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ROSA ROSSI

  • CITTÀ SPUGNA
    O SPONGE CITIES?

    data: 27/03/2023 11:31

    Italiano o inglese? Quale funziona meglio per promuovere un'idea controcorrente? Direi che, almeno in questo caso, l'effetto è sostanzialmente alla pari. Certo è che quando ho letto l'articolo di Sabina Giovenale (DE-IMPERMEABILIZZARE LE CITTÀ PER RESISTERE AI CAMBIAMENTI CLIMATICI 19/01/2023 https://www.infodem.it/teatrino.asp?idn=5732 ) sull'argomento, molto articolato attorno ad una ricca documentazione, ogni volta che metto piede fuori casa cerco di memorizzare quello che incontro, per capire se e fino a che punto corrisponde all'idea di sponge city.

    Se mi trovassi nel paese dove risiedo abitualmente, tra le montagne d’Abruzzo, non avrebbe molto senso porsi la questione: è un borgo fondamentalmente agricolo, con poche strade asfaltate, molte strade e stradine acciottolate e molto sentieri di campagna. L’acqua scorre liberamente tra fessura e fessura ed erbe spontanee di ogni tipo crescono liberamente in tutte le fessure e tra ogni anfratto per la gioia degli insetti.

    Ma nei miei ‘periodi’ londinesi porsi la domanda ha senso anche se definirli londinesi sarebbe improprio sia dal punto di vista di chi arriva Londra da turista (non ha molto senso per questa tipologia di visitatori arrivare in ‘zona tre’, con poche eccezioni o solo di passaggio) né tanto meno per chi vive nelle zone centrali che hanno – indubbiamente – una fisionomia residenziale completamente diversa (a meno che non abbia in sorte di abitare nel raggio di uno qualsiasi dei numerosi parchi cittadini della city).

    Peraltro, dal punto di vista di ospite non residente per periodi più o meno lunghi nel corso di un anno, in compagnia di figlie e nipoti, la domanda ha senso, eccome, soprattutto abbinata alla classifica delle cinque città spugna (cinque in luoghi diversi del mondo, l’ultima delle quali è proprio Londra).

    Non ho trovato una classifica più lunga delle città riportate negli articoli in ordine di percentuale di spugnosità, misurata secondo criteri di capacità di assorbimento del terreno dipendente dalla capacità (e dalla volontà) delle città di lasciare spazi liberi da cemento e asfalto per garantire l’assorbimento delle acque anche in caso di piogge violente e persistenti: (Auckland (35%), Nairobi (34%), Singapore (30%), New York (30%), Mumbai (30%), Shanghai (28%) e, appunto, Londra (22%). Non avendo in previsione di poter verificare in prima persona la situazione di queste città, mi limito a ragionare su quel che mi circonda e che posso verificare in presa diretta.

    Così, mentre scrivo, passo in rassegna – mentalmente – i parchi piccoli e grandi che si trovano a distanza di una camminata a piedi (tra 5 minuti e 20 minuti di cammino dalla porta di casa, più o meno): c’è un parco – piccolo e piuttosto disadorno (poche panchine e un’area giochi) – a non più di cinque minuti, alla cui spalle si apre una delle entrate pedonali per la Greenway Walking Trial, riservata a pedoni e biciclette, asfaltata nella striscia centrale, con due ampie fasce laterali lasciate all’erba e ai fiori selvatici (la scarpata laterale, da entrambi i lati è piena di alberi e arbusti e finisce a ridosso dei giardini / cortili di pertinenza delle casette a schiera). La Greenway è utilizzata durante tutta la giornata: c’è chi passeggia, chi si muove velocemente, chi si attarda a chiacchierare, chi si limita ad attraversarla, chi porta a spasso il cane. Tanti umani ma anche tante presenze animali (volpi, scoiattoli, corvi, gabbiani, topolini e, naturalmente, qualche gatto, transfuga dai sottostanti giardini, oltre naturalmente agli insetti che visitano regolarmente le piante).

