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SABINA GIOVENALE

  • UOMINI E ORSI

    data: 17/04/2023 16:27

    Prima di parlare della tanto dibattuta questione degli orsi del Trentino voglio ringraziare pubblicamente Maria Iosé e tutti quelli che si stanno impegnando per tenere vivo questo blog, perché è un modo per tenerci vicino Beppe e sopportare meglio il rimpianto e la tristezza che la sua assenza ci ha lasciato addosso.

     

    Ma veniamo agli orsi. Tanto si è detto e si continua a dire dopo il tragico incontro che in Val di Sole è costato la vita al giovane Andrea Papi e molti sono quelli che pontificano pur senza essere esperti di fauna selvatica. Pur essendo biologa non sono un’esperta neanche io, ma mi sento di dire che l’intenzione manifestata dal presidente della Provincia Autonoma di Trento, Fugatti, di sopprimere l’orsa in questione, nonché altri esemplari che si erano rivelati in precedenza aggressivi, è inaccettabile. Non ci si può vendicare di un animale selvatico che, come diverse persone hanno già commentato, ha semplicemente “fatto l’orso”. Un orso non attacca per cattiveria, per scelta, ma in risposta a un istinto che lo porta a difendere il suo territorio, i suoi cuccioli o semplicemente sé stesso. Non dimentichiamoci infatti che per secoli e secoli gli orsi, così come tanti altri animali selvatici, sono stati cacciati dagli esseri umani per la loro carne, per la pelliccia, per tenerli lontani dagli allevamenti, dai frutteti, dagli orti e dagli alveari. Ma ricordiamoci anche, ed è ancora peggio, che gli orsi venivano catturati per essere esibiti nelle fiere di paese, nei circhi o nei giardini zoologici. L’istinto e le esperienze negative nei rapporti con gli umani, trasmesse alla discendenza, fanno sì che l’orso sia diffidente nei nostri confronti e si tenga alla larga da noi. Ed è bene che sia così, perché proprio quando perde questa diffidenza possono venirsi a creare situazioni di pericolo, sia per l’animale stesso (penso alle vicende dell’orso Juan Carrito nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise) che per gli esseri umani. Per questo, ad esempio, è sconsigliato, oltre che vietato dalla legge, dare del cibo agli animali selvatici: questo comportamento infatti li confonde, rendendoli confidenti e generando reazioni imprevedibili e potenzialmente pericolose.

    In un territorio fortemente antropizzato come è quello del Trentino gli spazi a disposizione degli orsi probabilmente non sono più adeguati, anche perché la possibilità di reperire facilmente cibo grazie alle attività umane fa sì che la naturale capacità portante dell’ambiente risulti alterata. Questo fa sì che un numero maggiore di orsi rimanga su un dato territorio, invece di disperdersi su areali più vasti, come sarebbe naturale. Per capacità portante si intende la quantità di individui di una data specie – in questo caso l’orso – che un determinato territorio è in grado di sostenere, grazie alle risorse trofiche presenti ed alla disponibilità di habitat idonei per la riproduzione. Se viene messo a disposizione più cibo, come ad esempio succede nelle città a causa dei rifiuti, gli animali selvatici che hanno uno spettro alimentare più ampio, o che semplicemente sono più adattabili, accrescono in modo incontrollato le loro popolazioni - lo abbiamo già visto accadere con i gabbiani, le cornacchie, i piccioni, i cinghiali – e questo innaturale affollamento genera disfunzioni nell’ecosistema e tra l’altro può causare malattie ed epidemie.

    Probabilmente è accaduto questo anche con gli orsi in Trentino - pensiamo ai meleti, alle vigne, alle coltivazioni di frutti di bosco, agli alveari- e forse non se ne era tenuto abbastanza conto quando si è ideato il progetto di reintroduzione Life Ursus. Credo che ci si aspettasse che i nuovi nati, una volta raggiunta l’indipendenza dalla madre, si sarebbero dispersi allontanandosi dal luogo della nascita e invece non è stato così, o comunque lo è stato molto meno del previsto.

    I progetti di reintroduzione di grandi carnivori in un territorio in cui una volta erano presenti ma dove, per colpa dell’uomo, non lo sono più da tanti anni, oppure dove ne è rimasto un numero talmente esiguo da non poter dar vita ad una popolazione vitale, vengono portati avanti con l’intento di salvare una specie dall’estinzione locale, ma anche con la speranza che possa riportare in equilibrio un ecosistema che non lo è più, perché ad esempio sono cresciuti troppo gli erbivori come il cervo e il capriolo. Questa funzione la sta svolgendo naturalmente (perché non è stato reintrodotto dall’uomo) il lupo, predatore apicale le cui popolazioni stanno crescendo ed espandendo il loro areale in tutta la penisola per i motivi già ricordati in un precedente articolo (17/05/2021). Ma i progetti di reintroduzione, che per lo scopo che si prefiggono potrebbero apparire un’ottima idea a priori, in realtà lo sono solo se vengono studiati a lungo, nei dettagli e senza fretta, tenendo conto di tutte le realtà già presenti nel territorio in oggetto e delle loro interazioni; inoltre devono coinvolgere, lavorandoci insieme, le istituzioni territoriali e amministrative limitrofe, proprio per il fatto che gli animali tendono a disperdersi anche a grande distanza dal luogo di rilascio. Ma fondamentale è il coinvolgimento, fin dalle fasi iniziali del progetto, della popolazione residente, che va informata, preparata ed educata, ma anche ascoltata, perché i progetti calati dall’alto spesso e volentieri non vanno a buon fine. Meglio rimandare, aspettare e riprovare più avanti che partire a tutti i costi quando la popolazione non è ancora pronta ad accogliere una novità che non ha avuto il tempo di capire ed assimilare. E poi, una volta che il progetto è partito, questa attività di formazione ed educazione va portata avanti e rinnovata negli anni, perché si tratta di progetti a lungo termine, che quindi interesseranno via via nuove fasce di popolazione. Probabilmente anche questo è mancato in Trentino, visto che in questi giorni da parte di più persone è stata fatta presente la scarsità di cartellonistica che illustrasse le attività consentite e quelle vietate nel Parco Nazionale Adamello Brenta e nelle aree adiacenti. Ed è probabilmente anche stato carente il controllo da parte degli enti preposti.

     

    IL PROGETTO LIFE URSUS   Estratto da: https://grandicarnivori.provincia.tn.it/L-orso/Storia-sull-arco-alpino/Il-Progetto-di-reintroduzione-Life-Ursus

    Nel 1999, per salvare il piccolo nucleo di orsi sopravvissuti da un’ormai prossima ed inevitabile estinzione, il Parco Adamello Brenta con la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica (l’attuale I.S.P.R.A.) usufruendo di un finanziamento dell’Unione Europea, aveva dato avvio al progetto Life Ursus, finalizzato alla ricostituzione di un nucleo vitale di orsi nelle Alpi Centrali tramite il rilascio di alcuni individui provenienti dalla Slovenia.
    Prima della realizzazione del progetto, l’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica era stato incaricato di analizzare la fattibilità e la probabilità di successo dell’immissione (Studio di fattibilità). Furono analizzati 60 parametri, tra caratteristiche ambientali e aspetti socio–economici, su una superficie di 6500 km2, ben oltre i confini della Provincia di Trento. I risultati furono incoraggianti: circa 1700 km2 risultarono essere idonei alla presenza dell’orso e più del 70% degli abitanti si dissero a favore del rilascio di orsi nell’area.
    Tra il 1999 e il 2002 vennero rilasciati 10 orsi, nati in libertà in Slovenia meridionale. La maggior parte di essi si adattò bene al nuovo territorio. Nel 2002 e nel 2003 si registrarono il primo e il secondo parto, i quali furono nel tempo seguiti da molti altri eventi riproduttivi. L’obiettivo del progetto Life Ursus era di consentire nell’arco di qualche decina di anni la costituzione di una popolazione vitale di almeno 40-60 orsi adulti, la cui presenza avrebbe interessato molto probabilmente anche le province limitrofe. Non erano previsti ulteriori rilasci.

    I risultati del progetto Life Ursus, lo abbiamo saputo in questi giorni, sono stati, sotto l’aspetto quantitativo, molto superiori alle aspettative: sono infatti ormai presenti un centinaio di orsi, che però sono rimasti tutti, tranne un esemplare che si è spostato in Austria, concentrati nella stessa zona del Trentino dove erano stati rilasciati. Probabilmente anche per questo fatto il progetto è apparentemente “sfuggito di mano” ai responsabili.

    Errori quindi ne sono stati fatti senz’altro e ci è andato di mezzo un ragazzo innocente, seppure magari un po’ imprudente, ma in ogni caso non è accettabile, come hanno detto anche gli stessi genitori di Andrea, una ritorsione, praticamente una vendetta nei confronti di un animale selvatico, che è stato messo, senza alcuna responsabilità da parte sua, in una situazione a rischio proprio dalla specie che si è autodefinita sapiens sapiens. Mia madre diceva, quando io e mia sorella, da ragazzine, litigavamo: “chi ha più giudizio lo usi”. Spero che ci si voglia rendere conto che fra noi e l’orso dovremmo essere noi quelli che hanno più giudizio e quindi, se l’orso “fa l’orso”, siamo noi a dover “fare l’uomo”.

  • SENZA BEPPE

    data: 26/03/2023 18:07

    E’ passato ormai più di un mese ma la mancanza di Beppe è ancora quasi impossibile da accettare, almeno per chi, come me, nemmeno sapeva che stesse male. E’ stata una persona così presente nella mia vita, da tre anni a questa parte, cioè da quando, grazie a Valentina Chiarini, sono entrata a far parte della comunità di Infodem, che la sua assenza ora pesa veramente tanto. Valentina mi aveva chiesto il permesso di pubblicare sul suo blog una cosa che le avevo mandato, come amica, ai tempi del lockdown. Così poi, su suo consiglio, ho scritto a Beppe chiedendogli se potevo partecipare al suo blog collettivo. Lui era d’accordo, mi ha chiesto di mandargli un piccolo profilo che illustrasse chi ero e mi ha consigliato di “specializzarmi” scrivendo su argomenti relativi al mio campo di formazione (sono biologa) e di professione (lavoro al Dipartimento Tutela Ambientale del Comune di Roma e mi occupo di tutela della biodiversità). Pur essendo ambiti che permettono un largo campo di azione, mi sono permessa di dirgli che preferivo non avere dei limiti riguardo a quello che avrei potuto scrivere, perché quello che mi interessa e mi riesce meglio è proprio cercare le connessioni tra fatti apparentemente distanti, in questo mondo dove tutto tende invece ad andare avanti per compartimenti stagni. Lui ha capito il mio punto di vista e mi ha dato carta bianca, regalandomi così il periodo più appagante della mia vita.

     Mi ha gratificato con i suoi commenti a volte anche entusiasti, ma comunque sempre affettuosi; mi ha incoraggiato nei momenti di depressione, in cui le troppe notizie negative mi bloccavano e non riuscivo a scrivere. Ha accettato che in quei momenti, visto che mi dispiaceva restare inattiva troppo a lungo, pubblicassi dei raccontini riciclati da un libretto che avevo scritto, senza pubblicarlo, qualche anno prima.

    Sicuramente è stato così disponibile, protettivo ed affettuoso con tutti noi di Infodem ed è per questo che ora ci sentiamo, ne sono certa, tutti orfani.

    Però ora dobbiamo farci forza ed impegnarci ad andare avanti senza Beppe. Dobbiamo custodire questa sua creatura, questo piccolo bosco misto composto da tante diverse storie, esperienze, personalità, che lui ha seminato, protetto e fatto crescere. Non lasciamolo appassire, facciamolo per lui, ma anche per tutti noi.

  • DUE ESPERIENZE
    DI MATERNITA'
    A CONFRONTO

    data: 02/02/2023 17:44

    La tristissima vicenda della povera signora che ha soffocato non volendo il suo bambino appena nato perché, stremata per il parto, si è addormentata dopo averlo allattato, ha sollevato un’onda di testimonianze su esperienze, probabilmente fino a quel momento rimosse, vissute in sala parto e nelle prime ore dopo la nascita del bambino da molte donne in varie parti d’Italia. Donne trattate male, derise, umiliate e colpevolizzate; donne che si sono sentite considerate solo in quanto mamme, in funzione del figlio, e non come persone e in quanto tali degne di attenzioni e di rispetto.

    Tutto questo mi ha molto indignato e rattristato, portandomi indietro, col ricordo, alle mie due esperienze di maternità, che risalgono ormai a ben più di trenta anni fa. Non posso dire di aver vissuto esperienze altrettanto negative e traumatiche fortunatamente, però, ripensandoci, alcune differenze tra la prima e la seconda ci sono state e non sono state da poco. La mia prima figlia, Martina, è nata a Roma, al Fatebenefratelli, con un parto spontaneo, dopo un travaglio molto lungo, senza ossitocina. Mi è stata praticata l’episiotomia, probabilmente necessaria, anche se ho avuto l’impressione che fosse di routine. Il taglio ha cicatrizzato male e questo mi ha poi dato diversi fastidi; dopo alcuni mesi la cicatrice si è infettata e ho dovuto prendere gli antibiotici, cosa che mi ha costretto ad interrompere l’allattamento intorno al quinto mese. Ma torniamo al Fatebenefratelli: ci portavano i bambini perché li allattassimo alle ore stabilite, arrivavano tutti insieme su un grande carrello e venivano smistati fra le varie mamme… Sembrava un po’ una catena di montaggio. Probabilmente se piangevano tra una poppata e l’altra davano loro il latte artificiale, ma a noi non dicevano niente e non potevamo controllare, perché la nursery era lontana, ad un altro piano. Del rooming in negli anni ’80 non si parlava proprio.

    La seconda figlia, Lisa, è nata quasi quattro anni più tardi, nel ’92, all’ospedale di Orbetello. Allora non lavoravo, così ero in vacanza insieme a Martina e ai miei genitori, mentre mio marito era a Roma perché non poteva prendersi ferie. Mi sono fatta seguire da un ginecologo di Orbetello negli ultimi due mesi di gravidanza e ho frequentato un corso di preparazione al parto. Il parto, spontaneo anche questa volta, è stato breve ma intenso, come si suol dire: veloce e abbastanza doloroso ma è andato tutto liscio. Non credo mi sia stata praticata l’episiotomia e seppure fosse, neanche me ne sono accorta. I bambini stavano nella nursery, che era comunicante con la stanza dove eravamo noi mamme, separata solo da vetrate. Quando piangevano perché avevano fame, andavamo noi lì: era più igienico e così i neonati non erano esposti a correnti d’aria e sbalzi di temperatura. Potevamo rimanere nella nursery anche per cambiarli. Ma il bello viene ora: alla prima poppata, come normalmente accade, usciva solo il colostro, importante per lo sviluppo del sistema immunitario, perché trasferisce al bambino gli anticorpi materni. Però poi il latte ancora non arrivava e Lisa piangeva. La pediatra mi ha chiesto se volevo farla allattare da una compagna di stanza, Paola, che aveva partorito prima di me e aveva già latte in abbondanza, sufficiente per il suo maschietto e la mia bambina. Sono stata d’accordissimo e Paola è stata felice di aiutarmi. Così Lisa ha preso il latte dalla sua “pre-mamma” e non è stato necessario darle quello artificiale; io ho smesso di preoccuparmi, mi sono riposata e così il latte è arrivato. Già alla terza poppata Lisa ha potuto attaccarsi al seno della sua mamma vera e tutto è andato bene.

    Una soluzione geniale nella sua semplicità, ma che appare coraggiosa e quasi rivoluzionaria se si rileggono le testimonianze venute fuori in questi giorni. È però la dimostrazione che con buon senso ed elasticità mentale si possono risolvere molti problemi.
    Vorrei che Paola potesse leggere queste righe: capirebbe che anche dopo più di trent’anni me la ricordo con affetto e commozione e le sono tanto grata per la sua generosità. Sono sicura che parte di quel che c’è di buono in mia figlia, che è una cara ragazza pur avendomene fatte passare tante, glielo ha trasmesso lei con il suo latte e la sua gentilezza.
     

  • DE-IMPERMEABILIZZARE
    LE CITTÀ PER RESISTERE
    AI CAMBIAMENTI CLIMATICI

    data: 19/01/2023 20:58

    Sul numero attualmente in edicola del mensile "Gardenia" ho trovato due articoli molto interessanti, che mi hanno spinto a cercare anche altre informazioni in rete, per tornare sull’argomento già toccato parlando della Gendarmenmarkt Platz di Berlino, cioè gli adattamenti delle città alle conseguenze dei cambiamenti climatici. In quel caso si trattava di una complessa opera di ingegneria con cui si costruirà, sotto la piazza, una grande vasca di raccolta delle acque piovane, che verranno stoccate, per essere filtrate e utilizzate in caso di siccità e infine restituite alle falde idriche. In questi articoli invece l’opera di mitigazione, che rallentando il flusso dell’acqua ne facilita l’assorbimento da parte del terreno in modo che possa essere reimmessa in falda, è lasciata alla natura, cioè al verde ed al terreno libero da cemento e altre pavimentazioni impermeabilizzanti. Il consumo del suolo nelle aree urbane è probabilmente l’elemento che maggiormente contribuisce ad aggravare gli effetti dei fenomeni meteorici straordinari. L’impermeabilizzazione del suolo infatti intensifica gli effetti negativi dei cambiamenti climatici alterando il naturale ciclo delle acque. Il consumo di suolo in Italia è stato quantificato in due metri quadrati al secondo, come ha detto Fabio Ciconte, direttore dell’Associazione Terra, a Sveva Sagramola nella trasmissione Geo del 17 gennaio.
    Siamo abituati a pensare che la lotta ai cambiamenti climatici vada combattuta abbattendo i gas climalteranti responsabili dell’effetto serra, quindi passando dalle energie fossili a quelle rinnovabili; ovviamente è così, però ancora fatichiamo a renderci conto che questo passaggio, anche se non si perdesse più tempo e si realizzasse in tempi brevi, non sarebbe comunque più sufficiente ad arginare le conseguenze di una modificazione del clima che ormai è già in atto da anni, che non possiamo azzerare e di cui non possiamo più negare gli effetti dirompenti, che risultano tanto più dirompenti proprio laddove il terreno è più impermeabilizzato, cioè nelle città.
    Come scriveva Fabrizio Fasanella in “Dimenticare l’asfalto. Le città del futuro devono essere come delle spugne” (1) : “Le città impermeabili stanno diventando anacronistiche per via degli eventi climatici estremi. La sfida urbanistica del futuro - non troppo lontano - consiste nel renderle porose come delle spugne, puntando su soluzioni nature based. Alla natura si risponde con la natura. Alle alluvioni e alle piogge torrenziali alternate a periodi di siccità – tra gli effetti più concreti dei cambiamenti climatici – si replica con alberi, tetti verdi, aiuole, parchi, stagni o laghi, ma anche con strade sterrate, sabbia e altre superfici permeabili in grado di assorbire velocemente l’acqua e di rallentare il deflusso superficiale”.
    Gli articoli di Gardenia parlano proprio di questo. Il primo, a firma Margherita Lombardi, intitolato I giardini della pioggia, racconta quella che l’autrice definisce la nuova frontiera del paesaggismo urbano, che punta alla realizzazione di interventi su piccola scala capaci di mitigare le conseguenze dei cambiamenti climatici. I Rain gardens, cioè letteralmente i giardini della pioggia o, più tecnicamente, “aree di ritenzione vegetate”, sono spazi verdi progettati per accogliere temporanei accumuli di acqua piovana e tollerare brevi periodi di inondazione, così come di siccità. Fondamentale è la scelta di piante adatte a sopportare queste condizioni estreme, quindi essenzialmente specie spontanee autoctone o naturalizzate, ma molto si gioca sulla creazione di ampie aree libere dal cemento, con suolo profondo ad elevata capacità drenante, e con canali e stagni in grado di accogliere l’acqua in eccesso. Ma non è solo questo, perché i Rain gardens sono sistemi multifunzionali, che oltre a permettere di gestire in modo sostenibile e naturale i flussi meteorici, contribuiscono a depurare le acque grazie alle piante e in particolare alle loro radici, all’effetto tampone del terreno e all’attività della microflora e microfauna che li abitano, creando nello stesso tempo spazi belli dal punto di vista paesaggistico e ricchi di biodiversità, il che ne accresce la funzione ricreativa, come pure quella educativa.
    Questi giardini sono nati negli Stati Uniti alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, prima in ambito residenziale e poi pubblico, inizialmente con la prevalente funzione di filtro, per ridurre gli agenti inquinanti che le acque trasportano negli scarichi, nei fiumi ed infine negli oceani. Dagli Stati Uniti si sono rapidamente diffusi nel Centro e Nord Europa, in particolare in Germania, Polonia ed Inghilterra.
    Su scala più ampia i Rain gardens possono estendersi fino a trasformare i centri urbani in Sponge cities, le “città spugna”, che sono l’oggetto del secondo articolo di Gardenia “Ingegnose città-spugna”, a firma Cinzia Toto. “Per ridurre il rischio alluvioni in ambiente urbano si è capito che occorre liberare il suolo da cemento e asfalto, creando aree verdi che permettano l’assorbimento delle piogge”: così introduce l’argomento l’autrice, che ci racconta che questa strategia, sperimentata in Cina, inizia ora a diffondersi anche in Italia. Alessandro Nicoloso, dottore forestale, paesaggista ed esperto di drenaggio urbano sostenibile, intervistato da Cinzia Toto spiega che “Nella maggior parte delle città solo il 20-30% della pioggia viene assorbito dal terreno, con punte minime del 5-10% in corrispondenza di superfici completamente asfaltate o cementate. Il resto finisce nelle reti fognarie. Negli ultimi anni, però, la più alta frequenza di piogge estremamente intense ha messo in evidenza il sottodimensionamento di queste reti, che oltre a essere state progettate per piogge largamente meno abbondanti, non sempre sono state adeguate all’espansione urbana. È facile capire quindi come mai le inondazioni siano diventate più frequenti, provocando sempre più vittime e danni ingenti alle infrastrutture. Fare in modo che le acque meteoriche non finiscano tutte nei tombini, intasandoli, ma siano riutilizzate attraverso la creazione di aree verdi, è una sfida e un’opportunità per avere città più belle, sicure e piacevoli da vivere”. Sempre in questo interessante articolo leggo che uno dei primi a teorizzare il concetto di città-spugna è stato già venti anni fa l’architetto paesaggista cinese Kongjian Yu, che diceva: “Usare il cemento per canalizzare e arginare l’acqua, come abbiamo fatto finora, è completamente sbagliato. Ci siamo illusi che in questo modo avremmo potuto difenderci da allagamenti e alluvioni. Di fatto le strutture in cemento hanno prodotto l’effetto contrario. Dobbiamo cambiare radicalmente approccio, diventando amici dell’acqua, dandole spazio. Come? Rimuovendo le strutture in cemento, costruendo edifici con tetti e pareti verdi, utilizzando pavimentazioni permeabili e creando terrazze in cui terra e acqua possano incontrarsi su livelli diversi”.
    Kongjian Yu, attualmente professore di architettura del paesaggio all’Università di Pechino, è arrivato a concepire il concetto di città-spugna partendo da un’esperienza traumatica della sua infanzia. Quando aveva 10 anni un’alluvione lo trascinò violentemente dentro le tumultuose acque di un torrente. Fortunatamente, in un punto ricco di salici, canneti e altre piante, il flusso rallentò e il piccolo riuscì a trarsi in salvo aggrappandosi alla vegetazione: “Sono sicuro che se il fiume fosse stato come quelli di oggi, levigati con strati di cemento, sarei annegato. Perché non puoi vincere contro l’acqua: devi lasciarla proseguire”, ha raccontato in un’intervista alla BBC (1).
    Il concetto alla base della città-spugna è proprio questo: passare da un centro urbano impermeabile – ricoperto di colate d’asfalto e cemento – a una città con superfici porose poste nei cosiddetti “flooding hotspots”, siti dove è più probabile che l’acqua si accumuli in caso di tempeste particolarmente violente.
    Yu ha progettato oltre duecento sponge cities in Cina ed oggi sta lavorando a vari progetti in America, Russia ed Indonesia.
    In Europa una delle esperienze più riuscite è a Berlino, dove l’architetto Carlo Becker sta trasformando un quartiere costruito venti anni fa in un esempio di sponge-city. Gli edifici hanno tetti e pareti verdi e l’acqua fluisce in cortili-giardino fra i palazzi, sotto i quali garage interrati sono coperti da uno strato di almeno ottanta centimetri di terra, che funziona da spugna in caso di piogge estreme. Nel quartiere non ci sono tombini né una rete fognaria tradizionale: l’acqua scorre verso zone verdi laterali, ribassate rispetto al piano stradale, per penetrare poi lentamente nel terreno. D’estate questi spazi, grazie all’evaporazione, sono piacevolmente più freschi rispetto ad altri luoghi pubblici cittadini. “In natura la pioggia è assorbita da suolo e vegetazione” spiega l’architetto, “poi la maggior parte evapora e il resto viene filtrato in profondità nel suolo. L’acqua che evapora rinfresca l’ambiente circostante. Le città interrompono questo sistema: l’acqua non viene assorbita da cemento e asfalto. E scivola via. La sponge city strategy ha lo scopo di tenere la pioggia esattamente dove cade, imitando il ciclo dell’acqua”.
    Ma “al cambiamento climatico si può rispondere con soluzioni nature based, spesso a basso costo e applicabili anche in corso d’opera: non per forza in fase di pianificazione”, così Elena Granata, docente di urbanistica al Politecnico di Milano, ci spiega che una città-spugna “si può ottenere a buon mercato togliendo l’asfalto dalle strade, tramite quel processo che viene chiamato de-pavimentazione. Consiste nell’idea che basta lasciare suolo libero e terra battuta, senza avere effetti impermeabilizzanti, per far respirare la città: così il suolo torna a fare il suo mestiere. Meglio un parcheggio a sterro che un parcheggio ad asfalto. Meglio togliere l’asfalto dalle strade secondarie piuttosto che lasciarlo. La de-pavimentazione è semplice e alla portata di tutte le amministrazioni, con effetti immediati”.
    In Italia però siamo ancora lontani dal rendere le nostre città “spugnose” e a prova di alluvioni, nonostante le continue avvisaglie provenienti da una natura che abbiamo reso imprevedibile. “Se in Cina vanno le città spugna, da noi vanno le città impermeabili: in Italia abbiamo impermeabilizzato i suoli in maniera sistematica. Ad esempio, non abbiamo strade che sono lasciate a sterro, come invece succede a Parigi. L’asfalto e il cemento impediscono la porosità e la spugnosità delle nostre città. La città impermeabile, che ai tempi ci sembrava più sicura, più pulita e più asettica, oggi diventa pericolosa perché non assorbe le piogge”, aggiunge la professoressa Granata.
    In Italia una delle amministrazioni che secondo Granata sta cogliendo l’importanza di “diventare spugnosi” è quella di Bergamo, grazie a qualche esperimento mirato di de-pavimentazione dell’asfalto. E un progetto analogo si sta studiando a Vercelli. “Tuttavia”, afferma, “le città del nostro Paese risultano ancora arretrate e morbosamente affezionate a una ormai anacronistica cementificazione: non lo facciamo perché non c’è la cultura delle soluzioni ispirate alla natura. Il messaggio culturale da assimilare e trasmettere è che alla natura si risponde con la natura. È una filosofia, un cambio di paradigma molto rassicurante per le nuove generazioni: anziché disperarci pensando al cambiamento climatico, possiamo gestirlo a livello micro e macro. Chiunque di noi abbia un campo o un prato può fare qualcosa”.
    Sempre in Italia la città metropolitana di Milano si è aggiudicata un finanziamento del PNRR di cinquanta milioni di euro grazie ad un progetto che prevede novanta opere in 32 Comuni per riqualificare 530.000 metri quadri di territorio attraverso opere di drenaggio urbano. Sono questi i punti cardine di “Milano Città Spugna”, l’articolato piano di interventi di riqualificazione per prevenire gli allagamenti, contrastare l’erosione del suolo e gli effetti del cambiamento climatico su tutto l’hinterland milanese: è prevista la de-impermeabilizzazione di 52 ettari di parcheggi, strade e piazze e poi drenaggio urbano sostenibile, aree verdi ribassate dove far defluire l’acqua, miglioramento della rete idrica e potenziamento della rete fognaria per contrastare gli eventi meteorici eccezionali e preservare il territorio.
    La vicesindaca metropolitana Michela Palestra sostiene il progetto Spugna, dicendo che “si tratta di una occasione unica per rinforzare l’ecosistema della Città metropolitana di Milano, favorendo l’assorbimento dell’acqua piovana, riducendo i danni economici e ambientali delle piogge intense, le famose bombe d’acqua, stimolare la riqualificazione e la vivibilità degli spazi con il contenimento delle isole di calore e il sostegno alla biodiversità. Uno sguardo al territorio in termini di conservazione e riuso. Con Spugna, la Città metropolitana mette a sistema tutti gli strumenti a sua disposizione con l'obiettivo di diminuire la vulnerabilità dei sistemi naturali e socioeconomici e di rafforzare la capacità di resilienza del territorio, soprattutto per le zone caratterizzate da elevati livelli di impermeabilizzazione e alta densità urbanistica. Un tassello importante dei nostri Piani Integrati, che hanno permesso, grazie ad un’importante sinergia col territorio, di intercettare importanti risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (2).
    Uno degli studi più importanti sulle città-spugna è stato condotto da Arup, una multinazionale che presta servizi di design, architettura e ingegneria. Nel suo “Global Sponge Cities Snapshot”, la società con sede a Londra ha assegnato una percentuale di “spugnosità” a sette metropoli: Auckland (35%), Nairobi (34%), Singapore (30%), New York (30%), Mumbai (30%), Shanghai (28%) e Londra (22%). Il punteggio variava a seconda dei seguenti fattori: la quantità di spazi verdi e blu che assorbono l’acqua, come l’erba, gli alberi, i laghi e gli stagni; la tipologia di suolo e di vegetazione; i sistemi urbani per il deflusso dell’acqua. Auckland, in Nuova Zelanda, ha ottenuto un punteggio elevato grazie alla presenza di enormi parchi e a un moderno sistema di gestione dell’acqua piovana. Nairobi, in Kenya, è al secondo posto per via delle notevoli porzioni di terra permeabile (terriccio, sabbia) ai margini dell’area urbana. Londra è finita in fondo alla classifica in quanto posta su un terreno ricco di argilla, che notoriamente trattiene meno facilmente l’acqua. La capitale inglese, ispirandosi all’australiana Melbourne, ha però annunciato un piano per realizzare centinaia di rain gardens, ossia aiuole posizionate in punti strategici della città. Questi piccoli giardini di terreno drenante, caratterizzati da una leggera depressione, trattengono l’acqua piovana per poi rilasciarla pian piano nelle fogne, riducendo il rischio di allagamento.
    Le città italiane che hanno bisogno di interventi per incrementare il loro “tasso di spugnosità” sono quelle in cui si verificano forti escursioni termiche tra inverno ed estate, come per esempio Milano; oppure le città costiere, situate in una posizione geografica penalizzante. “Ma in realtà”, puntualizza Granata, “ogni città dovrebbe muoversi verso questa direzione. Questa cosa la stanno già facendo a Barcellona, in Messico e in tante altre zone dell’America Latina”. In più “sono progetti che possono anche contrastare la calura estiva. Ancora non sappiamo come dovremo razionare l’energia, come evolverà il conflitto in Ucraina. L’alternativa ai climatizzatori deve essere naturalista: lo dobbiamo fare anche per una questione geopolitica, non più solo climatica”.
    La città-spugna non si limita alla de-pavimentazione e alla realizzazione di aree verdi capaci di assorbire l’acqua. Tunnel sotterranei e bacini di raccolta possono aiutare non solo a reagire agli eventi climatici estremi, ma anche alla siccità: “Le piogge improvvise dopo lunghi periodi di siccità possono essere una catastrofe, oppure una manna. Quando piove, ci sono città che non possono sprecare neanche un goccio d’acqua: ecco perché devono essere trasformate in grandi invasi che assorbono l’acqua, per poi sfruttarla durante i periodi di emergenza idrica. Per quali funzioni? Per pulire la strada, per l’agricoltura urbana, per i servizi di pulizia. È un uso più intelligente delle risorse”, sostiene Elena Granata (1).
    “Ora più che mai” ha affermato il professor Kongjian Yu “di fronte al cambiamento climatico globale e alle tecnologie industriali distruttive, dobbiamo ripensare il modo in cui costruiamo le nostre città, il modo in cui trattiamo l’acqua e la natura e persino il modo in cui definiamo la civiltà. Le Sponge Cities sono ispirate all’antica saggezza dell’agricoltura e della gestione dell’acqua che usano strumenti semplici per trasformare la superficie globale su vasta scala in modo sostenibile”.
    Ritengo che questi meritevoli progetti vadano supportati, soprattutto nel nostro Paese, da adeguate campagne di comunicazione ed informazione rivolte ai cittadini, che in genere sono abituati a considerare degrado tutto ciò che è naturale e non addomesticato dell’uomo. Sarà un retaggio culturale frutto della tradizione del Giardino all’italiana oppure semplicemente molta ignoranza in campo scientifico unita alla tendenza ad essere diffidenti nei confronti dei cambiamenti? Lascio ai lettori l’ardua sentenza.

    (1) linkiesta.it /2022/05/urbanistica-verde-climate-change
    (2) rinnovabili.it/greenbuilding/smart-city/milano-citta-spugn-drenaggio-urbano-smart-allagamenti

  • AniMalìa. L’ETERNA LOTTA
    FRA GAZZE E TORTORE

    data: 21/12/2022 16:29

    Lo scenario è ancora quello della Giannella, dove la mia famiglia ha una casetta al mare. Si parla questa volta di lotta per la supremazia fra specie di uccelli. C’è davanti al nostro giardino un albero molto alto, un eucalipto con l’apice un po’ secco. Sui rami più alti amano sostare sia le gazze che le tortore, che lottano per conquistare o mantenere la posizione. Si attaccano e si inseguono in volo e, nonostante la taglia notevolmente minore e l’aspetto inerme, spesso sono le tortore a prevalere. Sono molto aggressive ed agiscono sempre in coppia, provocando ed attaccando per prime. Non sono in competizione per il cibo o per i siti di nidificazione, ma proprio per il potere, per il controllo del territorio. Considerano quei rami una posizione di dominio che non vogliono mollare. Mi hanno sempre fatto pensare a israeliani e palestinesi. Mio padre già molti anni fa seguiva queste lotte, parteggiando apertamente per le gazze (i palestinesi?). Quando c’era ancora lui, e proprio oggi sono sedici anni che è mancato, la situazione era abbastanza di equilibrio, mentre ormai le tortore, che sono cresciute molto di numero, hanno preso il sopravvento. Le gazze hanno praticamente rinunciato all’eucalipto e si accontentano delle chiome dei pini, più in basso. Ogni tanto fanno un’incursione nel nostro giardino, dove noi, come faceva papà, lasciamo loro del cibo, in particolare le scorze di formaggio, che apprezzano molto.
    E pensare che le tortore sono comparse in Italia solo una quarantina di anni fa, perché prima non c’erano. Hanno espanso il loro areale dall’Asia meridionale, loro luogo di origine (il nome comune, tortora dal collare orientale, ce lo rivela), soppiantando la specie nostrana, la tortora comune, che invece ormai comune non è più, anzi viene classificata fra le specie vulnerabili e mostra un moderato ma continuo declino.
    Mi ricordo un’uscita con il Professor Carlo Consiglio al Parco del Circeo tanti anni fa, quando seguivo il corso di Zoologia biennale alla Sapienza, ed ho ancora nelle orecchie il suo grido eccitato “Una tortora dal collare orientale!”, perché allora (erano i primi anni ’80) cominciavano appena ad affacciarsi dalle nostre parti. Ormai sono quasi abbondanti quanto i piccioni, si sono piazzate e neanche migrano più (mia osservazione di fine autunno 2017).
    Ma io continuo, come faceva mio padre, a parteggiare per le gazze in questa guerra ormai perduta, anche perché, se entrambe le specie hanno la cattiva abitudine di svegliarci all’alba, c’è da dire che il verso della tortora, che attacca alle cinque e va avanti ad oltranza, è quanto di più noioso ed esasperante esista in natura

    (21 dicembre 2022)

  • SOUMAHORO:
    CHE TRISTEZZA, POTEVA
    ESSERE LA STRADA
    PER RIFONDARE LA SINISTRA

    data: 04/12/2022 17:53

    Ho pensato a lungo se scrivere o no qualcosa su questa triste vicenda perché, se è troppo grave per poterla ignorare, nello stesso tempo è così coinvolgente per me da credere di non poterne parlare lucidamente. Alla fine ho deciso di provarci senza però entrare troppo nel merito della questione, perché non ne so e non se ne sa ancora abbastanza. Quindi la affronterò da un punto di vista personale, perché mi ha toccato e mi ha addolorato profondamente.

    Soumahoro ha rappresentato per me, fin dalla prima volta che l’ho sentito parlare, l’incarnazione degli ideali, ormai da troppo tempo abbandonati, della sinistra che vorrei, quella che pone al centro i diritti umani e la giustizia sociale, la salute nostra e quella ambientale, che vanno di pari passo e vanno difese dall’avidità e dalla crescita senza limiti. Ed evidentemente non ero sola a pensarla così, tanto è vero che Verdi e Sinistra italiana lo hanno presentato nelle loro liste. Quando si è candidato sono stata felice, dispiaciuta solo di non poterlo votare a Roma, perché era in lista a Milano.

