Pensava a Crepereia, Stenius, quando stilizzò i miei piccoli seni e modellò il mio ventre.
    Pensava a Crepereia quando disegnò il morbido ovale del mio volto, il naso dritto, la bocca carnosa, gli occhi intensi e assorti.
    Pensava a Crepereia quando incorniciò il mio viso con morbide trecce avvolte sulla nuca.
    Mi posero dunque vicino alla testa della promessa sposa, e chiusero il coperchio del sarcofago.
    Ci seppellirono entrambe in una buca profonda,  sulle sponde del Tevere.
    Ho vegliato su Crepereria per tutto questo tempo. Sono stata la sua bambola fedele, giorno dopo giorno. E giorno dopo giorno una goccia del fiume penetrava nel sarcofago. Una goccia dopo l’altra, dopo l’altra, dopo l’altra, fino a che esso si riempì completamente di acqua.
    Passarono molti secoli e un giorno degli uomini scoprirono il nostro nascondiglio e aprirono il sarcofago.
    Enorme fu lo stupore dei loro occhi quando ci videro.
    Crepereia si era trasformata in una divinità fluviale, dai lunghissimi capelli che fluttuavano nell’acqua del sarcofago.
    Era diventata una ninfa.
    La ninfa del fiume Tevere. lLa ninfa dai lunghi e morbidi capelli.
     
    ***
    (Testimonianza dell’archeologo R. Lanciani, presente agli scavi per la costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia, a Roma, nel 1889:
    “Tolto il coperchio, e lanciato uno sguardo al cadavere attraverso il cristallo dell’acqua limpida e fresca, fummo stranamente sorpresi dall’aspetto del teschio, che ne appariva tuttora coperto dalla folta e lunga capigliatura ondeggiante sull’acqua. La fama di così mirabile ritrovamento attrasse in breve turbe di curiosi dal quartiere vicino, di maniera che l’esumazione di Crepereia Tryphaena fu compiuta con onori oltre ogni dire solenni, e ne rimarrà per lunghi anni la memoria nel quartiere Prati. Il fenomeno della capigliatura è facilmente spiegato. Con l’acqua di filtramento erano penetrati nel cavo del sarcofago bulbi di una tal pianta acquatica che produce filamenti di color d’ebano, lunghissimi, i quali bulbi avevano messo di preferenza le loro barbicine sul cranio. Il cranio era leggermente rivolto verso la spalla sinistra dove era adagiata una gentile figurina di bambola.”)
    (nella foto: bambola di Crepereia, II sec. d.C., Roma Centrale Montemartini).

    © RitaLopez 

  • IL TORSO DEL BELVEDERE

    data: 15/05/2019 09:29

    Non so dire quanto venisse dal suo braccio, dalla sua capacità di usare lo scalpello con precisione, con maestria, con arte, e quanto venisse invece dal dio impetuoso che era dentro di sé.
    Non lo sapeva neanche lui.
    Quello che sapeva era che di fronte a un blocco di marmo le sue mani andavano da sole, mentre il dio dentro di sé, beffardo, lo scuoteva, lo agitava, fino a che non aveva finito.
    E anche questa volta accadde.
    C’era questo enorme blocco bianco.
    Iniziò a colpirlo con lo scalpello. Piano dapprima, ma poi con sempre più sicurezza. Con sempre più veemenza.
    Il dio dentro di sé fremeva mentre lui con la fronte febbricitante, tra la smania e l’orgasmo mistico, la sofferenza e la goduria più intensa e dolorosa, come un pazzo, completava la sua opera.
    Quando smise si sentì distrutto.
    Volse le spalle al gigante meraviglioso che aveva liberato dal marmo e s’incamminò barcollando per andare finalmente ad ubriacarsi, ma nel suo folle delirio vide apparire il genio che, secoli dopo, avrebbe ritrovato la sua statua. Il genio che avrebbe avuto, dentro di sé, quel suo stesso dio furioso.
    E allora tornò sui suoi passi.
    Con lo scalpello incise queste parole:
    “Apollonio, figlio di Nestore, l’Ateniese, fece”.
    “E adesso” implorò, “theòs moù, dio mio, lasciami libero. Lasciami in pace”.
    Più di 1500 anni dopo, in Italia, il più grande scultore di tutti i tempi vide la statua di Apollonio. Lesse l’epigrafe.
    Ed ebbe un fremito. Lui era Michelangelo.
    Il dio furioso che era dentro di sé, sorrise beffardo.