    Ci sono poi, su un lato e sull’altro dell’Autostrada che ‘scorre’ tra i quartieri abitati e che si attraversa con passaggi pedonali sopraelevati veloce fino alla zona centrale (nei pressi del Blackweall Tunnel che mette in comunicazione le due sponde del Tamigi), almeno due parchi su entrambi i lati, uno dei quali completo di laghetto che ospita una grande profusione di uccelli migratori (oche di vario genere che si raggruppano in grandi famiglie, pronte a prendere il volo a stormi ad un segnale convenuto, ecc.). Sul bordo, comodamente seduti sulle panchine si può assistere a questi continui andirivieni, all’alternarsi delle presenze, al formarsi dei gruppi …

    Ci sono i marciapiedi, costeggiati abitualmente dalla pista ciclabile e da margini verdi, più o meno ampi, dove si incontrano sempre persone che camminano, da sole o in compagnia, con bambini in carrozzina o in carrozzina … l’impressione è di una città dove si cammina molto (e dove si consuma e si getta molto: non manca mai qualche carrello del supermercato mezzo sfasciato abbandonato ai lati dei percorsi pedonali!).

    C’è poi un Cimitero Ebraico (praticamente una grande area verde) e una riserva naturale che custodisce il cimitero dell’antica Saint Mary Magadalene Churchyard, operante fino al 1974. Si può entrare liberamente, passeggiare nel bosco e immergersi nella storia, soffermandosi a leggere date e vicende tra le lapidi in pietra ricoperte di muschio e circondate di fiori e di erbe.

    Come dire, da questo punto di vista ho la sensazione che la permeabilità sia forse superiore rispetto a quella che le classifiche considerano per la città nel suo insieme.

    Dal momento poi che le letture sono sempre in qualche modo collegate e come le ciliegie, una tira l’altra, riprendo tra le mani il catalogo di una recente mostra (https://www.vam.ac.uk/exhibitions/beatrix-potter-drawn-to-nature) interamente dedicata a Beatrix Potter - una bambina di età vittoriana dotata di una eccezionale capacità di disegnare, divenuta una ragazza con una grande capacità di disegnare, una giovane donna e, infine, una signora capace non solo di disegnare ma anche di mettere a frutto questa sua capacità -  rendendomi conto che in epoca vittoriana la impermeabilizzazione della città agli suoi inizi. Beatrix bambina abitava con i suoi genitori a Kensington (nei pressi del luogo dove oggi si trovano i grandi Musei di Londra), dove aveva modo di osservare e copiare insetti, foglie, fiori, funghi, particolari, piccoli animali che popolavano il sobborgo ‘quasi rurale’, sviluppando quella attitudine per il disegno, per le cartoline, per i libri illustrati sui quali – nell’impossibilità di proseguire gli studi universitari (appannaggio esclusivamente del fratello. Perché mai una ragazzina doveva studiare oltre la formazione di base?) -  si è concentrata e specializzata al punto di acquistare ettari ed ettari di terreno nel Lake District (Cumbria), che alla su morte sono divenuti patrimonio del National Trust e oggi costituiscono una parte importante del Lake District National Park. Nella mostra, realizzata dal Victoria and Albert Museum, il motivo ricorrente, sala dopo sala, era un display che forniva indicazione sul tema della sala, completo di animazione con due topolini che si inseguivano, saltellando, da una parte all’altra dello schermo, a conferma di come sia naturale la presenza di piccoli animali se la città convive con spazi verdi, mantenendo la caratteristica di permeabilità che dovrebbe essere propria anche delle zone abitate per evitare inondazioni.  Sala dopo sala, i visitatori hanno avuto la possibilità di osservare i disegni originali di Beatrix Potter su cartoline, fogli, lettere, libri, un enorme patrimonio che fa parte delle raccolte del V&A Museum e che possono divenire oggetto di mostre come è accaduto con Drawn to nature che si è chiusa l’8 gennaio 2023 e della quale rimane disponibile l’omonimo catalogo. Anche questa mostra  testimonia, indirettamente, come l’idea di ‘permeabilità’ delle città è diretta conseguenza del processo di cementificazione che attraverso un secolo e poco più ha portato l’uomo ha pensare di poter escludere la natura dalle proprie città, senza lasciarle il necessario sfogo, nella irragionevole e presuntuosa convinzione che non si sarebbe ribellata, in un modo o nell’altro!