    Forse un po’ sopra le righe la faccenda degli stivali in Parlamento, ma in fondo era un peccato veniale. Poi è successo quello che è successo ed è stato un vero cazzotto nello stomaco, un dolore profondo, quasi fisico; ma non riuscivo a crederci, non mi sembrava possibile. Però poi subito c’è stato il video in cui piangendo accusava non si sa bene chi di volere la sua morte e si è formata un’incrinatura nell’immagine cristallina che mi ero fatta di lui: una scena così poco dignitosa da chi mette la dignità al centro di tutti i suoi discorsi non me la aspettavo. È stato davvero imbarazzante.
    E poi ormai sono emerse e continuano ad emergere così tante circostanze e testimonianze che, al di là di quello che risulterà dall’inchiesta in corso, non è proprio realistico pensare non dico che non fosse coinvolto, ma che non fosse a conoscenza quantomeno di una parte delle magagne (per i non romani diciamo irregolarità) che stanno venendo fuori.

    Purtroppo quella che poteva essere la strada per rifondare la sinistra si è interrotta prima di partire, ma c’è da sperare che chi lo aveva candidato non avesse sfruttato il suo personaggio solo per raccattare voti, ma che credesse veramente nelle sue idee e che quindi si impegnerà per portarle avanti. Lo spero davvero perché, al di là di come è andata, le idee sono quelle giuste e sarebbe un crimine dimenticarsele di nuovo.

     

     

  • AniMalìa. LO STRANO NIDO
    DEI PIGLIAMOSCHE

    data: 14/11/2022 18:52

    Nell’agosto di qualche anno fa uno strano via vai tra il nostro giardino e il balcone dei vicini ci incuriosisce: un pigliamosche (Muscicapa striata), uccellino insettivoro molto comune lì dove abbiamo la casa al mare, si posa sui rami della siepe o su un lampione e aspetta… poi veloce vola verso il balcone del piano di sopra, ma ha qualcosa nel becco, dei fili d’erba secca mi pare. Questa operazione si ripete più volte e quindi ormai non ci sono dubbi: ha fatto il nido nel balcone dei nostri vicini. Riusciamo a vedere che ha utilizzato un piccolo vaso addossato alla parete interna del terrazzo, che contiene una piantina finta. Il terrazzo è molto utilizzato, vi si svolge gran parte delle attività della famiglia dei vicini, perché la loro casa è molto piccola. Si apparecchia la tavola, si pranza, si stendono i costumi bagnati, si annaffiano le piante, si prende il caffè, si fanno i compiti e si chiacchiera… e la coppia di pigliamosche pazientemente aspetta i pochi momenti liberi per continuare il suo lavoro.

    E noi la seguiamo, finché capiamo che la costruzione è conclusa e che ormai le uova sono state deposte. Poi vediamo che cominciano a portare piccoli insetti o vermetti per i nidiacei e che il via vai si fa più frenetico per riuscire a soddisfarne l’appetito. Però poverini sono sempre più in ansia, perché il via libera non è così scontato: spesso devono aspettare parecchio sui diversi posatoi del nostro giardino. Ma quando la preoccupazione per i piccoli si fa troppo forte rischiano: volano verso il nido anche quando il terrazzo è occupato. Allora i vicini, consapevoli della situazione, si immobilizzano, come nel gioco di “uno due tre … stella!”, facendo finta di non esserci, per tranquillizzare gli uccellini.

    Malgrado tutto questo stress alla fine i piccoli prendono il volo, tra un costume bagnato ed un calzino, ed approdano nel nostro giardino, dove si svolgono i primi esercizi.
    Evidentemente questa scelta apparentemente assurda ha presentato dei vantaggi, per esempio lassù sono protetti dai predatori (i vari gatti del circondario), tant’è vero che l’anno successivo si è ripetuta.

     


     

  • Racconto. SCOIATTOLI, GATTI
    ED ALTRI ANIMALI.
    PROBLEMI DI CONVIVENZA

    data: 10/11/2022 17:54

    Il tombolo della Feniglia, sei chilometri di pineta e macchia mediterranea che si snodano nello spazio compreso fra le dune che costeggiano la splendida spiaggia omonima e la Laguna di levante di Orbetello, è un’area protetta che dà riparo e sussistenza ad un gran numero di animali, dai daini, che tra i mammiferi sono i più visibili, agli onnipresenti cinghiali, alle volpi, ai tassi e agli istrici, di cui al massimo potremo riconoscere le tracce. Solo questi ultimi ci potranno fornire una testimonianza tangibile della loro presenza: gli inconfondibili aculei bianchi e neri. Forse ci sono mammiferi ancora più rari, come la martora, la faina e il gatto selvatico, ma probabilmente non li vedremo mai. Ultimamente è addirittura stata documentata la presenza di una famiglia di lupi, che ormai sembra vi si sia stabilita. Provvederà a contenere gli ungulati -daini e cinghiali- che tendono ad aumentare troppo di numero. Poi ci sono tutti gli uccelli, sia quelli di bosco, prima fra tutti la ghiandaia, che quelli tipici dell’ambiente lagunare, di cui i più rappresentativi sono il cavaliere d’Italia e soprattutto il fenicottero.
    Ma quello che mi emoziona di più è un piccolo roditore che poche volte siamo riusciti a scorgere nel fitto della pineta: lo scoiattolo. Sicuramente ce ne sono molti, perché non riesco ad immaginare un habitat più adatto a loro, solo che vederli è difficilissimo. A volte può capitare di sentir cadere una pigna e allora si guarda in alto: con un buon occhio e un po’ di fortuna magari ne vedremo uno, ma solo se si sta muovendo, altrimenti è impossibile. Più facile forse sorprenderlo a terra, mentre si sposta veloce, a balzi, da un albero all’altro; ma in una pineta così fitta i piccoli folletti dei boschi potrebbero passare da una chioma all’altra senza mai scendere a terra, come Cosimo, il Barone rampante di Italo Calvino. Per fortuna qui non è ancora arrivato a portare scompiglio lo scoiattolo grigio americano, che sta facendo scomparire il nostro scoiattolo comune in tutta Europa, compresa l’Italia del nord, ed è giunto ormai, purtroppo, anche in uno dei parchi più integri d’Italia, quello delle Foreste Casentinesi, che non è poi così lontano.
    Due o tre volte negli ultimi anni si sono fatti vedere un paio di scoiattoli nel comprensorio dove abbiamo la nostra casa, alla Giannella. Una presenza interessante, che arricchisce la biodiversità ed anche la pigra vita dei gatti della zona, che hanno così l’opportunità di fare un po’ di moto cercando, spero invano, di catturarli. Ricordo un pomeriggio il bellissimo Birmano dei vicini, un po’ sovrappeso, che ha inseguito uno scoiattolo finché quello è salito su un alberello isolato, proprio davanti al nostro giardino. Il gatto non se l’è sentita di arrampicarsi, ma è rimasto a piantonare l’albero per un’ora buona, finché non l’ha raggiunto il richiamo della sua comoda vita borghese, fatta di coccole e croccantini, e così ha abbandonato il campo, liberando lo scoiattolo e di conseguenza anche noi, che siamo potuti tornare ormai tranquilli alle nostre occupazioni.
    Ma purtroppo non sempre i gatti sono così rinunciatari come il nostro pingue vicino, infatti sono felini che mantengono in misura più o meno accentuata l’istinto alla caccia anche se vengono nutriti regolarmente e quindi inseguono e uccidono insetti, piccoli rettili, mammiferi ed uccelli, anche quando sono sazi. Secondo uno studio pubblicato nel 2013 sull’autorevole rivista Nature Communications, negli Stati Uniti i gatti uccidono tra 1,3 e 4 miliardi di uccelli ogni anno. In Australia, secondo un recente rapporto commissionato dal parlamento, i gatti uccidono 1,6 miliardi di animali di specie autoctone del paese ogni anno e in media un singolo gatto randagio uccide 130 uccelli all’anno: considerando tutti i gatti randagi australiani, fa 320 milioni di uccelli. In Cina, secondo uno studio del 2021, si stima di un numero di uccelli uccisi compreso tra 2,7 e 5,5 miliardi all’anno.
    In Italia non sono state fatte stime di quanti animali selvatici siano uccisi dai gatti ogni anno, ma ce ne sono invece per altri paesi europei: in Germania si parla di 200 milioni di uccelli uccisi ogni anno da circa 14 milioni di gatti, nel Regno Unito di 27 milioni di uccelli per 9 milioni di gatti. In Polonia è stato fatto uno studio che riguarda i soli gatti di campagna, che tendenzialmente non sono nutriti dalle persone – secondo il quale ogni anno questi catturerebbero 135 milioni di uccelli.
    Proprio in Polonia, sulla base di questo studio pubblicato nel 2019 ed in considerazione del fatto che gli antenati dei gatti di oggi vivevano in Medio Oriente e non in Europa, i gatti sono stati recentemente inclusi nell’elenco delle specie aliene invasive dall’Istituto per la Conservazione della Natura dell’Accademia delle Scienze polacca. La decisione ha suscitato un acceso dibattito e il biologo Wojciech Solarz ha raccontato ad Associated Press che non si aspettava tutte le critiche che sono arrivate: delle 1.787 specie animali e vegetali finora incluse nell’elenco, nessun’altra aveva suscitato una tale reazione.
    In Australia, paese in cui la percezione dei gatti come specie aliena è più condivisa e comprensibile dato che prima di inizio Ottocento non ce n’erano, l’abbattimento di massa era stato effettivamente individuato come unica possibile soluzione per contenere i danni alla fauna autoctona già nel 2015. Tutt’ora i gatti randagi vengono catturati e uccisi in vario modo, anche se i risultati finora sono stati poco risolutivi. L’Australia tuttavia si può considerare un caso particolare perché le specie di uccelli e altri animali selvatici predate hanno a che fare con i gatti da relativamente poco tempo e forse per questo risultano particolarmente vulnerabili : la coevoluzione non ha avuto il tempo di agire. Lo stesso vale anche per la Nuova Zelanda, dove una specifica gatta vissuta a fine Ottocento è considerata la responsabile dell’estinzione dello scricciolo di Lyall (Traversia lyalli), un piccolo uccello che viveva sull’isola di Stephens: nel 1894 David Lyall, uno dei guardiani del faro dell’isola, prese con sé una gatta incinta e si pensa che nel giro di qualche anno lei e i suoi discendenti abbiano ucciso tutti gli scriccioli, che ironicamente furono riconosciuti come specie proprio da Lyall, da cui infatti presero il nome. Gli scriccioli di Lyall sono solo una delle circa 60 specie animali (delle quali una quarantina sono uccelli) che è molto verosimile si siano estinte proprio a causa dei gatti. Questa responsabilità dei felini domestici è la ragione per cui sono considerati tra le 100 peggiori specie invasive del mondo secondo una valutazione dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione.

    Le statistiche sul numero di uccelli che ogni anno vengono uccisi dai gatti variano da paese a paese perché dipendono dai diversi ambienti in cui gatti e uccelli convivono, dal numero di gatti randagi presenti e dalle abitudini di quelli che vivono nelle case: cioè se vengono tenuti chiusi in casa oppure se sono lasciati liberi di girare all’esterno da soli.
    Negli Stati Uniti, un altro paese in cui i gatti si sono diffusi relativamente di recente, i dibattiti tra appassionati di uccelli e amanti dei gatti è particolarmente vivace, anche perché va avanti da più tempo. Già nel 1949 in Illinois fu approvata una legge per proteggere gli uccelli, che prevedeva multe per chi lasciava i propri gatti liberi all’esterno. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso sempre più persone cominciarono a tenerli chiusi in casa per contrastare la riduzione delle popolazioni di certe specie selvatiche – oltre che per la paura di malattie infettive e di incidenti stradali. Oggi, secondo uno studio demografico del 2021, circa l’81 per cento dei gatti domestici statunitensi vive chiuso in casa.
    In Europa, secondo lo stesso studio, è invece più comune permettere ai gatti di uscire: in Danimarca solo il 17 per cento dei gatti non esce mai di casa, mentre nel Regno Unito solo il 26 per cento.
    Anche nei paesi europei dunque i gatti possono causare dei problemi. Lo scorso aprile il comune di Walldorf, una cittadina tedesca del Baden-Württemberg, ha istituito un lockdown per i gatti che è durato fino alla fine di agosto e che sarà replicato nei prossimi tre anni durante i mesi estivi: la misura è stata pensata per proteggere la cappellaccia (Galerida cristata), una specie della stessa famiglia delle allodole le cui popolazioni sono molto diminuite in Europa occidentale negli ultimi anni. Le cappellacce fanno i propri nidi in estate sul terreno e per questo sono particolarmente esposte alla predazione da parte dei felini. Per chi ha un gatto e non lo tiene chiuso in casa sono previste multe di 500 euro e nel caso in cui il gatto uccida una cappellaccia la multa sale fino a 50.000 euro.
    Misure del genere, o coprifuochi serali, sono state introdotte anche in altre località di altri paesi, ad esempio in Islanda. Ad aprile il comune di Akureyri, la seconda città più grande del paese con 19.000 abitanti umani e tra i duemila e i tremila gatti, ha vietato le uscite notturne dei felini, mentre la vicina Húsavík aveva indetto un lockdown totale anni fa, dopo che la locale popolazione di gatti randagi aveva preso di mira un importante sito di nidificazione di uccelli marini.
    C’è da dire che in Islanda, paese in cui i gatti sono presenti da qualche secolo, l’amore per i felini è probabilmente poco diffuso e lockdown e coprifuochi non hanno causato particolari proteste. Al contrario nell’isola le locali popolazioni di volatili sono note, amate e rispettate.
    Invece in Germania si è molto discusso a proposito della scelta del comune di Walldorf, che ha scatenato forti reazioni tra i fanatici dei gatti. Deutscher Tierschutzbund, la più grande organizzazione tedesca di difesa dei diritti degli animali, ha affermato che proibire di uscire a gatti abituati a farlo determina un forte stress negli animali. Ha inoltre sottolineato come non ci siano prove che a Walldorf i gatti abbiano danneggiato le cappellacce, mentre si sa per certo che gli esseri umani lo abbiano fatto: “Indicare i gatti domestici come colpevoli per i rischi corsi da alcune specie di uccelli è un modo per attribuire a loro la responsabilità delle persone, che hanno distrutto habitat e ridotto le risorse di cibo delle specie selvatiche per molto tempo”.
    Anche la Royal Society for the Protection of Birds, che è la più grande organizzazione per la protezione degli animali selvatici in Europa, ha una posizione simile: sottolinea che le riduzioni delle popolazioni di uccelli sono causate principalmente dalle attività agricole, dall’inquinamento e dal cambiamento climatico. Ci sono peraltro, afferma, prove del fatto che i gatti spesso uccidono uccelli deboli o malati e per questo non dovrebbero avere un grosso impatto sulle popolazioni ma anzi, contribuendo alla selezione naturale, le rafforzerebbero. La veterinaria polacca Dorota Suminska aveva fatto le stesse considerazioni criticando la decisione dell’Accademia delle Scienze polacca di inserire i gatti tra le specie invasive: “Chiedete se anche le persone sono state messe nella lista delle specie aliene invasive”. Ma a queste affermazioni si può semplicemente obiettare che ovviamente una cosa non esclude l’altra: nessuno indica i gatti come responsabili al 100% dei danni alle popolazioni di uccelli selvatici!
    In Italia non sono state introdotti lockdown o coprifuochi, anche se è successo anche da noi che i gatti abbiano creato problemi agli uccelli. La scorsa estate su una spiaggia di Lignano Sabbiadoro, in Friuli Venezia Giulia, una gatta appartenente ad una colonia felina ha ucciso alcuni fratini – una specie la cui popolazione italiana si è molto ridotta – impegnati ad accudire i propri nidi. Il post su Facebook con cui la Riserva naturale Foce del Tagliamento, che si occupa della spiaggia, ha parlato del problema a inizio luglio ha suscitato commenti molto accesi e per questo l’ente è poi tornato sull’argomento dicendo di non voler “scatenare una discussione pro o contro gatti” e chiarendo che alla gatta responsabile del misfatto “non verrà torto un baffo”. E poi, rispetto all’impatto dei Jova Beach Party…
    È indubbio quindi che i gatti possano danneggiare le popolazioni selvatiche di uccelli ed altri animali ed in particolare che i gruppi di gatti randagi, specialmente se non sono tenuti sotto controllo e nutriti come avviene nelle colonie registrate nei comuni italiani, siano molto più pericolosi dei gatti domestici lasciati liberi di uscire di casa. Esistono però dei modi per ridurre i danni che anche i gatti di casa possono fare, ad esempio si può intervenire sulla loro dieta: sembra che quando si nutrono quasi solo di carne abbiano minori istinti predatori. Anche la sterilizzazione riduce gli istinti predatori, ma incide anche sul pericolo di essere investiti, perché i gatti in calore spesso hanno comportamenti più a rischio. Poi si può scegliere a che ora farli uscire, evitando gli orari mattutini e notturni da metà marzo a metà luglio, cioè nel periodo in cui gli uccelli allevano i propri piccoli e sono più vulnerabili. I collari con le campanelle rendono i gatti più rumorosi e quindi allertano gli uccelli, ma a quanto pare possono essere molto fastidiosi per i felini, per questo si possono usare piuttosto collari o pettorine molto colorati e visibili. Infine, giocare spesso con i propri gatti è un modo per soddisfare i loro istinti predatori.
    Per quanto riguarda i gatti randagi, è importante tenerne sotto controllo le popolazioni attraverso le colonie registrate, sterilizzarli e nutrirli adeguatamente. E magari favorirne l’adozione da parte delle famiglie.
    Ma forse a questo punto viene da chiedersi perché questo accanimento nei confronti dei gatti… Non si tratta in fondo di predazione, cioè di una naturale dinamica fra specie, come siamo abituati a vederne in continuazione nei documentari naturalistici, senza che ciò ci disturbi più di tanto? Sì, ma il fatto è che i gatti non possono essere assimilati a predatori naturali, perché si tratta di una specie selezionata e diffusa in ogni parte del mondo dall’uomo, che l’ha protetta e fatta aumentare di numero in modo innaturale, sottraendola alla pressione ed al controllo esercitati dall’ambiente e dai predatori e concedendole in tal modo un notevole ed innaturale vantaggio sulle altre specie. Ancora una volta il problema l’ha creato l’uomo e a questo punto sta a lui trovare il rimedio.

     

     

     

     

     

  • GENDARMENAMARKT PLATZ
    DIVENTA RESILIENTE
    AI CAMBIAMENTI CLIMATICI

    data: 30/10/2022 21:12

    Un mio amico è tornato una decina di giorni fa da un breve soggiorno a Berlino. Era tanto che voleva visitare quella città e non ne è rimasto deluso, cosa che a volte accade quando si è desiderato tanto qualcosa. Tra tutto quello che mi ha raccontato una notizia in particolare mi ha colpito e così ho deciso di approfondire per scriverne qui, perché penso rappresenti un esempio puntuale e calzante dell’approccio che sarebbe giusto adottare se davvero volessimo affrontare in modo efficace i cambiamenti climatici.
    C’è una piazza di Berlino molto conosciuta ed apprezzata, perché si tratta forse dell’unica che possa definirsi storica in una città che di realmente storico ha ben poco, essendo stata in gran parte distrutta durante la guerra e poi ricostruita. Si tratta della Gendarmenmarkt Platz, una piazza di 303 ettari (più del doppio di Piazza Navona, per capirsi) che si trova in una zona centrale della città. Questa elegante piazza rettangolare, la cui simmetria perfetta assume anche un carattere simbolico, venne ideata nel 1688 da Federico I di Prussia come mercato per il nuovo quartiere chiamato Friederichstadt –Città Federiciana- e divenne ben presto una zona molto popolare che accolse gli Ugonotti francesi: immigrati protestanti perseguitati in patria che, grazie all’editto di Potsdam, poterono stabilirsi in Prussia dove la libertà religiosa veniva loro assicurata.
    A testimonianza di ciò rimangono le due splendide chiese gemelle che si fronteggiano sui due lati corti della piazza: a nord quella dei calvinisti francesi (Französischer Dom, 1705), a sud quella dei luterani tedeschi (Deutscher Dom, 1708). Tra le due, su uno dei lati lunghi, sorge la Konzerthaus, considerata una delle sale da concerto con la migliore acustica al mondo. Fu realizzata da Karl Friedrich Schinkel tra il 1818 e il 1821 sulle rovine del Teatro Nazionale, edificato da Karl Gotthard Langhans e andato distrutto nel 1817. Schinkel ne progettò sia gli esterni che gli interni decorandola con diverse statue dedicate alla musica e al teatro. Gravemente danneggiata durante la Seconda Guerra Mondiale, la sua ricostruzione iniziò solo nel 1979 e la nuova sala fu inaugurata nel 1984. Nella piazza, di fronte alle scalinate d'ingresso vi è la statua di Friedrich Schiller, opera di Reinhold Begas. Gendarmenmarkt Platz è uno spazio molto vissuto dai berlinesi e piace molto anche ai visitatori, anche perché vi si svolgono manifestazioni di vario genere e un famoso mercatino natalizio.
    Ma veniamo alla notizia: da novembre questa piazza verrà chiusa perché sarà interessata da un consistente intervento di ristrutturazione che si prevede durerà un paio d’anni. L’intervento rientra nella strategia di adattamento ai cambiamenti climatici che la città di Berlino intende perseguire nel prossimo futuro.
    E a questo punto già ci si può fermare un momento per una riflessione. Punto primo: questa notizia ci fa capire che finalmente –almeno a Berlino- si è accettata l’idea che il Climate change esiste e che quindi è inutile e dannoso continuare a parlarne come se fosse un’ipotesi. Punto secondo: si è anche capito -perché siccità e alluvioni parlano chiaro- che è impellente porvi rimedio, anche se forse è ormai tardi per tornare indietro. Punto terzo: che mentre ci si prova è comunque il caso di escogitare e mettere in atto sistemi per adattarvisi, cioè per rendere le città più resilienti ai cambiamenti e agli eventi estremi che ne sono l’espressione più evidente e devastante.
    E adesso cerchiamo di capire in cosa consisterà questo intervento di ristrutturazione e come farà a rendere la città di Berlino più resiliente rispetto agli effetti dei cambiamenti climatici. Prima di tutto però mi sono chiesta perché sia stata scelta proprio questa piazza così importante dal punto di vista artistico, un po’ come se da noi si scegliessero piazza del Popolo a Roma, piazza del Duomo a Milano o piazza Santa Croce a Firenze. Io non conosco Berlino, ma penso, e il mio amico me lo ha confermato, che sia piuttosto piatta, senza dislivelli importanti. Probabilmente la piazza in questione, molto centrale, si trova in un punto leggermente depresso della città, che rappresenta un impluvio naturale dove confluiscono le acque piovane. Evidentemente, con le bombe d’acqua che ormai hanno sostituito le normali piogge, finisce spesso allagata. La gestione dell’acqua piovana, infatti, è proprio il fulcro degli interventi strutturali che interesseranno la piazza.
    Il progetto, ha spiegato Bettina Jarasch dei Verdi, la Senatrice di Berlino per l’ambiente, ha lo scopo principale di rendere il centro della città più adatto ad affrontare il cambiamento climatico dei prossimi anni. “Questo è un buon modello per ulteriori misure di riprogettazione della città in funzione della resilienza al clima. In futuro, in generale, progetteremo le piazze in modo che la gestione dell’acqua piovana avvenga in loco” ha detto la Jarash.
    Il progetto di ristrutturazione di Gendarmenmarkt Platz è stato concordato con i residenti e prevede una serie di modifiche che saranno strutturali e sotterranee più che estetiche. Come sempre avviene a Berlino, i lavori inizieranno con una fase preventiva di verifica della zona interessata, per permettere l’individuazione di eventuali ordigni esplosivi o munizioni nascosti nel terreno. Successivamente, inizieranno i lavori veri e propri, a partire dalla rimozione di circa 6000 tonnellate di pavimentazione in pietra naturale.
    L’intervento di ristrutturazione permetterà all’acqua piovana di confluire nel sottosuolo, dove sarà raccolta in un bacino di stoccaggio e purificata in strutture sotterranee dotate di filtri. Poi verrà spostata nei cosiddetti fossi di infiltrazione, serbatoi sotterranei di accumulo dai quali potrà essere poi restituita alle falde acquifere. In caso di piogge forti e prolungate, i fossi di infiltrazione fungono da importanti strutture di stoccaggio, trattenendo l’acqua in eccesso e alleggerendo così il sistema fognario, in modo da ridurre il rischio di inondazioni locali.
    Il sistema di trattamento dell’acqua piovana non sarà l’unica struttura sotterranea installata sotto la piazza. È prevista infatti anche la costruzione di una rete di cinque chilometri fra cavi elettrici, tubature per l’acqua e fognature, che andrà a sostituire le linee attualmente posate in superficie. Una volta terminati i lavori Gendarmenmarkt Platz potrà disporre di oltre 50 allacci a scomparsa per l’acqua potabile e le acque reflue e circa 30 allacci elettrici sotterranei. Questa infrastruttura renderà più semplice, sicura ed economica la gestione dei numerosissimi eventi che ogni anno si svolgono in questa piazza, riducendo notevolmente i tempi di allestimento e di smontaggio.
    In superficie, inoltre, uno dei cambiamenti più importanti sarà l’eliminazione completa delle barriere architettoniche, per garantire l’accessibilità dell’intera piazza.
    Una volta terminati i lavori, la piazza tornerà al suo aspetto attuale: è infatti prevista la posa di una nuova pavimentazione in pietra naturale, assemblata seguendo il disegno della pavimentazione esistente, per preservare l’aspetto della piazza e il suo valore storico. Gendarmenmarkt Platz è un luogo di enorme valore turistico e culturale per Berlino, nonché teatro di moltissimi eventi di rilievo. Per questo motivo, il Dipartimento del Senato per gli Affari Economici e l’Energia coprirà il 90% dei costi totali dei lavori di ristrutturazione, investendo in questo progetto 21,4 milioni di Euro.
    Mi chiedo se in Italia tutto questo sarebbe pensabile. Se lì scavando c’è la possibilità di trovare un ordigno inesploso, qui c’è la quasi certezza di trovare un reperto archeologico, e quindi tutto si ferma e non se ne fa nulla. Ma quel reperto archeologico chi mai lo vedrà? Sarà ricoperto e buona notte: il reperto c’è, ma è come se non ci fosse, e intanto interventi strategici, i cui effetti sarebbero ben visibili a tutti, molto probabilmente in città così ricche di storia come sono le nostre non si faranno mai.
    E poi comunque, ripensandoci, la prima impressione su Berlino che mi ha riferito il mio amico è che si percepiscono un benessere e una ricchezza che noi neanche ce li sogniamo, sicché…
     

  • QUANDO UNA FICTION SVELA
    AL GRANDE PUBBLICO
    ASPETTI TACIUTI DELLO SVILUPPO ECONOMICO

    data: 23/10/2022 20:33

    Nell’ultimo episodio della seconda stagione della fiction “Imma Tataranni sostituto procuratore”, ambientato e girato a Matera e in altre località della Basilicata, ci sono stati dei protagonisti insoliti per una fiction, ma niente affatto marginali nel racconto tratto dai romanzi di Mariolina Venezia: le pale eoliche. Ho visto la puntata e alla fine ho pensato: “Molto coraggiosa, ma mi sa che scoppierà un casino”, cosa che è poi puntualmente accaduta.

    Infatti la storia racconta di un uomo che ha avuto la sua vita stravolta dalle pale eoliche installate vicino alla sua abitazione e sui suoi terreni: racconta del rumore fastidioso ed estenuante e di tutti i cadaveri degli uccelli che trova nei suoi campi, specialmente nel periodo delle migrazioni, in primavera e in autunno.
    Andando a visitare Matera, qualche anno fa, ho notato lungo il percorso, nelle splendide campagne lucane, lo spropositato numero di queste pale, che sottolineavano i crinali collinari. Da biologa e appassionata di uccelli avevo considerato il probabile impatto negativo sull’avifauna e però, trattandosi di energia pulita, schierarsi tout court contro questi impianti non si può: bisogna capire meglio la questione. Anche se un così smisurato numero di impianti, cresciuti in così breve tempo, porta a pensare ad un gran giro di affari e a movimenti di denaro in cui forse di pulito c’è solo l’energia.

    Ma torniamo alla bufera originata dalla fiction. Come riportato da Rosita Cipolla nel suo blog sul sito Green me, la narrazione negativa sulle pale eoliche mostrata nella puntata non è piaciuta all’ANEV, l’associazione nazionale energia del vento, che in una lettera indirizzata alla Rai si è così espressa:
    “Nel corso della puntata si dà una descrizione errata e tendenziosa di un settore, come quello eolico, che è nella realtà foriero di benefici di natura ambientale ed economica, sempre più evidenti oggi, con la crisi energetica e climatica in atto. Nello specifico, viene descritto un parco eolico molto vicino alle abitazioni, e questo non è veritiero, in quanto non è consentito dalla normativa attuale che non autorizza la realizzazione di impianti eolici in prossimità dei centri abitati, prevedendo una fascia di rispetto pari a sei volte l’altezza della torre di un aerogeneratore, considerando quindi l’attuale tecnologia una distanza pari a circa 500 m.
    È pertanto menzognero parlare di rumore molesto della turbina, che peraltro corrisponde solo all’attrito dell’aria con le pale eoliche e con la torre di sostegno e che le moderne tecnologie hanno ridotto al massimo. Viene descritto l’impianto eolico come impattate sull’ecosistema e pericoloso per l’avifauna. Anche questa è una notizia falsa, perché vige l’obbligo per chi costruisce gli impianti eolici di effettuare degli studi sul territorio e di escludere le zone che interessano le rotte migratorie dei volatili.”

    L’ANEV ha chiesto quindi un chiarimento trovando che “un tema così importante dovesse essere trattato in modo maggiormente attento, al fine di poter contribuire ad una corretta informazione sul tema delle energie rinnovabili che, alla luce dell’attuale crisi energetica mondiale, dovrebbe essere affrontato non diciamo con favore ma certamente non in modo ostile e contrario.”
    A supporto delle affermazioni dell’ANEV si sono espressi sia l’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, secondo cui “l’eventuale impatto degli uccelli che potrebbe verificarsi con una turbina eolica è inferiore a quello che avviene con automobili, pali della luce e del telefono”, sia il WWF, per il quale “i benefici che il settore eolico porta a fauna e avifauna, in termini di lotta al cambiamento climatico, sono superiori, considerando che, sulla base di più di 200 lavori scientifici, si evidenzia che a causa delle emissioni di gas serra alcune specie sono in declino fino al 90% e con insuccesso riproduttivo totale e senza precedenti”.
    Invece il Coordinamento Basilicata e Puglia della LIPU (Lega Italiana Protezione Uccelli) ha apprezzato il tema proposto dalla fiction, esprimendosi così:
    “Modalità aggressive e senza concertazione sociale degli insediamenti eolici, rumore assordante per quanti lavorano o addirittura sono costretti a viverci in prossimità, bellezza del territorio rurale trasformato in una “via crucis”, uccelli colpiti dai rotori eolici – Un passaggio di verità più unico che raro sullo schermo TV, considerando 20 anni di omertà dei grandi media e del servizio pubblico RAI sullo scempio del Sud, con un qualunquismo imperante nei talk nazionali, estromettendo dalla parola chi è costretto ad ospitare questi impianti.
    Un contesto falsificato in nome della “energia pulita” usata (a torto) come ricatto per imporre centinaia e centinaia di questi impianti industriali, con annessi sbancamenti, elettrodotti, stazioni elettriche”.

    La Rai si è difesa in modo a mio parere impacciato e maldestro, sostenendo che in fondo, muovendosi nell’ambito delle opere di fantasia, “la narrazione degli eventi prescinde dal requisito della verità” e che “dialoghi e contesti sono, infatti, frutto della libertà artistica degli autori” e che “in un siffatto contesto, per lo più immaginario, lo spettatore è consapevole di assistere ad una artificiosa ricostruzione” e, ancora, lo spettatore “non sarà certamente portato a ritenere che sia stato scrupolosamente rispettato un criterio di verità”.
    A questo punto non resta che stare vedere se ci saranno degli sviluppi, ma in ogni caso, al di là del torto o della ragione di questo o di quello, la fiction ha avuto il merito, spero, di sollevare l’argomento, affrontando la questione delle pale eoliche anche da un punto di vista che il grande pubblico non è abituato a considerare: quello degli esseri viventi non umani.
    Intanto, a questo proposito, in altre parti del mondo si spremono menti e si investono soldi proprio per cercare di far andare d’accordo la produzione di energia pulita e la salvaguardia dell’avifauna, come racconta sempre Rosita Cipolla nel blog sul sito Green me. Per evitare incidenti con rapaci ed altri uccelli un'azienda del Colorado ha realizzato delle pale eoliche intelligenti, che usano telecamere per avvistare gli uccelli e che si spengono quando questi si avvicinano troppo. Grazie ad un sistema denominato IdentiFlight queste telecamere combinano l’intelligenza artificiale con la tecnologia ottica ad alta precisione, riuscendo ad elaborare le immagini per determinare nel giro di pochi secondi la posizione, la velocità, la traiettoria e la specie del volatile nel raggio di un chilometro. Quando un uccello si avvicina troppo viene automaticamente inviato un segnale per spegnere la turbina, in modo da evitare le collisioni. Così gli uccelli vengono tutelati e la perdita di produzione di energia è ridotta al minimo.
    Inoltre, identificando le singole specie, il software fornisce dati importantissimi ai ricercatori che ne studiano la distribuzione e le rotte migratorie.

    Gli effetti positivi di questo tipo di turbine eoliche sull’avifauna sono stati confermati anche da uno studio pubblicato qualche mese fa sulla rivista Journal of Applied Ecology e condotto da un team di scienziati e attivisti per l’ambiente statunitensi.
    “I risultati suggeriscono che questa tecnologia ha il potenziale per ridurre il conflitto tra l’energia eolica e la conservazione dei rapaci” spiegano gli esperti. Dall’analisi è emerso che grazie all’impiego di pale eoliche che usano il sistema IdentiFlight il tasso di mortalità degli uccelli viene ridotto dell’82%.

    Al momento le turbine eoliche che sfruttano il sistema IdentiFlight sono state installate soltanto in California, Oregon, Washington, Wyoming, Oklahoma, Tasmania e Germania… Chissà se nel magna magna che temo sarà generato dall’arrivo dei miliardi per il PNRR qualcuno qui da noi penserà agli uccelli e prenderà in considerazione questa possibilità?

    Un altro importante tema ambientale proposto al grande pubblico (forse un po’ meno grande, vista la crisi del cinema) in un’opera “di fantasia”, è la siccità raccontata da Paolo Virzì nel suo ultimo film, ma di questo ha già scritto in modo magistrale Michele Serra nell’Amaca di sabato 22 ottobre.

     

     

     

  • AniMalìa. MIO NIPOTE
    E IL PICCOLO ASSIOLO

    data: 10/10/2022 19:58

    Nell’estate del 2019 a fine luglio sono stata per qualche giorno al mare, alla Giannella, insieme a mia sorella. Le ultime due sere abbiamo visto, o meglio intravisto, degli uccelli notturni che non siamo riuscite ad identificare, perché non emettevano alcun verso, non riuscivamo a vederne gli occhi ed avevano un comportamento che ci sembrava strano: uno arrivava in volo sul pino del giardino accanto al nostro e quasi subito ne ripartiva, ma ce n’erano altri tre o quattro che si muovevano spostandosi a saltelli o camminando fra i rami. Avevano le dimensioni di una civetta, ma era troppo buio per vederli bene e siamo rimaste col dubbio… addirittura a momenti potevano sembrare grossi pipistrelli!
    Però poi qualche giorno dopo ero ormai a Roma quando mi ha telefonato mio nipote, che era lì al mare. Mi chiedeva consiglio perché aveva trovato sulla siepe del giardino un piccolo di gufo (secondo lui di gufo reale, cosa alquanto improbabile in quell’ambiente) e non sapeva che fare. Mi ha mandato la foto ed era chiaramente un piccolo assiolo. Gli ho detto di rivolgersi all’ Oasi WWF di Orbetello e così poi ha fatto, ma intanto quella sera lo ha tenuto in una scatola, con un asciugamano per farlo stare al caldo, e lo ha nutrito con carne macinata cruda, dissetandolo grazie ad uno straccio imbevuto d’acqua: è stato bravissimo! Insieme ad un amico lo ha fotografato in tutte le pose ed ha registrato un video che poi mi ha inviato. L’assiolino lo seguiva con lo sguardo qualunque cosa facesse, ruotando quasi completamente la testa, come fanno tutti gli stringiformi: sembravano innamorati l’uno dell’altro. E’ stato senz’altro molto a malincuore che il giorno dopo lo ha portato al WWF. Lì lo hanno ringraziato e gli hanno spiegato che aveva fatto bene a raccoglierlo e ad accudirlo, perché altrimenti sarebbe morto. Purtroppo infatti è normale, gli hanno detto, che in caso di scarsità di acqua e di cibo i genitori buttino giù dal nido uno dei piccoli, perché se insistessero nel tentare di nutrirli tutti rischierebbero di mandare a monte l’intera nidiata. Come ci può apparire crudele la natura, pure se in realtà non lo è affatto! Gli hanno promesso di occuparsene, anche se non hanno potuto assicurare che sarebbe riuscito a volare, non essendo stato addestrato dai genitori nel periodo adatto. Lo avrebbero comunque portato nella voliera di un’Oasi WWF vicino al Monte Amiata, nella quale erano presenti altri assioli, nella speranza che qualche adulto lo adottasse e gli insegnasse a volare e a cacciare.
    Insomma quegli uccelli misteriosi che avevo visto con mia sorella erano i fratelli del piccolo trovatello e si muovevano fra i rami saltellando perché ormai troppo grandi per stare nel nido ma non ancora in grado di volare, mentre quello che arrivava in volo e ripartiva era uno dei genitori che portava una preda per nutrirli. Non era poi questo gran mistero, in effetti! Allora però non avevo proprio pensato che potessero essere assioli, forse perché in tanti anni a malapena ne avevamo visto uno… chi poteva immaginare di poterne vedere tanti tutti insieme!
    La natura non smette mai di sorprenderci e di insegnarci nuove cose. In generale infatti quando si trova un uccellino a terra non bisogna toccarlo perché i genitori continuano a nutrirlo anche fuori del nido, ma questa avventura vissuta da mio nipote ci fa capire che non per tutte le specie è così e che quindi è sempre bene rivolgersi a chi ne sa più di noi.
    Anche nel caso si trovi a terra un piccolo di rondone – cosa che ultimamente succede di frequente, perché per il troppo caldo si sporgono dal nido e cadono- è bene raccoglierlo e portarlo in un centro di recupero della fauna selvatica o in un’oasi gestita da un’associazione naturalistica, ma in questo caso il motivo è diverso: i rondoni hanno zampe inadatte a posarsi a terra e quindi non sarebbero in grado di nutrire il piccolo caduto, né poi di rialzarsi in volo. Se invece si trova un adulto, che si riconosce dalle estremità delle ali che si incrociano oltre la coda, a meno che non sia ferito, nel qual caso si agisce come per i piccoli, si può prendere con attenzione e lanciarlo in aria da un punto elevato, come un piano alto di un edificio. Così sarà in grado di riprendere facilmente il volo.

