Del Caravaggio vado a vedermi ogni volta che vengo a Roma sia La Madonna dei pellegrini, nella basilica di S. Agostino, sia La chiamata di Matteo (titolo che io preferisco a La conversione di Matteo), nella chiesa di S. Luigi dei francesi, sia La crocifissione di Pietro e La conversione di S. Paolo, nella chiesa di S. Maria del Popolo. La conversione di S. Paolo conservata a S. Maria del Popolo è diversa quella conservata nella collezione degli Odescalchi, che non ho mai visto.
Quando mi sono trovato di fronte per la prima volta La chiamata di Matteo sono rimasto letteralmente sconvolto. Sono scoppiato a piangere: quel braccio proteso verso di lui è arrivato sino a me e mi ha trafitto. Scombussolato. Lo strano, misterioso gioco di buio e di luce...
Le volte successive ho notato l'omino a fianco di Gesù: mi sono informato e ho saputo che rappresenta la Chiesa, per giunta quella della Controriforma, cosa che mi ha deluso, anzi scandalizzato: perché si tratta di un particolare che fa decadere nella propaganda quella che è un'opera d'arte di grande potenza e suggestione, che chiama in tutti gli osservatori la propria spontaneità e il proprio profondo. Potenza e suggestione tali da avermi sempre fatto trascurare il dipinto nella parete di fronte, sempre del Caravaggio. Dipinto che non mi dice niente. Inutilmente tetro. Privo di pathos.
In seguito sono andato a vedere La Madonna dei pellegrini, come Caravaggio ha voluto chiamare la sua Madonna di Loreto. Dipinto magnifico, che provocò tumulti quando venne esposto perché dava scandalo il fatto che la Madonna e la coppia di pellegrini vestissero come vestivano all'epoca del pittore e avessero facce ed espressioni terrene, umane, non angelicate né estatiche, e i piedi scalzi di chi ha molto camminato. Il pellegrino aveva perfino i piedi sporchi di terra... E chissà cosa avrebbero detto quei "pii" cattolici se avessero saputo che Caravaggio per dipingere quella Madonna aveva preso a modello la sua amante, che se non ricordo male si chiamava per giunta Maddalena.
Ma per apprezzare tutta la potenza e la novità dirompente di Caravaggio bisogna aver visto la mostra a palazzo Venezia intitolata La Roma di Caravaggio, con dipinti di quasi 150 artisti del suo tempo. Appena sono entrato ho visto con sorpresa subito di fronte a me il primo dipinto: La Madonna dei pellegrini. E mentre la osservavo a un certo punto mi sono girato e ho visto La Madonna di Loreto, quella dipinta da Annibale Carracci, del quale non avevo mai visto nulla. Il dipinto di Carracci era tutto un tripudio di angeli in cielo, di luce, anzi di luci, il tripudio dell'estatico. Sorpreso, mi giravo e rigiravo tra le due Madonne di Loreto, perplesso per l'estrema loro diversità non solo di stile, ma anche di tempo. Di realtà. Due specchi che davano due immagini assurdamente diverse dello stesso soggetto. Dello stesso argomento.
Poi ho capito di colpo come Caravaggio avesse rivoluzionato, anzi stracciato il secolare modo manierista, "edificante", "pio" trasfigurante, insomma retorico e declamatorio, di dipingere i santi, le Madonne, Cristo, gli apostoli... Nei suoi dipinti faceva irruzione il popolo, il popolaccio, vestito come si vestiva nella Roma del Caravaggio e non come vestivano gli antichi romani, greci, giudei e via magnificando. Quando Cristo "chiama" Matteo tendendogli il braccio, ponte tra due dimensioni diverse, il futuro suo discepolo sta giocando a carte o contando dei quattrini con altri ribaldi, uno dei quali ha una sorprendente faccia da ragazzino ingenuo. E Matteo ha la faccia sorpresa, se non sgomenta, di chi chiede allo strano venuto e a se stesso: "Ma chi? Io? Dici a me?".
La Madonna del Carracci mi ha fatto finalmente capire, con 50 anni di ritardo, perché la Madonna di Loreto è la patrona dell'aeronautica militare, la cui divisa vestiva mio padre: il dipinto mostra gli angeli profusi di luce trionfale del cielo che trasportano in volo la casa della Madonna dalla Giudea fino - chissà perché - a Loreto. Un volo che l'"arma azzurra" ha scelto come antesignano di se stessa.
Quando sono andato a S. Maria del Popolo stavano celebrando un matrimonio preceduto da una lunga messa, perciò la cappella Cerasi, quella coi dipinti del Caravaggio, era chiusa, non se ne poteva varcare il cancelletto. Anzi, si doveva stare fermi e seguire messa e cerimonia nunziale. Per giunta c'era chi mi guardava storto perché non ero tra gli invitati. Avrei potuto uscire, ma ho preferito restare, imbarazzato di essere lì come un cavolo a merenda e anche incuriosito. Mi sono sorbito il tutto evitando sia di far trasparire la noia sia di mostrare la mia estraneità non solo al matrimonio. Inutile sbirciare verso la cappella Cerasi: a luci spente non si vedeva quasi nulla.
Poi finalmente se ne sono andati via tutti, felici e festanti, e io ho potuto varcare il cancellato della cappella. La caduta da cavallo di Saulo di Tarso, cittadino romano "folgorato sulla via di Damasco", non mi ha detto nulla. Non mi ha emozionato. E ho trovato sbagliato che il centro della scena fosse di fatto il cavallo, e non il Saulo sbalzato di sella. Per giunta dipinto non guardandolo davanti, ma da dietro, il che aumentava, ai miei occhi, la strana centralità del cavallo.