     

    Nota: originariamente pubblicato in https://raccontiartigiani.wordpress.com il 12 febbraio 2023

     

  • CIAO BEPPE

    data: 24/03/2023 19:01

     Ciao, Beppe …

    Quando, quasi tre anni fa, l’amica Valentina mi chiese se le davo il permesso di fare il mio nome a Beppe Lopez per entrare far parte del blog, ricordo di avere espresso titubanza. In che modo avrei potuto contribuire ad un blog di professionisti della scrittura, abituati a scrivere per i giornali da diverse angolazioni e su argomenti diversi? Ho cercato di argomentare le mie perplessità senza peraltro convincere Valentina. D’altra parte, ci siamo conosciute per parlare e discutere di libri e su questo piano il terreno era ed è rimasto fertile.

    Così ho incontrato Beppe Lopez, a distanza, per mail e per telefono. Si è instaurata la mia collaborazione con il blog, all’inizio con incertezze di ogni tipo da parte mia. Per chi è abituato a stare nell’ombra, ossia al mondo della scuola - dove la scrittura oltre che praticata in prima persona è parte integrante del curriculum scolastico, dai rudimenti della lingua fino alla lettura e alla letteratura -, pensare di avere un pubblico più ampio che non siano studenti pone questioni di non facile soluzione.

    Dopo le prime ‘prove’ (della serie, gli esami non finiscono mai), ho capito che il mio interlocutore era una persona disponibile, attenta, capace di correggere, di indirizzare, di apprezzare. Sicuramente nel suo ambiente è stato un ottimo formatore.

    Con il senso del dovere che mi contraddistingue da sempre ho cercato di proporre interventi con cadenza regolare, sulle questioni che più mi interessano e mi preoccupano.

    Ho avuto modo di leggere molti articoli, di entrare in contatto con altri, di apprezzare come in qualche modo si sia creata una rete di conoscenze a distanza e, perché no, di amicizie, sulla base di affinità e di interessi.

    Dopo qualche mese, durante una delle telefonate, Beppe mi chiese se mi avrebbe fatto piacere leggere uno dei suoi romanzi – Capatosta – per farne una recensione. Difficilmente resisto a inviti di questo tipo. Leggendo Capatosta ho scoperto un narratore di una tale profondità, con una tale capacità di usare la lingua italiana - mista di forme regionali e locali in modo efficace e funzionale alla vicenda e ai personaggi – e una tale abilità nel ricostruire tutte le sfaccettature dei personaggi e dell’ambiente che la recensione è divenuta un breve saggio.

    Successivamente ho letto Capibranco e La scordanza. Sicuramente leggerò altro.

    Non sono romanzi facili. Ognuno tocca questioni complesse e delicate, capaci di mettere in discussione la visione del mondo con punti di vista alternativi. Sicuramente leggerò altro.

    Mi sarebbe piaciuto incontrarlo. Anzi, avevamo pensato di riunirci, in Abruzzo, per consolidare la sintonia a distanza anche in presenza, tra persone che nei mesi si sono messe in contatto per motivi diversi, nati dagli scritti dell’uno o dell’altro. La pandemia ha fatto saltare i piani.

    Oggi, Beppe ci ha lasciato.

    Da oggi, ogni volta che scriverò qualcosa, non potrò non pensare alla mail di risposta: ‘sei in rete’ magari con l’aggiunta di una parola a conferma di aver fatto un lavoro particolarmente azzeccato.

    Rimarranno le conoscenze e le amicizie fatte grazie a Beppe e, possibilmente, riprenderemo l’idea di incontrarci. E ognuno di noi, dal suo particolare punto di vista, potrà pensare che Beppe saprà di avere costruito qualcosa di duraturo.