     

  • AniMalìa. L'ASSIOLO

    data: 03/10/2022 16:45

    Oltre che dai pipistrelli e dai gechi le notti estive nella nostra casa al mare sono allietate da un’altra presenza, non visiva ma acustica, che ne costituisce la vera colonna sonora, a dispetto delle chiacchiere dei vicini e degli schiamazzi dei ragazzini. E’ un suono inconfondibile, con una sua cadenza precisa e sempre uguale: il Chiù…Chiù…Chiù… dell’assiolo. Si tratta di un piccolissimo gufetto, un rapace notturno migratore, che arriva da noi in primavera per ripartire alla fine dell’estate, quando se ne torna in Africa. Si nutre per lo più di grossi insetti e quindi anche lui fa le spese delle disinfestazioni dissennate. Sono relativamente pochi anni che lo sentiamo lì al mare, poco più di una ventina, ed ogni estate lo aspettiamo con ansia, come succede per tutti i migratori, che così piccoli devono attraversare il mare e deserti sempre più vasti. A volte sono due, che si parlano da un albero all’altro con il loro Chiù. L’assiolo è una presenza solo sonora, perché è talmente piccolo e mimetico (si confonde con la corteccia degli alberi sui quali si posa), che è praticamente impossibile vederlo. Una sera però mio marito puntando una torcia ha cominciato a seguirne il verso, che sentivamo spostarsi fra gli alberi. Finalmente in uno di questi passaggi l’assiolo è uscito allo scoperto e siamo riusciti a vederlo per qualche secondo. Ma l’averlo visto non ha aggiunto nulla al fascino di quelle notti estive: la magia dell’assiolo è tutta in quel Chiù.  

  • UNA PICCOLA STORIA
    DI SOLIDARIETA' UMANA
    E DI FIDUCIA

    data: 28/08/2022 11:27

    A volte accadono cose che, quando ne vieni a conoscenza, riescono ad illuminare anche la giornata più buia. Questa è avvenuta a Scauri, vicino a Minturno, in provincia di Latina.
    C’è una famiglia napoletana in vacanza: mamma Teresa e i suoi ragazzini. Come su tutte le spiagge passano avanti e indietro, carichi di roba da vendere, gli ambulanti provenienti da diversi paesi, per lo più africani. Passa tra gli altri una giovane donna che vende abiti e fa le treccine. Ha con sé, appesa sulle spalle, una bambina che avrà circa diciotto mesi: un piccolo cioccolatino fondente che si sta sciogliendo sotto il sole. E non un sole qualsiasi, ma il sole implacabile di quella che sta già passando alla storia come l’estate più rovente; anche se Mario Tozzi, inascoltato come sempre, dice che sarà invece l’ultima estate fresca che in futuro ricorderemo, se continueremo a far finta che siano sempre eventi eccezionali, da trattare come emergenze, quando si tratterebbe invece di ripensare, ma molto in fretta, tutto il nostro sistema economico e il nostro stile di vita.
    Teresa parla con la donna -quasi una ragazza- e le chiede da dove viene – dal Senegal - come si chiama la bambina – Sonia – e poi, quando sono entrate in confidenza, le propone di lasciare un po’ da loro la piccola, mentre lei continua il suo lavoro: all’ombra dell’ombrellone invece che sballottata sotto il sole tutto il giorno. La giovane senegalese lì per lì è imbarazzata, ma poi si fida e accetta. La prima volta la lascia solo un’oretta ma poi, accorgendosi che la figlia sta bene ed è contenta, la lascia sempre un po’ di più. E anche lei sta bene, perché lavora più leggera e non ha più il senso di colpa che aveva prima, a far soffrire la piccola per il caldo. La sua bimba in realtà faceva un po’ da calamita per i potenziali clienti, soprattutto le bambine, che chiedevano le treccine e intanto giocavano con Sonia, ma la giovane madre sceglie di rinunciare a quel possibile guadagno in più pur di far stare meglio la figlia.
    Così Sonia viene accudita e fatta riposare, poi fa il bagnetto, viene asciugata, fa merenda e gioca come una sorellina piccola con i ragazzini napoletani, ma anche con i bambini degli ombrelloni vicini, perché ormai la bimba color cioccolato è stata “adottata” da tutti i frequentatori della spiaggia.
    Poi una mattina Teresa chiede alla mamma se più tardi può portare Sonia a casa a fare la doccia e un riposino al fresco, come vorrebbero fare loro, perché è un giorno veramente caldissimo. La giovane ormai si fida, così accetta di riprendersela a fine giornata, a lavoro terminato. E così va avanti, finché non finisce la vacanza della famiglia napoletana, che già si prenota per la prossima estate.
    A tutti noi è capitato sicuramente di vedere questi piccoletti addormentati sulla schiena delle loro mamme e ci siamo inteneriti ed impietositi, però ci siamo limitati a quello. Mamma Teresa e la sua famiglia hanno fatto qualcosa di più, un vero salto di qualità nella direzione della solidarietà verso persone come noi ma con storie e condizioni di vita molto diverse dalle nostre. Chissà se quando saremo costretti noi a migrare per ragioni climatiche avremo la fortuna di incontrare un’altra Teresa.

     

  • AniMalìa. LE SERE DEI GECHI
    E DEI PIPISTRELLI

    data: 20/08/2022 16:06

    Altri ricordi della casa al mare riguardano tutti mio padre, che quando mamma aveva voluto (e potuto grazie all’eredità di sua madre) comprarla, era stato assolutamente contrario, perché da ambientalista aborriva le seconde case (“tutto cemento in più!”), ma poi è stato quello che se l’è goduta di più. Si godeva il mare, che lui sfruttava fino in fondo facendo lunghissime nuotate e raccogliendo telline, ma anche la casa, soprattutto il giardino. Si sedeva a guardare il tramonto, poi rimaneva lì mentre sopraggiungeva il crepuscolo e aguzzava la vista (che non era un granché) per ritrovare come ogni sera i pipistrelli, che a quell’ora cominciavano a volare a caccia di insetti. Era un rito al quale rinunciava difficilmente, giusto se dovevamo andare a cena da qualche parte. Più tardi, dopo aver cenato, si svolgeva un altro rito, nel quale ci coinvolgeva facendo una sorta di telecronaca: l’avvistamento dei gechi sulle pareti della casa. Ce n’erano diversi, che lui ormai conosceva personalmente, uno ad uno. Si avvicinavano alle lampade e si appostavano in attesa, poi avanzavano ancora un po’ e si immobilizzavano di nuovo, e così via finché non erano abbastanza vicini da avere a tiro qualche bella falena o anche solo una zanzara e farne un bel boccone. Questa procedura subiva delle variazioni dovute alle interazioni fra i diversi soggetti, perché secondo mio padre c’era una vera e propria gerarchia e quando non veniva rispettata si verificavano inseguimenti e battaglie. Papà seguiva tutti questi eventi con passione e si divertiva molto.
    Oggi sono molto diminuiti sia i gechi che i pipistrelli, perché nel residence l’ossessione per le zanzare ha fatto sì che da anni si faccia un uso massiccio delle disinfestazioni, con il risultato che spendiamo un bel po’ di soldi e ci avveleniamo tutti, ma le zanzare ci sono ancora e sono sempre più resistenti, mentre tutti gli animali che se ne nutrono, tra cui appunto gechi e pipistrelli, stanno scomparendo. E purtroppo ciò non avviene solo al Residence Giannella, ma in tutti i condomini, sia al mare che in città.
    Quest’estate poi gli squilibri ecologici determinati dal riscaldamento climatico e dalla conseguente siccità hanno provocato un’abnorme proliferazione di moscerini, che stanno causando notevole disagio. 

  • AniMalìa. LA TANA
    NELLA CANOA

    data: 09/06/2022 15:06

    Questa volta lo scenario cambia: siamo nella nostra casa al mare, in un residence di casette con giardino in mezzo a una pineta, a due passi dalla spiaggia. Molti anni fa, tre generazioni in vacanza: i miei genitori, noi e le nostre bambine, piacevolmente ammucchiati in due stanze. Di notte si sentono dei rumori leggeri provenienti da fuori della finestra: piccoli passi, fruscii… Pensiamo ai topi, perché è già successo di trovare dei topolini qui in casa, ma i topi in genere sono molto più discreti... e poi in effetti sembra qualcosa di più grosso. Socchiudiamo gli sportelloni di legno per guardare fuori. Non vediamo niente ma aspettiamo, e dopo un po’ capiamo da dove provengono quei rumori: dalla canoa che teniamo capovolta in giardino.

    La mattina dopo ci facciamo coraggio e la giriamo: sorpresa… è una famiglia di ricci che ha scelto come tana la nostra canoa! Una mamma con tre piccolini, tre pallette poco più grandi dei ricci di castagna, deliziosi. Rimettiamo tutto a posto, ma da allora la sera non chiudiamo più gli sportelloni e ci mettiamo di vedetta. Ben presto i riccetti cominciano ad uscire e a gironzolare per il piccolo giardino, in gran parte pavimentato, mentre la mamma si allontana in cerca di cibo. Perdiamo un po’ di sonno ma ne vale la pena, perché sono carinissimi: giocano e si rincorrono come gattini. Gli mettiamo del cibo per aiutarli a crescere: pezzetti e bucce di frutta e un piattino con del latte. In seguito ho sentito dire e letto molte volte che non si deve assolutamente dare latte ai ricci, perché per loro è veleno! Beh, mi dispiace ma non lo sapevamo e a quanto pare neanche loro, perché lo gradiscono molto e crescono sani e forti. Col piattino poi si divertono tantissimo, usandolo a mo’ di palla: chi se ne impadronisce lo spinge col muso per tutto il giardino, cercando di seminare i fratelli. Uno in particolare, che non a caso abbiamo soprannominato Pelè, è un vero asso del dribbling e quel piattino non lo molla!

    Dopo qualche sera ci accorgiamo che la mamma sta cercando di “smammare”, cioè non torna ad allattare i piccoli e si nasconde nei posti più assurdi per non farsi raggiungere: la abbiamo trovata nel vano del rubinetto generale dell’acqua, a 20 centimetri buoni da terra e chiuso da uno sportello, non a chiave, ma comunque come ha fatto non si sa! Poi di colpo sparisce e i piccoli restano soli. Decidiamo di spostarli nel giardino grande, dall’altra parte della casa, oltre il quale c’è meno passaggio di macchine e c’è molto spazio verde, sotto la pineta. Qui, in un angolo del giardino, sotto la siepe, mio marito ha nel frattempo costruito per loro una bellissima tana di ciocchi di legna e rametti, che però è rimasta disabitata perché i riccetti, una volta trasferiti, ci hanno subito abbandonati per andare alla conquista del vasto mondo oltre il giardino.

     

  • AniMalìa. UN PETTIROSSO
    MOLTO TERRITORIALE

    data: 01/06/2022 18:48

    Sono gli anni dell’Università, Facoltà di Scienze Biologiche. Avevo iniziato a lavorare ad una tesi sperimentale di ecologia, anche se poi non ho proseguito e sono passata ad altro professore ed altro argomento. Il lavoro sul campo si svolgeva lungo il Fosso del Diavolo, piccolo immissario del lago di Bracciano, nel tratto di sponda fra Bracciano e Trevignano. Tutti i giovedì, con dei colleghi, di cui uno è poi divenuto mio marito, andavamo a raccogliere dei campioni di substrato, che poi analizzavamo in laboratorio per determinare se e come variava la composizione di specie di invertebrati, in presenza o in assenza di predatori (in alcuni settori del fosso i pesci venivano prelevati e spostati). Il sito in cui si svolgeva l’esperimento si trovava nel territorio di un pettirosso, che al nostro arrivo, ogni volta, si metteva in allarme e si avvicinava al mio collega Fulvio, rosso di capelli, che l’uccellino evidentemente considerava un super rivale, emettendo il suo verso di sfida in difesa del territorio. Fulvio non si lasciava intimidire, ma nello stesso tempo assumeva un basso profilo, evitando di provocarlo. Dopo un po’ il pettirosso si calmava e ci lasciava lavorare. Studiare questo comportamento, credo, sarebbe stato molto più interessante della tesi che stavamo portando avanti e forse già allora la pensavo così, tant’è vero che sono poi passata ad Etologia.
     

  • AniMalìa. UN RIFUGIO
    PER I RONDONI

    data: 23/05/2022 17:53

    Lo scenario è sempre lo stesso: l’appartamento al sesto piano, che già da prima che noi lo abitassimo era stato scelto da una coppia di rondoni. Sentivamo strani rumori, tipo battiti e fruscii, e non capivamo da dove provenissero, sembrava dalla parete esterna, vicino alla finestra della stanza da pranzo. Poi, rimanendo ad ascoltare, in attesa, abbiamo visto volare un rondone che sembrava essere uscito dal muro… e abbiamo capito: avevano nidificato nello spazio occupato dagli avvolgibili della serranda! L’esterno della palazzina era rivestito di mattoncini alternati a formare un disegno vuoto-pieno, cosa che aveva permesso ai rondoni di occupare quello strano nido. Questa scoperta ha significato per noi l’impossibilità di modificare la posizione della serranda, per non rischiare di far del male ai nostri coinquilini. Ogni primavera, dopo quel primo anno, ne attendevamo con ansia il ritorno, cercando di fare in tempo a scegliere per la serranda una posizione intermedia, in modo di non dover poi passare tutta la stagione riproduttiva al buio o invece al sole inesorabile dei lunghi pomeriggi estivi.
    E loro sono tornati sempre, anno dopo anno, poi i loro figli, nipoti e pronipoti, anche quando, prima mia sorella poi io, siamo andate via di casa.
    Fino a che mia madre, vedova ormai da tempo e rimasta sola con mio fratello in quell’appartamento troppo grande e molto costoso, decise di venderlo per trasferirsi in una casa più piccola. E al momento di andar via, al dolore immenso del dover lasciare una casa in cui aveva vissuto per quasi quarant’anni si è aggiunta, per noi tutti, la preoccupazione di cosa ne sarebbe stato dei rondoni che avevamo protetto per tutto quel tempo. Non era realisticamente pensabile che i nuovi proprietari avrebbero avuto le nostre stesse attenzioni… Quasi sicuramente non si sarebbero neanche accorti della loro presenza e i poveri rondoni sarebbero stati stritolati dagli avvolgibili, senza fare in tempo a realizzare che quel rifugio che era stato così comodo, forse dal punto di vista della sicurezza lasciava un po’ a desiderare. Ma forse invece avranno avuto la fortuna di trovare persone altrettanto sensibili, chissà...

     

     

  • AniMalìa. UN INCONTRO
    UN PO’ TROPPO
    RAVVICINATO

    data: 10/05/2022 18:07

    La casa in cui ho abitato più a lungo, prima di sposarmi, era distribuita su due piani, il sesto e il settimo. Aveva tre esposizioni, est, sud ed ovest, e molte finestre con grandi vetrate. Era piuttosto facile da lassù vedere animali selvatici, per lo più uccelli ed insetti, qualche pipistrello, ma capitavano anche gechi e lucertole. Una notte d’estate in cui tutte le finestre erano aperte per il caldo mia sorella ed io, che dormivamo al piano di sopra, collegato al soggiorno da una scala a chiocciola, abbiamo vissuto un’avventura non certo comune in città. Dalla finestra è entrato, silenziosissimo e candido come un fantasma, un barbagianni che, dopo aver svolazzato per qualche secondo in preda al panico alla ricerca di una via di uscita, si è posato su una mensola, cercando di tranquillizzarsi e di orientarsi in quell’ambiente chiuso e ristretto, per lui completamente nuovo. Chi non si tranquillizzava affatto era però mia sorella Ilaria, che continuava a chiedermi “dov’è, lo vedi?” “Certo, si vede benissimo, è lassù sulla mensola” “Io non lo vedo!” E non poteva certo vederlo, visto che da quando il barbagianni era entrato lei si era nascosta sotto il lenzuolo, coprendo anche la testa, e non si era più affacciata!
    A quel punto io volevo scendere a chiamare nostro padre, ma lei, per paura che la lasciassi sola col terribile mostro volante, è balzata giù dal letto tagliandomi la strada: per poco non siamo precipitate giù per la scala a chiocciola!
    Mentre ci rifugiavamo in cucina, con nostra madre che ci rassicurava, il nostro eroe, munito di berretto per proteggersi la testa, saliva al piano di sopra per affrontare il povero uccello, sicuramente più spaventato di noi. Ha spalancato bene le finestre e spento la luce, poi si è messo in un angolo ad aspettare. Dopo poco, sono bastati un po’ di calma e silenzio, il barbagianni si è fatto coraggio, ma intanto io, che non mi volevo perdere la scena, ero tornata su quatta quatta: così ho potuto assistere all’indimenticabile spettacolo del bellissimo uccello bianco che, ad ali spiegate, si allontanava nella notte verso la libertà.

     

  • AniMalìa. I TAMIA IN SALOTTO E UN DISCORSETTO SULLE SPECIE ALIENE

    data: 05/05/2022 16:12

    Sempre nella casa di fronte a Villa Sciarra abbiamo avuto una coppia di Tamia siberiani, quegli scoiattolini beige con le strisce nere longitudinali sul dorso e sulla coda. I nostri genitori avevano comprato una bella gabbia in legno, alta circa due metri e molto ampia, che avevamo arredato con rami, cortecce, terriccio e foglie secche. Ma era pur sempre una gabbia, quindi ci sembrava giusto farli uscire ogni tanto perché assaporassero un po’ di libertà. E così alla fine stavano più fuori che dentro… Ma la loro libertà era parecchio impegnativa da gestire: bisognava stare attenti quando si aprivano le porte per non rischiare di schiacciarli e soprattutto a non lasciare aperte le finestre senza sorvegliarli. Però loro se la godevano: avevamo delle tende che occupavano quasi un’intera parete, dal soffitto al pavimento ed erano bianche e gialle, con dei disegni marroni tipo ideogrammi giapponesi; avevano una balza nella parte superiore che loro riuscivano a trasformare in tane sospese, scomparendovi per intere giornate. Tornavano alla gabbia solo per rifornirsi di cibo.

    Un giorno però la femmina è riuscita ad eludere la nostra sorveglianza e a svignarsela da una finestra. A giudicare dall’interesse con cui la osservavano, leccandosi i baffi, i gatti nel giardino delle suore dove si era rifugiata, scendendo non so come dal quarto piano, non credo che sia durata molto, poverina. Ma il maschio ha fatto una fine forse ancora peggiore: nonostante l’appartamento fosse riscaldato, l’istinto l’ha portato a cercarsi un posto adatto per andare in letargo. Avevamo una grossa fioriera, piuttosto profonda, che conteneva un filodendro, e lui si è scavato una buca lì, ricoprendosi completamente, grazie anche al muschio e alle foglie che gli avevamo fornito quando avevamo capito le sue intenzioni. Non si vedeva più, ma purtroppo mia sorella, che era ancora piccola, impaziente e preoccupata, ha provato a scavare un po’ per cercarlo. È stata subito fermata da mamma, ma si vede che smuovendo la terra aveva ostruito il passaggio dell’aria. Quando poi è arrivato il momento in cui secondo ogni logica il letargo doveva finire, abbiamo aspettato ancora parecchi giorni, ma poi ci siamo fatti coraggio e abbiamo scavato. Così abbiamo scoperto il corpicino rinsecchito del povero scoiattolo sepolto vivo, che è rimasto per sempre sulla coscienza della mia sorellina. Così è finita la nostra esperienza con gli scoiattoli giapponesi, che per fortuna non avevano avuto il tempo o la voglia di riprodursi, altrimenti avremmo potuto provocare anche un disastro ecologico.

    Il Tamia sibiricus è stato infatti inserito dall’Unione europea nella lista delle specie alloctone invasive di rilevanza unionale, per le quali va applicato il Regolamento europeo 1143 del 2014 (poi recepito dal Decreto Legislativo 230 del 15 dicembre 2017), che ne prevede il controllo.
    Qui a Roma, a Villa Ada, una grande Villa storica del quartiere Salario, è presente ormai da alcuni anni una popolazione di questi scoiattoli, che è attualmente monitorata da un ricercatore per comprenderne le dinamiche e l’impatto sulle altre specie ed in particolare sullo scoiattolo europeo (Sciurus vulgaris), che qui viveva da ben prima che si insediasse il Tamia. Voglio ricordare a questo punto che le specie aliene, quando divengono invasive, rappresentano la seconda causa di perdita di biodiversità, dopo la distruzione ed alterazione degli habitat, e che il Regolamento europeo ne prescrive l’eradicazione ovunque sia possibile. La comunicazione di questi temi ai cittadini e il modo in cui viene effettuata sono quindi importantissimi. Magari anche un raccontino come questo può avere la sua utilità.
     

  • AniMalìa. LA METAMORFOSI
    SUL BALCONE

    data: 27/04/2022 16:05

    Tantissimi anni fa, negli anni ’60, abitavo al quarto piano di una bellissima casa di fronte a Villa Sciarra. Questo gioiellino di Villa, affacciata sulla Roma più bella, a quei tempi era uno splendore, curata in modo esemplare dal capo-giardiniere del Servizio Giardini, di cui non ho un ricordo diretto, ma che mio padre Fabrizio Giovenale cita nel suo libro “Il tempo delle vacche magre”, del 1980: “… Si sbizzarriva a comporre aiuole fiorite… brontolava se i bambini andavano sul prato, senza pignoleria, solo se facevano danno. Si chiamava Romualdo Conti…”.

    Quando ero ancora alle elementari, alla Francesco Crispi di Monteverde vecchio, mia madre veniva a prendere me e mia sorella a piedi e spesso, nelle ottobrate romane che allora esistevano, ci fermavamo a Villa Sciarra a fare un pic-nic. Associo il ricordo, già di per sé piacevolissimo, alla presenza di tante farfalle, quelle bianche, nere ed arancione (Vanessa atalanta), forse attratte dal nostro cibo. In primavera invece questi pic-nic erano caratterizzati dall’osservazione dei girini, abbondantissimi nelle numerose fontane e laghetti della villa, in cui l’acqua era sempre presente e pulita. Non esistevano ancora le leggi di tutela della fauna e comunque non pensavamo di fare niente di male, quindi un giorno ne abbiamo presi alcuni in un barattolo, insieme a un pezzetto di roccia con della vegetazione, e ce li siamo portati a casa. Avevamo studiato gli anfibi e la metamorfosi, ma un conto è leggerlo sui libri… Li abbiamo messi in una bacinella sul balcone, ombreggiandola un po’, perché essendo esposto a sud sarebbe stato troppo caldo. E abbiamo aspettato e osservato, aggiungendo acqua fresca ogni tanto. Dapprima a poco a poco comparivano le zampette posteriori, poi quelle anteriori, quindi cadeva la coda e intanto il corpicino si assottigliava perché, passando da un’alimentazione vegetariana ad una carnivora, lo spazio per un lungo intestino non era più necessario.

    Infine eccoli trasformati in minuscoli rospetti, che si arrampicavano fuori dall’acqua, perché ormai respiravano con i polmoni. E’ stata un’esperienza che non può paragonarsi a nessuna ricerca in internet, per quante informazioni ed immagini quest’ultima oggi possa fornire. Ormai sarebbe impossibile ripeterla, perché tutti gli anfibi sono protetti e sono in forte regressione in tutto il mondo, per diverse cause, tra cui un fungo micidiale, ma soprattutto la distruzione o alterazione dei loro habitat. Ma già se nelle ville si mantenessero in funzione laghetti e fontane, com’era una volta, li si aiuterebbe un po’…

     

  • MA CI VOLEVA LA GUERRA
    PER PARLARE FINALMENTE
    DI RISPARMIO?

    data: 12/04/2022 16:28

    Non so come avete preso la battuta di Draghi “preferite la pace o il condizionatore?”. Se fosse stata veramente una battuta passi pure, ma non credo che lo volesse essere… Io appena l’ho sentito al tg ho pensato “finalmente condivido una cosa detta da Draghi”, ma è stata una reazione istintiva, dovuta al fatto che io sono da sempre nemica dei condizionatori, simbolo per me dell’egoismo che contraddistingue la nostra epoca, perché agiscono rinfrescando la nostra aria privata ma per farlo devono riscaldare ulteriormente l’aria esterna, cioè “l’aria bene comune”, quella di tutti.
    In realtà però poi la sua dichiarazione mi ha fatto decisamente innervosire, perché non è possibile che ci debba volere una guerra devastante con centina di morti e migliaia di sfollati per osare parlare di risparmio energetico. E tra l’altro poi non sono tanto i morti ma il terrore che Putin, indispettito dalle sanzioni e dal nostro sostegno all’Ucraina, ci chiuda il rubinetto del gas. Infatti per altre guerre ci si era indignati e ci si indigna decisamente meno.
    Ma noi non ci dovevamo comunque affrancare dal gas, non solo da quello che compriamo dalla Russia, così come dagli altri combustibili fossili (anche il gas lo è, checché ne dica la famosa “nomenclatura”), per passare nel minor tempo possibile ad una percentuale sempre crescente di energie rinnovabili? E’ inquietante e paradossale dover constatare che invece questa maledetta guerra abbia avuto l’immediato effetto di farci chiedere deroghe che ci permettano di crogiolarci ancora un po’ nei combustibili fossili, facendo ricicciare addirittura il nucleare!
    Come scrive Luisiana Gaita su Il Fatto Quotidiano del 23 marzo scorso: “La guerra in Ucraina semina anche effetti sull’ambiente. Alcuni diretti e immediati, altri indiretti. In ogni caso si rischia di pagarne il prezzo in un futuro non troppo lontano. Perché i governi modificano le agende politiche in nome di vere e presunte necessità emerse in seguito al conflitto. E questo significa dietrofront e rallentamenti su molte battaglie, come quelle per l’agricoltura sostenibile, contro la deforestazione o per la decarbonizzazione energetica”. E ancora: “Si propone di posticipare l’entrata in vigore della nuova (e già poco ambiziosa) Politica agricola comune (Pac), mentre le lobby europee esercitano pressioni per sospendere gli obiettivi contenuti nella strategia Ue sulla Biodiversità e nella Farm to Fork. In Italia si chiede di aprire i porti a mais proveniente da aree dove vengono coltivate varietà Ogm o con limiti per i pesticidi meno stringenti rispetto a quelli europei. E, dato che le scorte di olio di girasole proveniente dall’Ucraina stanno terminando, l’industria potrà utilizzare l’olio di Palma. Anche se, insieme alla necessità di fare posto ai pascoli per la produzione di carne, sono proprio le coltivazioni di soia, palma da olio, cacao e caffè la causa dell’80% della deforestazione mondiale. (……..) Tutto questo si somma alle conseguenze dirette del conflitto, come il costo ambientale della produzione e dell’utilizzo di carburanti, energia e armi da parte degli eserciti, dei tetti in eternit fatti saltare in aria, degli incendi. Insomma, dell’inquinamento già provocato e dei rischi ecologici conseguenti. Solo nella regione del Donbass si contano 900 stabilimenti industriali, tra cui 248 miniere per lo più fatiscenti (140 di carbone), 177 siti chimici ad alto rischio, inclusi 113 dove si usano materiali radioattivi, e le vecchie miniere di carbone abbandonate stanno inquinando i bacini idrici”.

    In Europa peraltro si cercano soluzioni decisamente poco sostenibili per tamponare le emergenze, come si evince da quanto dichiara, ad esempio, Il nostro ministro delle Politiche Agricole, Stefano Patuanelli, sempre citato dalla giornalista del Fatto Quotidiano, che punta a “posticipare o rivedere i piani strategici nazionali in questa fase emergenziale, sospendendo le misure che limitano la produzione, consentendo l’utilizzo di superfici a riposo e pascoli, introducendo un contributo flat ex novo per tutte le superfici agricole utilizzate”. E di concerto intanto, come riporta sempre la Gaita, “il Copa-Cogeca (federazione europea di lobbying che comprende le associazioni di agricoltori) invoca la sospensione degli obiettivi europei per rendere più sostenibile il settore contenuti nella strategia europea sulla Biodiversità e nella Farm to Fork. A rischio c’è la prevista destinazione di piccole percentuali (10% o 4%, a seconda delle misure interessate) di aree agricole a elementi naturali per tutelare la biodiversità”
    E questo per tentare di arginare il problema delle forniture di cereali che ci verranno a mancare, perché ci arrivano per la maggior parte da Russia ed Ucraina… Ma a questo proposito teniamo presente, come spiega la Gaita, che: “in Europa circa il 60% dei cereali che viene utilizzato è destinato alla zootecnica, quindi a nutrire animali, mentre solo il 24% è usato per il diretto consumo umano” e che “tra il 2015 e il 2020, il mondo ha perso circa 51 milioni di ettari di foreste, un campo da calcio ogni due secondi, soprattutto a causa dell’espansione dell’agricoltura industriale”.
    E tra l’altro, come qui già ricordato più volte, il settore della zootecnica, cioè degli allevamenti intensivi, è già di per sé responsabile del 70% delle emissioni di gas climalteranti. Ma non basta perché, come scrive ancora la Gaita, “dopo la sospensione di forniture di cereali dall’Ucraina, dall’Ungheria e anche dalla Bulgaria, molte aziende agricole hanno iniziato ad acquistare il fabbisogno per i mangimi in Sudamerica (Argentina e Brasile sono tra i maggiori produttori mondiali di soia) con conseguenze sul livello dei prezzi. Una pressione, quella legata a diverse materie prime, che secondo gli esperti è destinata ad aumentare, ma che l’Amazzonia non può permettersi: a febbraio la deforestazione ha toccato un nuovo record, con 199 chilometri quadrati scomparsi”.
    Ma intanto è prontamente arrivato il pronunciamento dell’UE sulla nuova Pac italiana, che la boccia giudicandola insufficiente, incompleta ed incoerente. Così come riferisce Alessia Capasso su Agrifood Today dell’11 aprile: “Questa in sintesi la valutazione della Commissione europea rispetto al Piano strategico sulla Politica agricola comune (Pac) 2023-2027, che l'Italia aveva consegnato lo scorso 31 dicembre ai funzionari di Bruxelles. Oltre a mancare elementi quantitativi, che possano permettere di fare le dovute valutazioni, l'Unione europea rimprovera al governo due elementi. In primo luogo una distribuzione iniqua dei sussidi, che favorirebbero i “soliti noti” dell'agroindustria, in particolare le aziende zootecniche della Pianura padana, lasciando indietro le aree già svantaggiate del Sud Italia e, in generale, le zone agricole più isolate. In seconda istanza, una scarsa ambizione sul piano della tutela ambientale, che è uno dei pilastri della nuova Pac, che integra il patto sull'ambiente noto come Green deal. (……. ) le cifre più elevate dei sussidi finirebbero ancora una volta a finanziare i grandi appezzamenti agricoli, spesso caratterizzati da monocolture, come pure gli allevamenti intensivi, tipici del comparto zootecnico della Pianura padana, in particolare della Lombardia e dell'Emilia Romagna. L'obiettivo della Commissione di migliorare la distribuzione, per sostenere di più le piccole e medie aziende, attente alla conversione agro-ecologica, verrebbe così vanificato. (………….). Il documento presentato dal dicastero dell'agricoltura delude anche sul piano ambientale. “È probabile che il piano proposto non contribuisca in modo sufficiente ed efficace a questo obiettivo generale”, scrive l'esecutivo europeo, “in particolare per quanto riguarda l'acqua, l'aria, i nutrienti e la biodiversità nei terreni agricoli e nelle foreste, nonché la riduzione delle emissioni". Si chiede inoltre di apportare "miglioramenti significativi" per aumentare il sequestro del carbonio. (………)

    Altro punto dolente riguarda i metodi per ridurre l'uso di input, quali pesticidi, fitofarmaci e fertilizzanti, come richiesto nelle strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030. Un'esigenza resasi ancora più pressante, alla luce della guerra in Ucraina, che ha messo in crisi il sistema alimentare globale e la dipendenza eccessiva da materie prime provenienti dall'estero, nonché in molti casi inquinanti e pericolose per la salute, come i fertilizzanti russi e bielorussi. Le indicazioni fornite sarebbero insufficienti e incoerenti. La Commissione sollecita quindi a compiere ulteriori passi, sfruttando il potenziale offerto dall'agricoltura di precisione, dall'efficienza energetica e dal passaggio dalla concimazione minerale a quella organica. Tali azioni, secondo il governo dell'Ue, consentono di preservare la capacità produttiva, ridurre i costi e migliorare l'impatto ambientale e climatico dell'agricoltura. E proprio la nuova Pac garantirebbe le risorse per interventi in questa direzione, al fine di realizzare una produzione sostenibile e più indipendente dall'estero. Un peso maggiore, secondo Bruxelles, andrebbe attribuito anche alle organizzazioni di produttori e alle cooperative, in particolare in quelle aree e settori dove giocano ancora un ruolo marginale nella catena di fornitura, dominata dagli intermediari e dalla grande distribuzione organizzata. Mancano nel Piano dettagli su come rafforzarle e svilupparle. Una nota dolente di lungo corso è quella che riguarda il caporalato, diffusissimo nei campi italiani, in particolare nel Meridione. La Commissione evidenzia che: "Alla luce dell'altissimo tasso di irregolarità (oltre il 55%) ... affrontare la questione è fondamentale per garantire la stabilità economica, la competitività e la sostenibilità sociale delle aziende agricole italiane".
    E c’è molto altro in questo pronunciamento della Commissione europea, tanto che avrebbe meritato un articolo a parte, ma già così c’è parecchio materiale su cui riflettere e di cui vergognarsi.
    Come vedete da questa guerra è scaturita tutta una catena di cose che non riusciamo immediatamente a collegare fra loro e a capire, sulle quali non abbiamo alcun controllo e nessuna responsabilità, ma soprattutto che non ci vogliono neanche far sapere, mentre si preoccupano di responsabilizzarci sui nostri consumi diretti. Ci fanno sentire in colpa perché consumiamo troppo (con la questione dei condizionatori contrapposti alla pace), come se non ci avessero finora affogati in un sistema che ci costringe a consumare, che anzi ne fa la nostra unica ragione di vita, tanto che addirittura ci facevano sentire in colpa se non consumavamo abbastanza, perché non sostenevamo l’economia italiana!
    Invece si deve sì parlare di risparmio ed è giusto farlo, a patto però che si capisca che è proprio dai consumi che bisogna partire. Cominciamo finalmente a parlare seriamente di sobrietà, come continua da anni a dire Luca Mercalli, a non sprecare, a scegliere con oculatezza cosa e quanto acquistare, se sia proprio necessario acquistarlo, se non si potrebbe magari noleggiarlo o farselo prestare, o costruircelo, per dire… ma anche, tanto per fare un esempio, ma ce ne sarebbero tanti: è proprio necessario illuminare così tanto le nostre città, visto che siamo tra i paesi con il più alto inquinamento luminoso al mondo? Quanto si potrebbe risparmiare, intervenendo già solo su questo ultimo aspetto, senza contare poi i benefici che ne avrebbe la biodiversità?
    E’ ora di rivedere tutto il nostro sistema di vita, di capire che da quando ci hanno fatto diventare consumatori (parola orrenda, che contiene già in sé il concetto di superfluo… di spreco), ci hanno omologati e manipolati, privandoci di tante altre prerogative che erano proprie dell’essere umano e che sono molto più importanti, ma che fatichiamo ormai anche a ricordare, a mettere a fuoco. Un suggerimento: per capire a cosa mi riferisco rileggetevi qualcuno degli articoli di Rosa Rossi, o magari andate a ripescare quello che scriveva a proposito del consumismo Pier Paolo Pasolini, di cui si sono appena festeggiati i 100 anni dalla nascita: già cinquanta anni fa lo considerava responsabile di una vera e propria mutazione antropologica, che dall’uomo si trasmetteva poi anche al territorio.
    Ben venga il risparmio dunque, ma solo se ci farà diventare più saggi e tornare più liberi, non se ci farà gettare al vento venti anni di – se pur tiepide – politiche ambientali.