    (Nella foto: il torso del Belvedere, di Apollonio, V sec. a.C., Roma, Musei Vaticani). 

  • L'AFRODITE DI PRASSITELE

    data: 06/05/2019 12:11

    “Poserai nuda per me?” chiese lo scultore Prassitele alla cortigiana Frine, dopo che avevano passato la notte insieme.
    “E perché mai?” chiese la puttana più famosa e più richiesta di Atene, stiracchiando le braccia e mettendo in mostra i seni strepitosi.
    “Gli abitanti di Coo mi hanno chiesto una statua di Afrodite, per il loro nuovo tempio”, rispose Prassitele.
    “E vuoi me come modella? Una prostituta per rappresentare una dea?” rise Frine puntandosi l’indice sul petto.
    “Voglio te come modella” rispose lui, tornando avido a baciarla.
    Agli abitanti di Coo non piacque la statua di culto che avevano commissionato a Prassitele  per il nuovo santuario della dea Afrodite. Rimasero a bocca aperta nel vedere che la dea era rappresentata completamente nuda, una nudità che fino ad allora era stata riservata soltanto alle rappresentazioni maschili. Non se la sentirono davvero di accettare una simile novità e preferirono invece prendere un’altra statua di Afrodite, più tradizionale, che Prassitele aveva nel suo negozio.
    Di lì a poco giunsero ad Atene alcuni ambasciatori di Cnido.
    Si trovarono a passare dalla bottega del famoso Prassitele. Videro la statua della dea nuda e gli piacque moltissimo.
    L’acquistarono e la portarono al loro tempio di Afrodite, a Cnido, che  conquistò, da allora,  fama eterna.
    Per secoli schiere di pellegrini devoti venerarono l’immagine della dea, raffigurata in procinto di partecipare al bagno sacro, nelle sembianze della procace e peccaminosa Frine, la meravigliosa sgualdrina.
    La veste che mille volte era stata sfilata dalle braccia esperte della cortigiana, era posata delicatamente su un grande vaso, posto di fianco.
    Lo sfacciato esibizionismo che faceva impazzire politici, notabili, filosofi e poeti, tradotto in un’apparente insicurezza, appena rivelata dalla flessuosità del corpo.
    La seduzione irresistibile del ventre davanti a cui qualsiasi prezzo diventava lecito, pudicamente coperta dalla mano destra.
    Il capo dalla chioma sciolta e spettinata che ad ogni amplesso si sollevava lascivo, convertito  in una testa ordinata, dai riccioli sapientemente raccolti dietro la nuca.

    Prassitele, il genio, sapeva bene che ogni donna è la sintesi sublime tra la passione sfrontata e irriverente di una lussuriosa e la grazia pudica e composta di una dea. 

  • IX SECOLO A.C.