    Nota: originariamente pubblicato in https://raccontiartigiani.wordpress.com il 21 febbraio 2023

  • ITALIANO E VOCI STRANIERE
    DA UN TRAFILETTO DEL 1932
    A UN DDL DEL 2022

    data: 28/12/2022 18:40

    Mentre sfoglio vecchi giornali grazie all’ormai insostituibile risorsa degli archivi online – inseguendo notizie di spedizioni artiche sulla scorta di una recente visita alla Casa Museo di Jules Verne ad Amiens e alla conseguente lettura in corso de Il paese delle pellicce (1876) – mi imbatto in un trafiletto che suscita il mio immediato interesse. Inseguire qualcosa non significa, infatti, tralasciare altri percorsi che magari aprono ulteriori spunti di ricerca e di riflessione.
    Accantono per il momento i viaggi artici tra Ottocento e Novecento (sui quali tra l’altro esiste un articolo - Regioni Artiche - di Carlo Errera, autore di L’epoca delle grandi scoperte geografiche (Hoepli 1926, 1976), che tornerò presto a indagare, per soffermarmi sul trafiletto contenuto nell’uscita di L’Avvenire d’Italia di Bologna del 6 luglio 1932.

    Lo riporto di seguito:
    Titolo
    Eliminazione di voci straniere

    “La Confederazione nazionale sindacati fascisti professionisti ed artisti allo scopo di contribuire alla eliminazione delle parole straniere dalla lingua in uso ha richiamato la particolare attenzione delle dipendenti organizzazioni sindacali degli autori e scrittori e dei giornalisti (categoria la cui azione in materia è da ritenersi di notevole importanza ed efficacia anche nei riguardi del parlare corrente) sul seguente elenco di voci straniere e corrispondenti italiane o italianizzate: Berceau, chiosco; Bonne, bambina; Brochure, opuscolo; (en brochure non rilegato) Buvet, Bar; Cafè Chantant, caffè concerto; Chalet, casina; Charme, fascino; Chassis, Telaio; Chèque, assegno; Klakson, clacson; Corvée, corvé, (nell’uso militare) sfacchinata, ecc.; Dancing, sala da ballo; Feuilleton, appendice; Frak, marsina; Gilét, panciotto; Golf, farsetto, maglioncino, maglione; Masseuse, Massaggiatrice; Omelette, frittata; paletot, cappotto, pastrano; Parvenu, rifatto, arrivato; Pendant, riscontro, simmetria; Pied e terre, piede a terra; Rendigote, finanziera; Regissseure, regista; Rez de chaussée, pianterreno; Silhoutte, sagoma, figurina; Suite, serie; Sourtout, soprabito; Tabarin, tabaroni; Taxi, tassì, Vermouth, vermut; Vis a vis, di fronte; Viveur, vitaiolo. La Confederazione professionisti ed artisti ha vivamente raccomandato ai dipendenti sindacati, che l’eliminizzazione delle voci straniere secondo l’elenco di cui sopra avvenga non solo negli atti e pubblicazioni ufficiali ma in ogni manifestazione dell’attività giornalistica e letteraria”.
    Leggerlo fa sorridere per vari motivi:
    - per le traduzioni dei termini stranieri (per lo più francesi), in alcuni casi decisamente temerarie, oggi sicuramente desuete (ammesso che siano mai entrate effettivamente in uso);
    - per l’uso della punteggiatura;
    - per la scelta di alcuni termini (es. eliminizzazione).
    E, in genere, per il fatto che nello stesso giornale le parole straniere, all’occorrenza, vengono usate tranquillamente laddove si riportano le molte notizie provenienti dall’estero.
    D’altra parte, nel momento stesso in cui l’attenzione mi è caduta sul menzionato trafiletto, la prima cosa che mi è venuta in mente è un articolo letto sul sito del quotidiano Domani a firma Vanessa Ricciardi e pubblicato il 27 dicembre 2022 con il titolo: Italiano lingua obbligatoria in Costituzione, FdI presenta un ddl per «difendere» la patria (https://www.editorialedomani.it/politica/italia/italiano-lingua-obbligatoria-in-costituzione-fdi-presenta-un-ddl-per-difendere-la-patria-pz6clkl4).