     

  • MA NON E' TUTTO VERDE
    CIO' CHE E' RINNOVABILE

    data: 25/01/2022 12:50

    Ritorno sul tema toccato quando ho pubblicato la traduzione dell’articolo sulla manifestazione di Madrid che chiedeva una realizzazione degli impianti per l’energia rinnovabile meno impattante sull’ambiente.
    E’ chiaro a tutti che la crisi climatica deve essere affrontata attuando rapidamente politiche volte a ridurre i consumi energetici e ad aumentare l’efficienza energetica, comunque limitando l’uso di combustibili fossili. Vanno quindi privilegiate da subito le fonti energetiche rinnovabili, e parliamo innanzitutto di sole e vento, perché su questi fronti la produzione è già a buon punto, anche se per la loro applicazione è auspicabile la ricerca di sempre nuove soluzioni, non solo per quanto riguarda l’efficienza, ma anche per quello che attiene all’impatto sull’ambiente, sul paesaggio e sulla biodiversità. Ma poi non dobbiamo dimenticare altre fonti rinnovabili, come quelle da energia mareomotrice (sfruttamento delle onde e delle maree), idraulica e da biomasse. Ma attenzione, perché ci sono quelli, come il nostro ministro per la transizione ecologica, che pretenderebbero di includere fra le fonti rinnovabili anche il nucleare, oltre che il gas, con tutto quello che questa eventuale sciagurata decisione (al momento in cui scrivo scongiurata dal pronunciamento del Parlamento europeo) comporterebbe.
    Ma, nucleare a parte, la manifestazione di Madrid ci avverte che non è tutt’oro (o verde) ciò che è rinnovabile. Tanto per cominciare, dal rapporto dell’Ipbes (la Piattaforma Intergovernativa scienza-politica per la Biodiversità ed i Servizi ecosistemici) del 2019, riportato sull’ultimo numero di Ali, la pubblicazione trimestrale della LIPU, è emerso che le attività umane nel loro complesso, compreso quindi il comparto delle energie rinnovabili, stanno deteriorando, ad una velocità mai vista prima, la biodiversità ed i servizi ecosistemici ad essa correlati ed hanno fatto finire già un milione di specie nell’elenco di quelle ad alto rischio. Sempre dal rapporto dell’Ipbes apprendiamo che le attività antropiche hanno già alterato tre quarti dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino. In particolare più di un terzo della superficie terrestre mondiale e quasi il 75% delle risorse di acqua dolce sono destinati alla produzione agricola e zootecnica e riguardo a questo ultimo punto possiamo aggiungere all’impatto sul consumo di suolo e sull’inquinamento delle falde acquifere anche quello sul clima, se pensiamo che gli allevamenti intensivi sono tra i maggiori responsabili della emissione di gas clima-alteranti. Come ha ricordato il filosofo della scienza, evoluzionista ed ottimo divulgatore Telmo Pievani nella bella trasmissione La fabbrica del mondo, in onda il sabato sera su Rai3, che ha realizzato insieme allo straordinario Marco Paolini, nel 2020 il peso complessivo delle nostre case e delle nostre città, degli elettrodomestici e delle automobili, delle autostrade e degli aeroporti, degli ipermercati, delle fabbriche, delle navi, cioè di tutti gli oggetti artificiali realizzati dall’uomo nel corso della sua storia ha eguagliato, per poi superarlo, il peso di tutti gli animali, le piante e i microrganismi attualmente presenti sul nostro pianeta (1).
    A questo inquietante risultato concorrono da una parte la nostra sempre maggiore produzione di tutto quello che si può produrre e dall’altro la nostra sempre maggiore efficienza nel distruggere le altre specie. A proposito di animali: lo stesso Weizmann Institute di Tel Aviv responsabile dello studio citato da Pievani, sempre sotto la guida dello scienziato Ron Milo, già in una ricerca pubblicata nel 2018 segnalava che il peso dei mammiferi che alleviamo per nutrircene (soprattutto mucche e maiali) vale il 60% del peso di tutti i mammiferi nel mondo, quando un 36% è costituito da noi esseri umani e soltanto il 4% da mammiferi selvatici. E ancora, che il peso dei polli d’allevamento corrisponde al 70% del peso totale di tutti gli uccelli del pianeta. E poi ci meravigliamo se i virus fanno il salto di specie: è il minimo che possa succedere che, nel loro piccolo, ogni tanto provino a vendicarsi in nome di tutte le specie selvatiche!
    Le opere umane, ivi comprese le miniere per l’estrazione di materie prime, gli impianti e le infrastrutture per la produzione di energie alternative, impattano pesantemente sull’ambiente e sulla biodiversità, come pure sul paesaggio. Specialmente nelle regioni italiane del centro e del sud centinaia di impianti eolici (con torri sempre più alte, fino a 260 metri di altezza) e fotovoltaici di grandi estensioni (da qualche decina fino a duecento ettari) hanno stravolto vasti territori di alto valore per la loro biodiversità, frammentando o distruggendo habitat preziosi, determinando collisioni degli uccelli contro le pale eoliche, disturbo da rumore per la fauna, fenomeni erosivi causati dalle opere di fondazione, ma anche consumando suolo a vocazione agricola, senza contare l’impatto visivo su paesaggi preziosi e di alto valore per il turismo. Per non parlare poi, sempre in relazione alle rinnovabili, dei rari metalli così preziosi per la produzione delle moderne apparecchiature elettroniche, tra cui anche i pannelli fotovoltaici e le pale eoliche. Si definiscono terre rare e sono in realtà abbondanti a livello mondiale, ma laddove sono presenti non lo sono in quantità significative, per cui estrarli e separarli dagli altri materiali è difficile e costoso e richiede quantità spropositate di acqua, sia nella fase di estrazione che per il processamento (fino a 200 metri cubi per ogni Kg di minerale). Questi minerali indispensabili per la nostra vita ormai così dipendente dalla tecnologia hanno purtroppo tutti una cosa in comune: ottenerli causa all’ambiente ferite profonde, perché vengono distrutti habitat preziosi e perché l’acqua necessaria per produrli viene sottratta al terreno e restituita all’ambiente pesantemente inquinata; non solo, ma la concorrenza per accaparrarseli genera guerre, land-grabbing e causa l’allontanamento di intere popolazioni dalle loro terre. L’Europa, che non ha giacimenti di terre rare, tranne che in Serbia ed in Groenlandia (che possiede circa il 15% delle risorse mondiali, ma dove è molto difficile e costoso produrle), anche per non dover soggiacere a probabili problemi di natura geopolitica che potrebbero interromperne l’importazione (prevalentemente dalla Cina), dovrebbe puntare su una risorsa ampiamente a disposizione ed ecosostenibile: il recupero ed il riciclo dei dispositivi elettronici che utilizzano questi materiali, tra l’altro altamente inquinanti, nell’ottica di un’economia circolare, mai come in questo settore auspicabile (2).
    La crisi climatica e quella della biodiversità vanno dunque di pari passo e devono quindi essere affrontate in modo sinergico.
    Il 15 dicembre 2021 è entrato in vigore il decreto di recepimento della direttiva RED II - decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199 per l’“Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 novembre. La direttiva chiede agli stati membri di procedere ad una pianificazione preventiva della localizzazione delle infrastrutture energetiche, cioè sia degli impianti che delle opere di interconnessione e di accumulo. La pianificazione deve riguardare anche gli impianti off-shore, per evitare che questi vengano realizzati in corrispondenza di rotte di migrazione degli uccelli o di ecosistemi marini di particolare vulnerabilità (anche queste informazioni le ho prese da Ali ).
    Sembra evidente, ed è quello che infatti chiede la LIPU, che già a priori vadano considerate come non idonee tutte le aree naturali protette, sia terrestri che marine, inclusi tutti i siti compresi nella rete Natura 2000, ma anche le aree agricole ad alto valore naturale, nonché le aree ad elevata vocazione paesaggistica. Andrebbero invece considerate idonee sia le aree industriali dismesse che le superfici industriali nel loro complesso, ad esempio per l’istallazione di impianti fotovoltaici, come suggerito dall’ISPRA, così come molte superfici urbanizzate. In sintesi: dovremo fare il possibile per utilizzare ciò che abbiamo già cementificato e per smetterla di cementificare ulteriormente.
    Senza una pianificazione complessiva e preventiva le scelte di localizzazione saranno determinate, come è sempre stato finora, dalla convenienza degli industriali del settore e da valutazioni di impatto ambientale effettuate esaminando il singolo caso, che non consentirebbero una valutazione appropriata del possibile impatto sull’ecosistema nella sua interezza e complessità.

    (1) I dati vengono da uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori guidati da Ron Milo, del Weizmann Institute of Science di Tel Aviv, pubblicato su Nature
    (2) Le informazioni sulle terre rare le ho prese dall’intervista di Sveva Sagramola ad Emanuele Bompan, direttore responsabile di Materia Rinnovabile, la rivista internazionale dedicata all’economia circolare, nella puntata di Geo di lunedì 17 gennaio

     

     

  • NON CI PUO' ESSERE
    EUROPA UNITA SENZA PARI
    CONDIZIONI LAVORATIVE

    data: 19/01/2022 19:52

    Ho riletto i recenti interventi su infodem di Giuseppe Marchetti Tricamo e di Cesira Fenu, per poi azzardarmi anch’io, sulla loro scìa, a parlare d’Europa. Questa volta la fatina dell’insonnia si è limitata a farmi una scaletta, quindi devo cavarmela da sola. La rilevanza dell’aspetto che voglio affrontare mi sembra così evidente e scontata che quasi me ne vergogno, però se così fosse se ne parlerebbe in ogni sede politica e ad ogni piè sospinto, mentre così non mi sembra che sia. Quello che voglio dire è che non si può parlare di Europa unita se al suo interno non esiste omogeneità sulle questioni relative al lavoro. Infatti se non esistono parità di salario, di orari di lavoro, di condizioni lavorative, di diritti per i lavoratori, ma anche norme omogenee per la sicurezza sui posti di lavoro e per la tutela dell’ambiente, le aziende continueranno a delocalizzare la produzione laddove queste norme sono meno stringenti ed i salari più bassi, lasciando sul lastrico da un momento all’altro decine di lavoratori con le loro famiglie, come infatti sta succedendo in continuazione, anche tramite un messaggio su whatsapp.

    Ogni volta che questo accade i telegiornali trasmettono servizi strappalacrime, intervistando lavoratori che, dopo 30 o 35 anni di lavoro nella stessa fabbrica, si ritrovano improvvisamente in mezzo ad una strada senza nessuna prospettiva per il futuro, perché a cinquanta e più anni non è certo facile trovare un’altra occasione. Ma poi come al solito si pensa ad altro… A volte accade, ed è una cosa bellissima e commovente, che i lavoratori licenziati riescano a rilevare la fabbrica e a riprendere la produzione, divenendo i padroni di sé stessi. Ma questo non è facile, perché ci vuole il coraggio di investire quei soldi messi da parte con fatica, in anni e anni di sacrifici, buttandosi in un’avventura dall’esito incerto. Non tutti ci riescono, ci vuole coesione, capacità, passione e tanto, tanto coraggio... anche se magari ci si può provare anche solo per disperazione.

    Anche su questi casi sporadici ed eccezionali i telegiornali mettono l’accento, con grande enfasi e notevole retorica, come se potessero essere di esempio per le analoghe situazioni che si verificheranno in futuro. Ma questo non è giusto: sono certamente soluzioni possibili, positive ed entusiasmanti, ma non possono essere l’ultima e unica spiaggia per chi si trova con l’acqua alla gola, perché il lavoro è un diritto e non può e non deve diventare un’avventura ad alto rischio per il lavoratore. Ma finché il sistema economico in cui siamo immersi avrà come unico paradigma il massimo profitto, che si realizza passando sopra ai diritti e alla salute dei lavoratori, alla sicurezza e alla protezione dell’ambiente, continueranno a verificarsi queste situazioni, così come gli incidenti sul lavoro, di cui già ho parlato.

    Questo delle pari condizioni lavorative avrebbe dovute essere fra i principi fondanti dell’Unione Europea, al pari della moneta unica, secondo me, ma non lo è stato ed ancora oggi se ne parla troppo poco. La cosa più grave è che non esiste più un partito che metta al centro della sua azione politica il tema del lavoro. Ci sono rimasti solo i sindacati e papa Francesco, ma non è abbastanza. Quando una fabbrica chiude non dovrebbero scendere in piazza solo i diretti interessati, ma si dovrebbero riempire le piazze di tutto il paese, perché è un’ingiustizia terribile che deve riguardare noi tutti. E’ il frutto di un sistema economico che non è più possibile tollerare.

     

  • MANIFESTARE PER I BENI
    COMUNI, COME SI FA
    PER ESEMPIO IN SPAGNA

    data: 07/12/2021 18:07

    Ho trovato sull’ultimo numero (430 del dicembre 2021) della rivista scientifico-naturalistica spagnola Quercus, a cui mio marito ed io, appassionati della Spagna e della natura, siamo abbonati, il seguente articolo, che ho tradotto meglio che ho potuto. E’ un’altra dimostrazione di quanto altrove (qui da noi purtroppo troppo poco) si dia importanza ai beni comuni e si combatta per difenderli in modo maturo e non con prese di posizione ascientifiche e fanatismi più o meno violenti.
    Ecco l’articolo:

    Successo della convocazione contro i progetti sulle rinnovabili distruttivi per l’ambiente
    Più di 15.000 manifestanti a Madrid per la biodiversità e il paesaggio
    Quasi duecento associazioni, rappresentate da più di 15.000 persone, si sono concentrate lo scorso 16 ottobre a Madrid per manifestare contro i progetti di impianti su grande scala per l’energia rinnovabile, giudicati distruttivi per l’ambiente naturale. I manifestanti reclamavano una transizione energetica non centralizzata, giusta e rispettosa verso la biodiversità ed il paesaggio.
    La sera dello scorso 16 ottobre, in risposta alla convocazione dell’Alleanza Energia e Territorio (Aliente), più di 15.000 persone e 182 associazioni hanno riempito le strade della città di Madrid per respingere il modello centralizzato e su grande scala per le rinnovabili su cui si basa l’attuale programma di sviluppo per la transizione energetica.
    Aliente considera questo modello insostenibile, perché tratta l’energia come un’attività commerciale e non come un bene comune, che deve servire alle persone e rispettare la biodiversità.
    Le organizzazioni che hanno partecipato alla manifestazione propongono invece un modello di rinnovabili distribuito sul territorio, su piccola scala, che includa la partecipazione cittadina e che si basi sul risparmio, l’efficienza, l’autoconsumo e la creazione di comunità energetiche.
    Si tratta, in definitiva, di sfruttare tutte le virtù delle fonti rinnovabili, che deliberatamente non vengono prese in considerazione dalle grandi imprese del settore.
    La mattina dello stesso giorno, sulle scale del Congresso dei Deputati, rappresentanti di Aliente hanno consegnato le loro posizioni sulla biodiversità, avallate da più di 270 scienziati, così come la loro proposta alternativa di transizione energetica, ad una decina di deputati e senatori.
    Giornata di presenza territoriale di massa
    La manifestazione è stata un deciso successo, specialmente se si tiene conto che la maggioranza dei manifestanti erano arrivati a Madrid da diversi territori rurali. Questa partecipazione di massa aveva richiesto l’organizzazione di autobus e la pianificazione di percorsi con diverse fermate, per raccogliere i partecipanti dalle piccole località, ripartite fra ciascuna comunità autonoma.
    Questi gruppi già stavano difendendo il loro territorio e il loro patrimonio culturale con piccole proteste locali che, alla fine, si sono potute unificare dietro lo slogan comune “Rinnovabili sì, però non così”.
    Alla Puerta del Sol, punto culminante della marcia, hanno fatto sentire la loro voce esponenti noti della comunità scientifica come Margarita Mediavilla , dell’Università di Valladolid, e divulgatori scientifici come Joaquin Araujo e Odile Rodriguez de la Fuente. Per Aliente i portavoce dei diversi territori hanno esposto le ragioni che hanno portato questa organizzazione a proporre e difendere un modello di generazione energetica distribuita, giusta con le persone, le economie locali, i paesaggi e la biodiversità che dà loro vita.
    Tutto questo ora si vede minacciato dalla mancanza di pianificazione e dalla corsa incontrollata delle imprese energetiche tradizionali verso un cammino sbagliato che, secondo gli scienziati e le associazioni riuniti in Aliente, trasformerà in un clamoroso fallimento l’opportunità storica che offrono le fonti rinnovabili.
    Un dibattito necessario
    Con questa spettacolare manifestazione si è reso evidente che è arrivato il momento di far partire un necessario dibattito, maturo, onesto, partecipativo e urgente, sul modello di transizione energetica che la attuale situazione di emergenza climatica reclama, però mantenendo il fuoco ben chiaro sulla priorità da attribuire ai benefici per le persone e per tutte le forme di vita che ne dovranno derivare.

    Sarebbe il caso che stessimo in campana anche noi!
     

  • "ERADICAZIONE MUFLONI"
    ACCORDO PARCO-WWF-LAV:
    SARANNO TRASFERITI

    data: 04/12/2021 17:40

    Per chi fosse interessato agli sviluppi della questione mufloni da me utilizzata come spunto per il precedente articolo, riporto qui di seguito il testo dell’accordo che è stato appena concluso al riguardo. Eradicazione mufloni: accordo tra Parco, WWF e LAV. Autore: Parco Nazionale Arcipelago Toscano. 30/11/2021. Nel pomerIggio odierno è stato raggiunto un accordo tra l'Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano, il WWF e la LAV che prevede la sospensione degli abbattimenti e la costituzione di un gruppo di lavoro al fine di trasferire tutti i mufloni presenti sull'isola verso destinazioni da concordare che garantiscano il loro benessere.
    Tutto sommato mi sembra che si sia arrivati ad una soluzione pacifica e ragionevole del problema, con una modalità che può essere un esempio da seguire per eventuali analoghe situazioni che si dovessero presentare in futuro. Dispiace solo che, a causa della mancanza di un’adeguata campagna preventiva di comunicazione ed educazione, per risolvere i problemi si debba sempre arrivare alle barricate.
    Ecco il testo dell'accordo:
    Premesso che in passato sono state effettuate introduzioni di specie non autoctone anche in ambienti naturali e che il tema delle specie non autoctone è oggi cruciale anche per l’incidenza che queste hanno sugli equilibri ecosistemici, sulla biodiversità e sulle azioni di contrasto degli effetti dei cambiamenti climatici;
    il Regolamento europeo 1143/2014 e il conseguente Decreto Legislativo 230 del 2017 perseguono l’obiettivo di ricreare ambienti naturali ricchi di biodiversità originaria anche attraverso l’eradicazione di specie animali e vegetali considerate “aliene invasive” prevedendo, nel caso delle specie animali, l’opportunità di prendere in considerazione metodi non letali;
    con la Legge 189/2004, il Codice penale punisce l’uccisione di animali “senza necessità” come quella operata quando ci sono alternative di vita per gli animali;
    la presenza di animali non autoctoni considerati “alieni invasivi” è sempre stata causata da attività umane come quelle del commercio, della caccia, dell’allevamento;
    il progetto Let’s Go Giglio, finanziato dall’Unione Europea, nell’ambito del programma LIFE Ambiente sottoprogramma “Natura e Biodiversità”, prevede azioni per la conservazione e il miglioramento della biodiversità dell’isola del Giglio e a favore del Discoglosso sardo, specie classificata come vulnerabile dalla lista rossa italiana dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura;
    Considerato che
    le azioni di abbattimento programmate nei confronti dei mufloni (che si stima interessare ancora un numero compreso tra i 40 e gli 80) hanno suscitato reazioni negative da parte del mondo animalista considerando che comunque 16 mufloni negli scorsi mesi erano già stati catturati e trasferiti in strutture recintate fuori dall’isola;
    Rilevato che
    il Decreto 19 gennaio 2015 del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare considera il muflone “specie non autoctona” all’isola del Giglio;
    la presenza del muflone sull’isola viene considerata dal Parco come incompatibile con il successo delle azioni di conservazione e rinaturalizzazione;
    non è perseguibile con il progetto Let’s Go Giglio mantenere la presenza di mufloni sull’isola in aree recintate, essendo stata la fuga da recinti la prima causa della diffusione della specie al Giglio ma il confinamento in aree delimitate ed esterne all’isola è compatibile con le finalità del Regolamento europeo 1143/2014;
    la specie muflone è considerata cacciabile al di fuori della Sardegna ai sensi della Legge 157/92;
    Il Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano si impegna a:
    1. Sospendere le operazioni di abbattimento dei mufloni previste dal progetto Let’s Go Giglio;
    2. Intensificare le operazioni di cattura e trasporto presso altre località con modalità che tengano conto del benessere animale come previsto dal Protocollo operativo sottoscritto con ISPRA;
    3. Costituire un Gruppo di lavoro formato da esperti e tecnici designati dallo stesso e da rappresentanti delle associazioni firmatarie del presente accordo, finalizzato a:
    i) accogliere le offerte di disponibilità e a stabilire entro il termine di 30 giorni dalla sua istituzione le migliori destinazioni per gli animali che garantiscano il loro benessere;
    ii) assicurare per quanto possibile il confinamento preventivo dei mufloni in area adatta ai bisogni degli animali e sicura per il periodo necessario alla realizzazione delle attività sopradescritte;
    4. Allocare le risorse economiche necessarie alla realizzazione delle attività descritte;
    5. Disporre e realizzare controlli in collaborazione con i Carabinieri Forestali per contrastare l’ingresso di specie selvatiche non autoctone sull’isola del Giglio.
    Le associazioni firmatarie si impegnano a:
    1. designare un proprio rappresentante ciascuna nel Gruppo di lavoro citato;
    2. collaborare alle operazioni di cattura, trasporto e sterilizzazione dei mufloni.
    Le parti s’impegnano inoltre a sviluppare per i territori del Parco nazionale, azioni d’informazione e sensibilizzazione sul tema delle specie non autoctone in relazione all’incidenza che queste hanno sulla tutela della biodiversità con particolare riguardo alle aree protette e per la tutela degli animali stessi.
    Il presente Accordo è aperto alla firma di altre associazioni disponibili.
    Giampiero Sammuri Presidente PNAT
    Gianluca Felicetti Presidente LAV
    Donatella Bianchi Presidente WWF

  • ERADICAZIONE DEI MUFLONI
    BENI COMUNI
    E FIDUCIA NELLA POLITICA

    data: 29/11/2021 17:01

    Stanotte è finalmente tornata a trovarmi la fatina dell’insonnia (ero così contenta di ritrovarla dopo tanto tempo, che ho deciso di battezzarla così… finora non le avevo dato un nome). Si tratta del fenomeno che riesce a trasformare delle semplici e fastidiose ore di sonno perse in qualcosa di utile e positivo. Ero da troppo tempo ormai in uno stato depressivo che mi preoccupava, ed ai motivi più che sufficienti a giustificarlo, da quelli dovuti alla situazione generale ad altri più personali, se ne aggiungeva uno che aggravava la situazione: in questo stato non ho la concentrazione necessaria per poter scrivere, ma il fatto di non scrivere mi deprime ancora di più. Non se ne esce, a meno che… Ecco venire finalmente in mio soccorso la sunnominata fatina, che mi consegna un articolo bello e pronto. L’evento che dà lo spunto per questo articolo lo avevo infatti notato senza soffermarmici più di tanto, ma stanotte con la sua bacchetta magica la mia fatina è riuscita a tirarne fuori qualcosa di compiuto, che mi sembra possa essere stimolante.
    Avrete sentito o letto la storia dei mufloni che l’Ente Parco Regionale dell’Arcipelago toscano, con un progetto europeo, vuole eradicare dall’isola del Giglio. Lo stesso si vuole fare per un’altra specie esotica invasiva, questa volta vegetale, il fico degli Ottentotti (Carpobrotus edulis). Ne sono nate polemiche e manifestazioni di protesta degli animalisti, che hanno fatto sì che l’Ente Parco sospendesse gli abbattimenti in attesa di trovare altre soluzioni. Anche il fico degli Ottentotti, pianta esotica che ricopre velocemente ampie superfici costiere soffocando e soppiantando ogni altra specie, ha trovato i suoi difensori a spada tratta, ma non so come finirà.
    Ho già in altre occasioni accennato al fatto che in condizioni naturali le specie animali riescono ad autoregolare il loro numero in risposta ai fattori limitanti dell’ambiente, come la disponibilità di cibo, di siti adatti alla riproduzione e così via. C’è da considerare però che ormai sono ben pochi gli ecosistemi che si trovano in condizioni naturali, perché là dove l’uomo interviene modificando l’ambiente, con la distruzione, riduzione e frammentazione degli habitat, con la caccia, con l’eliminazione dei predatori, nonché rendendo facilmente accessibili abbondanti risorse trofiche e con l’introduzione di specie aliene, l’autoregolazione delle popolazioni animali va in tilt e si vengono a creare dei grossi squilibri. Per questo nelle aree protette (parchi nazionali, regionali, riserve naturali e quant’altro), per legge si interviene con degli abbattimenti selettivi e programmati, per ristabilire gli equilibri fra le specie e il loro habitat e con essi la salute degli ecosistemi. In genere questi interventi passano sotto silenzio e non arrivano agli onori della cronaca. Nel caso dei mufloni del Giglio non è stato così, forse perché non si tratta di una specie originaria dell’isola: vi era stata introdotta dall’uomo negli anni 50 del secolo scorso, per esigenze di conservazione. Ovviamente gli erbivori, in un ambiente che non era il loro ed in assenza di predatori, si sono riprodotti ed hanno col tempo iniziato a sottrarre risorse alle specie native; perciò ora si è deciso di eradicarli dall’isola. Eradicare significa eliminare da un certo posto, ma siccome poi non si sa dove trasferire gli animali eradicati (la legge lo consente solo in alcune tipologie di aree ben definite), in pratica significa abbattere. E a questo punto insorgono gli animalisti, che non hanno tutti i torti, perché in fondo non è certo colpa dei mufloni se si sono venuti a trovare in quella situazione. A questo punto mi sorge un dubbio: sarebbe meglio tenere il più possibile segreti questi interventi, sperando che nessuno se ne accorga (cosa però impensabile nei tempi dei social network) o invece investire il più possibile nella comunicazione, informando e spiegando bene le motivazioni che li rendono necessari? Ovviamente non è stata seguita né l’una né l’altra strategia e così ora ci si deve arrampicare sugli specchi per cercare di scendere a patti con l’opinione pubblica, animalisti in testa.
    Ma un altro pensiero mi sorge spontaneo: da anni ormai vanno avanti progetti di eradicazione dei ratti (anch’essi introdotti, questa volta involontariamente, dall’uomo) dalle piccole isole su cui si riproducono la Berta maggiore e la Berta minore, o l’Uccello delle tempeste, uccelli marini rari e molto localizzati (che nidificano cioè solo in poche località molto isolate e protette). I ratti predavano uova e pulcini (questi uccelli depongono per lo più un solo uovo ogni anno), causando vere e proprie estinzioni locali. L’eradicazione è avvenuta con successo in diverse isole, da Montecristo a Tavolara ed altre isole sarde, alle Pontine, e le popolazioni di uccelli decimate si sono riprese, fortunatamente, ma non mi risulta che siano state organizzate crociate ed erette barricate in difesa dei ratti, anche se, esattamente come i mufloni, non avevano alcuna colpa! A quanto pare per gli animalisti gli animali sono sì tutti uguali, ma qualcuno è più uguale, come diceva Orwell.
    Questa è una delle tante questioni su cui è difficile schierarsi, anche se la ragione porta a pensare che là dove l’uomo ha fatto i danni, così come accade per le conseguenze dei cambiamenti climatici, sia l’uomo che debba cercare di mettere una pezza. Ma nel caso degli interventi di eradicazione fa davvero rabbia che degli animali incolpevoli debbano pagare per gli errori e per la leggerezza degli esseri umani… anche se, d’altra parte, da biologa so che non intervenire in molti casi sarebbe di danno per tante altre specie, anch’esse innocenti. E’ difficile schierarsi ed è giusto che sia così, perché la questione è indubbiamente complessa e perché non vengono fornite all’opinione pubblica tutte le informazioni necessarie per potersi formare un’opinione.
    Per questo non ho interesse a schierarmi, coltivo il dubbio, perché il dubbio spinge a studiare, ad informarsi meglio ed in sostanza a maturare delle opinioni consapevoli e circostanziate.
    E invece anche questa questione così delicata è diventata un’occasione per irrigidirsi su posizioni contrapposte, come avviene ormai per tutto, grazie all’ignoranza sempre più diffusa, di cui non solo non ci si vergogna più, ma anzi ci si vanta e grazie anche ai social network, che rendono più facile per chiunque autonominarsi capopopolo e partire in guerra contro un nemico che ci si è autocreato. Sembra essere ormai l’unico modo che è rimasto per sentirsi in qualche modo protagonisti delle proprie vite, in una società dove l’unica libertà che ci viene concessa è quella di consumare, consumare il più possibile e accumulare beni materiali. Per difenderci dal degrado del nostro ambiente (dalla scala locale a quella mondiale) e della nostra vita sociale ci rifugiamo nel lavoro, perché è il mezzo per ottenere soldi per cercare di vivere meglio nella nostra piccola bolla e al massimo per tentare di assicurare una piccola bolla felice ai nostri figli. Questa strategia difensiva basata sull’egoismo non fa però che rafforzare il degrado da cui ci vogliamo difendere, sia quello ambientale, perché più consumo si traduce in più rifiuti e più inquinamento, sia quello sociale, perché la chiusura in una bolla e l’egoismo, ma anche il superlavoro, non aiutano certo le relazioni. Questa teoria della crescita difensiva è esposta molto più chiaramente di quanto non abbia fatto io da Stefano Bartolini, economista, nel suo libro Ecologia della felicità, che sto leggendo in questi giorni: crescita perché lavorando e spendendo facciamo crescere il Pil, seppure a scapito della qualità dell’ambiente e della nostra stessa vita, difensiva perché è una reazione di difesa al degrado dovuto alla perdita dei beni comuni.
    Quello di cui avremmo bisogno invece, secondo Bartolini, ma anche secondo me, è di ritrovare degli orizzonti comuni per cui battersi insieme, a partire dalle piccole battaglie per il proprio quartiere, dove si può avere ancora la sensazione concreta di poter fare la differenza, di ottenere qualcosa che aiuti tutti a vivere meglio, come un giardino pubblico ben tenuto o una biblioteca accessibile. Per arrivare poi a battersi insieme ai nostri concittadini per la difesa dei beni comuni ad ogni livello. Si ritroverebbe così la fiducia nella politica, che si sta perdendo sempre più perché ormai tutte le decisioni vengono prese sopra le nostre teste, tanto che scegliamo sempre più numerosi di non usufruire più neanche di quello che è il nostro solo diritto, in quella che Bartolini definisce Postdemocrazia, cioè il voto. E del resto, dice Bartolini, in una Postdemocrazia, cioè in un sistema politico che mantiene la forma della democrazia, ma in cui le decisioni politiche vengono prese da una ristretta élite economica, in realtà il voto non conta più, perché gli interessi economici prevalgono su tutto e i governi rispondono solo al mondo dei grandi affari. Sono ancora a metà libro, ma c’è già molto su cui riflettere…

     

  • PROPOSTA: USARE
    LA PAROLA "PROGRESSO"
    AL POSTO DI "CRESCITA"

    data: 21/09/2021 17:17

    E’ sotto i nostri occhi quotidianamente la purtroppo interminabile e straziante catena dei morti sul lavoro, ormai circa uno al giorno, senza considerare poi le vittime di cui non veniamo a sapere, quelli che non muoiono ma che restano paralizzati, mutilati, ciechi, ustionati o comunque traumatizzati. La nostra natura empatica ormai ampiamente anestetizzata esprime sentimenti di pena, compassione per le vittime e per le loro famiglie, al massimo di indignazione perché “è assurdo che questo accada ancora oggi, con tutti i moderni dispositivi di sicurezza che ci sono a disposizione!”. Però poi finisce lì: si pensa ad altro, in attesa del prossimo morto e dei fiumi di retorica che i media gli dedicheranno. Però, se provassimo a guardare oltre, magari ci accorgeremmo che questi “incidenti” non sono tragiche fatalità, ma semplicemente gli effetti collaterali della cosiddetta ripartenza, cioè della ripresa economica che il nostro paese attende da così tanto tempo; quei morti e quei feriti ne sono le inconsapevoli vittime, sacrificate sull’altare della crescita del profitto. Perché il profitto non guarda in faccia a nessuno, perché per produrre di più ed arricchirsi si taglia sul personale e così i turni si allungano, le pause si dimezzano o si eliminano, si dimenticano la dignità del lavoro e i diritti conquistati dai lavoratori in decenni di lotte sindacali e se non bastasse si risparmia sui sistemi di sicurezza, o si manomettono volontariamente, come abbiamo visto nel caso degli omicidi (bisogna avere il coraggio di chiamarli così) della cabinovia del Mottarone e delle industrie tessili; oppure si risparmia sulla qualità dei materiali, ad esempio nell’edilizia: come non rivedersi davanti le immagini del grattacielo milanese arso in pochi minuti, così come il palazzo di Torino? In questo modo gli incidenti non possono non avvenire, altro che disgrazie! Per non parlare poi dei costi in vite umane indiretti, o posticipati: quelli conseguenti ai veleni riversati nell’aria, nell’acqua e nel terreno, per evitare i costi di un corretto smaltimento (ammesso che questo sia possibile) e che si riverseranno anche sui nostri figli e nipoti e su tutte le future generazioni.
    Ma io credo che la ripresa economica non possa e non debba risolversi in una corsa a chi fa prima, a chi è più furbo a fiutare l’occasione buona e più veloce ad acciuffarla, perché così non è il paese che si riprende, sono soltanto, come è sempre avvenuto, i padroni (fuori moda questo termine? mah, non credo…). Vabbe’, diciamo allora i ricchi, che si arricchiscono sempre più, a scapito dei lavoratori, che subiscono l’infame ricatto “queste sono le condizioni, altrimenti puoi andare”: la odiosa e sciagurata vecchia alternativa tra salute (anche ambientale) e lavoro. Non cresce il paese, ma soprattutto non progredisce. C’è una precisa differenza di significato, a mio parere, tra progresso e crescita, che invece generalmente vengono intesi come sinonimi. La parola progresso viene da progredire, che contiene in sé il significato di migliorare, mentre crescita ha in sé soltanto il significato di aumento, accumulo: nel primo caso si parla di qualità, nel secondo soltanto di quantità, a meno che non gli si aggiunga un aggettivo, come ad esempio “culturale”, ma non mi sembra questo il caso.
    Credo che i soldi europei del Next generation EU dovrebbero essere impiegati puntando al progresso, invece che alla crescita: progresso negli ambienti e nelle condizioni di lavoro; progresso nelle condizioni degli animali degli allevamenti; progresso, cioè miglioramento dei materiali in edilizia; progresso nella sicurezza e nei controlli. L’Italia dovrebbe puntare ad essere competitiva non solo sulla qualità dei suoi prodotti, ma sulla qualità di tutta la filiera che porta a quei prodotti, a partire dalle condizioni di lavoro di chi ne fa parte, per arrivare alla qualità dell’ambiente in cui vengono prodotti e a quella dell’ambiente dopo la produzione, ad esempio con un’attenzione alla riduzione “a monte” dei rifiuti, utilizzando imballaggi il più possibile ridotti, monomateriale e facilmente riciclabili.
    E parlando poi della transizione ecologica, di cui già a quanto pare ci prepariamo a pagare il conto, con i cospicui aumenti dei costi del gas e dell’elettricità previsti (prima ancora che sia partita già ci si specula sopra!), ricordiamoci del Green New Deal europeo, presentando il quale Ursula von der Leyen diceva che l’Europa vuole diventare il primo continente decarbonizzato, puntando ad aprire con le altre potenze mondiali una competizione basata su una nuova visione del futuro, nella quale le imprese europee diventeranno leader nella trasformazione in senso ecologico dell’intero mondo, producendo così benessere non solo per i cittadini europei, ma per tutti. Con il Green New Deal, diceva, l’Europa vuole diventare l’avamposto di un nuovo modello di capitalismo, sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale ed in grado di assicurare un’elevata qualità della vita per tutti. (1)
    Ma questi intenti ambiziosi ed altamente condivisibili si tradurranno in realtà solo se ci sarà un forte e concreto impegno dell’Europa stessa, ma poi dei governi nazionali, nel progettare, indirizzare, gestire e controllare la spesa dei fondi del Next Generation EU per la transizione ecologica, perché non ci si ritrovi ancora una volta a rincorrere la crescita del P.I.L. dimenticandosi dell’ambiente, ivi compresa la biodiversità (che non è un optional, ma è essenziale per la nostra stessa vita) e della giustizia sociale e guardando ad ogni settore della ripresa come a sé stante e non come parte di un sistema coerente ed omogeneo che deve andare in una direzione ben precisa e definita, senza pasticci e contraddizioni.
    Ho iniziato a leggere il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e così poi vi saprò dire se vi ho trovato traccia di questa impostazione. Lo spero ardentemente, ma mi riesce difficile essere ottimista, purtroppo.

    (1) Stralcio del discorso di Ursula von der Leyen riportato da Enrico Giovannini in Quel mondo diverso di Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini, Laterza 2020.
     

