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PINO NICOTRI

  • IL MIO CARAVAGGIO A ROMA
    E LA CHIAMATA DI MATTEO
    CHE MI FECE PIANGERE

    data: 06/10/2020 22:47

    Del Caravaggio vado a vedermi ogni volta che vengo a Roma sia La Madonna dei pellegrini, nella basilica di S. Agostino, sia La chiamata di Matteo (titolo che io preferisco a La conversione di Matteo), nella chiesa di S. Luigi dei francesi, sia La crocifissione di Pietro e La conversione di S. Paolo, nella chiesa di S. Maria del Popolo. La conversione di S. Paolo conservata a S. Maria del Popolo è diversa quella conservata nella collezione degli Odescalchi, che non ho mai visto.
    Quando mi sono trovato di fronte per la prima volta La chiamata di Matteo sono rimasto letteralmente sconvolto. Sono scoppiato a piangere: quel braccio proteso verso di lui è arrivato sino a me e mi ha trafitto. Scombussolato. Lo strano, misterioso gioco di buio e di luce...
    Le volte successive ho notato l'omino a fianco di Gesù: mi sono informato e ho saputo che rappresenta la Chiesa, per giunta quella della Controriforma, cosa che mi ha deluso, anzi scandalizzato: perché si tratta di un particolare che fa decadere nella propaganda quella che è un'opera d'arte di grande potenza e suggestione, che chiama in tutti gli osservatori la propria spontaneità e il proprio profondo. Potenza e suggestione tali da avermi sempre fatto trascurare il dipinto nella parete di fronte, sempre del Caravaggio. Dipinto che non mi dice niente. Inutilmente tetro. Privo di pathos.
    In seguito sono andato a vedere La Madonna dei pellegrini, come Caravaggio ha voluto chiamare la sua Madonna di Loreto. Dipinto magnifico, che provocò tumulti quando venne esposto perché dava scandalo il fatto che la Madonna e la coppia di pellegrini vestissero come vestivano all'epoca del pittore e avessero facce ed espressioni terrene, umane, non angelicate né estatiche, e i piedi scalzi di chi ha molto camminato. Il pellegrino aveva perfino i piedi sporchi di terra... E chissà cosa avrebbero detto quei "pii" cattolici se avessero saputo che Caravaggio per dipingere quella Madonna aveva preso a modello la sua amante, che se non ricordo male si chiamava per giunta Maddalena.
    Ma per apprezzare tutta la potenza e la novità dirompente di Caravaggio bisogna aver visto la mostra a palazzo Venezia intitolata La Roma di Caravaggio, con dipinti di quasi 150 artisti del suo tempo. Appena sono entrato ho visto con sorpresa subito di fronte a me il primo dipinto: La Madonna dei pellegrini. E mentre la osservavo a un certo punto mi sono girato e ho visto La Madonna di Loreto, quella dipinta da Annibale Carracci, del quale non avevo mai visto nulla. Il dipinto di Carracci era tutto un tripudio di angeli in cielo, di luce, anzi di luci, il tripudio dell'estatico. Sorpreso, mi giravo e rigiravo tra le due Madonne di Loreto, perplesso per l'estrema loro diversità non solo di stile, ma anche di tempo. Di realtà. Due specchi che davano due immagini assurdamente diverse dello stesso soggetto. Dello stesso argomento.
    Poi ho capito di colpo come Caravaggio avesse rivoluzionato, anzi stracciato il secolare modo manierista, "edificante", "pio" trasfigurante, insomma retorico e declamatorio, di dipingere i santi, le Madonne, Cristo, gli apostoli... Nei suoi dipinti faceva irruzione il popolo, il popolaccio, vestito come si vestiva nella Roma del Caravaggio e non come vestivano gli antichi romani, greci, giudei e via magnificando. Quando Cristo "chiama" Matteo tendendogli il braccio, ponte tra due dimensioni diverse, il futuro suo discepolo sta giocando a carte o contando dei quattrini con altri ribaldi, uno dei quali ha una sorprendente faccia da ragazzino ingenuo. E Matteo ha la faccia sorpresa, se non sgomenta, di chi chiede allo strano venuto e a se stesso: "Ma chi? Io? Dici a me?".
    La Madonna del Carracci mi ha fatto finalmente capire, con 50 anni di ritardo, perché la Madonna di Loreto è la patrona dell'aeronautica militare, la cui divisa vestiva mio padre: il dipinto mostra gli angeli profusi di luce trionfale del cielo che trasportano in volo la casa della Madonna dalla Giudea fino - chissà perché - a Loreto. Un volo che l'"arma azzurra" ha scelto come antesignano di se stessa.
    Quando sono andato a S. Maria del Popolo stavano celebrando un matrimonio preceduto da una lunga messa, perciò la cappella Cerasi, quella coi dipinti del Caravaggio, era chiusa, non se ne poteva varcare il cancelletto. Anzi, si doveva stare fermi e seguire messa e cerimonia nunziale. Per giunta c'era chi mi guardava storto perché non ero tra gli invitati. Avrei potuto uscire, ma ho preferito restare, imbarazzato di essere lì come un cavolo a merenda e anche incuriosito. Mi sono sorbito il tutto evitando sia di far trasparire la noia sia di mostrare la mia estraneità non solo al matrimonio. Inutile sbirciare verso la cappella Cerasi: a luci spente non si vedeva quasi nulla.
    Poi finalmente se ne sono andati via tutti, felici e festanti, e io ho potuto varcare il cancellato della cappella. La caduta da cavallo di Saulo di Tarso, cittadino romano "folgorato sulla via di Damasco", non mi ha detto nulla. Non mi ha emozionato. E ho trovato sbagliato che il centro della scena fosse di fatto il cavallo, e non il Saulo sbalzato di sella. Per giunta dipinto non guardandolo davanti, ma da dietro, il che aumentava, ai miei occhi, la strana centralità del cavallo.
    La crocifissione di Pietro mi ha invece sbigottito per la "normalità" che Caravaggio ha voluto dare alla scena. Benché si tratti di una crocifissione, pena dolorosissima, crudele e feroce, non c'è traccia né di dolore e sofferenza da parte dell'uomo che viene crocifisso né di cattiveria da parte di chi lo ha crocifisso e sta mettendo in verticale la croce: chi spingendone in alto un braccio, chi tirandola con una fune, chi facendo forza con la propria schiena. Ognuno svolge con coscienza, senza fanatismo e senza pathos, il proprio lavoro. Compreso S. Paolo. Ognuno veste i panni del proprio ruolo. Senza enfasi. Senza declamazioni. Compreso S. Paolo.
    La posizione della croce mi ha fatto venire in mente che Saulo per modestia ha chiesto che la sua croce fosse messa a testa in giù e non a testa in su come Gesù Cristo. Che si trattasse di modestia me l'hanno spiegato da ragazzino, l'epoca in cui leggevo Thomas Merton e volevo diventare frate trappista come lui, che da comunista impegnato ad Harlem è diventato trappista. Io invece ho fatto il contrario: da aspirante trappista sono diventato comunista, impegno tra gli operai di Padova e Marghera. Ma quella suprema e celestiale modestia di S. Paolo mi è rimasta come esempio, legge morale, imperativo categorico: da seguire. Sempre. Dovunque. Comunque.
    Sono rimasto a guardare quel dipinto come se avessi trovato qualcosa di me stesso, cosa che mi ha sorpreso perché non me l'aspettavo proprio. A un certo punto mi sono accorto che in chiesa non c'era più nessuno e un signore - il sagrestano, I suppose - mi guardava con l'impazienza di chi non vedeva l'ora di chiudere le porte della chiesa e andare a mangiare.
    Post Scriptum: trovo un po' blasfemo e molto simoniaco che per poter vedere i Caravaggio delle tre chiese si debba infilare una moneta nell'apposita fessura per accendere così la luce che li illumina. Il rumore della moneta che cade come in un distributore di bevande o cibarie è una bestemmia. Un insulto al Caravaggio. Non fa venire in mente neppure da lontano i suoni di registratore di cassa e di monete buttate in una ciotola di metallo con i quali inizia Money dei Pink Floyd.  