    Nell’articolo si da conto del testo depositato dal senatore Roberto Menia in cui afferma, tra l’altro, che la lingua è un: «portato di valori civili, morali e religiosi». Il ddl dovrebbe contribuire alla purezza della lingua e ad evitare le mescolanze introdotte dalla migrazione (come se non avessimo noi italiani introdotto termini italiani nei paesi dove da migranti siamo arrivati - Canada, Usa, Argentina, Brasile, … - e come se, dovunque la mescolanza è avvenuta, non sia stata occasione di arricchimento e crescita - a guardar bene proprio a partire dal mondo classico, quando i giovani rampolli della Roma che contava andavano a studiare in Grecia, in greco, ed erano correttamente bilingui, contribuendo a introdurre nel latino termini greci rimasti nella lingua parlata e nella cultura fino ad oggi.
    L’articolo in questione è facilmente reperibile online e chiunque può accedervi e leggerlo per una riflessione che vada altro lo stereotipo ripescato direttamente da epoca fascista come se nulla fosse stato, come se non esistessero in Italia zone limitrofe dove il bilinguismo è norma, una ricchezza dialettale che si affianca e arricchisce ulteriormente la facies linguistica dell’intera penisola e non esistessero scrittori che hanno usato un sostrato dialettale per le loro opere che sono, a tutti gli effetti, parte integrante del corpus letterario italiano.
    Le questioni più gravi, a mio parere, sono altre, nell’attuale temperie culturale: il generale abbassamento dell’uso orale e scritto della lingua italiana, l’impoverimento del vocabolario individuale e con esso l’incapacità di esprimere concetti e di valutare criticamente il mondo circostante. Ciò non ha nulla a che vedere con la presenza di altre lingue parlate sul suolo nazionale ma con la pratica sempre più scarsa della lettura e della scrittura a tutti i livelli della scuola, dall’obbligo all’Università, e dal successivo confluire del malcostume linguistico a macchia d’olio in tutti i settori. Questa situazione non può essere modificata con un disegno di legge ma con interventi mirati, aggiornati e consapevoli da parte degli organi deputati alla programmazione scolastica. E tali interventi dovrebbero preoccuparsi non solo della problematica che interessa l’apprendimento della lingua italiana, ma anche della diffusa debacle dell’insegnamento della seconda lingua che molto spesso si traduce in uno scimmiottare molto incerto della lingua studiata, immediatamente percepibile in qualsiasi ambiente appena oltre i confini nazionali.

     

     

  • UNA COPIA SCOMPAGINATA
    DI "PINOCCHIO" DEL 1901
    E UNA STORIA SVANITA...

    data: 17/12/2022 13:13

    Capita di dover cercare un libro tra gli scaffali della libreria. Per quanto ci si affidi alla memoria visiva, a volte, sembra di ricordare ma, in realtà, il libro che si cerca non si trova.
    Dirottando la ricerca in altri scaffali, può anche capitare di imbattersi in uno scaffale particolarmente disordinato. La ricerca passa in secondo piano. La sistemazione balza al primo posto.
    Così, riorganizzando i libri ne recupero uno decisamente malridotto, sicuramente antico, completamente dimenticato.
    A questo punto, inevitabilmente, anche la sistemazione dello scaffale passa in secondo piano.
    Il libro scompaginato balza in primo piano.
    Le prime pagine e le ultime mancano. Alla fine, l’indice si ferma al capitolo XXI.
    Non è difficile capire di cosa si tratti: basta una rapida scorsa alla prima pagina e all’indice per riconoscere una copia di Pinocchio l’opera sicuramente più nota di Collodi (Carlo Lorenzini, 1826-1890), pubblicato per la prima volta nel 1883.
    Lo sfoglio. Mi soffermo sulle illustrazioni, tutte accompagnate dalla firma: Carlo Chiostri.
    Una veloce ricerca mi fornisce le notizie essenziali: nato a Firenze nel 1863 è stato tra i primi illustratori di Pinocchio. Quindi l’edizione che ho tra le mani, ritrovata casualmente tra i libri accatastati in ordine sparso in uno scaffale dimenticato, è quella della casa editrice Bemporad del 1901.