La crocifissione di Pietro mi ha invece sbigottito per la "normalità" che Caravaggio ha voluto dare alla scena. Benché si tratti di una crocifissione, pena dolorosissima, crudele e feroce, non c'è traccia né di dolore e sofferenza da parte dell'uomo che viene crocifisso né di cattiveria da parte di chi lo ha crocifisso e sta mettendo in verticale la croce: chi spingendone in alto un braccio, chi tirandola con una fune, chi facendo forza con la propria schiena. Ognuno svolge con coscienza, senza fanatismo e senza pathos, il proprio lavoro. Compreso S. Paolo. Ognuno veste i panni del proprio ruolo. Senza enfasi. Senza declamazioni. Compreso S. Paolo.
La posizione della croce mi ha fatto venire in mente che Saulo per modestia ha chiesto che la sua croce fosse messa a testa in giù e non a testa in su come Gesù Cristo. Che si trattasse di modestia me l'hanno spiegato da ragazzino, l'epoca in cui leggevo Thomas Merton e volevo diventare frate trappista come lui, che da comunista impegnato ad Harlem è diventato trappista. Io invece ho fatto il contrario: da aspirante trappista sono diventato comunista, impegno tra gli operai di Padova e Marghera. Ma quella suprema e celestiale modestia di S. Paolo mi è rimasta come esempio, legge morale, imperativo categorico: da seguire. Sempre. Dovunque. Comunque.
Sono rimasto a guardare quel dipinto come se avessi trovato qualcosa di me stesso, cosa che mi ha sorpreso perché non me l'aspettavo proprio. A un certo punto mi sono accorto che in chiesa non c'era più nessuno e un signore - il sagrestano, I suppose - mi guardava con l'impazienza di chi non vedeva l'ora di chiudere le porte della chiesa e andare a mangiare.
Post Scriptum: trovo un po' blasfemo e molto simoniaco che per poter vedere i Caravaggio delle tre chiese si debba infilare una moneta nell'apposita fessura per accendere così la luce che li illumina. Il rumore della moneta che cade come in un distributore di bevande o cibarie è una bestemmia. Un insulto al Caravaggio. Non fa venire in mente neppure da lontano i suoni di registratore di cassa e di monete buttate in una ciotola di metallo con i quali inizia Money dei Pink Floyd.
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Di una delle opere più celebri di Caravaggio, La testa della Medusa esposta al museo degli Uffizi a Firenze, ho visto la foto nei manifesti di Milano che annunciavano la mostra nel museo diocesano intitolata Gli occhi del Caravaggio, curata da Vittorio Sgarbi. Quando sono corso al museo il quadro non c'era più. Di Caravaggio era rimasta solo La flagellazione, che avevo già visto nel museo nazionale di Capodimonte a Napoli e che ogni volta confrontavo con La crocifissione di Pietro notando che se in questa c'è una ben strana aria di normale lavoro e assenza di cattiveria, in quella invece c'è la faccia di un aguzzino con espressione proprio da aguzzino. E il poderoso corpo del Cristo pare raffigurato in una mossa di danza, col viso in un'espressione di chi lì non c'è o ha altro cui pensare. Come se pensasse al passo di danza e non al fatto che lo stanno flagellando. L'allarmante luminosità del suo corpo contrasta con l'altrettanto allarmante scarsa illuminazione dei tre aguzzini: simbolismo evidente e molto chiaro.
Anche se La flagellazione mi compensava ampiamente della mancanza de La testa della Medusa, telefonai a Sgarbi per chiedergli come fosse possibile che mancassero dipinti annunciati poco meno che con la grancassa. Poteva parere una truffa per attirare visitatori. Lui però non ne aveva colpa, anzi si diceva truffato anche lui.
La Medusa che avrebbe dovuto esserci nella mostra milanese non è la replica di quella degli Uffizi, Scudo con testa di Medusa, che non ho mai visto. È la prima versione, ritenuta la più preziosa: la Medusa Murtola, che prende il nome dal poeta Gaspare Murtola che in una sua poesia ne parlò dicendo: "Fuggi, perché se i tuoi occhi sono pietrificati per lo stupore, ti trasformerà in pietra". Su uno scudo di legno da parata Caravaggio ha dipinto la testa della Medusa - e il suo sguardo allucinato - nel preciso momento in cui Perseo gliela spicca di netto con la spada. E infatti si vede che dal collo troncato cola molto sangue.
Io sono andato a vedere la mostra del museo diocesano milanese di domenica, ma il giorno prima il proprietario del dipinto chissà perché era andato a riprenderselo. Mi dissero che senza dare nessuna spiegazione l'aveva tolta dalla parete, messa in una borsa e portata via. Roba da non credere.
Da non credere anche che Il riposo durante la fuga in Egitto, pur se scelto come immagine di copertina del catalogo, al museo diocesano non è mai arrivato. A giudicare dalla copertina, non mi piaceva: c'è del manierismo. Che io ritengo cosa non caravaggesca. Comunque i due fratelli romani Doria Pamphili, proprietari di quel dipinto, non erano d'accordo nel prestarlo al diocesano e così se lo tennero a casa (mortacci loro! Ma, pur se quel dipinto non mi piace, anche beati loro!).
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Secondo Camilleri, che dice di averne letto il diario, Caravaggio aveva un difetto della vista. Causa forse di quei suoi contrasti tra il buio e la luce, sempre inquietanti.