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    Di una delle opere più celebri di Caravaggio, La testa della Medusa esposta al museo degli Uffizi a Firenze, ho visto la foto nei manifesti di Milano che annunciavano la mostra nel museo diocesano intitolata Gli occhi del Caravaggio, curata da Vittorio Sgarbi. Quando sono corso al museo il quadro non c'era più. Di Caravaggio era rimasta solo La flagellazione, che avevo già visto nel museo nazionale di Capodimonte a Napoli e che ogni volta confrontavo con La crocifissione di Pietro notando che se in questa c'è una ben strana aria di normale lavoro e assenza di cattiveria, in quella invece c'è la faccia di un aguzzino con espressione proprio da aguzzino. E il poderoso corpo del Cristo pare raffigurato in una mossa di danza, col viso in un'espressione di chi lì non c'è o ha altro cui pensare. Come se pensasse al passo di danza e non al fatto che lo stanno flagellando. L'allarmante luminosità del suo corpo contrasta con l'altrettanto allarmante scarsa illuminazione dei tre aguzzini: simbolismo evidente e molto chiaro.
    Anche se La flagellazione mi compensava ampiamente della mancanza de La testa della Medusa, telefonai a Sgarbi per chiedergli come fosse possibile che mancassero dipinti annunciati poco meno che con la grancassa. Poteva parere una truffa per attirare visitatori. Lui però non ne aveva colpa, anzi si diceva truffato anche lui.
    La Medusa che avrebbe dovuto esserci nella mostra milanese non è la replica di quella degli Uffizi, Scudo con testa di Medusa, che non ho mai visto. È la prima versione, ritenuta la più preziosa: la Medusa Murtola, che prende il nome dal poeta Gaspare Murtola che in una sua poesia ne parlò dicendo: "Fuggi, perché se i tuoi occhi sono pietrificati per lo stupore, ti trasformerà in pietra". Su uno scudo di legno da parata Caravaggio ha dipinto la testa della Medusa - e il suo sguardo allucinato - nel preciso momento in cui Perseo gliela spicca di netto con la spada. E infatti si vede che dal collo troncato cola molto sangue.
    Io sono andato a vedere la mostra del museo diocesano milanese di domenica, ma il giorno prima il proprietario del dipinto chissà perché era andato a riprenderselo. Mi dissero che senza dare nessuna spiegazione l'aveva tolta dalla parete, messa in una borsa e portata via. Roba da non credere.
    Da non credere anche che Il riposo durante la fuga in Egitto, pur se scelto come immagine di copertina del catalogo, al museo diocesano non è mai arrivato. A giudicare dalla copertina, non mi piaceva: c'è del manierismo. Che io ritengo cosa non caravaggesca. Comunque i due fratelli romani Doria Pamphili, proprietari di quel dipinto, non erano d'accordo nel prestarlo al diocesano e così se lo tennero a casa (mortacci loro! Ma, pur se quel dipinto non mi piace, anche beati loro!).