    Rileggo i capitoli dal XXX al XXXIV relativi alla disavventura di Pinocchio che non sa resistere al richiamo del Paese dei balocchi, complice l’amico Lucignolo, con la conseguente trasformazione dei due amici in somari (sulla scorta dei miei studi classici e dell’interesse per tutte quelle forme letterarie che suggeriscono origini popolari, dall’epica alla favola, dal mondo greco q quello latino, la raffigurazione dell’asino in letteratura e nelle arti figurative è una delle mie fissazioni!).

    Scorro le illustrazioni, ricordando quando in un anno lontanissimo della mia infanzia lo ricevetti come regalo per Natale, intestardendomi a leggerlo la sera a letto, nonostante i rimproveri (“Spegni la luce, basta leggere!”), ricordando la paura suscitata da alcune disavventure del burattino disobbediente (come me che continuavo a leggere ben oltre l’orario consentito).

    Ricostruire la storia dell’edizione è stato facile.
    Più difficile, meglio, impossibile ricostruire la storia di questa copia, scompaginata ma accuratamente riparata (con ago e filo) per scongiurare – per quanto possibile - la ‘fine’ del libro. Sicuramente non è un libro acquistato in una libreria dell’usato o su una bancarella (cosa che faccio ogni volta che me ne capita l’occasione!).
    Deve essere un libro ‘di famiglia’ che ho salvato da una di quelle tristi fasi di sistemazione ed eliminazione del surplus di una casa quando viene chiusa per la scomparsa di chi la abitava.
    Immagino così che potrebbe essere stato della mia nonna paterna, l’unica esponente realmente di origine toscana del mio albero genealogico (insieme al figlio, il babbo, toscano solo di passaggio). Di lei ricordo il dizionario della lingua italiana sempre a portata di mano e un piatto ricorrente (le triglie alla livornese), di lei ho una copia de I lavoratori del mare di Victor Hugo (1866), di lei porto il nome. Per il resto una donna silenziosa, troppo.
    Eppure, anche il silenzio parla, anzi può urlare.
    Così preferisco immaginarla a sfogliare il Pinocchio scompaginato che ho tra le mani, mentre apprezzava il perfetto italiano ottocentesco di Carlo Collodi!