  • DELLE DISINFESTAZIONI
    E DELLE ALTRE SCHIFEZZE
    CHIMICHE CHE SPARGIAMO
    NELL'AMBIENTE

    data: 08/09/2021 13:02

    E’ tanto che non scrivo e non perché manchino gli argomenti, ma forse proprio perché sono molti e decisamente seri ed importanti ed io non mi sento all’altezza. Però mi sto deprimendo a non scrivere più e il fatto di essere depressa mi rende ancora più difficile concentrarmi su tematiche su cui pur mi sembrerebbe giusto dire qualcosa. Un cane che si morde la coda…
    Fortunatamente è capitato un episodio che mi ha dato lo spunto necessario per uscire da quest’impasse.
    Ero ancora al mare con mio marito, era il 31 di agosto e dopo cena stavamo nel giardino a scegliere un film da guardarci in televisione, quando abbiamo captato, nella conversazione dei nostri vicini del piano di sopra, la parola disinfestazione. “No, non è possibile che facciano di nuovo la disinfestazione!”, ci siamo detti, “l’hanno fatta dieci giorni fa e ormai siamo a fine mese, non c’è quasi più nessuno. E poi nella bacheca degli avvisi del residence non c’era niente, ci siamo passati anche nel pomeriggio! Mah, stavano sicuramente parlando di qualcos’altro, non è proprio possibile”. Così ci siamo visti tranquillamente un film e poi siamo andati a dormire, senza pensarci più. Ma ad un certo punto, in piena notte, ho avvertito un pizzicore in gola ed ho iniziato a tossire. Nello stesso momento si è sentito il forte rumore di un motore e si sono viste delle luci intermittenti (dormiamo con la finestra aperta). Ho capito che era il camion della disinfestazione e smadonnando mi sono precipitata a chiudere tutte le finestre. Però avevo steso il bucato, perché quel pomeriggio erano partite le mie figlie ed avevo lavato lenzuola ed asciugamani, e per quello non c’era ormai niente da fare, purtroppo.
    Ma l’arrabbiatura va ben al di là del fatto di non essere stati avvertiti (cosa che era accaduta una volta anche nel nostro condominio a Roma), perché quello che non mi va giù è proprio questo accanimento nel persistere con le disinfestazioni antizanzare, effettuate varie volte nel periodo primaverile ed estivo, con prodotti tossici non solo per le zanzare, tant’è vero che negli avvisi che mette la ditta c’è scritto di chiudere le finestre, di tenere in casa gli animali domestici e di ritirare i panni stesi. Ad Orbetello, il comune dove eravamo in vacanza, non lo so, ma a Roma un’ordinanza del Sindaco vieta i trattamenti adulticidi per combattere le zanzare, perché inefficaci e controproducenti. Infatti i prodotti usati alla lunga selezionano popolazioni sempre più resistenti di zanzare, che quindi sopravvivono tranquillamente, così come accade ai batteri che acquisiscono la resistenza agli antibiotici, quando questi vengono usati indiscriminatamente e senza che sia realmente necessario.
    Ma gli amministratori dei condomini se ne sbattono delle ordinanze e continuano imperterriti. Sono solo io a pensare che ne ricavino un tornaconto?
    La cosa che più mi fa arrabbiare però è che non si pensi mai che la natura riuscirebbe a tenere tutto in equilibrio, se soltanto noi la lasciassimo fare: ci sono tanti animali che si nutrono di zanzare, ma anche di mosche e moscerini (anche questi ci danno un po’ fastidio, no?), sia dell’insetto adulto che delle larve, e noi tutti questi animali, come pipistrelli, gechi, lucertole, rondini, balestrucci, rondoni, pigliamosche (nome omen) ed altri uccelli insettivori, anfibi e vari invertebrati, li sterminiamo in mille modi, a partire proprio dalle disinfestazioni e da tutte le altre schifezze chimiche di sintesi che spargiamo nell’ambiente, per arrivare poi alla distruzione degli habitat.
    Spendiamo soldi e ci intossichiamo per ottenere, senza peraltro riuscirci, quello che la natura, grazie alla sua complessità che si esprime con la meraviglia della biodiversità, farebbe tranquillamente gratis!
    Fatto sta che nelle tre settimane scarse che siamo stati lì al mare ho visto solo due gechi, un pipistrello e neanche un pigliamosche, animali che da quando ci andiamo (45 anni o giù di lì) hanno sempre allietato le nostre estati, ma che stanno diminuendo in maniera direttamente proporzionale all’aumento delle maledette disinfestazioni.

     

  • SELEZIONE "AL CONTRARIO"
    E CINGHIALI IN CITTA':
    I DANNI LI FACCIAMO NOI

    data: 17/05/2021 19:35

    Il nostro impatto sulle specie viventi a volte ha un effetto tanto potente quanto quello della selezione naturale, che premia il più adatto e fa sì che i suoi geni vengano trasmessi più efficacemente, però agisce in maniera opposta, operando una selezione che non ha più niente di naturale ed oltretutto rispetto a quella naturale è anche più veloce.
    La selezione naturale agisce in modo che si riproducano più facilmente, trasmettendo il loro patrimonio genetico alle nuove generazioni, gli individui più robusti e più sani, in grado di adattarsi efficacemente all’ambiente ed ai suoi cambiamenti. Ma se pensiamo ad attività umane come la pesca o la caccia, possiamo renderci conto che la selezione in questi casi agisce in senso contrario: cacciatori e pescatori preferiranno sicuramente catturare esemplari più grandi, robusti e, con tutta probabilità, più sani, sottraendoli così alla possibilità di riprodursi e di trasmettere i loro caratteri ereditari che avrebbero presentato una così elevata capacità adattativa. E’ ovvio che questa selezione “al contrario”, col tempo indebolirà le popolazioni delle specie soggette a questa azione dell’uomo, rendendole più vulnerabili e meno capaci di reagire alle avversità, come ad esempio ai cambiamenti climatici.
    Un altro effetto della caccia è quello di modificare la composizione per classi di età di alcune popolazioni animali, cosa che può non solo danneggiare le popolazioni stesse, ma anche impattare negativamente sulle attività umane. Penso ad esempio alla caccia al cinghiale, in cui l’uccisione della scrofa dominante, che essendo più grande rappresenta per il cacciatore un trofeo ambito, determina l’entrata in estro simultaneo di tutte le femmine più giovani, con il risultato, di là a qualche mese, della nascita di un numero esorbitante di cinghialetti. La crescita esplosiva della popolazione fa sì che la capacità portante dell’ambiente (in pratica la ricchezza di risorse trofiche) non sia più sufficiente a supportarla e quindi la popolazione è costretta a suddividersi e ad andare a cercare cibo altrove. E’ questo uno dei motivi della crescita esponenziale dei cinghiali e del fatto che questi si diffondano in cerca di cibo in tutti i terreni agricoli ed ormai da anni anche nelle nostre città. E’ di pochi giorni fa la notizia di un branco di cinghiali che ha circondato una signora che era appena uscita da un supermercato a Formello, vicino Roma, costringendola a “mollare la spesa”. Ormai non si accontentano più dei rifiuti: a quanto pare preferiscono il cibo fresco ed hanno quindi adottato la strategia della “spesa proletaria”! Nel branco, tra l’altro, erano presenti moltissimi piccoli che hanno sicuramente appreso una lezione interessante, che da grandi potranno mettere a frutto.
    Certo, ci sono altri motivi per spiegare questa esplosione demografica, ma a ben guardare alla fine sono sempre riconducibili a comportamenti della nostra specie. Uno, forse quello che ha avuto il peso maggiore, è stato l’immissione in natura, per anni ed anni, per compiacere la lobby dei cacciatori, di esemplari di cinghiali provenienti dall’Europa dell’est, di una varietà (sottospecie) più grande, robusta e soprattutto più prolifica (fino a 10-12 cuccioli per parto e fino a due, se non più, cucciolate l’anno). Ma è comunque sempre la stessa specie e quindi ormai i cinghiali italiani, con l’eccezione di quelli presenti nella tenuta di Castelporziano e in Sardegna, che sono rimasti puri, sono tutti ibridi che hanno ereditato le scomode, per noi, caratteristiche della sottospecie dell’est.
    Un altro motivo è la scarsità di predatori, cioè dei lupi (loro sì che selezionerebbero i cinghiali nel modo corretto dal punto di vista della salute dell’ecosistema). E chi li ha fatti diventare così scarsi questi predatori? Tra la caccia che li aveva portati sulle soglie dell’estinzione e la distruzione degli habitat, mi sa che i responsabili siamo sempre noi, anche se negli ultimi anni le leggi di protezione, insieme allo spopolamento delle campagne nelle aree montane e collinari, che ha portato all’espansione delle boscaglie e dei boschi che possiamo definire “di ritorno”, perché ben diversi dai boschi originari, hanno “ridato fiato” a questi predatori, che hanno potuto allargare il loro areale in modo inaspettato ed insperato. Ma mai comunque sufficiente per contenere i cinghiali e gli altri ungulati in espansione, come i cervi e i caprioli.
    Poi c’è il cambiamento climatico, anch’esso responsabilità dell’uomo, come ormai riconoscono quasi tutti. Anche questo infatti influisce sulla prolificità dei cinghiali che, grazie agli inverni più miti e più brevi, riescono facilmente a portare a termine almeno due cucciolate nel corso dell’anno e possono riprodursi ormai in ogni stagione.
    Chiudo citando la frase con la quale Papa Francesco ha concluso il suo messaggio per Biden, che ha affidato a John Kerry durante il loro recente incontro. Cito a memoria: “…Ricordiamoci che Dio perdona sempre, noi uomini perdoniamo qualche volta, ma la natura non perdona più”.
    E’ proprio quel “più”, e non “mai”, che ritengo un messaggio importante, perché mi sembra che noi continuiamo ad andare avanti, come se la potessimo “sfangare” ogni volta, anche se ci troviamo ancora nel mezzo di questa devastante pandemia, come se potessimo continuare tranquillamente come prima, anzi scalpitiamo perché non vediamo l’ora di ricominciare a fare i nostri sporchi comodi a spese della natura, delle altre specie, ma anche dei nostri fratelli che sono nati nel posto sbagliato, dove si combattono guerre con armi che gli abbiamo venduto noi, dove non si è più padroni neanche dei semi per coltivare quello che serve ad una economia di sussistenza, mentre intanto noi facciamo storie anche per fargli arrivare i vaccini che in gran parte loro stessi realizzano (basta pensare all’India).
    Ma la natura (e la giustizia sociale, aggiungo io) non perdonano più, quindi stiamo in campana!
     

  • STORIE DI LAVORI EDILI
    CHE SALVANO I NIDI
    DELLE SPECIE SELVATICHE

    data: 22/03/2021 19:06

    Qualche anno fa stavo organizzando, insieme al mio collega, un workshop sulla biodiversità di Roma, che si è poi concretizzato il 22 maggio del 2015. Durante la preparazione e la definizione del programma ho avuto modo di conoscere diversi ricercatori e professori universitari, che sono poi intervenuti come relatori. Parlando con il professor Fulvio Fraticelli, esperto ornitologo, sono venuta a conoscenza di questo bell’esempio di sensibilità nei riguardi degli altri esseri viventi.
    Dunque, si parte da Steven, un olandese alto più di due metri che allora viveva a Roma, dove faceva il falegname. Dalla sua attività riusciva a ritagliare parecchio tempo libero, che dedicava alla sua passione: il birdwatching. Per le sue osservazioni amava perlustrare in particolare la zona dei Monti della Tolfa, ancora selvaggia e ricca di uccelli, in particolare di rapaci, i suoi preferiti. Durante le sue passeggiate nella valle del fiume Mignone, tra Civitavecchia e Tarquinia, gli era capitato di osservare alcuni falchi grillai, la cui presenza nel Lazio (come del resto in tutta l’Italia centrale), non era ancora stata documentata.

    Il grillaio (Falco naumanni) è molto simile al gheppio, il piccolo falco comunissimo in tutta Italia, ma è molto più raro e localizzato. E’ famosa la colonia presente a Matera ed altre ve ne sono in alcune città delle Murge, come Gravina di Puglia ed Altamura; ve ne sono poi da qualche anno in alcuni comuni della Pianura Padana. Ma qui nel Lazio erano una novità, quindi per Steven si trattava di un’osservazione molto importante.
    Ma da adesso in poi userò il tempo presente, che trovo più coinvolgente.
    Nel tratto della valle dove aveva visto più volte i falchetti Steven nota un bel casale in pietra, che stanno ristrutturando; si presenta ai proprietari, Roberto e Bianca, che gli dicono che hanno intenzione di sistemare il casale per intraprendere un’attività di bed & breakfast, vista la vicinanza a Tarquinia e ad altri siti turistici. Allora racconta loro di questi falchetti, che ogni primavera vengono dall’Africa sub-sahariana per nidificare qui da noi, dove scelgono proprio le costruzioni dell’uomo, specie quelle storiche, in cui riescono a trovare cavità adatte. E che i siti che si prestano vanno sempre più diminuendo, perché via via che gli edifici antichi vengono ristrutturati, mattoni ed intonaco sostituiscono la pietra e tutte le cavità vengono eliminate; non solo, ma dove esistono ancora muri con cavità, queste vengono occupate da altri uccelli, come piccioni e taccole, che sono specie stanziali, oltre che invadenti e più aggressive; così quando i poveri grillai arrivano esausti dopo aver attraversato deserti sempre più vasti a causa dei cambiamenti climatici, devono spendere le poche energie rimaste alla disperata ricerca di un posto per nidificare.
    Bianca e Roberto, che in effetti avevano già notato i falchetti, sono persone intelligenti e sensibili e, contagiati dalla passione di Steven, decidono di collaborare con lui per trasformare il loro futuro bed & breakfast in un sito di nidificazione per i grillai, che oltretutto sarebbe il primo dell’Italia centrale. Sotto la sua guida lasciano tra le pietre delle pareti degli spazi adatti, con una mensolina all’entrata con funzione di posatoio. E alla fine dei lavori non resta che aspettare…
    La prima coppia ha nidificato nel 2011 e via via sono aumentate, fino ad arrivare a 19 coppie nel 2018, continuando poi a crescere. Roberto ha dovuto costruire anche dei nidi in legno sotto una tettoia, per accoglierli tutti. Alcune volte un nido viene occupato dalla civetta, altre dalla ghiandaia marina, un altro fantastico migratore. La speranza è che i grillai riescano a colonizzare anche la storica città di Tarquinia, nonostante la forte competizione con le altre specie presenti, e che poi estendano il loro areale ad altre cittadine tra Lazio e Toscana e anche oltre. Del resto è stato dimostrato che i grillai romagnoli sono i discendenti di quelli lucani, quindi si spostano eccome, devono solo trovare siti adatti alle loro esigenze in cui stabilirsi per nidificare.
    Il bed & breakfast è stato chiamato Villa Naumanni (dal nome scientifico della specie) e da allora è frequentato in tutte le stagioni da turisti che vengono da tutto il mondo, anche grazie alla gentilezza dei proprietari e alle fantastiche colazioni che prepara Bianca, ma da marzo ad agosto, quando sono presenti i falchetti, soprattutto da molti fotografi e appassionati di uccelli, tra cui mio marito ed io.

    Ma questa bella storia rischia di non avere un lieto fine, perché proprio nella valle del fiume Mignone si sta realizzando la superstrada Orte-Civitavecchia, che passerebbe a poche centinaia di metri dal casale, nel territorio di caccia non solo dei grillai, ma anche di tanti altri uccelli, come le albanelle, il falco di palude, la ghiandaia marina, la cicogna nera, il biancone, i nibbi e moltissime altre. Specie importanti, rare e protette, tanto che proprio qui, nell’ambito della rete Natura 2000, è stata istituita una Zona di Protezione Speciale (ZPS), nella quale il tracciato della superstrada, con tanto di viadotti, ricadrebbe interamente. Comitati, esperti, associazioni hanno denunciato la violazione delle direttive europee 92/43/CEE “Habitat” e 79/409/CEE “Uccelli” e si sono attivati per limitare i danni, proponendo percorsi alternativi e fasce di protezione. Adesso si attende che si pronunci la Comunità europea e speriamo che pretenda ed imponga il rispetto della Rete natura 2000, che nel nostro paese tende spesso purtroppo ad essere ignorata e a rimanere solo sulla carta.
    Anche in città più grandi un certo numero di animali, sia uccelli come rondini, balestrucci, rondoni, passeri e codirossi, ma anche mammiferi come i pipistrelli e rettili come i gechi, dipendono per le loro esigenze riproduttive dalle abitazioni umane, dove vivono spesso proprio sotto i nostri tetti o sulle/nelle pareti. Durante il restauro delle facciate e dei tetti delle abitazioni cittadine di solito le fessure presenti sia sotto le tegole che sulle pareti esterne vengono chiuse e nemmeno viene presa in considerazione la possibilità di rimpiazzarle con altre cavità sostitutive. Anche nelle nuove costruzioni non si pensa alla possibilità di favorire la presenza di questi animali, tra l’altro preziosissimi divoratori di insetti, ma non è questo punto di vista antropocentrico ed egoista quello che mi interessa evidenziare, quanto l’importanza della biodiversità per l’equilibrio dell’ecosistema e per il nostro benessere, come però ho già scritto più volte, quindi evito…

    Se in un edificio vi sono segni di nidificazione o di rifugio-posatoio di specie selvatiche, andrebbero prese adeguate misure di conservazione quando si prevedono lavori di ristrutturazione. Uccelli selvatici e pipistrelli, ma anche i gechi, sono specie protette, così come i loro luoghi di riproduzione, sia dalle leggi nazionali italiane che dalle normative della Ue e questo deve essere tenuto in considerazione quando si effettuano lavori edili sugli edifici. Se necessario andrebbero consultati degli esperti naturalisti che potrebbero indicare soluzioni che possano salvaguardare i nidi o individuare siti alternativi da dotare di nidi artificiali. I lavori di ristrutturazione edilizia dovrebbero essere programmati considerando l’eventuale presenza di uccelli selvatici, pipistrelli o altri animali negli edifici e le loro stagioni riproduttive; va considerato però che non tutti gli animali che nidificano in un edificio sono migratori come i rondoni, rondini e balestrucci: molte specie abitano il loro sito riproduttivo per tutto l'anno, come alcuni chirotteri.

    E ora continuo sull’argomento, con un esempio concreto di cui sono protagonista, nel bene e nel male. Nella palazzina di fronte alla nostra nidificavano sotto le tegole del tetto numerose coppie di rondoni, che deliziavano con i loro voli e le loro grida festose le nostre giornate. Nell’autunno del 2019 questa palazzina è stata oggetto di lavori di manutenzione, che hanno interessato anche il tetto. Questo tetto, a falde spioventi, era stato realizzato chissà quanti anni fa (credo negli anni ’60-’70, a giudicare dalla tipologia della palazzina) con tegole molto schiacciate, in cemento-amianto. Nella ristrutturazione queste tegole sono state sostituite con altre di diverso materiale, smaltendo correttamente l’amianto. I lavori sono stati eseguiti nel periodo in cui i rondoni erano nei loro territori di svernamento, in Africa. Però mentre il tetto stava per essere terminato mi sono accorta che all’ultima fila di tegole in basso veniva aggiunta ancora una mezza tegola, che secondo me avrebbe reso difficile, se non impossibile, l’accesso alla cavità in cui i rondoni avrebbero potuto realizzare i loro nidi. Ho anche avuto il sospetto che questa aggiunta fosse stata fatta proprio per impedire ai rondoni di nidificare, ma non potevo esserne sicura. Eravamo ormai all’inizio del primo lock-down e non sarebbe stato facile, ma comunque non ho avuto la determinazione e la sicurezza in me stessa necessarie per cercare il direttore dei lavori o l’amministratore, visto che c’è un’Ordinanza del Sindaco di Roma che protegge la nidificazione di Rondini, Balestrucci e Rondoni e ordina la sostituzione dei nidi rimossi con altrettanti nidi artificiali adeguati. Quindi sono rimasta col fiato sospeso ad aspettare che i rondoni tornassero e poi, quando sono arrivati, ho dovuto assistere col cuore straziato ai ripetuti tentativi di riappropriarsi dei loro nidi, per giorni e giorni, sbattendo e facendosi male, senza riuscirci.
    La tristezza e il rimorso per non aver neanche tentato di impedire questa catastrofe mi hanno poi tormentato e continuano a farlo da allora. Così quest’anno mio marito ed io abbiamo deciso di costruire dei nidi artificiali per rondoni, da fissare alla pergola sul nostro terrazzo, per tentare di risarcirli almeno in parte. Saranno 9 nidi, che stiamo realizzando seguendo le indicazioni di siti specializzati e che contiamo di far loro trovare pronti quando arriveranno ad aprile (sperando che il cambiamento del clima non li faccia tornare troppo presto). Quando saranno qui li attireremo verso i nuovi nidi grazie alla registrazione delle loro grida. Se ci riusciremo potrò dire di aver fatto almeno un po’ pace con la mia coscienza.

    Aggiungo solo una piccola poesia che ho scritto qualche anno fa, dedicata proprio ai rondoni:
    Bambini
    Bambini che giocano in un cortile…
    questo mi ricordate rondoni,
    mentre gridate e vi inseguite gioiosi
    nel cielo davanti alla mia stanza

     

  • TRANSIZIONE ENERGETICA?
    TRANSIZIONE ECOLOGICA?
    CREARE LAVORO "BUONO"
    NELLA BIODIVERSITA'

    data: 23/02/2021 12:02

    Vorrei riprendere un argomento che mi sta a cuore e che avevo toccato parlando dell’intervento proposto dalla Lipu a Renzo Piano per il nuovo ponte sul Polcevera e da lui compreso ed accettato. A proposito del progettare e costruire nel rispetto della biodiversità, avevo accennato al diverso atteggiamento che a tal riguardo si può osservare negli altri paesi europei, mentre qui da noi fatica ad affermarsi. Questo atteggiamento, che immagino derivi da differenze culturali, come la maggiore attenzione per la natura che da sempre appartiene al nord Europa ed in particolare alla Gran Bretagna (sull’origine di questa diversa caratteristica culturale lascio che siano altri più capaci di me ad azzardare un’ipotesi), si traduce poi in interventi concreti, che possono portare a risultati importanti sul fronte della conservazione della biodiversità.

    Gli esempi sono molteplici e se ne possono trovare anche in altri paesi europei, come ad esempio in Spagna, paese che ho avuto l’occasione di conoscere un po’. In particolare ho un ricordo che risale a circa 25 anni fa dell’allora Parco Naturale di Monfragüe, in Estremadura. Questo parco, che si trova alla confluenza del fiume Tiétar con il Tago, era stato istituito nel 1979 ed era entrato a far parte della Rete Natura 2000, come Zona di Protezione Speciale degli uccelli. Si tratta di un ambiente veramente eccezionale, che accoglie un gran numero di specie di uccelli, alcune delle quali altrove molto rare. La sua conformazione geologica (alte rupi che incorniciano le sponde fluviali) ed un ambiente particolarissimo, la Dehesa, un paesaggio modellato dall’uomo per favorire l’allevamento brado del bestiame - che si è però rivelato perfetto per accogliere una fauna molto ricca e diversificata - lo rendono un ecosistema veramente unico. Negli anni settanta del secolo scorso però, circa 3.000 ettari di questo ambiente erano stati distrutti per Regio Decreto, per piantare due specie di eucalipto, da utilizzare per la produzione della carta, essendo l’Estremadura una regione economicamente depressa. Intere colline furono coperte di eucalipti “in purezza”, eliminando la vegetazione spontanea e in alcuni tratti anche la Dehesa (un’associazione estensiva di lecci e querce da sughero). Si venne così a creare, come si può immaginare, un tipo di habitat (ammesso che così lo si potesse definire) completamente artificiale, che non permetteva lo sviluppo di un sottobosco con vegetazione naturale e di conseguenza era assolutamente privo di fauna associata. Così mi era apparso il parco la prima volta che l’avevo visitato e devo dire che, pur mostrando per la maggior parte della sua estensione il meraviglioso paesaggio e la ricchezza di vita che lo rendevano unico, quelle distese di eucalipti erano un pugno nell’occhio e un colpo al cuore.

    Ma per fortuna già dalla fine degli anni ’90 si era cominciato a capire che un parco naturale non poteva rinunciare alla sua primaria finalità, quella della protezione della natura, e si era iniziato a parlare dei primi progetti di eradicazione degli eucalipti e di ripristino della situazione preesistente, ma poi, quando nel 2003 Monfragüe era stato dichiarato Patrimonio della Biosfera e poi, nel 2007, era diventato Parco Nazionale, questi progetti furono adeguatamente finanziati e si riuscì a concretizzarli: in un tempo relativamente breve gli eucalipti vennero tagliati e poi eradicati e l’ambiente originario ripristinato. Quando ci sono tornata negli anni successivi la vegetazione spontanea era già ricresciuta e la vita era tornata. Ormai in questa splendida regione, e non solamente nel Parco, l’economia punta soprattutto sul turismo, senz’altro grazie alle numerose città d’arte e alla gastronomia (è famoso il jamon pata negra, che si ricava dai maiali allevati allo stato brado, che si nutrono delle ghiande della Dehesa), ma anche su un turismo “specializzato”, composto di bird-watchers e fotografi naturalisti che arrivano da tutta Europa e non solo. Sono nate piccole strutture ricettive rispettose dell’ambiente e uno splendido e modernissimo Museo che racconta la storia del territorio e della sua natura, per incontrare le esigenze di coloro (e per fortuna sono sempre di più) che non vogliono prendere possesso dei luoghi ma farsene lentamente pervadere.

    Ci vuole coraggio per decidere di abbattere ed eradicare così tanti alberi, specialmente se si pensa alla reazione dell’opinione pubblica, e qui da noi mi viene da pensare che sarebbe forse impossibile. Quel minimo di conoscenza e di amore per la natura che la popolazione italiana dimostra di possedere, in genere non si può però definire conoscenza ecologica: si ingaggiano battaglie all’ultimo sangue per il singolo albero o animale, ma non si riesce ad avere una visione più ampia e profonda, che abbracci l’ecosistema con le sue interconnessioni. Per questo sarebbe necessaria più del pane una vera educazione ambientale ed ecologica, fin dalla scuola dell’infanzia, che permetta, prima o poi, di ricollocare l’essere umano al suo posto, che è quello di una fra le tante specie all’interno di questo fragile mondo… con una responsabilità in più però, che gli deriva dalla sua intelligenza, che andrebbe sicuramente sfruttata meglio… Ma è un cane che si morde la coda: anche saper usare bene l’intelligenza dipende da un’adeguata educazione.
    Sempre in Spagna si sta lavorando con successo per salvare una specie a rischio di estinzione, un tempo diffusa in gran parte della penisola iberica, ma ormai presente solo in due piccole zone dell’Andalusia: la Lince iberica o pardina (Lynx pardinus). Il rapido declino di questo splendido felide si era verificato in seguito alle epidemie di mixomatosi che avevano decimato i conigli selvatici, che sono la sua preda principale. Lo sviluppo della rete stradale che aveva frammentato il suo habitat era stato poi la causa di un gran numero di investimenti stradali. Ma le ottime campagne di informazione, l’imposizione di limiti di velocità e l’apposizione di cartelli stradali dedicati, oltre all’impegno nell’allevamento in cattività e nella reintroduzione in natura degli animali feriti e curati, ne hanno però arrestato il declino ed anzi, negli ultimi anni, hanno consentito un inizio di ripresa a questa specie così rara.

    Un altro esempio che voglio fare riguarda Trujillo, una cittadina ricca di storia, ai margini del parco di Monfragüe. Qui, nelle mura medioevali e nei tetti coperti da coppi delle antiche abitazioni, si è insediata una cospicua popolazione di falchi grillai (Falco naumanni). Si tratta di un falchetto simile al più comune gheppio (Falco tinnunculus), che dall’Africa sub-sahariana, dove sverna, viene a nidificare in Europa. Ha un comportamento sociale, a differenza del gheppio, e in Italia è piuttosto raro e localizzato (è famosa la colonia di Matera, ma è presente da tempo anche in altre località delle Murge lucane e pugliesi), mentre è assente o molto raro altrove.
    A Trujillo questi falchetti sono molto amati ed apprezzati dai turisti e di fotografi, tanto che si è provveduto a disporre nidi artificiali progettati appositamente, ma addirittura anche a progettare e produrre coppi speciali, da inserire tra le tegole dei tetti medioevali, per renderne più agevole la nidificazione.
    Negli ultimi anni in Italia il grillaio sta lentamente espandendo il suo areale verso nord e per fortuna sta beneficiando di una particolare attenzione anche da parte delle istituzioni. A Matera e Montescaglioso un progetto life ha portato all’introduzione di nuove norme nei regolamenti edilizi, che tutelano le colonie di questo rapace, ma anche all’installazione di 400 nidi artificiali su molti edifici, alla disponibilità a titolo gratuito per le ditte edili ed i singoli cittadini di 1.600 nidi artificiali e alla realizzazione di un centro di recupero dedicato in maniera specifica alla cura ed all’allevamento dei grillai in difficoltà. Ma soprattutto si è curata la sensibilizzazione della popolazione attraverso la diffusione di materiale divulgativo nei punti di aggregazione e nelle scuole del territorio e la sensibilizzazione degli insegnanti delle scuole di Matera e Montescaglioso attraverso incontri con esperti naturalisti; inoltre è stato promosso un concorso di disegno per gli alunni delle scuole elementari dal titolo “Anch’io aiuto il falco grillaio”.
    In pianura Padana sempre un progetto life ha consentito all’Enel di mettere in sicurezza i pali della corrente nelle province di Bologna, Modena, Reggio Emilia, Mantova e Ferrara e di installarvi cento nidi artificiali per incoraggiare la nidificazione del grillaio, che si è spinto fino a lì.

    Ma mi rendo conto di essere un po’ partita per la tangente e quindi voglio provare a riportare tutto questo discorso verso una conclusione che abbia un senso compiuto ed anche una certa attualità. Mi riferisco ai programmi che andranno presentati a Bruxelles per ottenere i fondi del Next Generation Eu e al tanto parlare che si fa di transizione energetica, sostenibilità ambientale e soprattutto di difesa della biodiversità. L’altro grande tema ricorrente è il rilancio dell’economia, anche se secondo me si fa ancora fatica a capire che è proprio e soltanto nella direzione individuata dai tre grandi indirizzi appena indicati che l’economia potrà e dovrà tornare a crescere. Dovranno essere sostenute solo le imprese che andranno in quella direzione e per le altre andrà studiata e sostenuta una riconversione, mentre ogni progetto che vada in senso contrario dovrà essere necessariamente abbandonato. E quindi se è vero, come hanno sostenuto chiaramente sia Ursula von der Leyen che Mario Draghi, che la difesa della biodiversità è fondamentale per il nostro benessere, andranno incrementate e finanziate tutte quelle attività che porteranno non solo alla sua difesa, ma al suo incremento, e ostacolate le altre.
    Sviluppando fantasia e creatività, ma anche semplicemente copiando da chi lo ha già fatto, potranno nascere imprese capaci di realizzare viadotti verdi e sottopassaggi per la fauna, affinché questa possa spostarsi in sicurezza; ciò consentirebbe anche di contrastare l’isolamento genetico che può provocare un deterioramento dello stato di salute delle popolazioni animali; altre aziende potrebbero realizzare barriere che impediscano agli animali di attraversare dove non sia sicuro, così come vetrate e pannelli trasparenti fonoassorbenti progettati, come per il ponte di Genova, per essere ben visibili dall’avifauna in migrazione. Ancora ci potrà essere chi progetta e realizza tegole speciali per facilitare la nidificazione di rondoni o grillai, con ostacoli per le specie indesiderate come i colombi, come anche chi progetta nidi artificiali per le diverse specie, non solo di uccelli, ma anche di mammiferi, come i pipistrelli. Ma, di più, a livello delle istituzioni, potrebbe essere istituito un ufficio speciale, che impieghi ingegneri e biologi impegnati a ridurre al minimo l’impatto negativo che quegli strumenti così importanti per la transizione energetica che sono le pale eoliche hanno sull’avifauna, dislocandole lontane dalle rotte migratorie e rendendole comunque più visibili gli uccelli, magari grazie ad una colorazione ben studiata.
    Tutte queste iniziative, insieme alle altre che potranno scaturire dall’impegno e dalla fantasia, necessarie per uscire dalla crisi andando però nella giusta direzione, faranno sì che molte piccole e medie imprese possano riuscire a risollevarsi, riciclandosi e creando lavoro “buono” e a far sì che la difesa della biodiversità non rimanga solo un’espressione con la quale farsi belli e riempirsi la bocca.

     

  • IL LABORATORIO
    DELLA CIRCOLARITA'

    data: 05/02/2021 17:16

    Apre a Milano il primo “Laboratorio della circolarità” di Ikea in Italia. L’esperimento è già stato avviato, oltre che nella nativa Svezia, anche in Polonia, Norvegia, Irlanda, Regno Unito, Spagna, Belgio, Germania e Francia. Il già molto apprezzato “Angolo delle occasioni” si trasforma in un nuovo laboratorio nel quale gli stessi clienti possono portare i mobili usati, ovviamente prodotti da Ikea, anche se danneggiati. Questi verranno aggiustati e rimessi in vendita perfettamente a posto, ma a prezzi ancor più accessibili. Da quelli irrimediabilmente danneggiati si riusciranno comunque a recuperare parti e componenti da poter riutilizzare per riparare altri mobili.
    Questa idea porterà di conseguenza l’azienda alla ricerca, nella produzione dei nuovi prodotti, di materiali durevoli, ma anche sempre più adatti ad essere riciclati, perché sia poi più facile dare nuova vita a quelli già usati, secondo il principio del Design circolare, già da tempo seguito dall’Ikea.
    E’ prevista anche una nuova area, definita “Learn & Share”, dove sarà favorita l’interazione con i clienti e la collaborazione con le comunità locali sui temi della sostenibilità. Qui verranno mostrate ai visitatori le varie fasi del processo che porta al riconfezionamento dei prodotti. Si punta in questo modo a sensibilizzare i clienti accompagnandoli verso un modello di consumo sempre più consapevole e di conseguenza sostenibile.
    Questo progetto risponde ad un modello che consente di combattere lo spreco, ridurre la produzione di rifiuti, venire incontro alle difficoltà economiche sempre più presenti nella popolazione, ma che nello stesso tempo la vuole educare ad un approccio diverso da quello a cui ci ha purtroppo abituato l’impero del consumismo, con la sua economia dell’usa e getta.
    Si tratta di un progetto che rientra in pieno in quell’economia circolare verso cui l’Europa, con il Green New Deal, si è lanciata e che dovrà essere sempre più implementata.
    Si spera che durante questa brutta crisi, resa più grave dalla pandemia, molte altre aziende, in difficoltà o addirittura a rischio chiusura, possano risollevarsi grazie a progetti di questo tipo, dando vita a consorzi, cooperative o ad altre forme di associazione e coinvolgendo e dando lavoro ai piccoli artigiani del territorio, che non ce la fanno ad andare avanti.

     

  • MEGLIO IL RITORNO
    DEI CASTORI CHE NUOVI
    INSEDIAMENTI UMANI

    data: 05/01/2021 16:51

    Ci sono alcuni animali che, scomparsi da molto tempo dal nostro paese perché perseguitati dall’uomo con la caccia o eliminati assieme ai loro habitat, stanno tornando in Italia. Per lo più questi ritorni sono il frutto di progetti di reintroduzione, studiati e portati avanti spesso in collaborazione con altri paesi. E’ ovvio che questi progetti possono essere realizzati soltanto in quelle porzioni di territorio (purché non troppo piccole) che hanno mantenuto, o sono tornate ad avere, quelle caratteristiche di cui le specie in questione necessitano per vivere. Le prime reintroduzioni, partite alla fine degli anni ‘80, hanno interessato l’avvoltoio grifone (Gyps fulvus), specie un tempo diffusa quasi ovunque in Italia, ma ancora presente soltanto in Sardegna, con una piccola colonia nella zona di Alghero. La specie è stata reintrodotta in Friuli (Riserva Naturale Regionale del Lago di Cornino), poi nell’Appennino centrale (Sirente-Velino) e in Sicilia (Nebrodi). Oltre all’Italia questi progetti hanno coinvolto la Francia meridionale e in tutti i casi gli uccelli provenivano dalla vicina Spagna, che ospita la popolazione di grifoni più grande di tutta Europa. Queste reintroduzioni hanno funzionato: i piccoli nuclei iniziali sono cresciuti ed hanno ampliato il loro areale, attraendo anche esemplari provenienti da altri paesi. Si sono verificati purtroppo degli episodi di avvelenamento, soprattutto nelle fasi iniziali, ma nell’insieme è andata bene.

    L’altro importante progetto di reintroduzione ha riguardato sempre un avvoltoio, il gipeto (Gypaetus barbatus), di cui l’ultimo esemplare era stato ucciso nel 1913 nelle Alpi. Vi hanno partecipato diverse fondazioni, assieme ai Parchi naturali, uniti per riportare il gipeto nella regione alpina, là dove si sono mantenute le caratteristiche ambientali idonee alla sua presenza. Il primo rilascio è stato effettuato nel 1986 in Austria, dopodiché se ne sono susseguiti altri lungo tutto l’arco alpino, dallo Stelvio alle Alpi occidentali. Dal 2017 i rilasci sono continuati in diversi siti nelle Alpi sud-occidentali e del Massiccio Centrale in Francia, con la speranza di ottenere un collegamento tra Alpi e Pirenei che permetta lo scambio genetico tra le due popolazioni, ora isolate. La reintroduzione è riuscita e il gipeto è tornato a volare sulle Alpi e a riprodursi. Meno bene è andata a questo splendido uccello in Sardegna, dove la reintroduzione era stata tentata intorno al 2008, ma era fallita perché gli uccelli appena rilasciati erano stati deliberatamente uccisi per mezzo di bocconi avvelenati.

    A questo proposito c’è da dire che quando si fa partire un progetto di reintroduzione non bisogna mai sottovalutare l’importanza del fattore comunicazione e cioè della corretta informazione scientifica nei confronti della popolazione umana interessata. Le reintroduzioni vanno studiate con molta attenzione, ma lo scopo è quello di restituire un elemento della biodiversità che era stato sottratto all’ecosistema e che in quell’ecosistema aveva e può avere ancora un suo ruolo. Solo informando correttamente si potrà ottenere il consenso necessario per la riuscita di un’operazione delicata e molto costosa in termini sia di tempo che di risorse umane ed economiche. Questo aspetto è fondamentale specialmente qui da noi, perché la “variante italiana” dell’Homo sapiens sapiens risulta essere particolarmente poco sapiens e quindi non bisogna mai dare niente per scontato.

    Altri animali invece stanno tornando spontaneamente in Italia, dopo essere stati praticamente ridotti a pochissimi esemplari, se non all’estinzione totale. Sto parlando dell’orso bruno eurasiatico (Ursus arctos arctos) e della lince europea (Lynx lynx). Si tratta ancora di pochissimi individui che però, almeno nel caso dell’orso, stanno già causando problemi di convivenza con l’uomo. Poi c’è il lupo, un tempo presente in tutta Italia, che dall’Appennino centrale dove, grazie alla protezione del Parco Nazionale d’Abruzzo (poi anche Lazio e Molise) e della legge 157/92, si era conservato, si sta ormai espandendo in tutta Italia, fino a sconfinare in Francia (a volte siamo noi ad esportare!).
    Un altro animale che non apparteneva storicamente alla nostra fauna, ma che espandendo il suo areale dai paesi balcanici verso occidente è arrivato da noi attraverso il confine sloveno è lo sciacallo (Canis aureus). Questo piccolo canide intelligente ed adattabile è probabilmente destinato ad entrare a far parte delle tante specie opportuniste che trovano conveniente la prossimità con l’uomo perché in grado di sfruttare le risorse trofiche facilmente reperibili ai margini dei centri abitati.