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    Secondo Camilleri, che dice di averne letto il diario, Caravaggio aveva un difetto della vista. Causa forse di quei suoi contrasti tra il buio e la luce, sempre inquietanti.

  • CORONAVIRUS
    LA CAPORETTO LOMBARDA
    GLI ERRORI, UNO PER UNO

    data: 29/05/2020 12:22

    Caporetto in Lombardia. I piani c’erano, come i cannoni. Ma nessuno li ha fatti funzionare. Incredibile, ma vero. Hanno sbagliato alla grande, lo hanno anche ammesso candidamente tutti. Eccetto uno che nega sfacciatamente l’evidenza. E un altro che alle parole “ho sbagliato” premette un coraggioso “forse”.

    Ma nessuno tra i vari Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, Giulio Gallera, assessore lombardo al Welfare, Giuseppe Sala, sindaco di Milano, Nicola Zingaretti, segretario nazionale del PD, Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, Gian Piero Gasperini, responsabile tecnico dell’Atalanta, cioè della squadra di calcio di Bergamo, Stefano Scaglia, presidente della Confindustria di Bergamo, e Matteo Salvini, segretario della Lega (in realtà di Lega ce ne sono due, ma tralasciamo), nonostante la scia di morti e di danni disastrosi pensa neppure lontanamente di tirarne le conseguenze. Cioè di dimettersi. Ma andiamo per ordine.

    CORONAVIRUS E FONTANA: SIAMO IN GUERRA

    “Siamo in guerra! Siamo in guerra!”. Hanno ragione a continuare a ripeterlo soprattutto Attilio Fontana, governatore della Regione Lombardia, e Giulio Gallera, suo assessore al Welfare. Welfare: parola che, NON dimentichiamolo, in italiano significa Benessere e NON Fuffa o Ectoplasma.