    data: 26/04/2019 08:29

    Il giorno della mia morte il sole era alto nel cielo e faceva molto caldo.
    Mio padre mi pose con cura nel grande dolio e mi stese piano le braccia e le gambe.
    Non avevo ancora 6 anni.
    “Non avere paura” mi sussurrò all’orecchio “questa Terra ti proteggerà. Ed un giorno qualcuno verrà a liberarti”.
    Mi adagiò piano con le sue forti braccia nella fossa e, aiutato dai parenti, iniziò a coprirmi.
    E la Madre Terra mantenne la sua promessa.
    Mi avvolgeva nei suoi abbracci odorosi di muschio umido, mi proteggeva dal caldo afoso dell’estate e dal freddo pungente dell’inverno. Mi cullava e mi accarezzava come fanno le madri con i loro piccoli.
    Avevo sempre in mente le parole di mio padre e per questo non ho mai avuto paura.
    E poi, come avrei potuto? La Madre Terra mi raccontava le storie fantastiche di quello che accadeva in superficie.
    Mi raccontava della fondazione di una città e di sette Re succedutisi nei secoli.
    Mi raccontava di come il posto dove io giacevo, fosse diventato un luogo sacro.
    Mi raccontava di grandi battaglie e grandi generali, di imperatori magnanimi e di altri spietati.
    Mi raccontava della grandezza e della potenza e della gloria di quella città, fino alla sua caduta, e poi del suo inesorabile oblio.
    Mi raccontava di grandi artisti e di uomini geniali e poi di guerre sanguinose e dittature, di sangue e di morte, di amore sconfinato e di bellezze da capogiro.
    Per un tempo senza fine la Madre Terra mi ha protetto e custodito come un bene prezioso in uno scrigno, fino a quando una mattina il sole era alto nel cielo e faceva molto caldo.
    Proprio come mio padre mi aveva sussurrato all’orecchio in un tempo infinitamente lontano, qualcuno mi ha liberato.
    La Madre Terra mi ha baciato un’ultima volta sulla testa e mi ha lasciato andare.
    “Quale è il tuo nome Madre?” le ho chiesto prima che due braccia forti mi sollevassero piano dal mio giaciglio.
    “Roma” mi ha risposto.
    Il tizio dallo strano copricapo giallo sulla testa che mi ha sollevato con cura non lo sa, ma io gli ho sorriso. 

     

  • LA MALEDIZIONE DI AELIA

    data: 12/04/2019 12:36

    E’ grigio e plumbeo il cielo di Roma sopra la città che ancora dorme. Ma alla giovane Aelia non importa.
    Pioggia e lacrime sul suo viso sconvolto.
    Il vento d’autunno le schiaffeggia le gambe.
    Corre Aelia. Corre verso la necropoli fuori le mura. E non ha paura.
    Ripensa al giorno prima, a quando ha svoltato l’angolo della Subura, e li ha visti. Fausto, il suo amato Fausto, e Rodine tra le sue braccia. 
    Le dita delle mani intrecciate. Le bocche che si cercavano con avidità.
    Non dorme Aelia. Non dorme per tutta la notte. E medita.
    Incide con mano tremante la sua maledizione su una tavoletta di piombo. E all’alba esce di casa.
    Pioggia e lacrime sulle guance smunte.
    Arriva nel luogo dove sono sepolti i morti, al di là della cinta muraria e scava. Scava una buca con le mani nude, per consegnare la sua dannata preghiera al dio degli inferi.
    “Dis Pater, Plutone, io ti prego, poni fini all’amore tra Rodine e Fausto.
    Come il morto che è qui sepolto non può né parlare, né discorrere, così Rodine sia morta per Marco Licinio Fausto”.
    Non sente il freddo sulle mani. Non sente i graffi delle piccole pietre taglienti sulle dita. Ripone la sua maledizione sul fondo umido e accogliente della terra.
    Quasi in preda ad un’eccitazione febbrile, ricopre freneticamente la buca.
    Il vento le sferza i capelli sul collo bianco.
    E ancora pioggia e lacrime sulle sue gote.
    Si copre il capo con il mantello e con le scarpe fradicie e il cuore in subbuglio, ripercorre la strada che la riporta alla Subura, prima che Roma si svegli.

    https://lopezrita.files.wordpress.com/2016/11/14962664_567244180134319_3758419387544915759_n.jpg

     (Nella foto una “tabella defixionis” (tavoletta di maledizione) trovata in via Latina, da una tomba a circa mezzo miglio da Roma. Metà del I sec. a.C. Museo delle Terme di Diocleziano, Roma).