    Ma l’animale che più mi incuriosisce è appena apparso sulla scena italiana: un’osservazione lo scorso autunno in Alto Adige che segue quella di un paio d’anni fa in Friuli. Sto parlando del castoro europeo (Castor fiber), ricomparso dopo più di quattro secoli: l’ultimo avvistamento nel nostro paese (o più probabilmente cattura) risaliva infatti al 1594. Per il momento si tratta di un solo esemplare che è stato immortalato da una foto-trappola sistemata da un agente venatorio, il quale aveva notato alcuni alberi abbattuti e accatastati e i segnali caratteristici dell’azione di questa specie sulle cortecce, in una località della Val Pusteria che è stata giustamente mantenuta segreta. Questo castoro, sicuramente arrivato dall’Austria, è il secondo in Italia, dopo quello avvistato nel 2018 in Friuli, nel Tarvisiano, di provenienza molto presumibilmente slovena. Un po’ poco per ora, per parlare di un ritorno, ma in teoria anche dalla Svizzera potrebbero arrivare nuovi esemplari, perché a quanto pare le popolazioni europee ai nostri confini sono in espansione. I giovani castori infatti, dopo il secondo anno di vita in famiglia, si disperdono per cercare un proprio territorio e così facendo potrebbero capitare oltre il confine, che per loro non esiste, e stabilirsi in qualche nostro corso d’acqua.
    In Europa, il castoro veniva cacciato per le ghiandole che secernono una sostanza odorosa detta castoreo, anticamente molto usata (medicina, profumeria, aromi naturali, industria del tabacco), per la sua carne che era consentita anche durante la Quaresima, nonché per la coda che veniva considerata un cibo prelibato, ma soprattutto per la morbida e calda pelliccia. Inoltre è stato sicuramente danneggiato dalla riduzione delle zone umide. All'inizio del XX secolo era rimasto solo nel delta del Rodano in Francia, nell'Elba in Germania, nel bacino del Dnepr in Bielorussia ed in alcune zone umide nel sud della Norvegia.
    Da diversi anni si è avviata la reintroduzione del castoro in molti paesi europei, anche se in alcuni casi, soprattutto in Scandinavia, è stata utilizzata la specie nordamericana, morfologicamente molto simile ma con un patrimonio genetico decisamente differente, tant’è vero che le due specie non sono interfeconde e quella alloctona, come spesso accade in questi casi, compete con successo con quella autoctona. Nel 2006, i castori europei erano già circa 640.000, diffusi in 22 Stati d'Europa. Gli Stati con la maggior diffusione sono Russia, Polonia e Germania. Programmi di reintroduzione sono in corso in Scozia e in Galles. L’areale potenziale, che si sta rapidamente riconquistando, comprende quasi tutta l'Europa settentrionale, centrale ed orientale. È esclusa l'area mediterranea (Italia peninsulare, Grecia e Spagna), per via del clima troppo caldo.
    Ma perché dovremmo essere felici se il castoro tornasse anche da noi? Come spiega George Monbiot nel suo “Selvaggi - Il rewilding della terra, del mare e della specie umana”, di cui ha già scritto, benissimo come sempre, la nostra Rosa Rossi, il castoro è considerato una “specie chiave”, vale a dire una specie “che riesce ad esercitare sul suo ambiente un impatto maggiore di quanto il suo solo numero suggerisca. Questo impatto crea le condizioni che permettono ad altre specie di vivere in un dato ecosistema”. In pratica i castori, nel realizzare le loro tane fatte di rami intrecciati, modificano il loro ambiente e la natura stessa del fiume, rallentandone dove occorre il flusso grazie alla costruzione di dighe, per renderlo più profondo così da poter realizzare l’ingresso alla tana alla giusta profondità. Spostando i rami e i ciottoli che creano degli ingorghi rendono più scorrevole il flusso del fiume. Grazie al loro lavoro si vengono a creare habitat molto diversi, che possono risultare adatti a tante altre specie, aumentando in tal modo la biodiversità dell’ecosistema, la sua complessità e di conseguenza la sua resilienza, cioè la capacità di resistere agli eventi improvvisi e di attutirne gli effetti devastanti, per poi tornare allo stato iniziale senza troppi danni.

    Anche noi uomini forse siamo una “specie chiave”, perché anche noi abbiamo un impatto sull’ambiente sproporzionato rispetto al nostro numero. Peccato però che il nostro approccio sia ben diverso e che quindi lo siano anche le conseguenze. Noi l’ambiente lo semplifichiamo, impoverendolo e banalizzandolo, invece di renderlo più complesso. Così diminuisce la biodiversità e con essa la resilienza. Ma faccio degli esempi per spiegarmi meglio: prendiamo una monocoltura in agricoltura, composta di piante geneticamente identiche… cosa succede se arriva improvvisamente un agente patogeno? Prendiamo ancora un rimboschimento fatto con alberi della stessa età e della stessa specie, magari neanche adatti a quel luogo… cosa succede (ed è successo nel caso della tempesta Vaia) se si verifica un evento climatico estremo (tra l’altro non più così raro)? Ma con l’ultimo esempio voglio tornare su un fiume, forse simile a quello che sceglierebbero i castori: come lo trasformerebbe l’Homo sapiens sapiens? Beh, nove volte su dieci ne rettificherebbe il corso, rendendo il flusso dell’acqua più veloce e quindi più pericoloso; altrettante volte ne cementificherebbe il fondo e gli argini, impedendo all’acqua, in caso di aumento improvviso della portata, di espandersi lentamente nell’area golenale per poi alimentare le falde, cosa utilissima viste le siccità estive sempre più prolungate. Ma per stare più sicuro avrebbe già riempito quell’area golenale di abitazioni e fabbricati vari, per rendere la combinazione ancora più esplosiva. Per non dire poi dei tanti fiumi che provvederebbe addirittura a “tombare”, trasformandoli in vere e proprie bombe pronte ad esplodere alla prima occasione! Davvero molto sapiens, non c’è che dire!

     


     

  • AGITU, DONNA LIBERA
    PASTORA FELICE
    ICONA D'INTEGRAZIONE

    data: 01/01/2021 18:45

    Stavo raccogliendo materiale su un altro argomento di cui volevo parlare, ma non me la sono sentita di lasciar passare questa terribile notizia senza dire qualcosa, anche se è molto difficile e doloroso. Avevo conosciuto, se così si può dire, questa meravigliosa ragazza tempo fa, in una puntata della trasmissione Geo di Rai 3, che seguo sempre. L’avevo ammirata tanto e me la ricordavo molto bene, come anche mia figlia, che l’aveva vista insieme a me. Ho seguito con lei il telegiornale che dava la notizia dell’omicidio e della violenza, e ne siamo rimaste inorridite e sconvolte.
    Agitu Ideo Gudeta era una ragazza etiope, che aveva dovuto lasciare il suo paese dopo aver ricevuto minacce da parte del governo per la sua attività di contrasto al land grabbing, l’accaparramento dei terreni da parte delle multinazionali, un problema molto presente in Africa.
    Il padre, un professore, aveva trasferito la famiglia negli Stati Uniti quando la situazione politica nel Paese era diventata oppressiva, ma lei, dopo aver terminato gli studi all’Università di Trento, era tornata appositamente in Etiopia, dove abitava con la nonna, per lottare in difesa dei piccoli allevatori e contadini locali. In seguito alle gravi minacce subite era però poi tornata in Trentino e si era stabilita nella Valle dei Mòcheni, laterale della Valsugana, dove con un progetto di recupero aveva rilevato dei terreni abbandonati e dato vita ad un’azienda agricola biologica, che aveva chiamato “La Capra Felice”, partita con un piccolo allevamento di 15 capre di una razza molto rustica.
    Qui Agitu aveva trovato il luogo adatto in cui portare avanti il suo progetto: vivere in armonia con la natura salvando dall’estinzione la bella capra pezzata mochena, razza autoctona della valle. Posso immaginare le difficoltà che avrà avuto all’inizio questa ragazza di colore, da sola, in un piccolo paese di montagna dalla mentalità chiusa e diffidente! Ma poco a poco, grazie alla sua energia e positività, alla sua gentilezza e all’allegria contagiosa, era riuscita a farsi voler bene da tutti, o quasi (nell’agosto del 2018 aveva ricevuto minacce ed aggressioni a sfondo razziale). La chiamavano “La regina delle capre felici” e produceva formaggio, yogurt ed anche cosmetici con il latte delle sue capre. Negli anni, man mano che il numero di animali cresceva (era arrivata ormai a 180 capre di razza pezzata mochena e di camosciata alpina e aveva anche 50 galline ovaiole) aveva dato lavoro a tante persone, per lo più rifugiati come lei, provenienti da diversi paesi. Proprio la scorsa estate, in piena pandemia, era riuscita anche ad aprire un nuovo punto vendita a Trento: “La bottega della Capra Felice”, dopo quello già aperto a Bolzano; ma i suoi sogni non finivano mai, come aveva detto l’imprenditrice in un’intervista trasmessa in questi giorni al tg e infatti stava già organizzandosi per aprire un piccolo agriturismo. Agitu era sempre positiva ed ottimista, ed era fiera del suo percorso, che dalle lotte al fianco dei contadini e degli allevatori etiopi l’aveva portata al recupero dall’abbandono di terreni nelle montagne trentine. Raccontava volentieri la sua storia, perché proprio grazie alla passione e alle conoscenze apprese dai pastori al fianco dei quali aveva lottato in Etiopia, aveva potuto allevare personalmente le capre e trasformare il formaggio con metodi tradizionali. Il suo banco al Mercato dell’Economia solidale di Piazza Santa Maria Maggiore a Trento era ormai un’istituzione e le sue consegne a domicilio un appuntamento gradito per molti, fino a Bolzano e Rovereto. Formaggi, yogurt, uova, ma anche ortaggi e cosmetici bio: negli anni La Capra Felice era diventato un marchio famoso anche fuori dal Trentino. Agitu era una donna indipendente, socievole ed allegra, che non si scoraggiava mai ed aveva costruito attorno a sé una rete di amicizie e persone che la sostenevano, riuscendo a far crescere un’attività imprenditoriale di successo e in armonia con l’ambiente. Lo scorso 4 ottobre sul suo profilo Facebook aveva pubblicato una foto delle sue capre con questo messaggio: “Amore incondizionato, nulla conta di più di loro nella mia vita e nulla mi appaga come il loro amore puro e incondizionato, sono la mia forza e il mio rifugio, sono in grado di rigenerarmi, mi trasmettono serenità, tranquillità. Sono grata a loro, esisto perché ci sono loro e sono la mia vita”. Aveva anche imparato a proteggere le sue capre dagli orsi e così lo raccontava sul suo sito: “Quando vedo impronte o segnali della presenza di un orso mi chiudo in auto con dei petardi. Basta fare un po’ di rumore e il mio ‘vicino’ sa che è meglio andare da qualche altra parte”. Anche questo è un segno della grande armonia che aveva costruito con la natura e con l’ambiente che la ospitava.
    La scorsa estate Legambiente aveva riconosciuto il valore del progetto di Agitu assegnandole la Bandiera Verde. “Abbiamo premiato La Capra Felice con la Bandiera Verde per il suo doppio valore di recupero delle tradizioni pastorali ed esperienza imprenditoriale brillante. Ci sono diverse attività di questo tipo in provincia, ma l’unicità dell’esperienza di Gudeta – donna, attivista, rifugiata – ci ha spinto a scegliere lei come modello d’iniziativa capace di coniugare tradizione, qualità e sostenibilità economica, un’attività portata avanti con coraggio come imprenditrice” aveva commentato ad Huffington Post Andrea Pugliese, presidente di Legambiente Trento.
    Sulla sua morte atroce c’è da dire poco: l’ha uccisa un uomo, che sia ghanese o italiano non ha alcuna importanza. L’odio per le donne che riescono ad essere indipendenti e ad avere successo senza bisogno dell’appoggio di un compagno non conosce frontiere.
    Per me, che adoro le capre e le belle storie, resterà sempre la mia pastora felice, capace di spargere felicità ed ottimismo intorno a sé.
     

  • SALUTE O ECONOMIA?
    PERCHE' SCEGLIERE?
    POSSONO COESISTERE

    data: 17/12/2020 22:05

    Questa settimana sono due le notizie che mi hanno colpito, tanto da pensare di poterle utilizzare come base di partenza per costruire un articolo, che spero di riuscire a dipanare in modo che possa esprimere il mio pensiero in modo coerente e comprensibile. La prima notizia riguarda la bambina londinese di 9 anni morta nel febbraio del 2013 per una grave forma d’asma. Dopo diversi anni e a seguito di una serie di ricorsi portati avanti dalla madre, alla fine, per la prima volta nel Regno Unito, un medico legale ha riconosciuto ufficialmente che l’inquinamento atmosferico (in particolare da biossido di azoto, cioè da traffico veicolare) era stato la causa primaria della sua morte. In precedenza l’inquinamento era stato considerato al massimo una concausa. Per la prima volta! Eppure l’Inghilterra ha dato il via alla Rivoluzione Industriale già nella seconda metà del ‘700 e proprio gli inglesi hanno coniato il termine smog, combinazione di smoke (fumo) e fog (nebbia), riconoscendo così di fatto l’esistenza e rendendosi sicuramente conto degli effetti nocivi di questa combinazione micidiale. E tutti noi oggi non possiamo non vedere che è proprio nelle regioni della pianura Padana, che ospita la maggior parte delle industrie e degli allevamenti intensivi del nostro paese e la maggior concentrazione di traffico veicolare, il tutto complicato da una conformazione orografica che facilita il ristagno dell’aria inquinata mischiata alla nebbia, che il coronavirus ha colpito più duro. E’ in questa zona infatti che abbiamo avuto il maggior numero di morti, sia nella prima che in questa seconda ondata. Ma se si andassero a spulciare le statistiche sulla mortalità per malattie dell’apparato respiratorio e per tumore nelle diverse regioni italiane, sicuramente si troverebbe in queste regioni una mortalità ben superiore alla media nazionale già prima della comparsa del coronavirus. Il virus ha trovato sulla sua strada tante persone che avevano già un apparato respiratorio minato da anni di esposizione alle sostanze inquinanti, e più erano gli anni più gravi i danni che queste avevano provocato (da qui la morte di così tanti anziani). Ma noi continuiamo a chiamarla soltanto nebbia!

    Ma poi in fondo per il virus questa situazione non è stata favorevole, anzi si è rivelata un cul de sac, un vicolo cieco. Infatti lo scopo di un virus non è quello di uccidere il suo ospite, la cui morte, di fatto, equivale per il virus ad un suicidio. Un virus di successo deve replicarsi il più possibile, passando da un ospite all’altro, per mantenersi in vita; infatti, appena finito il lockdown e ripresi i traffici, le attività e gli spostamenti, il coronavirus è partito alla conquista di tutte le regioni italiane, che inizialmente erano state appena toccate. Alcune hanno resistito un po’ di più, ma alla fine è arrivato dappertutto.
    La seconda notizia cui voglio dar rilievo è l’infelice frase dell’industriale Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata, uscitagli durante un incontro sul futuro della Moda. Ha detto, grosso modo: “…Credo che la gente sia un po’ stanca, bisogna ripartire, anche se qualcuno morirà pazienza”. Si è immediatamente sollevato un putiferio sul web e lui si è scusato e pentito, ma in realtà è stato sì un po’ incauto, ma in fondo ha detto quello che tanta altra gente pensa, vergognandosi però di dirlo apertamente. C’era stato già infatti chi aveva detto che in fondo gli anziani hanno poca importanza, perché sono improduttivi. E invece no, gli anziani sono il nostro patrimonio di memoria storica, conoscenza, saggezza ed esperienza, un grande patrimonio al quale dovremmo sempre ricordarci di attingere per aver sempre presenti quelle priorità e quei paletti che potranno guidarci nelle scelte.
    E così siamo arrivati al punto cruciale: la contrapposizione che è sempre sembrata inevitabile fra difesa dell’occupazione e salvaguardia della salute, cioè fra economia e vita umana. Dai tempi dell’Eternit di Casale Monferrato fino all’Ilva di Taranto, passando attraverso tante altre realtà sparse per l’Italia, il ricatto ignobile è sempre quello: “Se volete conservare il lavoro dovete accettare possibili (ma magari fossero solo possibili!) danni alla salute vostra e dell’ambiente”.
    Ma questo ricatto non è accettabile in un paese civile e queste due esigenze non devono mai più essere considerate inconciliabili. Le industrie che inquinano devono essere risanate, cioè non devono usare più combustibili fossili e non devono produrre più sostanze tossiche (penso ai pesticidi, ad esempio), non solamente evitare di eliminare scorie velenose. Il lavoro può essere salvaguardato nel breve termine, cioè durante la riconversione energetica, grazie agli ammortizzatori sociali, ma poi nel lungo termine andrà creato lavoro in tutti quei settori che dovranno portare ad una nuova economia sostenibile, in linea con il Green New Deal. Nello sviluppo del settore delle energie rinnovabili, in una produzione agricola e in un allevamento sostenibili, in linea con la Strategia Farm to Fork, nell’efficientamento energetico del patrimonio edilizio, nella rinaturalizzazione degli alvei fluviali, nella decementificazione dopo decenni di cementificazione selvaggia; in sintesi in una riqualificazione in chiave ecologica di tutto il nostro territorio devastato da anni e anni di industrializzazione senza freni.
    Si deve lavorare per creare una ricchezza che non sia soltanto crescita del Pil, ma crescita culturale, civile, di consapevolezza e conoscenza dell’ambiente e degli ecosistemi, per non ritrovarci tra qualche anno a combattere contro una nuova pandemia.
    Non si può pensare di risollevare l’economia soltanto promuovendo i consumi. Mi fa una gran rabbia tutta quest’enfasi sul Natale, che va salvaguardato perché considerato la panacea di tutti i mali, mentre alla fine si tradurrà soltanto in un passaggio di mano di un po’ di soldi e nella produzione di tonnellate di rifiuti.
    E ancora una volta mi trovo a dare ragione a Papa Francesco, che ha detto che dovremmo approfittare di questo Natale a scartamento ridotto per rivedere le nostre priorità e considerare questi sacrifici cui siamo costretti come una forma di penitenza per aver vissuto al di sopra delle nostre possibilità, privilegiando il superfluo e perdendo di vista l’essenziale, senza mai ricordarci di chi non ha neppure il minimo necessario per vivere degnamente.

     

  • "ECONOMY OF FRANCESCO"
    EVENTO RIVOLUZIONARIO
    SOTTOVALUTATO DAI MEDIA

    data: 26/11/2020 10:02

    La scorsa settimana si è svolto un evento passato quasi sotto silenzio, trascurato e marginalizzato dai media, secondo me volutamente per la sua carica rivoluzionaria. Un evento che avrebbe dovuto svolgersi nel maggio scorso ad Assisi, con la presenza concreta di migliaia di persone, e che invece, a causa della prima ondata della pandemia, aveva dovuto essere sospeso. Ma questa sospensione gli ha consentito di maturare, di crescere, di divenire più profondo, di lievitare… E questa lievitazione ha dato i suoi frutti: la cabina di regia è stata sempre ad Assisi, ma l’incontro si è svolto on line, sfruttando ciò che di positivo questa diversa condizione consente: la possibilità di coinvolgere un numero enorme di persone in ogni parte del mondo. Sto parlando di The Economy of Francesco, la tre giorni di incontri voluti dal Papa con tanti grandi nomi, ma soprattutto con tantissimi giovani under 35 (2000 da 120 diversi Paesi): studenti, economisti, piccoli imprenditori, agricoltori e allevatori sensibili ai temi della sostenibilità ambientale e della giustizia sociale e accomunati dalla volontà di non arrendersi allo stato di fatto.
    Papa Francesco, infatti, intende avviare, con i giovani e un gruppo qualificato di esperti, un processo di cambiamento globale affinché l'economia di oggi e di domani sia più giusta, fraterna inclusiva e sostenibile, senza lasciare nessuno indietro. Il prossimo incontro, si terrà sempre nella città di San Francesco ed è previsto per l'autunno del 2021, quando le condizioni sanitarie, si spera, permetteranno di assicurare la partecipazione di tutti, ma questa volta in presenza.
    Tra gli esperti hanno partecipato, portando la loro esperienza e la loro preziosa testimonianza, personalità come Vandana Shiva, l’attivista indiana che da anni si batte contro le multinazionali dei pesticidi, degli OGM e dei brevetti dei semi, contro il Land grabbing, sempre al fianco dei contadini per salvaguardare il loro libero accesso alla terra, all’acqua, alla possibilità di riprodurre i loro semi, ad un cibo sano ed a una vita dignitosa. C’è stato l’economista e banchiere bengalese Muhammad Yunus, che ha ideato e realizzato il microcredito, un sistema di piccoli prestiti per quei piccoli imprenditori troppo poveri per ottenere credito dai sistemi bancari tradizionali e per questo nel 2006 ha vinto il Nobel per la pace. Ma c’erano anche economisti italiani, come Leonardo Becchetti e Mariana Mazzucato, che da tempo hanno compreso l’inganno dell’economia neoliberista, che pone il profitto ad ogni costo davanti a tutto e ne hanno smascherato la falsa premessa, che si è rivelata una altrettanto falsa promessa, secondo cui la crescita generale della ricchezza si sarebbe “naturalmente, per capillarità” riversata su tutti. E’ ormai evidente invece che ad un arricchimento enorme di pochissimi corrisponde l’impoverimento sempre più drammatico di una platea sempre più vasta di esseri umani in ogni parte del mondo. Come ha detto anche Francesco nel suo messaggio finale ai giovani partecipanti : “…Non basta accrescere la ricchezza comune perché sia equamente ripartita – no, non basta questo –, non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare. Neppure questo basta”. Non ci può essere crescita economica senza crescita umana… per tutti.
    Ma la cosa incredibile e veramente rivoluzionaria è che personalità di spicco e ragazzi sconosciuti si sono messi in gioco tutti insieme, sullo stesso piano, dialogando, confrontandosi, facendo e discutendo proposte, per perseguire gli interessi dell’intera comunità umana.
    Non ho purtroppo potuto seguire gli incontri, ma in quel poco che ho sentito e letto ho colto echi che riemergono dal profondo della mia formazione politica: di Karl Marx, Friedrich Engels, Che Guevara, Fidél Castro. Ad esempio in questo: “La gravità della situazione attuale, che la pandemia del Covid ha fatto risaltare ancora di più, esige una responsabile presa di coscienza di tutti gli attori sociali, di tutti noi, tra i quali voi avete un ruolo primario: le conseguenze delle nostre azioni e decisioni vi toccheranno in prima persona, pertanto non potete rimanere fuori dai luoghi in cui si genera, non dico il vostro futuro, ma il vostro presente. Voi non potete restare fuori da dove si genera il presente e il futuro. O siete coinvolti o la storia vi passerà sopra”.
    Vedremo se da questo incontro, o da quello del prossimo anno, verrà fuori un nuovo Manifesto che ci guiderà verso il sol dell’avvenir, ma in ogni caso i semi sono stati piantati, l’impasto di cuori e menti giovani e meno giovani sta lievitando e qualcosa di buono ne verrà fuori di sicuro. Neanche per Francesco la rivoluzione è un pranzo di gala, ma ci potrà essere da mangiare e da bere per tutti, quel tanto che basta.
     

  • IL SOGNO DEL CIBO BUONO?
    LA PAC AUTORIZZA ANCORA
    VELENI E INQUINAMENTI

    data: 02/11/2020 14:54

    Era stato un bel sogno, quello stesso di Carlo Petrini di un cibo buono, pulito e giusto, ma purtroppo il destino dei sogni è di svanire al risveglio… E ci siamo svegliati con la nuova PAC (Politica Agricola Comune) appena approvata, che sancisce ancora il diritto di pochi grandi industriali del cibo di continuare ad avvelenarci, a calpestare la dignità del lavoro, a torturare gli animali allevati e ad inquinare la terra, l’acqua e l’aria (gli allevamenti intensivi contribuiscono in maniera massiccia alla produzione dei gas climalteranti, che sono responsabili del riscaldamento globale). Con un colpo solo fa fuori la Farm to Fork, la Strategia europea per la Biodiversità e ferisce gravemente anche il tanto sbandierato Green New Deal: tanti buoni propositi buttati nel cesso, con la Bellanova, tutta soddisfatta, a tirare la catena. Proprio lei che dovrebbe difendere non solo le eccellenze italiane, ma la salute del suolo che le produce e magari anche la nostra.
    Il cetriolo stavolta è bello grosso e zeppo di pesticidi!
    Ma noi continuiamo ad illuderci di comprare e mangiare cibo bio e ad ammalarci comunque (chi sa perché?); continuiamo a votare per il meno peggio, accorgendoci però che via via è sempre meno distinguibile dal peggio e continuiamo a rimuovere il destino dei nostri figli e nipoti…anzi forse i nipoti si salveranno perché non ci saranno proprio, fintantoché i nostri figli troveranno, quando va bene, solo lavori precari, in nero e malpagati.
    Che amarezza… Certo non c’era bisogno del Covid per deprimerci, ma si sa, abbiamo il discutibile vizio di voler strafare!
     

  • SE L'EU PER LA PRIMA VOLTA
    AFFRONTA L'INTERA
    FILIERA ALIMENTARE

    data: 24/10/2020 19:40

    La strategia Farm to Fork (F2F) è il piano decennale messo a punto dalla Commissione europea per guidare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente. Nasce con l’intento di trasformare il sistema alimentare europeo, rendendolo più sostenibile sotto diversi aspetti e riducendone anche l’impatto sui Paesi terzi. 

    È questa la prima volta che l’Unione europea decide di progettare una politica alimentare che proponga misure e obiettivi che coinvolgano l’intera filiera alimentare, dalla produzione al consumo, passando per l’etichettatura e la distribuzione. L’obiettivo è quello di rendere i sistemi alimentari europei più omogenei e più sostenibili di quanto lo siano oggi. Ogni Stato membro dell’Ue dovrà seguirla, adottando norme a livello nazionale che consentano di contribuire a raggiungere gli obiettivi stabiliti dell’Ue. I Paesi membri godranno di eventuali misure di sostegno aggiuntive nel corso della concretizzazione della strategia.
    La strategia F2F è in linea con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e il suo intento è anche quello di innescare un miglioramento degli standard a livello globale, non solo nell’Ue dunque, attraverso la cooperazione internazionale e le politiche commerciali che coinvolgono i Paesi terzi. In questo modo si potrà avviare la transizione ecologica evitando che nel resto del mondo vengano messe in atto pratiche da noi considerate non sostenibili.
    I principali obiettivi della strategia sono:
    • Garantire una produzione alimentare sostenibile;
    • Garantire la sicurezza alimentare;
    • Favorire una filiera alimentare sostenibile dall’inizio alla fine: dalla lavorazione alla vendita (sia all’ingrosso sia al dettaglio), così come i servizi accessori, come l’ospitalità e la ristorazione;
    • Promuovere il consumo di cibi sostenibili e sostenere la transizione verso abitudini alimentari sane;
    • Ridurre gli sprechi alimentari:
    • Combattere le frodi alimentari lungo la filiera.

    Tra gli obiettivi fondamentali ce ne sono alcuni comuni anche alla Strategia per la biodiversità, di cui ho già trattato. Ad esempio:
    • ridurre del 50% dell’uso di pesticidi chimici entro il 2030;
    • dimezzare la perdita di nutrienti, garantendo al tempo stesso che la fertilità del suolo non si deteriori. In questo modo si ridurrà di almeno il 20% l’uso di fertilizzanti entro il 2030;
    • ridurre del 50% le vendite totali di antimicrobici ed antibiotici per gli animali d’allevamento e per l’acquacoltura entro il 2030;
    • trasformare il 25% dei terreni agricoli in aree destinate all’agricoltura biologica entro il 2030.
    Finora le politiche adottate su queste tematiche sono state non solo diverse nei diversi stati membri, ma anche troppo settoriali, cioè declinate separatamente su agricoltura, ambiente, salute e commercio, il ché ha fatto sì che in molti casi entrassero addirittura in contraddizione fra loro.
    A questo proposito sono anni che Slow Food preme e si adopera affinché venga adottato un approccio di tipo olistico, che affronti in modo coordinato non solo la produzione alimentare, l’agricoltura e il commercio, ma anche la qualità del cibo e dell’ambiente, la tutela della salute, del lavoro, la gestione delle risorse e del territorio, la protezione della biodiversità in tutti i suoi aspetti, oltre naturalmente alla salvaguardia dei valori sociali e culturali legati all’alimentazione. Finalmente, grazie ad una politica comune cui questa strategia prelude, questo approccio potrà essere possibile.
    La promessa di un cambiamento di prospettiva era balenata già nello scorso dicembre, quando la presidente Ursula von der Leyen aveva presentato il Green New Deal, e poi nel maggio scorso, nello stesso filone di pensiero, si è presentata questa nuova strategia per la produzione agricola e la protezione della biodiversità.
    Gli obiettivi che si pone partono dall’evidenza dell’impatto fortemente negativo che l’agricoltura e l’allevamento intensivi (possiamo tranquillamente definirli “industriali”), hanno sulla crisi climatica e ambientale in cui ormai siamo immersi. Non è sufficiente però darsi degli obiettivi, se questi non vengono poi sostenuti e resi concretamente perseguibili da politiche stringenti, che prevedano ad esempio di investire in innovazione e in formazione e rivedano il meccanismo di sostegno economico in direzione di una disincentivazione dell’agricoltura e dell’allevamento di tipo industriale, con tutto il suo carico di insetticidi, pesticidi, antimicotici, antibiotici e via discorrendo e di un concreto sostegno invece all’agricoltura e all’allevamento di tipo tradizionale che è in perfetto accordo con la visione olistica che la F2F propone. Quando l’azienda agricola era un tutt’uno con l’allevamento del bestiame non servivano pesticidi e diserbanti perché la biodiversità presente in un ambiente ricco di habitat diversi (altro che monocoltura) faceva la sua parte. Non c’era bisogno di mangimi industriali (ricordate la “mucca pazza”?) né di antibiotici: il foraggio era prodotto all’interno dell’azienda e i rifiuti non esistevano, perché rientravano nel ciclo produttivo come concimi; gli animali non si ammalavano perché venivano rispettati i loro ritmi naturali ed avevano a disposizione spazi adeguati. Con un sostegno concreto i piccoli produttori potrebbero dare vita ad una rete che li renderebbe più forti e più capaci di promuovere i loro prodotti e di distribuirli sul mercato, per garantire infine a noi consumatori prodotti più sani e buoni e un ambiente più sano. (1)
    La strategia sembra andare, se pur timidamente, in questa direzione, perché contiene proposte di modifica delle politiche attualmente in vigore: ad esempio la revisione della Direttiva sull’uso sostenibile dei pesticidi e del Regolamento sul benessere degli animali. Purtroppo infatti la strategia non è vincolante di per sé, ma i Paesi membri, nel momento in cui produrranno nuove norme e leggi, o quando dovranno allinearsi alle politiche comunitarie già esistenti, come la Politica Agricola Comune, saranno vincolati a rispettare gli obiettivi fissati dalla Farm to Fork.
    E in effetti proprio in questi giorni è in discussione la nuova Pac (Politica Agricola Comune), che dovrà poi essere tradotta nei piani strategici nazionali. E’ molto importante vigilare affinché non venga tradita in quella sede la filosofia che sottende alla Farm to Fork e ne vengano recepiti i principi cardine: il rispetto per l’ambiente (il suolo con la sua microfauna, l’acqua, i diversi habitat con gli animali che li abitano), per gli animali allevati e per la biodiversità, così come per i lavoratori (penso ai braccianti agricoli preda dell’”invisibilità” e del caporalato, ma anche dei prodotti di sintesi utilizzati nell’agricoltura intensiva, che li avvelenano).
    Entro il 2023 comunque la Commissione dovrà presentare una proposta legislativa che definisca un quadro di riferimento in materia di sistemi alimentari sostenibili: tale proposta contribuirà a rendere più coerenti ed omogenee le singole politiche nazionali, garantendo coesione a livello dell’Ue. Sarebbe molto bello se questa proposta legislativa prendesse in considerazione la possibilità di promuovere e sostenere anche la cosiddetta agricoltura sociale, facilitando la costituzione di cooperative di giovani con problemi di dipendenza o altro, di rifugiati e in genere di persone svantaggiate, visti i riconosciuti effetti terapeutici del lavoro agricolo e a contatto con gli animali.
    Speriamo…
    Ma mentre chiudevo questo pezzo, prima della rilettura finale, purtroppo mi sono capitate in rete
    notizie che attenuano parecchio questa speranza, infatti è già stato raggiunto un accordo di carattere politico sulla struttura della nuova Pac: cerchiamo di capirci qualcosa…
    Dall’Huffingtonpost del 22/10/2020 Elena Fattori (vicepresidente della commissione agricoltura del Senato) scrive che “il mantenimento di determinati capisaldi nella battaglia politica in sede istituzionale, sta riducendo gli spazi all’eccesso di liberismo che quantomeno è chiamato a conformarsi ai concetti di sostenibilità e biodiversità”…” Tutto quanto attiene all’agricoltura, inteso come intero comparto, di carattere intensivo va mitigato con azioni mirate, e non incentivato con evidente nocumento per il clima e per il verificarsi di posizioni di mercato a rischio distorsione. Altrettanto evidente è che la necessità di destinare percentuali maggiori verso la piccola e media impresa agricola cercando di invertire la tendenza usuale della Pac per cui tanti fondi vanno a pochi e creare sistemi di incentivazione al rispetto e al mantenimento puntuale della biodiversità sono temi centrali, ma bisogna riconoscere anche dei risultati non scontati”…“Per la prima volta il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione che introduce la clausola sociale nella Pac che afferma la tutela dei diritti dei lavoratori braccianti e prevede sanzioni”…”I contributi di inizio attività per i giovani agricoltori e i seppur piccoli passi in direzione della gestione del rischio sono altri punti verso un cambiamento che è ancora incompleto”…” La riforma entrerà in vigore nel 2023, dopo il voto degli oltre mille emendamenti di questi giorni, la palla passa al trilogo tra Commissione, Consiglio e PE che dovrà concludersi entro il 2021, per cui si spera che ulteriori misure in direzione della sostenibilità e della biodiversità, nonché del cambiamento di un paradigma vecchio come quello basato sulla produzione in termini di quantità anziché di qualità, vengano inserite nel documento finale affinché gli elementi positivi non diventino semplice fumo negli occhi”…”la pressione sempre più forte per etichette trasparenti e tracciamento di provenienza delle materie prime, mantengono il Made in Italy e la sua qualità produttiva un asset fondamentale per lo Stato che fino a non poco tempo fa era a forte rischio”.
    E fin qui sembra che vada tutto abbastanza bene, ma vediamo cosa ne pensa Luisiana Gaita su Il Fatto quotidiano: “La riforma della Politica agricola comune che sta per essere votata a Bruxelles non accoglie praticamente nessuna delle istanze sostenute dai movimenti ecologisti e dai Verdi. Secondo Greenpeace così concepita la riforma significa una resa su clima e ambiente. Anche il commissario Ue Janusz Wojciechowski, esprime perplessità sulla compatibilità delle modifiche con le politiche ambientali europee. Soddisfatta invece la ministra Teresa Bellanova e le associazioni dei grandi coltivatori”… “Vincono l’agricoltura intensiva e la lobby dell’agrobusiness. Nessun tetto massimo alla densità di animali per ettaro negli allevamenti intensivi le cui sovvenzioni, almeno per ora, restano invariate. Nessun budget specifico per proteggere la biodiversità sui terreni delle aziende agricole con stagni, siepi e piccole zone umide e, per rimanere in tema, addio all’obbligo di almeno il 10% dei terreni agricoli dedicati alla biodiversità. E viene persino abolito il divieto di arare e convertire i prati permanenti nei siti della rete Natura 2000 (aree protette), dove gli agricoltori potranno ricevere sovvenzioni per trasformare in campi agricoli le zone umide tanto preziose per la fauna selvatica. Mentre l’Europa e il mondo intero sono distratti dalla pandemia, prende forma la riforma della Pac (Politica agricola comune) e, anche se si aspetta il voto finale che dovrebbe arrivare entro questa settimana, assomiglia sempre meno a quella disegnata dalla Commissione europea con la strategia ‘Farm to Fork’ e che doveva essere parte integrante del Green deal europeo”… “Mentre i media parlavano di ‘nomi di hot dog vegani’ – ha commentato l’attivista Greta Thunberg, citando un tweet di Greenpeace – il Parlamento europeo ha avallato 387 miliardi di euro per una nuova politica agricola che, in pratica, significa arrendersi su clima e ambiente”.
    Ma vediamo quali sono i punti più preoccupanti:
    • E’ stato approvato un gruppo di emendamenti con i quali vengono respinte le proposte della Commissione Ambiente del Parlamento Ue di tagliare i sussidi per il sistema degli allevamenti intensivi o di aumentare sostanzialmente i finanziamenti per le misure ambientali.
    • Si è stabilito invece che i budget nazionali dei pagamenti diretti dovrebbero essere riservati per il 60% al sostegno delle grandi aziende che promuovono l’agricoltura intensiva, mentre appena un 6% dovrebbe essere destinato alle aziende piccole e medie; la proposta mira anche a dirottare risorse verso pratiche ambientali che solo le grandi aziende possono permettersi.
    • Il maxi-emendamento di fatto non prevede un meccanismo che incentivi la diffusione di pratiche agricole attente alla biodiversità, perché l’accesso ai fondi non sarebbe legato a criteri ambientali, ma solo a criteri economici. Le risorse, in sintesi, non andranno a chi vuole avviare una nuova attività, ma a chi dimostra di avere già un’attività ad alto reddito.
    • Con gli emendamenti fin qui approvati, inoltre, si impedisce ai singoli paesi di adottare criteri più stringenti per distribuire la loro quota di risorse.
    • E’ stato eliminato il limite di densità di animali per ettaro negli allevamenti intensivi, lasciando così campo libero all’uso di antibiotici per contrastare le malattie facilitate dall’affollamento, e nel contempo non sono stati previsti incentivi e sostegno dei piccoli allevatori.
    La discussione comunque è ancora molto accesa e il Commissario europeo per l’agricoltura, Janusz Wojciechowski, ha affermato che l’accordo raggiunto dal Parlamento è incompatibile con il Green Deal. Ma anche con la strategia Farm to Fork, aggiungo io.