    Hanno ragione a ripeterlo, perché in effetti si sono comportati proprio come in guerra. Per l’esattezza, come durante la prima guerra mondiale si è comportato il comando responsabile delle artiglierie di grosso calibro. Piazzate sui rilievi, avrebbero potuto spazzare rapidamente – se solo avessero sparato almeno una cannonata – quel manipolo di soldati austriaci al comando di Erwin Rommel – tenente del battaglione di fucilieri da montagna Wurttemberg e futura Volpe del Deserto della seconda guerra mondiale.

    Fu Rommel a guidare il dilagare nella valle dell’Isonzo il 24 ottobre 2017 delle truppe austroungariche e tedesche. Le truppe che, nella più assoluta ignavia del silenzio dei nostri cannoni, hanno provocato la più grande disfatta militare italiana. Quella passata alla Storia come l’ingloriosa Rotta di Caporetto. La rottura del nostro fronte difensivo nella dodicesima offensiva dell’Isonzo.

    L’apposita commissione parlamentare d’inchiesta appurò che i cannoni non avevano sparato neppure un colpo perché l’intero comando militare italiano era fuggito a gambe levate e a nessuno venne in mente di dare l’ordine di far finalmente fuoco. Uno dei responsabili di quell’ingloriosa macchia patria venne individuato nell’allora tenente generale Pietro Badoglio, capo del XXVII Corpo d’armata e dell’artiglieria rimasta silente perché lui non diede l’ordine si sparare.

    Le responsabilità di Badoglio a Caporetto

    Le 13 pagine dell’inchiesta che inchiodavano anche lui alle sue responsabilità vennero fatte sparire: troppo nelle grazie dell’allora re d’Italia.

    E così Badoglio potè restare in pista anche nella seconda guerra mondiale, diventare maresciallo d’Italia e capo del governo militare dopo la caduta di Benito Mussolini. Ed è stato lui a mollare dall’oggi al domani l’8 settembre 1943 gli alleati tedeschi passando ad allearci con gli angloamericani nostri nemici fino al giorno prima. Con relativa fuga e abbandono di Roma al maresciallo Kesselring.

    LA CAPORETTO DELLA REGIONE LOMBARDIA

    Anche la Regione Lombardia aveva i suoi cannoni di grosso calibro e il resto dell’artiglieria utilizzabile per sparare contro il nuovo coronavirus quando iniziava a dilagare. Ma anche in questo caso è rimasto tutto fermo. La regione era stata ammaestrata dalla pandemia della cosiddetta influenza aviaria scatenata nel 2005 dal virus H5N1.

    Con la Deliberazione del Consiglio Regionale (DCR) VIII/216 del 2 ottobre 2006 la Regione, aveva pertanto approntato il piano di risposta a un’eventuale pandemia influenzale (PPR). Con la successiva pandemia da A/H1N1v, la cosiddetta influenza suina, nel 2009 la Lombardia si è dotata di un apposito Comitato Regionale Pandemico.

    Il piano è stato aggiornato una prima volta per essere poi aggiornato una seconda volta già nel dicembre 2010, con un dettagliato documento di 13 pagine con 8 di allegati. Come se non bastasse, nel 2015 in occasione della pandemia influenzale SARS è stato anche integrato con le regole di protezione biologica in ambito sanitario.

    Negli allegati erano dettagliati con tanto di fotografie e modalità di utilizzo anche tutti i singoli dispositivi necessari. Regole precise e dispositivi particolareggiati. Tutto rimasto sulla carta. Nulla di tutto ciò è stato infatti messo in atto contro il Covid-19. Provocando così una Caporetto sanitaria e la nota strage di medici, infermieri e altri operatori. Tutti definiti in fretta e furia eroi per coprire le responsabilità e le colpe sotto il tappeto della grande retorica.

    I PIANI C'ERANO...

    Tecnicamente detto Piano di Risk Management di Salute Pubblica, era bene articolato tra i vari attori:

    a – Medici di famiglia – primi avamposti di salute pubblica e presidi del servizio sanitario nazionale

    b – Organizzazione logistica- acquisti, distribuzione e regia

    c – Terapia ( domiciliare e/o ospedaliera)

    d – Decisioni immediate in determinate condizioni di rischio.

    Ma i cannoni e l’artiglieria anche ‘stavolta sono rimasti in silenzio…

    Alla stessa stregua non s’è sparato neppure un colpo quando si sarebbe dovuto invece sparare anche le cannonate della chiusura della Val Seriana stroncando così subito l’invasione del coronavirus.

    Invece, col suo fitto reticolo di industrie, industriette, capannoni, laboratori, aziende e aziendine varie disseminate nei paesi di Nembro, Alzano Lombardo, Albino, Cene, Clusone, Castione, la Val Seriana a partire da Nembro e Alzano è diventata una vera bomba biologica, definita “focolaio dei focolai”.

    Il 28 febbraio la Confindustria di Bergamo aveva lanciato un video dal titolo “Bergamo is running/Bergamo non si ferma”, “per tranquillizzare i partner internazionali delle aziende bergamasche”. E ricordare – anche a Fontana e Gallera – che in quell’area erano presenti 376 aziende con un fatturato di oltre 650 milioni di euro l’anno.

    Bergamo is runing, cosa che ha fatto esplodere la pandemia in città. Ma la Regione e i sindaci si sono accaniti contro i singoli runner, vietando che si potesse correre a piedi anche da soli…

    ... MA LI HANNO LASCIATI NEL CASSETTO

    Giulio Gallera assessore al Welfare – cioè, ripetiamo, al Benessere e non alla Fuffa o all’Ectoplasma – dopo oltre un mese di diniego ha candidamente ammesso senza battere ciglio due cose sconvolgenti, che nessuno gli ha contestato a dovere:

    – non sapeva che esiste la legge che permette alle Regioni di dichiarare autonomamente le cosiddette zone rosse, legge che avrebbe permesso di chiudere subito in una morsa sanitaria la Val Seriana. Da notare che si tratta della la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale del 1978.

    Come Gallera e l’intero vertice della Regione potesse ignorarne l’esistenza è un grande mistero, niente affatto glorioso. Ma è un mistero, neppure questo glorioso, come per un mese intero nessuno dei giornalisti e politici con i quali Gallera si difendeva negando gli abbia fatto notare – perché lo ignoravano anche loro – che la legge c’era e la Regione poteva usarla.

    – Quando ha visto che a Bergamo era arrivata una lunga colonna di camion dell’esercito per portar via l’enorme numero di bare con le vittime del Covid-19 dilagato dalla Val Seriana ha pensato che la zona rossa la istituisse il governo da Roma, e infatti il 7 aprile ha dichiarato:

    “Quando il 5 marzo sono arrivate le camionette dell’esercito nella bergamasca noi eravamo convinti che sarebbe stata attivata dal governo e non avrebbe avuto senso per noi fare un’ordinanza”.

    E così né lui né il governatore Fontana né altri dirigenti della Regione hanno pensato di fare neppure una semplice telefonata a Roma per chiedere conferma…. Anzi, pochi giorni fa Fontana lo ha anche smentito pubblicamente:

    ”Per Gallera la zona rossa ad Alzano e Nembro potevamo farla noi? Sbaglia”.

    GIORGIO GORI E LA ZONA ROSSA

    Dichiarazioni quelle di Fontana che hanno contribuito a fare sbottare il sindaco di Bergamo Giorgio Gori quando ospite a Circo Massimo di Radio Capital ha detto chiaro e tondo:

    “Io penso che Fontana abbia sbagliato parecchio. In parte credo abbia giustificazione perché in Lombardia l’emergenza sanitaria è stata più violenta che altrove. Ma quando dice che non ha sbagliato nulla mi pare contraddetto dai fatti e anche dell’opinione di molti cittadini lombardi”.

    Ma anche Gori senza battere ciglio ha ammesso la sua parte di responsabilità per un’altra bomba biologica, quella della partita Atalanta Valencia giocata a Milano, allo stadio Meazza di S. Siro, il 19 febbraio. Intervenuto alla trasmissione ‘Stasera Italia’ di Barbara Palombelli s’è sbottonato, ammettendo anche lui che nel commettere errori ha pesato la volontà di privilegiare il business:

    “Faccio autocritica per questo. Abbiamo tutti sottovalutato la gravità di quello che stava arrivando. Predicavamo ai cittadini prudenza, di mantenere un metro di distanza, ma anche di continuare a vivere la loro vita perché vedevamo i fatturati dei negozi e degli alberghi precipitare ed eravamo preoccupati. Questo equilibrio era sbagliato evidentemente, però in quel momento era difficile fare la cosa giusta”.