    (1) Leggete a questo proposito il libro di Piero Bevilacqua “Il CIBO E LA TERRA - Agricoltura, ambiente e salute negli scenari del nuovo millennio” da poco uscito con il Corriere della Sera nella collana Vivere sostenibile: è una fonte di informazioni fondamentale e illuminante su questi argomenti.


     

  • Il racconto
    TROPPI CINGHIALI E RATTI?
    GLI UMANI ABBANDONINO
    ROMA PER UN ANNO...

    data: 22/10/2020 11:25

    Sull’eco del trambusto, o scandalo, a seconda di come lo si voglia interpretare, causato dall’uccisione di una famiglia di cinghiali in un giardinetto pubblico di Roma alcuni giorni fa, ho pensato di tirar fuori dal cassetto e proporre in questa sede un racconto che ho scritto qualche anno fa.
    All’inizio del 2017 il mio ufficio del Dipartimento Tutela ambientale del Comune di Roma, che si occupava, e tuttora si occupa, di tutela della biodiversità, per cercare di dare una risposta adeguata a tutte le problematiche presentate dai cittadini relative alla presenza di elementi della fauna selvatica all’interno del tessuto cittadino, propose di istituire un tavolo tecnico su questo argomento, insieme alla Città metropolitana (ex Provincia) e alla Regione (a cui la legge 157 del ‘92 attribuisce la competenza sulla fauna selvatica omeoterma). Praticamente da subito però questo tavolo si concentrò unicamente sulla ricerca di una possibile soluzione ai problemi e ai pericoli rappresentati dalla presenza sempre più numerosa dei cinghiali in città. Dal lavoro di questo tavolo, che ha comportato più di due anni di riunioni cui presero parte anche l’Istituto Superiore di Sanità, l’Istituto zooprofilattico del Lazio e della Toscana, la Asl, Parchi e riserve naturali (Appia antica, Vejo e Roma Natura con le sue riserve), ma soprattutto l’I.s.p.r.a., che ne curò l’aspetto tecnico-scientifico, alla fine, grazie anche all’intervento della Prefettura, è scaturito il Protocollo d’azione per la gestione del cinghiale nel territorio di Roma Capitale, sottoscritto a fine anno 2019 dai tre enti promotori (Roma Capitale, Regione Lazio e Città metropolitana di Roma capitale). Sulla base di questo protocollo è stato deciso ed effettuato l’intervento della scorsa settimana.
    Pur seguendo fin dall’inizio i lavori del tavolo tecnico, seppure con un ruolo essenzialmente organizzativo, ero però decisamente scettica, perché mi accorgevo che non si dava il giusto peso, soprattutto da parte della mia Direzione, a quello che secondo me era il fulcro della questione: la cattiva gestione dei rifiuti.
    E così, in questo contesto è nato, durante un’insonnia notturna, il racconto che segue, piuttosto surreale, ma forse non quanto la dichiarazione di Vittoria Brambilla, che ha detto che si sarebbe presa lei in carico i cinghiali… E come? Purtroppo sembra che nessuno glielo abbia domandato… Peccato però che la fauna selvatica sia patrimonio indisponibile dello Stato ed è difficile che qualcuno possa prenderla in carico, qualunque cosa ciò possa significare.

    Le ali sulla città
    C’era una volta una grande città, che più di 2000 anni di storia avevano resa bellissima, amata e visitata da tutti nel mondo. Negli ultimi 75 anni, dopo essersi ripresa da una terribile guerra, la città era cresciuta ancora molto, però troppo in fretta e male. Farla funzionare era diventato sempre più difficile e gli abitanti non riuscivano più a godersela, ma la subivano. Chi poteva la abbandonava per stabilirsi in paesi piccoli, ancora a misura d’uomo; ma quel che è peggio, per una città che viveva di turismo, è che si stava verificando un fenomeno mai accaduto prima: i turisti che venivano a visitarla non tornavano più una seconda volta, nonostante avessero lanciato una monetina in una famosa fontana, che prometteva loro di farli tornare. La bellezza non bastava più a compensare il disagio di trovarsi immersi nel traffico, nei rumori e nella puzza.
    Chi cominciava a farsi rivedere, invece, era la natura, che negli anni era stata estromessa, a parte poche specie di animali e piante addomesticate, per lasciare spazio alle abitazioni, ai supermercati, ai centri commerciali, insomma al cemento, ma anche ai rumori, alle luci, ai veleni. E la natura era tornata, dapprima in punta di piedi, poi via via più spavalda, sfruttando i punti deboli della grande città, primo fra tutti la gestione dei rifiuti.
    “In questa città non esiste un’emergenza rifiuti” assicurava l’assessore comunale all’ambiente, eppure i cittadini da anni ormai quotidianamente scavalcavano o circumnavigavano cumuli di spazzatura e negli ultimi tempi la fotografavano per condividerla in rete con chi non aveva la loro stessa fortuna! Un momento però… ho detto “da anni ormai”? Ma allora l’assessore aveva ragione: non c’era alcuna emergenza, questa era diventata la normalità!
    Ma, appunto, c’era chi sapeva approfittare della situazione: tutti gli animali opportunisti e spazzini, come ratti, cinghiali, cornacchie, gabbiani, piccioni e scarafaggi, che diventavano sempre più invadenti ed aggressivi; si sentivano i padroni della città, come in un vecchio film di un regista famoso. I nidi degli uccelli erano dappertutto e i loro territori coincidevano ormai con le terrazze, le scuole, le strade che i cittadini percorrevano durante le loro attività quotidiane. Se gli uccelli proteggevano i loro piccoli non c’era massaia che si salvasse quando stendeva il bucato o annaffiava le piante, mentre i ragazzi non potevano sostenere gli esami perché non riuscivano ad entrare a scuola e i bambini dell’asilo non potevano più fare ricreazione all’aperto; ma anche chi semplicemente camminava per strada non poteva stare tranquillo… e intanto anche i cinghiali scorrazzavano per le strade, sempre più vicini al centro della città, spaventando la gente e provocando incidenti stradali.
    Si negava l’emergenza rifiuti ma si dichiarava l’emergenza cinghiali e ci si allarmava per i ratti, le cornacchie ed i gabbiani… Schizofrenia?
    Si aprivano tavoli tecnici per trovare soluzioni, senza peraltro coinvolgere l’azienda municipale per la nettezza urbana… Schizofrenia?
    Passarono i mesi, ma fu solo dopo l’umiliazione subita da parte dei militanti del partito al governo del Paese, che si mobilitarono in una bella domenica di maggio per ripulire la città al suo posto, che la Giunta comunale, dopo aver cercato invano un pifferaio magico, finalmente lanciò una proposta ai cittadini: un concorso di idee da presentare in rete, idee che poi i cittadini stessi avrebbero votato.
    Il concorso andò avanti e l’idea vincente, per quanto paradossale potesse apparire, risultò questa: evacuare la città per un periodo di almeno un anno, lasciandola a disposizione degli animali, che l’avrebbero restituita pulita (dalla spazzatura, non dai loro escrementi, ma quelli li avrebbe poi lavati la pioggia, siccità permettendo).
    E così siamo arrivati ai giorni nostri. Il progetto parte, ma dovranno essere presi comunque dei provvedimenti, in modo da non ritrovarsi nella stessa situazione dopo pochi mesi, quindi:
    prima di abbandonare la città viene costituita una task force composta da diverse figure professionali competenti nei diversi settori della “galassia rifiuti”, ma anche da scrittori, giornalisti scientifici specializzati in tematiche ambientali, artisti ed inventori, capaci di immaginare (o anche solo di copiare) soluzioni efficaci, economicamente vantaggiose e magari anche esteticamente gradevoli al problema dello smaltimento e del riciclo dei rifiuti. Lo sforzo maggiore verrà profuso sul fronte della riduzione alla fonte, eliminando gli sprechi, alimentari in primis.
    I progetti che scaturiranno dall’impegno di questa task force dovranno essere realizzati nel corso dell’anno in cui la città verrà consegnata agli animali, mentre gli esseri umani saranno trasferiti altrove.
    In questo “anno sabbatico” i cittadini, alloggiati in Unità Abitative Provvisorie con un minimo di attrezzatura, in campi con poche comodità, scarsi e molto spartani negozi, impareranno per forza di cose a vivere con lo stretto necessario, a non sprecare e a riutilizzare tutto quello che può essere riutilizzato, a coltivare l’orto, a fare in casa pane, biscotti e marmellate, ad autoprodurre saponi, detersivi e cosmetici; tornerà in voga il baratto e avranno un grande successo le “banche del tempo”, mentre si riscopriranno i vantaggi della collaborazione e della solidarietà. Ci si accorgerà ben presto che in questo modo i rifiuti quasi non esisteranno più e che invece, nonostante la frugalità della nuova vita, sarà notevolmente cresciuto il tasso di felicità.
    Dal momento in cui prenderanno in consegna la città, gli animali dovranno affrontare vicende alterne: da una prima fase stile “paese di bengodi”, in cui avranno a disposizione ogni ben di Dio, si troveranno poi via via in ristrettezze sempre maggiori. Potranno reagire con adattamenti di tipo fisiologico, come la diminuzione della natalità, ma anche modificando i loro comportamenti alimentari, cercando di tornare, se saranno ancora capaci di farlo, a quello di cui si nutrivano prima dell’era della pacchia.
    Ma alla fine saranno costretti a riconsegnare la città… Che ne dite, a questo punto gli umani saranno pronti? Secondo voi sapranno meritarsela?

     


     

  • QUARTIERI "SPECIALIZZATI":
    NO, GRAZIE. CI VOGLIONO
    CITTA' A "ISOLE"
    DA VIVERE A PIEDI

    data: 27/09/2020 15:15

    Mi ha fatto molto piacere trovare in un interessante articolo di Francesca Sironi sul settimanale D di Repubblica una sponda al mio di qualche mese fa che, riprendendo un’idea di mio padre urbanista, proponeva una città organizzata in “isole”, nelle quali tutti i principali servizi, e non solo, fossero raggiungibili a piedi.
    Nel ripensare la città con un approccio nuovo rispetto a quello prevalente finora, che ha sempre privilegiato l’efficienza, la velocità, la specializzazione delle zone e dei quartieri (popolare, residenziale, commerciale, degli uffici e così via) in Europa e non solo si vuole partire proprio, a quanto pare, da un modello di città che è stato definito ¼ h, dove tutto, dalla spesa, alla scuola, a una passeggiata nel verde, agli svaghi (cinema, teatro, musica), alle strutture sanitarie e sportive, fino agli uffici per le pratiche burocratiche e addirittura al lavoro, sia raggiungibile a piedi in un quarto d’ora.
    Giuseppe Sala lo propone per la sua Milano, dove a Villapizzone, quartiere della quasi-periferia Nord Ovest, indicato dalle proiezioni demografiche dell’ufficio statistico come uno di quelli a maggior crescita, vuole adottare proprio il modello della città di 15 minuti, capace di offrire a tutti gli abitanti sportelli pubblici decentrati, luoghi di cura, di educazione e divertimento nel raggio di un quarto d’ora a piedi da casa.
    Anche Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, ha puntato proprio su questo nel programma elettorale che l’ha portata ad essere eletta per la seconda volta nel giugno scorso. Il suo piano si propone di ripensare sia le strutture pubbliche che la mobilità cittadina, per ridurre l’inquinamento e rendere la città più accessibile per tutti. L’idea di base, bellissima già dal titolo, è la “paesizzazione dell’urbe”: portare in città proprio quei benefici che rendono la vita più semplice e piacevole nei piccoli paesi. È stata ispirata e guidata dal professor Carlos Moreno, che insegna impresa e innovazione alla Sorbona, il quale ha dichiarato: “Non abbiamo bisogno delle “smart city”, per quanto se ne sia parlato tanto. Non è nella tecnologia la risposta. Quello che serve è cambiare paradigma: riconquistare tempo per le persone. Il tempo è l’elemento più importante per portare qualità della vita nello spazio urbano”. Occorre “rompere con il concetto tradizionale della specializzazione delle aree, dei quartieri popolari da una parte, le zone diplomatiche dall’altra. Le strutture stesse dovrebbero essere polifunzionali: la scuola nel weekend può aprirsi ad altro e così il parco”. L’ideale sarebbe “arrivare a una città dove gli spazi per vivere, lavorare, fare spese, divertirsi e stare bene siano tutti raggiungibili a piedi o in bici”. Il piano di Anne Hidalgo prevede anche la nomina di responsabili di quartiere al servizio degli abitanti e di cinquemila poliziotti municipali in più “per far rispettare le regole della vita quotidiana”.
    Una difficoltà potrebbe presentarsi per il lavoro, ma si confida comunque in un consolidamento della pratica dello smart working, sperimentato per necessità durante il lockdown imposto dalla pandemia, che del resto non sembra intenzionata a risolversi in tempi brevi. Proprio le limitazioni che abbiamo tutti vissuto in questi mesi ci hanno fatto comprendere l’importanza della prossimità, delle relazioni personali vere e non virtuali, che si possono coltivare solo in un quartiere a misura d’uomo, che non ci costringa a molte ore della giornata chiusi in un’automobile, ciascuno solo con sé stesso.
    Ma non tutti hanno avuto bisogno di una pandemia per capire quale fosse la strada giusta per risolvere i deficit di sostenibilità e di coesione che in una grande città potrebbero apparire inevitabili. A Barcellona già dal 2016 si scommette sul modello delle Superilles (termine catalano che si può tradurre con superblocchi), cioè macro-isolati a vocazione prevalentemente pedonale. Ada Colau punta a limitare il più possibile il traffico su gomma, riducendo del 30% le emissioni di anidride carbonica. Per questo il Comune ha deciso di prendere in mano un progetto promosso da amministrazioni precedenti e riguardante niente meno che una nuova idea di città, con il pedone come protagonista.
    La proposta dei macro-isolati non è nuova a Barcellona: il primo fu istituito nel 1993 vicino alla Chiesa di Santa Maria del Mar, nel quartiere del Born, a cui seguirono altri due a Gràcia nel 2005; ma il primo progetto risale al 1987 ed è opera di Salvador Rueda, l’attuale direttore dell’Agenzia di ecologia urbana della città. Si trattava ancora però, in effetti, di semplici Isole pedonali, come ne esistono già da tempo in tante città.
    Ada Colau però di questo nuovo modello ne ha fatto una priorità: ha stanziato 10 milioni e la prima Superilla è stata inaugurata nel settembre 2016 nel quartiere Poblenou.
    Secondo la definizione che ne dà il Comune, il Programma Superilles “Riempiamo di vita le strade” è un progetto di città rivolto al miglioramento della vita delle persone grazie alla progettazione e realizzazione di nuovi spazi di convivenza, secondo un modello organizzativo del tessuto urbano pensato in primis per i residenti. Un’opportunità per favorire la mobilità sostenibile, la produttività, il verde e la biodiversità, così come gli spazi di incontro per i cittadini. L’idea di base consiste nel definire il perimetro d’un insieme di isolati che deve assorbire la maggior parte del traffico veicolare privato e pubblico, mentre l’interno viene destinato ad uso esclusivo di pedoni e biciclette.
    In pratica, l’attuale Superilla della capitale catalana è un modo differente di distribuire la mobilità, studiato ad hoc per la trama urbana definita nell’Ottocento da Ildefonso Cerdà: in un ambito formato da nove isolati, il traffico veicolare viene deviato verso le strade perimetrali del macro-isolato, in modo da evitare il transito all’interno della zona. Le auto circolano a 10 km all’ora su un’unica corsia, con l’obiettivo di ridurne al minimo i passaggi. Vengono eliminati i parcheggi negli incroci, che così si trasformano in nuove piazze di circa 2.000 mq, che restano ad uso praticamente esclusivo dei pedoni e possono poi diventare nuovi giardini di quartiere. Anche le strade interne alle Superilles si trasformano in luoghi più accessibili ai pedoni, oltre che meno rumorosi, più verdi e gradevoli.
    Josep Maria Montaner, “sottosindaco” del distretto di Sant Martì dove è stata inaugurata la prima Superilla, è tra i ferventi sostenitori del progetto: l’obiettivo è coinvolgere il 58% delle strade e aumentare di 380 ettari gli spazi verdi del quartiere. Secondo Montaner, il macro-isolato del Poblenou è da intendersi come un esperimento, un banco di prova per verificarne il funzionamento e le eventuali criticità, con un investimento tutto sommato modesto (55.000 euro).
    La consigliera per l’urbanistica della Municipalità, Janet Sanz, ha affermato che tutti i cambiamenti saranno realizzati gradualmente, mediante azioni di tipo reversibile, con l’imprescindibile partecipazione dei residenti, secondo un’idea di “democrazia aperta”. Anche l’uso dei nuovi spazi dovrà essere deciso in collaborazione con i residenti, attraverso diverse modalità di confronto.
    Decine di proposte e critiche sono già state raccolte in occasione della giornata aperta di valutazione del progetto, nei dibattiti cittadini tenutosi sul posto, nelle riunioni dell’Amministrazione con enti, imprese, scuole del quartiere, oltre a quelle raccolte in un’apposita cassetta. Anche circa 200 studenti delle Scuole di Architettura cittadine sono stati coinvolti per redigere proposte. I dati raccolti sono ora al vaglio dell’Amministrazione, che è disposta a modificare il modello iniziale laddove risultasse meno soddisfacente del previsto, ma che assicura che questa Superilla è solo la prima di una lunga serie.
    Il successo di questo modello in termini di vivibilità dei quartieri e di riduzione dell’inquinamento atmosferico e acustico è stato valutato molto positivamente da centri di ricerca e istituzioni internazionali, che hanno sottolineato gli effetti benefici non solo sulla salute generale, ma anche sul benessere psicologico dei residenti, grazie alla riduzione delle fonti di disturbo e di stress e alla possibilità di aumentare le occasioni e i luoghi di incontro.

    Forse però la vera fonte di ispirazione del professor Moreno è una città non europea dalla triste fama. Si tratta di Medellín, la megalopoli colombiana famosa per il cartello della droga di Pablo Escobar. Qui importanti investimenti sociali e infrastrutturali sono riusciti ad emancipare, almeno in parte, alcuni slum dal futuro di violenza e desolazione cui sembravano destinati.
    Appollaiato sulle colline scoscese che circoscrivono Medellín a Ovest, il famigerato quartiere Comuna 13 è stato per quasi tre decenni uno dei palcoscenici più caldi della lunga guerra civile - tra ribelli di sinistra, gruppi paramilitari di destra, organizzazioni criminali, il signore della droga Pablo Escobar e il governo nazionale - che ha devastato la Colombia a partire dagli anni Cinquanta e in cui hanno perso la vita più di 220.000 persone. Più di recente, però, Comuna 13 è diventato tra i maggiori protagonisti dell’incredibile trasformazione di Medellín, un processo di rigenerazione urbana che ha fatto di questo centro di 3,5 milioni di abitanti, per anni capitale mondiale degli omicidi, la città più innovativa dell’anno nel 2013. Medellín è stata premiata per aver messo al primo posto l’inclusione economica e sociale.
    Infrastrutture e creatività sono i due pilastri dello sforzo di rinnovamento portato avanti da successive amministrazioni comunali negli ultimi quindici anni e lanciato dal matematico Sergio Fajardo Valderrama, che è stato sindaco di Medellín dal 2004 al 2007.
    Questo approccio visionario è ben evidente proprio nella Comuna 13, dove, per meglio integrare i residenti di questo quartiere dalla geografia particolarmente ostica al resto della vallata, nel 2011 sono state inaugurate sei scale mobili all’aperto, coperte da una tettoia arancione, collegate fra loro e lunghe complessivamente 385 metri. Esse consentono di inerpicarsi per le ripide pareti della collina in circa cinque minuti, un’impresa che prima avrebbe richiesto trenta faticosi minuti a piedi, non certo alla portata di tutti. Il successo di questa struttura ha garantito a Comuna 13 molti fondi pubblici, grazie ai quali è stato possibile asfaltare le scalinate e il sentiero adiacenti, decorare con i murales di artisti locali e internazionali le pareti delle abitazioni che vi si affacciano, rimetterne a posto i tetti e abbellirle con piante e fiori; poi costruire scuole e realizzare un centro sociale che i residenti possono utilizzare gratuitamente per organizzare corsi e attività sportive e culturali e per ospitare eventi anche privati e ancora le Uvad (Unidades de Vida Articulada), spazi polifunzionali in un parco aperto al pubblico.
    La scala mobile è solo un esempio di tutto un sistema di infrastrutture alternative per il trasporto, ad esempio le teleferiche, pensate su misura per un centro urbano che si sviluppa su aspri pendii, che rendono quasi impossibile il passaggio di autobus e treni. A questi si sono aggiunti poi numerosi altri progetti, dal Giardino Botanico al Museo Interattivo della Scienza, a una rete di 10 biblioteche pubbliche costruite tra il 2008 e il 2011, con attenzione non solo ai libri, ma anche al design. Come ha scritto il New York Times nel 2012, “Medellín ha scelto di combattere crimine e violenza a colpi di architettura, urbanistica e ingegneria”.
    Naturalmente i problemi di Medellín non sono tutti risolti e il crimine continua ad essere una realtà con cui fare i conti. Gli omicidi sono diminuiti, ma povertà e diseguaglianze sono tutt’altro che scomparse e le condizioni di salute della città rimangono fragili. Ma non c’è dubbio che l’impegno delle autorità, degli imprenditori e dei cittadini di Medellín abbia dato frutti importanti, sempre più riconosciuti e premiati, anche nel resto del mondo. Nel settembre 2015 Medellín ha ospitato la prima Cities for Life, un incontro mondiale di sindaci ed esperti di urbanistica per discutere di città e innovazione.
    Senza azzardarmi a considerare questi interventi alla stregua di un colpo di bacchetta magica, mi sbilancio però ad affermare che la strada è quella giusta e mi auguro che, oltre a Giuseppe Sala, anche altri sindaci italiani prendano esempio da queste esperienze.

     

     

  • SI', IL PONTE DI PIANO RISPETTA GLI UCCELLI

    data: 12/08/2020 16:09

    Il nuovo ponte di Genova, inaugurato lunedì 3 agosto, è non solo bello ma anche amico degli uccelli. Durante la sua progettazione infatti la Lipu, la Lega italiana per la protezione degli uccelli, si è messa in contatto con l’architetto Renzo Piano, per renderlo partecipe e consapevole dell’importanza di una progettazione responsabile, che rispetti l’ambiente e la natura, con gli esseri viventi che ne fanno parte. La valle del Polcevera si trova infatti su un’importante rotta migratoria, percorsa ogni anno in volo da moltissime specie di uccelli, alcune delle quali rare e già esposte a diverse altre minacce.
    Renzo Piano, da persona intelligente quale è, si è dimostrato molto disponibile ed ha compreso il grave impatto che le barriere fonoisolanti trasparenti che fiancheggiano il ponte per tutta la sua lunghezza (mille e sessantasette metri), da entrambi i lati, avrebbero potuto avere su questi animali, che non vedendole potevano sbattervi contro, perdendo la vita o rimanendo gravemente feriti. Ha provveduto quindi, seguendo le indicazioni della stessa Lipu, a far inserire alcune marcature sulle barriere trasparenti, rendendole in tal modo visibili agli uccelli.
    Sui pannelli vetrati sono state inserite in stampa serigrafica delle linee orizzontali nere dello spessore di due millimetri, distanti tra di loro tre centimetri, seguendo le indicazioni fornite dal manuale "Costruire con vetro e luce rispettando gli uccelli", edito dalla Stazione ornitologica svizzera, un testo di riferimento alla cui realizza

    zione ha contribuito anche la stessa Lipu.
    Questo intervento è stato davvero molto importante e sarebbe stato bello e utile parlarne in televisione, cogliendo magari l’occasione rappresentata dall’inaugurazione del ponte, seguita da così tante persone! Io non l’ho sentito, ma forse mi è sfuggito, o almeno così spero. Ne ha però parlato Peppe Aquaro sul Corriere della Sera e magari altri che non so. Cerco di dare anch’io un piccolo contributo su queste pagine.
    Sembra un piccolo intervento, ma in realtà è importantissimo perché, come ricorda la Lipu:
    “secondo i dati di numerosi studi italiani, il numero annuo di uccelli che muoiono su ogni singolo chilometro di barriere trasparenti, nel nostro paese, può arrivare a 800. A livello mondiale l'impatto contro pannelli trasparenti, ma anche vetrate, elettrodotti e pale eoliche è una delle maggiori minacce alla sopravvivenza degli uccelli, ed è un fenomeno in costante aumento a causa dell'espansione urbanistica e del crescente uso del vetro in edilizia.”
    In molti paesi europei, soprattutto del nord, ma anche in Spagna, l’attenzione verso gli animali e le loro esigenze è decisamente più presente e radicata, sia a livello di sensibilità dei singoli cittadini che per quanto riguarda l’adozione di scelte e provvedimenti ad hoc da parte delle amministrazioni pubbliche (ma le due cose sono in effetti interdipendenti).
    Da noi questa sensibilità è poco diffusa, pur se localmente abbiamo anche qui degli esempi virtuosi, come ad esempio i volontari che, sulle strade del nord Italia (Veneto e Friuli, ma vado a memoria, non si offenda nessuno), si prodigano per salvare i rospi che, alla ricerca di zone umide in cui deporre le uova, durante il periodo riproduttivo si spostano in massa finendo facilmente schiacciati dalle automobili. Però a livello delle istituzioni questa sensibilità finora è mancata, se si fa eccezione per l’adozione di una Delibera “salvarondini” (per la protezione della nidificazione) da parte di circa 150 comuni, per lo più piccoli, ma non solo, sempre su input della Lipu.
    In molti paesi europei invece si trovano spesso lungo le autostrade sottopassaggi o viadotti realizzati appositamente per la fauna, che così non è costretta a rischiare la vita nel tentativo di attraversare. In questo modo si cerca anche di ridurre la frammentazione ambientale e di contrastare l’isolamento genetico delle popolazioni animali e, non ultimo, si scongiurano molti possibili incidenti stradali.
    In Italia siamo lontani anni luce da questo approccio, che presuppone una conoscenza della natura e dell’ecologia (nel senso scientifico del termine), che da noi purtroppo è carente a tutti i livelli, a partire dai programmi scolastici. Per questo mi associo alla Lipu che, riferendosi all’intervento sul ponte, si augura "che questa modalità di mitigazione possa essere adottata in tutte le opere di edilizia e infrastrutturali, dando così un contributo importante alla conservazione degli uccelli selvatici". E che possa costituire, aggiungo io, un primo passo verso un nuovo modo di relazionarsi con le altre specie che condividono con noi il territorio, che non sia più di dominio o, bene che vada, di indifferenza, ma di responsabilità e di cura. Ma, anche in questo caso, per costruire questa nuova sensibilità, occorrerebbe partire dalla scuola.

     

     

     

  • CAPITO CHE LA PANDEMIA
    E' CONSEGUENZA
    DELL'INVASIONE UMANA
    DI TUTTI GLI HABITAT?

    data: 05/08/2020 17:03

    Fanno un po’ rabbia tutti questi virologi, spuntati come funghi, che fanno a gara per spiegarci come e perché una pandemia come questa fosse chiaramente prevedibile… E’ facile dirlo ora: col senno di poi possiamo arrivarci tutti, ma voi perché diavolo, dall’alto della vostra scienza, non avete pensato di avvertirci in tempo?
    Magari avremmo potuto muoverci meglio e più rapidamente: avremmo potuto ad esempio rafforzare il sistema sanitario invece di affossarlo, per affrontare con mezzi e strumenti più adeguati l’emergenza. Anche se ci sono comunque tanti paesi che gli ospedali non ce li hanno proprio!
    In realtà però dubito che sarebbe servito a qualcosa: anche se la Cina avesse subito compreso, ammesso e comunicato al resto del mondo la gravità dell’epidemia, per fermarla o quantomeno tentare di arginarla si sarebbe dovuto bloccare tutto immediatamente, a partire dai voli, poi tutti i trasporti, gli scambi commerciali e tutto il resto, garantendo solo il funzionamento del settore sanitario, della filiera alimentare e dello smaltimento dei rifiuti, come si è fatto qui da noi da marzo. Ma per fare questo ci sarebbe voluta un’autorità mondiale, cosa neanche pensabile.
    Anche perché, in ogni caso, misure sacrosante come il distanziamento, l’igiene personale e l’uso della mascherina, che nel mondo diciamo ricco, non vengono rispettate dagli idioti irresponsabili dediti alle feste, alla movida e agli aperitivi, ma purtroppo anche dai politici negazionisti o semplicemente cretini, nella gran parte del mondo, dove le persone vivono perennemente ammassate in agglomerati urbani o favelas senza adeguati servizi igienici (e parliamo di una percentuale altissima di esseri umani), non potrebbero essere rispettate neanche mettendoci il massimo impegno.
    E così si è proceduto a tentoni, ognuno per conto suo e con i suoi parametri, non solo nel mondo ma anche qui nella cosiddetta Europa unita. E si è visto quanto è unita!
    Se si fosse chiuso davvero tutto, tutti insieme, almeno in Europa, per un periodo sufficiente (ma certamente più breve di quello che, non chiudendo davvero tutto e con tutti “gli irre e gli orre”, abbiamo vissuto), periodo durante il quale si potevano effettuare i tamponi a tutti, forse saremmo riusciti a contenere l’epidemia, con danni economici minori.
    Mi fanno ridere, anche se è un riso amaro, i conduttori dei tg che continuano a ricordarci che non dobbiamo abbassare la guardia perché “il virus circola”. E certo che circola, che dovrebbe fare? Il virus non è un essere senziente, non può decidere di darsi una calmata né di diventare più aggressivo: può solo replicarsi e finché troverà nuovi esseri umani (perché ormai siamo diventati noi la sua specie ospite) abbastanza vicini da essere infettati li infetterà.
    Possiamo solo sperare in un vaccino e in farmaci antivirali efficaci, a meno che il virus nel frattempo non muti e ci freghi tutti.
    Però prima o poi questa pandemia finirà lasciando macerie e distruzione, ma speriamo anche un po’ di umiltà e di consapevolezza, che finora sono decisamente mancate.
    Ma, a proposito di consapevolezza, sentite più qualcuno parlare di come sia venuto fuori questo virus e di come si sia potuto trasmettere all’uomo?
    Perché se ci pensiamo un attimo, che questa pandemia fosse prevedibile non era poi così scontato. Ha dovuto prodursi una complessa catena di eventi, ancora non tutti chiari, e che si verificassero tutti non era poi così probabile.
    Ma tentiamo di definire questa ancora in parte ipotetica catena di eventi.
    Il primo è l’occupazione da parte degli esseri umani degli ecosistemi naturali, con la foresta disboscata per far spazio ad allevamenti intensivi di bestiame, a coltivazioni (per lo più monocolture, che riducono la biodiversità, e la scarsa biodiversità favorisce la trasmissione dei virus) e ad insediamenti umani, che si trovano così a stretto contatto con quel che resta dell’ambiente naturale originario.
    Il secondo è che la fauna selvatica (probabilmente una o più specie di pipistrello, animali che ospitano un gran numero di virus), si sia trovata a stretto contatto con gli esseri umani e le loro attività e abbia visto di conseguenza il proprio habitat frazionato o distrutto e le proprie popolazioni decimate o frammentate.
    Il terzo è che a causa di ciò un virus presente naturalmente nei pipistrelli (specie serbatoio con la quale conviveva pacificamente) non sia più riuscito a passare facilmente da un individuo all’altro per replicarsi e si sia dovuto accontentare di un'altra specie (ospite intermedio). Ancora non è chiaro quale, ma si pensa al pangolino, che è oggetto di commercio da parte dell’uomo, come del resto diverse altre specie di fauna selvatica.
    Il quarto è che grazie al contatto diretto con l’uomo, avvenuto durante la manipolazione di questo ospite intermedio, o passando attraverso un’ulteriore specie selvatica o domestica, ancora non si sa, il virus sia passato all’uomo.
    Il quarto è che il virus si sia trovato bene perché riusciva a passare molto facilmente da un essere umano all’altro.
    Il quinto è che grazie al nostro stile di vita e a tutte le nostre attività, ma per dirlo con una sola parola, alla globalizzazione, il virus sia arrivato molto rapidamente in ogni parte del mondo.

    Il libro di David Quammen “Spillover, l’evoluzione delle pandemie”, pubblicato nel 2012, che spiega benissimo questi passaggi e molto altro, è in testa a tutte le classifiche dei libri più venduti dall’inizio della pandemia, ma quanti fra quelli che lo hanno comprato, lo hanno letto davvero? Una minima parte, credo purtroppo, perché un libro di quasi 600 pagine in un paese povero di lettori come il nostro penso faccia un po’ paura. Ma allora… è stato comprato perché “faceva fico”?
    Comunque sia è un peccato, perché è un libro che, malgrado l’argomento non possa dirsi leggero, è scritto così bene che si legge d’un fiato: ti tiene incollato fino alla fine come un buon giallo!
    Secondo me dovrebbe essere inserito nei programmi scolastici, almeno al fianco dei "Promessi sposi". Non se ne abbia a male il Manzoni, ma credo che cominciare finalmente a studiare questi argomenti, a conoscere e comprendere le connessioni fra i fenomeni e quali siano le nostre responsabilità è diventato troppo urgente, non si può più aspettare!
    Eppure, c’è forse qualcuno che dica, parlando del rilancio dell’economia, che però vanno riviste molte cose per evitare molti errori fatti finora? Qualcuno ha capito che è proprio l’invasione di tutti gli habitat naturali da parte dell’uomo, il loro stravolgimento e sfruttamento alla ricerca del profitto, che ha causato lo spillover, e di conseguenza la pandemia? Qualcuno si rende conto che noi non siamo al di fuori e al di sopra, ma parte integrante degli ecosistemi che stiamo distruggendo?
    Sono molto pessimista al riguardo ed è per questo che non ho più scritto nulla per così tanto tempo. Non riesco a capire attraverso quali canali far arrivare il messaggio a chi ha i mezzi e il potere per cambiare le cose prendendo la strada giusta.
    Ma poi forse non è nemmeno questo il modo: siamo noi dal basso che dobbiamo muoverci per ottenere che si cambi strada. Dobbiamo smettere di essere “il popolo” come lo intende Salvini, pronto a bersi ogni stronzata come se fosse verità assoluta, se solo ciò gli possa fare minimamente e momentaneamente comodo.
    Dobbiamo invece ridiventare il popolo di “avanti popolo, alla riscossa!”: informato, consapevole e determinato.
    Non più un popolo di consumatori, ma di cittadini responsabili, capaci di “votare con il portafoglio”, come auspica l’economista Leonardo Becchetti nel suo “Bergoglionomics – la rivoluzione sobria di Papa Francesco”, compiendo delle scelte etiche, e quindi politiche, anche a partire dai nostri acquisti.
    Aiutatemi: datemi degli spunti, delle basi d’appoggio per poter recuperare un po’ di ottimismo, o almeno un po’ di energia positiva, ne ho davvero bisogno!
     

  • BIODIVERSITA'
    ECCO LA STRATEGIA
    EUROPEA 2020-2030

    data: 27/05/2020 16:56

    La settimana scorsa è stata la "Settimana della natura", un’iniziativa lanciata dal Ministero dell’Ambiente per sensibilizzare tutti alla necessità di valorizzare il nostro territorio, attraverso diversi appuntamenti importanti.

    Il 20 maggio è stata la Giornata mondiale delle api, istituita nel 2017 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per ricordarci l’estrema importanza che questi insetti rivestono per la nostra stessa sopravvivenza. Infatti insieme a diversi insetti impollinatori, come bombi, farfalle ed altri, le api contribuiscono all’impollinazione di gran parte della nostra produzione ortofrutticola. E’ stato infatti calcolato che la produzione agricola europea garantita dagli impollinatori vale 15 miliardi di euro all’anno. Ma dovrebbe anche ricordarci quanto poco noi esseri umani siamo riconoscenti a questi piccoli insetti, che oltre a fornirci prodotti di pregio come il miele e la cera, la propoli e la pappa reale, ci permettono di usufruire della straordinaria varietà di frutta e verdura che molti altri paesi ci invidiano. La sopravvivenza di questi insetti infatti è sempre più minacciata dall’uomo. Le principali cause della diminuzione delle api e degli altri impollinatori sono da ascriversi alla perdita di habitat, all’introduzione di specie aliene, all’uso di pesticidi e diserbanti di sintesi, all’inquinamento e ai cambiamenti climatici. La loro scomparsa metterebbe a rischio la riproduzione dell’84% delle specie coltivate nell’Unione Europea, ma anche del 78% delle specie di fiori selvatici e, a cascata, di numerosi insetti ed altri invertebrati e poi di uccelli, rettili e anfibi che se ne nutrono. Un danno incalcolabile per la biodiversità sulla Terra.