    S’è sbottonato, ma è rimasto al suo posto. In un’intervista al giornale sportivo spagnolo Marca ha ammesso che la partita disputata allo stadio Meazza può essere considerata la “partita zero” che ha dato il là alla rapida diffusione del tanto in Italia quanto in Spagna. Però per giustificarsi aggiunge una affermazione che contraddice almeno un po’ quanto dichiarato alla Palombelli:

    “Nessuno sapeva che il virus stesse già circolando tra noi”.

    CHI SIU SCUSA MA RESTA AL SUO POSTO

    Anche il presidente della Confindustria bergamasca Stefano Scaglia ha ammesso che “Bergano is running/Bergamo non si ferma” è stato un errore. Un suo errore, quindi. Ma lui è rimasto dov’era: sulla poltrona bergamasca della Confindustria.

    Se “Bergamo is running/Bergamo non si ferma”, non si ferma neppure Milano. Che al running preferisce l’aperitivo in piazza, una cena in pizzeria e un più semplice e meno internazionale “Milano non si ferma” per un video mega pubblicitario. Ma la sostanza e il messaggio del video meneghino sparato non solo in rete e in tutti i social dal 27 febbraio è lo stesso di quello bergamasco.

    Così come la giustificazione di Sala è simile a quella di Gori, ma meno credibile a causa della data, otto giorni dopo la infausta partita di calcio. E se Gori ammette di avere sbagliato, Sala è più cauto. Ha sbagliato? “Forse”.

    Milano non si ferma e Nicola Zingaretti corre in aiuto spendendosi con adeguata pubblicità per un aperitivo antipanico in piazza “alle 19 con i giovani presso il Pinch Ripa di Porta Ticinese 63” e alle 20.30 con una bella cena in pizzeria a Bollate.

    Risultato: il 7 marzo Zingaretti è malato di Covid-19. E dichiara che combatte, “niente panico”. Per poi farsi un po’ di pubblicità andando a raccontare il 24 giugno i giorni della sua malattia a Non è l’Arena, il programma domenicale di Massimo Giletti su LA7.

    FONTANA NON AMMETTE NULLA

    L’unico che non ammette nulla, neppure con la prudenza di un forse, è Attilio Fontana. Tetragono a tutto, nella Lombardia più devastata delle altre regioni dal Covid-19, e che un giornale inglese mostra in quali vari Stati l’ha esportato. Intona un karma ripetitivo e sempre auto assolutorio: “Non abbiamo sbagliato in niente”, neppure per quanto riguarda la strage di anziani impestati nelle loro strutture residenziali dagli infetti piazzati chissà perché da loro.

    Tetragono alle critiche e ai dubbi, Fontana il 22 aprile dichiara “Rifarei tutto”. Il 13 maggio rincara la dose e si vanta pure: “Contagio? Rispetto ad altre regioni lo abbiamo contenuto bene ”. Per infine riautocelebrarsi il 22 maggio ripetendo: ”Contagio? Rispetto ad altre regioni lo abbiamo contenuto bene”.

    Peccato che a rischiare di guastare la festa autocelebrativa arrivi in queste ore la dichiarazione del Gruppo Italiano per La Medicina Basata sulle Evidenze (GIMBE). Che per quanto riguarda i dati più recenti diffusi dalla Regione Lombardia riguardo i nuovi casi di Covid-19 avverte:

    “Dati aggiustati per evitare nuove chiusure”.

    Affermazione alla quale il Pirellone ha reagito annunciando querele.

    (*) da blitzquotidiano.it, 29 maggio 2020

  • EMANUELA ORLANDI INGAGGIATA NEL COMPLOTTO VATICANO CONTRO PAPA FRANCESCO...

    data: 05/02/2020 19:30

    Mistero Emanuela Orlandi. La mia fonte vaticana è esplicita: “Con le “rivelazioni” di monsignor Carlo Maria Viganò al giornalista Aldo Maria Valli, che Pietro Orlandi ha ammesso essere il suo suggeritore delle mosse contro il Vaticano, era pronta a scattare una nuova montatura, parte del complotto contro Papa Francesco per farlo dimettere”.
    “La montatura doveva sollevare un gran polverone per far dimenticare o almeno annacquare la figuraccia mortale fatta col sostenere che Emanuela Orlandi è sepolta nel camposanto teutonico del Vaticano. Ma soprattutto doveva servire ad aumentare la pressione su Papa Francesco perché si dimetta, ponendolo il più possibile in cattiva luce come “omertoso”. Sostenendo cioè sempre più a gran voce, con insistenza ormai maniacale, che anche lui come i due pontefici precedenti sa cos’è successo alla ragazza, ma non lo vuole dire”.
    “Che non vuole cioè rendere noto il contenuto del famoso dossier che a dire dei soliti noti esisterebbe nella Segreteria di Stato e che conterrebbe chissà che cosa. Insomma, un’altra mossa, rozza, di chi complotta contro Papa Francesco“.
    Eminenza, ma come avrebbero potuto sollevarlo il nuovo polverone?
    “Con una mossa rozza, e un po’ disperata: il rilancio in campo delle “fazioni vaticane”, quelle tirate in ballo dalle “rivelazioni e confessioni” di Marco Fassoni Accetti, con annessi e connessi, “codici” compresi. Hanno però sbagliato i conti, scivolando malamente sulla buccia di banana di una telefonata e della trasmissione di un fax che non sono mai esistite per il semplice motivo che non possono esserci state. A Viganò è andata male quando nel 2018 ha chiesto le dimissioni di Francesco accusandolo di avere protetto il clero pedofilo e il giorno dopo l’intervista a Valli ci ha riprovato assieme ad altri con un documento che lo accusa di atti pagani”.
    Insomma, lei mi sta dicendo che le “rivelazioni” sulla scomparsa della Orlandi e le contemporanee accuse di paganesimo dovevano essere quello che in pugilato si chiama un “uno-due” per indicare due pugni sparati contro l’avversario in rapida successione, di solito un uppercut seguito da un gancio o da un diretto. Un “uno-due” per mandare al tappeto il Papa o almeno tentarci.
    “Non mi intendo di pugilato, ma il paragone credo renda bene l’idea”.
    Cosa le fa pensare ciò che mi sta dicendo?
    “Me lo fa pensare, anzi ce lo fa pensare, al plurale, la ben precisa risposta all’ultima domanda dell’intervista, a conferma dell’antico motto “in cauda semper stat venenum”. Se le rilegga. Strano non ci abbia pensato subito anche lei”.
    A dire il vero ci avevo pensato, ma ho preferito controllare intanto se nell’83 la teleselezione e l trasmissione via fax tra Vaticano e Polonia esistevano o no, appurando così che NON esistevano. Come che sia, l’intervista di Viganò si conclude con la seguente domanda:
    “Lei pensa che il cardinale Casaroli condusse una sua trattativa riservata, al di là di quanto si è saputo?”.
    E con la relativa risposta:
    “Non ne ho idea. Ma su questo punto potrebbe sapere qualcosa monsignor Pier Luigi Celata, che era il suo segretario di fiducia”.
    La mia fonte vaticana pare proprio possa avere ragione: “in cauda semper stat venenum”, anche in questo caso, si direbbe. Vediamo perché.
    Il cardinale Agostino Casaroli all’epoca era il Segretario di Stato del Vaticano. Viganò, oggi ex ambasciatore, cioè nunzio apostolico, del Vaticano negli USA, nella sua intervista sostiene che “i rapitori” già attorno alle 20 del 22 giugno (più o meno appena mezz’ora dopo la scomparsa di Emanuela) e anche in telefonate successive hanno più volte chiesto del Segretario specificando che avrebbero trattato solo con lui.
    Tutte telefonate che agli atti delle indagini giudiziarie e degli annessi documenti rilasciati dal Vaticano ai magistrati italiani NON risultano da nessuna parte. Ma proprio perché non risultano da nessuna parte diventa ancora più ghiotto il riferimento buttato la con nonchalance da Viganò al segretario di fiducia di Casaroli, cioè monsignor Pier Luigi Celata.