    Il 21 maggio è stata la Giornata europea della Rete Natura 2000, ed è stata l’occasione per pensare a quanto avrebbe potuto essere importante questo strumento, costituito da una rete di siti di interesse comunitario (SIC) e di zone di protezione speciale (ZPS) creata dall’Unione europea nel 1992 per la protezione degli habitat e delle specie, animali e vegetali, identificati come prioritari dai diversi stati membri. Questa rete era stata concepita per essere resa operativa, ampliata ed in continua evoluzione nel tempo, mentre in realtà in molti casi è rimasta quasi soltanto “sulla carta”.

    Il 22 maggio è stata la Giornata mondiale della biodiversità, proclamata nel 2000 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per celebrare l’adozione della Convenzione sulla Diversità Biologica, per la difesa e la tutela della biodiversità. Il 2020 avrebbe dovuto essere l’anno in cui si sarebbero dovuti raggiungere gli obiettivi sulla conservazione della biodiversità fissati nel 2010, il primo anno dedicato alla biodiversità, ma purtroppo non è stato così. Il rapporto "Biodiversità a rischio" di Legambiente sottolinea che per buona parte degli obiettivi della strategia Ue i progressi possono definirsi modesti, per esempio negli ecosistemi agricoli e forestali la situazione della biodiversità è peggiorata dal 2010 a oggi, mentre solo una percentuale ridotta di specie (23%) e habitat protetti (16%) risulta in buono stato di conservazione. L’unico traguardo che probabilmente verrà raggiunto è la tutela di alcune aree marine e terrestri, ma questo non è assolutamente sufficiente.
    Il Covid-19 ci ha ricordato quanto sia importante tutelare la diversità biologica, anche direttamente e banalmente per la nostra salute, dato che il 31% delle epidemie di malattie emergenti, come Ebola e Zika e ora il SARS-CoV-2, tutte caratterizzate dal salto di specie (spillover) da un animale selvatico all’uomo, è generato in fin dei conti dall’invasione umana delle foreste pluviali tropicali. Eppure la biodiversità è sempre più a rischio in tutto il mondo. Secondo i dati dell’Ipbes, il panel di ricerca delle Nazioni Unite dedicato alla biodiversità, tre quarti delle terre emerse sono stati significativamente alterati dall’uomo. Tra le cause più impattanti sugli habitat ci sono l’agricoltura e l’allevamento a livello industriale. E non dimentichiamoci, per quanto riguarda gli ambienti marini, gli impatti devastanti dell’inquinamento, plastica compresa, della pesca industriale, nonché della diffusione di specie aliene, che alterano gli equilibri all’interno degli ecosistemi.

    Il 23 maggio è stata la Giornata mondiale delle tartarughe, che negli ultimi anni sono tornate a riprodursi sulle nostre coste, ma che sono sempre più in difficoltà, per diversi fattori, fra cui il by– catching, cioè la cattura accidentale che si verifica durante la pesca industriale, la distruzione degli habitat di riproduzione e non ultima la plastica dispersa in mare, che esse ingeriscono scambiandola per una delle loro prede preferite: le meduse.

    Domenica 24 è stata la Giornata europea dei Parchi, nel corso della quale è stato lanciato il portale dedicato alle Meraviglie dei Parchi. Questo sito andrà ad affiancare le vetrine informative già esistenti sul turismo e sui Sapori dei Parchi, portale che promuovere il legame tra prodotti tipici e patrimonio naturale.

    La strategia europea per la biodiversità 2020-2030
    Durante la giornata europea della Rete natura 2000 la Lipu (Lega Italiana Protezione Uccelli) ha proposto sul suo sito una serie di filmati e conferenze in diretta su vari temi relativi alla salvaguardia della natura e della sua biodiversità. Particolarmente importante è stata l’intervista di Danilo Selvaggi, direttore generale della Lipu, al Ministro dell’Ambiente Sergio Costa, il quale ha spiegato che "la Settimana della natura è un appuntamento che assume particolare valore, anche perché coincide con un periodo particolare della situazione che stiamo vivendo, la cosiddetta Fase 2, di uscita e ripartenza dall’epidemia del Covid-19. Un periodo in cui è importante riuscire a dare la visione di un ritorno alla normalità che sappia mettere al centro la valorizzazione dell’ambiente, con un’attenzione particolare all’enorme patrimonio di biodiversità che il nostro Paese possiede".
    Ma soprattutto ha parlato della presentazione, da parte della Commissione europea, di un documento importantissimo: La nuova Strategia europea per la biodiversità 2020-2030 con la quale, ha detto, “vogliamo riportare la natura nelle nostre vite”. Adesso questo documento verrà discusso dal Parlamento europeo e speriamo adottato al più presto.
    Tutelare la biodiversità e ripristinare gli ecosistemi danneggiati è necessario per prevenire future pandemie e cercare di minimizzare gli effetti dei cambiamenti climatici. Investire in tali attività potrà anche consentire all’economia europea, piegata dalla crisi legata al coronavirus, di riprendersi, evitando però di avere il precedente impatto negativo sull’ambiente.
    L’Unione europea ha già definito un piano per rendere sostenibile l’economia del Vecchio continente, il green new deal, ed è in quest’ottica che la Commissione europea ha proposto la nuova Strategia europea per la biodiversità, che si prefigge i seguenti obiettivi importanti e ambiziosi da raggiungere entro il 2030:

    Più aree protette
    L’attuale rete di aree protette si è dimostrata insufficiente per salvaguardare la biodiversità ed è previsto pertanto di ampliarla e di proteggere almeno il 30 per cento della superficie terrestre e il 30 per cento della superficie marina nell’Ue. Attualmente godono di tutela il 26 per cento della terra e l’11 per cento dei mari. Un terzo di queste superfici protette, particolarmente ricche di biodiversità o vulnerabili, dovrà inoltre essere soggetto a protezione rigorosa. Al momento, solo il 3 per cento della terra e meno dell’1 per cento delle aree marine sono rigorosamente protette nell’Ue. Tra le aree che necessitano di particolare tutela ci sono le foreste primarie e vetuste che ancora sopravvivono in Europa, che sono tra gli ecosistemi più ricchi di biodiversità e che contribuiscono maggiormente a sottrarre anidride carbonica all’atmosfera. Gli stati membri saranno responsabili della designazione delle nuove aree protette e avranno tempo fino al 2023 per individuare aree e corridoi ecologici per prevenire l’isolamento genetico delle popolazioni e agevolare la migrazione delle specie.

    Piantare 3 miliardi di alberi
    Oltre a proteggere le foreste superstiti, l’Ue ha esortato gli stati a piantare tre miliardi di nuovi alberi entro il 2030. Questo obiettivo, oltre a supportare la biodiversità e a favorire il raggiungimento dei target climatici, creerà opportunità di lavoro legate alla piantumazione e alla cura degli alberi. Il rimboschimento è particolarmente utile nelle città, più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici.

    Più agricoltura biologica e meno pesticidi
    L’agricoltura intensiva è tra le cause principali del declino di biodiversità ed è pertanto necessario sostenere e incentivare la transizione verso pratiche agricoli sostenibili. Il miglioramento delle condizioni e della diversità degli agroecosistemi aumenterà la resilienza del settore ai cambiamenti climatici e agli shock socioeconomici, creando al contempo nuovi posti di lavoro.
    Per raggiungere tali traguardi l’Ue chiede che il 25 per cento delle terre agricole dell’Ue venga coltivato in maniera biologica entro il 2030. Inoltre, per arrestare l’allarmante declino di uccelli e insetti impollinatori, da cui dipende in larga parte la salute degli ecosistemi e la nostra sicurezza alimentare, è prevista una riduzione del 50 per cento dei pesticidi chimici di sintesi.
    Il 10 per cento dei terreni agricoli sarà infine mantenuto intatto (o dovrà presentare comunque un’elevata diversità paesaggistica) per offrire spazio e riparo a piante e animali selvatici. Ciò significa mantenere o ripristinare siepi, fossi stagni, dislivelli naturali, muri a secco e tutto ciò che può contribuire ad arricchire e diversificare l’ambiente per creare habitat diversi per la fauna selvatica.

    Ripristinare gli ecosistemi d’acqua dolce
    I corsi d’acqua sono tra gli ambienti su cui l’uomo ha avuto il maggiore impatto: li ha inquinati, dragati e frazionati con dighe e barriere, ne ha cementificato e rettificato gli argini, alterandone profondamente la natura e la funzionalità. Queste azioni hanno avuto un impatto negativo sia sulla biodiversità che sugli stessi esseri umani, le loro abitazioni e le loro attività economiche, rendendoli maggiormente vulnerabili alle alluvioni.

    Ripristinare gli ecosistemi degradati che versano in condizioni precarie, riducen-do le pressioni sulla biodiversità. Nella pratica ciò richiederà l’elaborazione un nuovo quadro giuridico e di target vincolanti. In questo contesto la Commissione europea propone di:
    • migliorare lo stato di conservazione di almeno il 30% degli habitat e delle specie il cui stato non è oggi soddisfacente;
    • recuperare almeno 25.000 km di fiumi a scorrimento libero;
    • arrestare e invertire il declino degli uccelli e degli insetti presenti sui terreni agricoli, in particolare gli impollinatori;
    • ridurre l’uso e i rischi dei diserbanti di sintesi in genere, dimezzando quelli più pericolosi;
    • adibire almeno il 25% dei terreni coltivabili all’agricoltura biologica, migliorando la diffusione delle pratiche agro-ecologiche;
    • ridurre di almeno il 20% l’uso di fertilizzanti di sintesi;
    • piantare almeno 3 miliardi di alberi, nel pieno rispetto dei principi ecologici, e proteggere le foreste primarie e antiche ancora esistenti;
    • evitare le “catture accessorie” di specie protette o ridurle a un livello che consenta il pieno recupero delle popolazioni.

    “La natura è vitale per il nostro benessere fisico e mentale, filtra l’aria e l’acqua, regola il clima e impollina le nostre colture”, ha commenta-to Virginijus Sinkevičius, Commissario europeo all’ambiente. “Ma ci stiamo comportando come se non avesse importanza e la stiamo perdendo a un ritmo sen-za precedenti. Questa nuova strategia sulla biodiversità si basa su ciò che ha funzionato in passato e aggiunge nuovi strumenti che ci porteranno su un percorso verso la vera sostenibilità, con vantaggi per tutti”.
    Non sarà facile tradurre in interventi concreti questi ambiziosi enunciati, ma la competenza e la passione dimostrate dal ministro Costa nell’illustrarli mi hanno fatto ben sperare.
    Questa nuova strategia mi sembra, insieme al Green new deal e al progetto Farm to fork, di cui parlerò in un prossimo articolo, una prima scalfittura al Pensiero unico rappresentato dal Sistema economico dominante: quel Neo liberismo che vede in ogni cosa e in ogni persona un oggetto da sfruttare per trarne il massimo profitto, passando sopra a tutto il resto, comprese la salute e la stessa vita umana, come ci stiamo accorgendo in questi tristi mesi di pandemia.

     

  • STORIA ISTRUTTIVA
    DI UN PICCOLO VIRUS...

    data: 08/05/2020 20:29

    Voglio ospitare questo raccontino scritto da un mio caro amico e collega, biologo come me, nel febbraio scorso, quando il coronavirus si era da poco affacciato nel nostro paese e di lui si sapeva ancora ben poco

    ANCHE I VIRUS, NEL LORO PICCOLO...
    di Benedetto Proietti Mercuri


    C’era una volta un virus. Egli viveva all’interno dell’organismo del suo ospite, un pipistrello e la convivenza era abbastanza soddisfacente per tutti e due. Sì, vabbe’, ogni tanto c’era da vedersela con i globuli bianchi del pipistrello, ma alle brutte vi era la possibilità di trovare tanti altri ospiti nelle vicinanze, dunque un equilibrio era stato trovato.
    Un giorno però, dovendo abbandonare in fretta e furia il corpo di un ospite per sfuggire alle sue difese immunitarie, il piccolo virus si accorse con sgomento che non c’erano più pipistrelli nelle vicinanze e sempre più sorpreso si accorse anche di essere allo scoperto sotto la luce del sole “e dove sono finiti tutti gli alberi, la bella e gigantesca foresta … e gli animali che la popolavano?”.
    Sempre più terrorizzato, il piccolo virus si guardò intorno e si accorse che lì vicino c’erano degli animali, almeno così sembravano, che non aveva mai visto prima; sembrava che questi sconosciuti vivessero, invece che liberi nella foresta, tutti insieme, stretti stretti in rifugi fatti a loro misura e poi mangiavano tutti la stessa cosa lì davanti a loro. Ma visto che non c’erano altre possibilità pensò di provare con questi, anche perché non poteva restare a lungo sotto la luce del sole, con i suoi raggi ultravioletti letali. Subito si accorse che non stava affatto bene e che doveva continuamente uscire e rientrare in un altro di quei nuovi ospiti per poter sopravvivere… Quanto rimpianse il suo amico pipistrello!
    “E questo chi è?” disse un giorno il povero virus quando vide un altro animale, che camminava addirittura con due gambe, “proviamo con questo, forse sarà più ospitale”. Non era come il suo amico pipistrello ma poteva andare, in attesa di qualcosa di meglio. Poi si accorse che questi esseri si spostavano molto rapidamente da una parte all’altra del mondo: quale migliore occasione per vedere altri posti e magari trovare situazioni più favorevoli?
    Un giorno poi si accorse che quegli stessi animali a due gambe stavano abbattendo degli alberi, forse gli stessi alberi e la stessa foresta dove un tempo viveva tranquillamente in simbiosi con il suo amico pipistrello...“Ah, è così? Ed ora sono affari vostri, vi faccio vedere io! Per questa volta vi mando a puttane gli affari ed i guadagni, ma guai a voi se continuate!”


    Ma è proprio conveniente continuare ad abbattere le foreste in nome di una crescita dei profitti ad ogni costo? Va bene che bisogna mangiare, ma, visto che c’è chi mangia tanto e chi continua a mangiare troppo poco, non sarebbe meglio dividere equamente le risorse disponibili?

  • LA NUOVA NORMALITA'?
    CONDIVIDERE GLI SPAZI
    SUDDIVIDERE I COSTI

    data: 01/05/2020 12:18

    Riparto da dove avevo lasciato nel precedente articolo: la necessità e la voglia di inventarsi una nuova normalità, che ci consenta anche di risanare situazioni di difficoltà economica, accentuatesi con il lock-down imposto dall’emergenza Covid 19 e ormai non più sormontabili con i sistemi fin qui adottati.
    Quelle che seguono sono solo idee, semi piantati in attesa di germogliare, che possono far nascere proposte da discutere, che magari crescendo potrebbero trasformarsi in progetti concretamente realizzabili. Non sono sicura e comunque non ricordo, sempre riferendomi all’articolo precedente, se fossero già idee di mio padre, ma potrebbero: sono nelle sue corde e nel suo stile.
    L’idea di fondo è quella della condivisione degli spazi per suddividere i costi, ovunque questo sia possibile, e magari di far emergere il sommerso, pagando il giusto ad una struttura pubblica che ti garantisca e ti protegga, piuttosto che il pizzo allo strozzino di turno o alle mafie.
    Penso ai tanti spazi abbandonati all’interno del tessuto urbano: ex cinema, supermercati, palestre… ce ne sono tanti, che rimangono per anni a degradarsi, per poi alla fine diventare nuove filiali di istituti bancari o nuovi supermercati. Ma ne abbiamo bisogno? Oppure penso ai tanti negozietti che chiudono e che, dopo un periodo di abbandono, magari risorgono, seguendo la moda del momento, come negozi di sigarette elettroniche o di prodotti per animali domestici o di decorazione per unghie o di tatuaggi. Attività effimere, destinate a durare pochi anni, se non addirittura mesi, senza neanche ammortizzare le spese. Nel mio quartiere, nei 33 anni da quando ci vivo, non si contano nemmeno più i negozi di ogni genere e i ristoranti che hanno aperto e poi richiuso nell’arco di pochi anni o anche meno, anche se apparentemente sembrava andassero bene.
    E tanto più adesso, con l’emergenza Covid 19, ci si chiede con preoccupazione quanti dei negozi che sono stati costretti a chiudere così a lungo, pur dovendo comunque pagare affitto e bollette, non riusciranno a ripartire e saranno costretti a mollare.
    Al di là dei possibili interventi da attuare nell’immediato in soccorso di queste realtà, come il blocco temporaneo del pagamento degli affitti e delle altre spese e l’erogazione di contributi a fondo perduto, nel tempo poi la chiave per farcela, a mio parere, è nella condivisione degli spazi, che possono essere utilizzati in tempi diversi suddividendo le spese, come in una sorta di co-working; ma anche nella capacità di differenziare l’offerta.
    C’è un locale nella mia via che ha seguito questa strada: ristorante vegetariano e di pesce, con cucina a vista. A pranzo durante la settimana buffet a prezzo fisso e cena alla carta, ma con prezzi accettabili. Il bar, con ottimi dolci preparati da loro, è aperto tutto il giorno, dalle 10 del mattino.
    Una o due serate mensili con musica dal vivo di generi ben scelti, diversi e particolari, e si paga solo la cena. Ogni tanto una cena etnica, ad esempio di cucina berbera, con musica e danza. Tutto in modo molto semplice, spostando appena i tavoli, senza disporre di uno spazio apposito, ma con una particolarità: un’acustica perfetta! Durante la mattina e nel pomeriggio yoga, ginnastica posturale, massaggio per neonati, seminari su vari argomenti, corsi di pasticceria, di pittura naturalistica e giochi e letture per bambini nella stanza piena di libri a loro dedicata. Chi propone queste attività, che sono a pagamento, paga a sua volta una quota al locale che le ospita. E’ tutto fatto seriamente, funziona molto bene ormai da diversi anni e l’offerta continua ad accrescersi e a differenziarsi. Spero che riescano a sopravvivere a questa lunga chiusura, perché se lo meritano. Mi sembra la formula giusta: immaginazione, creatività e professionalità.
    Ad esempio un cinema o un teatro potrebbero limitare la programmazione al fine settimana, dal venerdì alla domenica sera, lasciando libero il resto della settimana per chi, pagando, voglia svolgere altre attività in quegli spazi: corsi di teatro, cinema, danza, musica, oppure incontri, seminari, conferenze… Alcuni già cominciano a farlo: ho visto botteghe in cui un sarto e un calzolaio svolgono ciascuno la propria attività, o addirittura un commerciante di prodotti naturali e un’agenzia di viaggi, oppure sartorie che organizzano corsi di cucito. Le possibilità sono davvero infinite, la strada è questa!
    Ma non tutti hanno la capacità, l’immaginazione e i mezzi per realizzare un’impresa in grado di spiccare il volo e di crescere, resistendo e superando difficoltà ed ostacoli.
    E’ quindi comunque necessario che l’Ente pubblico non abdichi a quella che dovrebbe essere una sua funzione essenziale: la programmazione, la corretta distribuzione e la regolamentazione degli spazi e delle destinazioni d’uso, nonché dei prezzi degli affitti. In altre parole ad avere e mantenere nel tempo una visione d’insieme della città e delle sue funzioni.
    Il Comune potrebbe ad esempio farsi carico di rilevare (ma ce ne sono parecchi già di proprietà comunale), pagando un prezzo ragionevole, tutti gli spazi abbandonati, dismessi, o comunque inutilizzati, per poi concederli in affitto, a prezzo calmierato, a chi volesse intraprendere un’attività commerciale, di servizi o altro (palestre, scuole di musica, di arte in genere, officine …), privilegiando i soggetti che vogliono scegliere la strada del “coworking” (chiamiamolo così per brevità) o della differenziazione dell’offerta, sempre tenendo ben presente una giusta distribuzione delle diverse tipologie di attività sul territorio.
    I grandi spazi come ex supermercati, palestre, magazzini e altro potrebbero ospitare cooperative o associazioni che svolgano attività artigianali di vario tipo, anche, ma non solo, seguendo il criterio della condivisione e della suddivisione degli stessi spazi nell’arco della giornata, o della settimana, o in qualsiasi altra forma. Queste situazioni, che si potrebbero definire “officine dell’artigianato e delle attività manuali” potrebbero ospitare esperienze di scuola-lavoro e diventare poi vere e proprie scuole di formazione professionale per i giovani, come nel Rinascimento, quando si “andava a bottega”.
    A questo punto non può non tornarmi in mente il romanzo di Primo Levi “La chiave a stella”, che ha avuto una parte da leone nella mia formazione e che, insieme agli insegnamenti e all’esempio dei miei genitori, è stato fondamentale nell’aiutarmi a riconoscere uguale dignità a tutti i lavori, per quanto umili potessero apparire. E allora tiro fuori dal cilindro un altro chiodo fisso di mio padre: quello dell’utilità di passare tutti, sia maschi che femmine, attraverso uno o due anni di Servizio civile obbligatorio, da svolgersi dopo aver terminato la scuola, che permettano di sperimentare lavori diversi, che probabilmente, per estrazione sociale e formazione culturale, non si sarebbero intrapresi e neanche presi in considerazione. In particolare l’anno (questo sono io a dirlo) potrebbe essere diviso in tre o quattro periodi, durante ciascuno dei quali si sarebbe chiamati a compiere una corvée, così mi ricordo che la definiva mio padre. Magari la prima potrebbe essere a scelta e le altre assegnate d’ufficio. Questo aiuterebbe gli indecisi a trovare la propria strada e insegnerebbe a tutti a rispettare, dopo averlo sperimentato sulla propria pelle, il lavoro degli altri. Una cosa che forse non viene sempre naturale, ma che una volta imparata ti rimane dentro e ti rende capace, per il resto della vita, di riuscire a metterti sempre nei panni degli altri, di provare empatia.
    Questo del servizio civile è un chiodo fisso, oltre che di mio padre, anche di Michele Serra, che da quando non ho più lui è diventato uno dei miei mentori, dei miei punti di riferimento, così come lo sono, magari su fronti diversi ma comunque collegati, Carlin Petrini, Luca Mercalli, Andrea Segrè, Mario Tozzi, don Luigi Ciotti, l’economista Leonardo Becchetti e come lo era Don Andrea Gallo. Sono tutti uomini, me ne rendo conto ora, ma è andata così… io non sono per le quote rosa e poi sono sostituti di mio padre, in fondo.
     

  • LA CITTA' NEL DOPO-COVID?
    QUELLA IMMAGINATA
    DAGLI URBANISTI
    NEGLI ANNI '60/'70

    data: 15/04/2020 11:31

    Questa situazione sospesa che stiamo vivendo, di totale incertezza sul futuro, sta facendo venire al pettine parecchi nodi, che in realtà erano già presenti da tempo, ma purtroppo poco considerati. Ad esempio molte delle attività che sono state bloccate e perciò messe in crisi dal lockdown erano già in difficoltà da prima, strangolate da canoni di affitto troppo alti e non solo da quelli. Basti pensare alle piccole librerie, sempre più insidiate dal commercio on line, così come gli esercizi commerciali, che siano negozi di generi alimentari, o di casalinghi, o altro, già falcidiati dall’apertura negli anni di troppi supermercati, a pochissima distanza l’uno dall’altro, senza alcun tipo di pianificazione.

    Il lockdown, costringendoci in molti casi a spostarci a piedi, per non più di 200 metri, ci ha fatto riscoprire questi negozi, i pochi superstiti, perché in genere lì le file sono più abbordabili e non si rischia di caricarsi troppo, come quasi sempre succede quando si fa la spesa al supermercato.
    Parto dalla mia situazione, che penso possa corrispondere a quella di parecchi abitanti di Roma: quartieri nati nel dopoguerra, nel periodo del boom economico, quando le palazzine venivano su come funghi, ma le automobili in giro erano ancora molto poche, ragion per cui, con scarsa lungimiranza, spesso queste palazzine erano progettate senza garage o posti macchina. Faccio l’esempio della mia zona, giusto per provare a fare qualche conto: palazzine di quattro-cinque piani, due appartamenti per piano, diciamo due automobili a famiglia di media (noi ne abbiamo una, ma penso che siamo un’eccezione).
    Il conto è presto fatto: tra le 16 e le 20 macchine in uno spazio-marciapiede di 20-30 metri lineari, che diviso per una lunghezza media di 4 metri (per semplificare il conto) per macchina fa dalle 5 alle 7 automobili… E le altre? Questo risultato si traduce ogni giorno, in tempi normali, in un’estenuante ricerca di un parcheggio e nella frequente evenienza di trovarlo a 500-800 e più metri di distanza da casa, che carichi di spesa non sono uno scherzo! Tutto ciò aiuta a capire che abbandonare un parcheggio sotto casa o quasi se, come in questo periodo, in tempo di smart-working, non è indispensabile, è un azzardo che non ci si può permettere! Da qui la riscoperta, per parecchi che erano abituati ad andare a fare la spesa in macchina, magari tornando dal lavoro, dei negozi dove si può arrivare a piedi, dove troviamo tra l’altro qualcosa che, sembra niente, ma in tempo di distanziamento sociale ci sta mancando parecchio: il rapporto umano, il poter scambiare due parole con qualcuno che non sia tuo compagno di reclusione.
    Questo lungo preambolo, che fin qui forse non si capisce dove voglia andare a parare, mi sta conducendo a parlarvi della città che vorrei, che poi non è altro che quella che avrebbe voluto mio padre, Fabrizio Giovenale, che ne parlava e ne scriveva già negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso. Lui, classe 1918, era architetto ed urbanista, funzionario e poi dirigente tra Ministero dei Lavori pubblici ed enti pubblici come la GESCAL e l’ISES, ma una volta in pensione (presto perché aveva riscattato gli anni della guerra e della laurea), si era riciclato come ambientalista, partecipando, in realtà già da prima, alla nascita di Italia Nostra e poi a quella di Lega Ambiente, non dimenticando mai che le battaglie per l’ambiente vanno di pari passo con quelle per la giustizia sociale, anzi sono la stessa grande battaglia.
    Sono cresciuta immersa nelle sue idee, profondamente di sinistra, perché lui scriveva sia libri che articoli in rubriche sulla Nuova Ecologia, organo di Lega Ambiente, poi anche su Avvenimenti e Liberazione, ma anche saltuariamente su quotidiani, come Il Manifesto. Io leggevo le sue cose in anteprima e mi ero ritagliata il ruolo di correttore di bozze e recensore. Pur non avendo più purtroppo sotto mano niente di quello che ha scritto in tanti anni, a parte i suoi libri, perché poco dopo la sua morte, avvenuta alla fine del 2006, mia madre ha donato tutto il suo archivio alla biblioteca del parco di Aguzzano, qui a Roma, che è stata intitolata a lui, posso però permettermi di parlare in suo nome, perché sono idee che sento e sono anche mie.
    La città, secondo lui, avrebbe dovuto essere organizzata idealmente in tante “isole” (non ricordo con sicurezza se il termine da lui usato fosse questo, ma il concetto sì), ovviamente ben collegate fra loro dai trasporti pubblici, caratterizzate dal fatto di essere concepite in modo che possibilmente tutti i servizi essenziali, tra i quali rientravano anche gli spazi verdi, fossero raggiungibili a piedi.
    Questo ovviamente perché lui considerava l’uso dell’automobile privata, che si era affermata come quasi esclusivo mezzo per spostarsi in città, uno dei cancri della nostra civiltà, soprattutto per le emissioni di gas inquinanti e, come allora era tra i pochi a prevedere, clima-alteranti. Ma non solo per questo però, perché lui considerava lo spostarsi a piedi un valore in sé, che contribuiva a creare dei legami fra le persone, che non fossero solo quelli propri dell’ambito familiare e di quello lavorativo, oltre ad avere un indiscusso effetto positivo sulla salute.
    E allora in ogni “isola” avrebbero dovuto esserci tutti i negozi essenziali e poi almeno un mercato, un ufficio postale, un consultorio, un ambulatorio medico e uno veterinario, una banca, un cinema e magari un teatro, una biblioteca, magari anche una sala registrazione, una palestra, uno spazio verde di dimensioni adeguate e soprattutto una piazza con un giardino e panchine dove incontrarsi, con bar-pasticceria, rosticceria, edicola per i giornali, lavanderia e magari una chiesa e una farmacia.
    Mentre scrivo mi rendo conto che sto fotografando mentalmente la piazza di Monteverde Vecchio, il mio quartiere di allora, come era e come è rimasta fino a qualche anno fa (oggi purtroppo il bar pasticceria è chiuso, come anche diversi altri esercizi, tra i quali uno storico fornaio). Naturalmente ogni “isola” doveva avere le scuole, almeno materne, elementari e medie, perché poi i ragazzi è giusto che si spostino dal proprio quartiere e conoscano altre persone ed altre realtà. Ma i bambini delle elementari e i ragazzini delle medie era bello che potessero andare a scuola a piedi, incontrandosi con i compagni per fare la strada insieme e conoscersi meglio.
    Tutto ciò può apparire nostalgico, poetico e in definitiva poco concreto e realizzabile, ma mio padre era un urbanista, che negli anni ’60, quando era al Ministero, aveva contribuito alla definizione dei cosiddetti “standard urbanistici”(decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 ), per cui parlava con cognizione di causa.
    Io non so, per esempio, a quale “unità di popolazione” potesse corrispondere ciascuna delle “isole” di cui parlava, ma lui sicuramente lo aveva ben chiaro in mente; mi piacerebbe molto saperlo, ma sono convinta che dovesse molto lontana dalla media di popolazione degli attuali Municipi (190.667 abitanti per una densità media di 148,16 abitanti per Kilometro quadrato), più simile semmai alla dimensione dei più antichi Rioni del Centro storico, diciamo dai 2.000 ai 4.000 abitanti, per una densità di 10-15.000 abitanti per Km. quadrato.
    Ora che la triste vicenda del Covid 19 ha messo in crisi profonda moltissimi esercizi commerciali, che purtroppo in molti casi stenteranno a risollevarsi, se mai riusciranno a farlo, non possiamo pensare che questa crisi possa risolversi solo con aiuti economici, sgravi fiscali o incentivi di vario genere, sebbene nell’immediato siano assolutamente indispensabili: dobbiamo ripensare a quegli anni e a com’era la nostra vita per provare a concepire una nuova città, che parta dai bisogni reali dei suoi abitanti, non da quelli indotti da decenni di sfrenato consumismo… e soprattutto non solo dai bisogni materiali.
    Bisogna ripensare il nostro stile di vita, ormai forgiato dal modello economico neo-liberista, e questo a tutti i livelli, non solo nella struttura di un quartiere o dell’intera città.
    “Non dobbiamo tornare alla normalità, perché è la normalità il problema” è lo slogan che si è visto e sentito in questi giorni, prima a Madrid e poi in tutta Europa. E’ proprio così: dobbiamo cambiare tutto, inventarci una nuova normalità, che metta in primo piano la giustizia sociale e il rispetto per la nostra terra e per tutti i suoi abitanti, di qualsiasi specie essi siano.
    Ne vorrei riparlare: questa si può considerare una prima puntata, o forse solo un’introduzione.
     

  • PANDEMIA: CONSEGUENZA
    DELLE FERITE
    INFERTE ALL'AMBIENTE

    data: 06/04/2020 18:26

    Questa situazione mai vista e mai nemmeno immaginata, neanche nel più terrificante romanzo di fantascienza, ci è piombata addosso con una rapidità e una violenza tali da lasciarci attoniti, inebetiti dall’angoscia e dal dolore, a momenti increduli, quasi potessimo svegliarci da un momento all’altro e accorgerci che era solo un bruttissimo sogno.
    Purtroppo però un sogno non è e forse, se riuscissimo a raccogliere un po’ di freddezza e di lucidità, potremmo anche renderci conto che una cosa del genere, anche se magari non con queste proporzioni, poteva anche non essere così inaspettata. Sarebbe bastata un po’ di umiltà, ma questa non sembra proprio essere la qualità che caratterizza l’homo che si autodefinisce sapiens sapiens (un sapiens solo non bastava!). Sarebbe bastato cogliere i segnali, neanche tanto velati: epidemie del genere c’erano già state e ci sono tuttora (Sars, Mers, Ebola…), anche molto gravi, con una percentuale di morti superiore, ma erano sempre toccate agli altri…
    Sarebbe bastato ascoltare persone come Bill Gates, che già nel 2015 in una conferenza TED diceva che più che una terza guerra mondiale l’umanità avrebbe dovuto temere il diffondersi di una pandemia.
    O ancora di più dare retta ad un team di ricercatori della American Society for Microbiology, che addirittura già nell’ottobre del 2007 pubblicava un report sulla “SARS (infezione causata da un corona-virus) come un agente di infezioni emergenti e riemergenti”, spiegando che questo tipo di virus, che ha come ospite di elezione alcune specie di pipistrelli, è facilmente soggetto a mutazioni e ricombinazioni genetiche, da cui possono nascere nuove forme virali, che in determinate situazioni possono facilmente effettuare il salto di specie (Spillover). Tra queste situazioni veniva citata l’abitudine di cibarsi di mammiferi selvatici, tra cui i pipistrelli, in alcune regioni del sud della Cina, nei cui grandi mercati all’aperto diverse specie di animali, morti e vivi, vengono in contatto sia fra di loro che con gli esseri umani: condizione ideale per il verificarsi dello Spillover.
    E a questo proposito non si può non citare il libro di David Quammen del 2014 “Spillover. L’evoluzione delle pandemie” edito da Adelphi, da cui cito: “Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie”.
    Ma a dire il vero ancora oggi c’è qualcuno che prova a metterci in guardia, e non uno qualsiasi, ma qualcuno che per la sua autorevolezza e la sua posizione può farsi ascoltare dall’intera umanità. E’ Papa Francesco, che si sgola a dire ad una Piazza san Pietro deserta: “Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.
    Almeno lui lo ascolteremo, visto che non vogliamo ascoltare gli scienziati? Lo ascolteremo questa volta, visto che con la sua enciclica Laudato sì già cinque anni fa ci aveva messo in guardia contro i pericoli verso cui la nostra arroganza e la presunzione di considerare l’intero mondo, animato e inanimato, al nostro esclusivo servizio, senza mai valutare le possibili conseguenze delle nostre azioni, ci poteva condurre? Cito testualmente dalla Laudato sì, che comunque è tutta da rileggere, particolarmente in questi giorni: “Questa sorella (si riferisce alla Terra, riprendendo il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi,ndr) protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. (…) Dimentichiamo che noi stessi siamo terra. Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora.”
    Non sarebbe male terminare con queste accorate parole di Francesco, del quale, pur non essendo cattolica, condivido le posizioni sulle questioni ambientali e sociali, però c’è molto altro su cui riflettere, in relazione a queste tematiche, del resto strettamente intrecciate, ma non solo.
    Come dice Francesco abbiamo pensato di essere i soli padroni della Terra, i soli autorizzati a saccheggiarla, sfruttarla e modificarla a nostro piacimento, per il nostro profitto, per la nostra crescita economica che non poteva rallentare. Ed abbiamo continuato imperterriti, anche dopo Chernobyl, dopo Fukushima, dopo tutto il petrolio riversato in mare nei naufragi delle varie petroliere e dopo gli innumerevoli altri disastri ambientali che abbiamo provocato in questi anni, sempre parlando di disgrazie, di catastrofi ambientali, di emergenze, senza voler capire che non erano fatalità, ma la diretta e inevitabile conseguenza del nostro modello di sviluppo, dell’Economia neo-liberista che sottomette terra, acqua, aria ed esseri viventi, compresi quelli umani, alle proprie esigenze.
    Ma prima o poi quello che abbiamo per anni nascosto sotto il tappeto viene allo scoperto e mano a mano le mine innescate che avevamo seminato qua e là, senza mai pensare alle possibili conseguenze, cominciano ad esplodere e continueranno a farlo sempre più numerose.
    Penso ai fiumi imbrigliati o addirittura tombati ed ai loro argini cementificati, all’aria inquinata da gas tossici e polveri più o meno sottili, penso ai suoli contaminati dalle sostanze di sintesi usate in agricoltura e dai rifiuti seppelliti dalle mafie e non solo da loro, tutte sostanze che ne distruggono la biodiversità e poi finiscono nelle falde acquifere, nei fiumi ed infine nel mare; in un mare dove ormai si pesca più plastica che pesce! Penso alle condizioni di sovraffollamento degli allevamenti intensivi, che richiedono un uso spropositato di antibiotici, che poi finiscono nelle carni che mangiamo. Penso ai rifiuti che esportiamo, sia pagando per farlo, nelle altre regioni e nei vicini paesi europei, che illegalmente, dall’Africa fino alla lontana Indonesia. Come penso all’altra mina, sempre ricordata da Francesco, delle carceri, con il loro sovraffollamento e le condizioni disumane in cui vivono i detenuti; infatti questa è una delle mine che già iniziano ad esplodere, in questi tristi giorni di ulteriore reclusione. Ma penso anche alla mina, ancora non esplosa completamente, del bracciantato agricolo: una vera forma di schiavismo, tanto più vergognosa quanto più noi teniamo a considerarci un paese civile!
    Sarebbe veramente importante che almeno questa volta la tragedia che stiamo vivendo fosse interpretata per quello che è: una delle tante mine che esplodono come conseguenza delle ferite che abbiamo inferto all’ambiente, sia naturale che sociale. E sarebbe ora che la paura che abbiamo vissuto e stiamo vivendo ci portasse a capire che dobbiamo cambiare decisamente strada se vogliamo salvarci. Perché questa volta siamo stati toccati tutti, anche se le differenze ci sono comunque e anzi sono ancora più evidenti per chi le vuole vedere: anche davanti alla malattia e alla morte non siamo tutti uguali! Ma in ogni caso la “sciagura” è arrivata anche qui, questa volta non è toccata solo agli altri.
    E allora, quando tutto sarà finito (oppure ancora sospeso, questo ancora non possiamo saperlo), quando l’economia potrà ripartire, facciamo in modo che riparta nel modo giusto, più lentamente, con più attenzione alle conseguenze delle sue scelte, sia sull’ambiente che sulle persone, perché come dice Francesco “noi stessi siamo terra. Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora”. E come spero abbiamo capito davvero tutti: o ci salviamo tutti, e il mondo insieme a noi, o non si salva nessuno e il mondo continuerà tranquillamente senza di noi, anzi rifiorirà, finalmente risanato.