    Marco Accetti, il fotografo romano auto accusatosi inutilmente nel 2013 del “rapimento consenziente” di Emanuela, ha più volte dichiarato:
    “Celata fu mio direttore e confessore nel collegio San Giuseppe De Merode”.
    Se fosse passata la versione raccontata da Viganò a Valli qualcuno si sarebbe ricordato che Piazza Borromini e la casa di moda delle sorelle Fontana, due luoghi emersi come asseriti possibili tracce di Emanuela all’inizio delle indagini, sono indicazioni simboliche e precisi riferimenti.
    Per le sorelle Fontana Accetti nelle sue “rivelazioni” ai magistrati ha detto, guarda caso, che sono “un riferimento a monsignor Pierluigi Celata, direttore del collegio San Giuseppe De Merode, la scuola da me frequentata che si trova a fianco del loro atelier”. Accetti ai magistrati ha addirittura fatto notare che “non a caso uno dei primi due telefonisti a casa Orlandi (tre chiamate il 25 e 26 giugno 1983) si qualificò proprio con il nome di Pierluigi”, nome di battesimo di Celata.
    Sempre secondo le “rivelazioni” di Accetti, il riferimento a Piazza Borromini sarebbe invece da collegare a Francesco Pazienza, il chiacchieratissimo capo dal 1980 del cosiddetto Super SISMI.
    Insomma, gli elementi per un nuovo polverone per rendere ancora più misterioso e torbido il mistero Orlandi non mancavano certo. Ci sarebbe stata pappa e ciccia per chissà quante altre puntate televisive condotte da Pietro Orlandi su Sky e per rimettere in funzione il megafono di “Chi l’ha visto?”, diventato muto per l’irritazione di avere visto passare alla concorrenza di Sky il Pietro Orlandi tanto coccolato per anni e anni, tanto da essere diventato famoso proprio grazie a quel programma tv di Raitre. Pappa e ciccia anche e soprattutto per bombardare il Vaticano con altre istanze e richieste.
    Ovviamente non si sarebbe fatto nessun passo verso la verità, cioè verso la risoluzione del mistero Orlandi e il sapere che fine ha fatto Emanuela. Però il polverone debitamente coltivato ad arte avrebbe continuato a metter in cattiva luce Papa Francesco, in linea con l’evidente esistenza di complotti e camarille in Vaticano per spingerlo alle dimissioni. Le dimissioni che, guarda caso, sono l’obiettivo che si prefigge con insistenza un gruppo di prelati e teologi capitanati dallo stesso Viganò, nemico acerrimo dell’attuale pontefice da lui accusato di atti pagani lo scorso novembre e di protezione del clero pedofilo già nel 2018.
    La buccia di banana della telefonata e del fax impossibili ha fatto sì che nessuno se l’è sentita di interpellare monsignor Celata, ovviamente per fargli dire che confermava la versione Viganò. E per parte sua Celata se n’è prudentemente rimasto zitto: guardandosi bene dal dire comunque la sua, quale essa fosse.
    Cinque giorni dopo la sua elezione a pontefice Francesco ha incontrato per caso Pietro Orlandi all’uscita della chiesa parrocchiale vaticana di S. Anna. Il video dell’incontro, una trentina di secondi, mostra un Pietro sempre sorridente, tanto che il giorno dopo ha dichiarato con entusiasmo che li Papa gli aveva “ispirato molta fiducia”.
    Ma sulla richiesta di udienza Francesco ha glissato con parole quasi sibilline: “Se Emanuela è in cielo, preghiamo per lei”. Fallito il tentato assalto di Viganò, abortito sul nascere, e affogata nel ridicolo la stralunata affermazione che Emanuela è stata sepolta nel cimitero teutonico del Vaticano e che il suo cadavere è stato poi prudentemente fatto sparire, in questi giorni Pietro Orlandi ha deciso di ripiegare su un’altra tattica:
    “Senza risposte dal Vaticano presenteremo un’istanza al giorno“.
    Un’azione di disturbo permanente non si sa se suggerita anch’essa da Viganò, ma certamente utile più a lui e agli altri nemici del Papa, e a nuove puntate televisive, che alla verità sulla fine di Emanuela. Le eventuali altre puntate televisive servirebbero a bypassare il fatto che ormai ai sit in e alle manifestazioni di protesta contro il Vaticano organizzate dall’Orlandi ci vanno, oltre a qualche suo familiare, meno di una dozzina di persone: sempre le stesse, amici abbonati fedeli.

    (*) blitzquotidiano.it, 5 febbraio 2020, ore 12