  • CONTRO L'OBSOLESCENZA
    DI (ALCUNI) LIBRI.2

    data: 19/11/2022 15:27

    Qualsiasi libro, saggio o romanzo, mi induce – più in generale, dovrebbe indurre il lettore - a creare una rete di rimandi ad altri testi. L’invito a ricostruire questa rete nasce dall’interno del testo e dipende solo dal lettore decidere se, come e in che misura percorrerne le tracce, cercando e leggendo i testi così recuperati, spesso datati e magari difficilmente reperibili.
    Una rete molto fitta è quella emersa dalla lettura di La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, a cura di Angelo Del Boca (Neri Pozza 2009): raccogliendo saggi di vari autori, ciascuno completo di una ricca bibliografia, non poteva essere diversamente (cfr. Contro l’obsolescenza di (alcuni) libri).
    Dall’indicazione bibliografica ivi contenuta, relativa a uno scritto di Gaetano Salvemini, Sotto la scure del fascismo, ho scoperto la Biblioteca Gino Bianco di Forlì che mette a disposizione on line il suo patrimonio di testi e di riviste, incappando tra le altre cose nella recensione di un altro interessante scritto di Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoriuscito (Feltrinelli 1960), pubblicata in Volontà del movimento anarchico italiano, Anno XIII n. 11, 1960 (la rivista è uscita con cadenza mensile dal 1947 al 1996, ed è stata diretta da Giovanna Caleffi fino alla sua morte nel 1962).
    Un interessante quadro sulle idealità, l’impegno, la finalità della rivista fino al 1962 si trova in Pietro Adamo, I tram di Barcellona, "Volontà" 1946-1962, l’intervento al convegno "L'Italia che sognavano, l'Italia mancata", Forlì, 19 aprile 2013, anch’esso disponibile nel sito della Biblioteca Gino Bianco.
    Ora, tra gli articoli contenuti nell’uscita del novembre 1960, un titolo mi colpisce particolarmente - I paesi si trasformano -, inducendomi a modificare il percorso di letture intrapreso e, per certi aspetti, riconducendomi all’interesse per le questioni legate alla gestione del territorio e all’agricoltura. L’autrice è proprio Giovanna Caleffi.
    Il paese da cui trae spunto per parlare di ‘trasformazione’ è Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia (6.195 abitanti del 1961; 6.244 ad oggi, di cui 694 stranieri residenti, secondo i dati che riesco a reperire). L’autrice ne delinea i caratteri principali, la storia, la particolare conformazione geo-fisica, necessariamente dipendente dal trovarsi sulla riva destra del Po (ciò che la porta a ricordare la catastrofica inondazione del 1951) -, la passeggera notorietà derivatagli dall’aver ospitato le riprese di una delle pellicole intitolate a Don Camillo, per poi addentrarsi nella ‘trasformazione’ in atto tra fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, a partire da una situazione incresciosa: al tempo della vendemmia, non si trovavano più persone in grado di aiutare per questo lavoro tipicamente stagionale e questo perché stava avvenendo il passaggio da paese ad economia prevalentemente agricola a paese ad economia industriale, con la conseguente nascita di fabbriche e officine. Queste assorbivano già all’epoca la mano d’opera, grazie ai salari regolari e, in generale, un lavoro più garantito, distogliendo i più dal lavoro agricolo.
    Ne derivava l’inevitabile spopolamento delle campagne al quale si dovrebbe e potrebbe portare rimedio individuando soluzioni adatte a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei contadini perché “si parla di arretratezza dei contadini, di <> nei metodi di coltivazione. In parte è vero ma è vero anche che non c’è contadino che non capisca che una stalla con pochi capi di bestiame selezionato dà meno lavoro e rende di più di una stalla con molti capi di bestiame scadenti. E così è per la vitivinicultura, e tutte le altre coltivazioni agricole. Solo mettendo il contadino sullo stesso piano dell’operaio e offrendogli le possibilità di vita del secondo si potrà evitare lo spopolamento delle campagne” (p. 689).
    Sono passati oltre sessanta anni da quando queste righe sono state scritte. Basta soffermarsi un attimo sulla questione per rendersi conto che la trasformazione è avvenuta in direzione contraria, ossia con la pervadente industrializzazione anche dell’agricoltura, in tutti i settori, anche delle stalle, dei macelli e del prodotto finito che a stento l’acquirente associa con l’animale da cui il prodotto confezionato proviene. E questo vale per tutti i settori, da quello ortofrutticolo a quello cerealicolo (ad esempio, quanti consumatori verificano la provenienza del prodotto che trovano confezionato sullo scaffale?). Chi ‘resiste’ in nome della qualità, del prodotto biologico, del rispetto della terra, delle piante e degli animali lo fa per amore della terra e del lavoro (e, più in generale, per rispetto di un pianeta sempre più bistrattato e maltrattato).
    Guardando la questione posta da Giovanna Caleffi, a distanza di sessanta anni, da una prospettiva diversa – quella di un paese arroccato su un colle dell’Appennino abruzzese, ai confini con il Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, che ha con Gualtieri un’unica analogia (l’origine in epoca medievale) – è incredibile l’attualità delle sue riflessioni sullo spopolamento che, anche qui, potrebbe essere realmente fermato soltanto con l’attuazione di una politica seria in campo agropastorale e forestale, oltre che turistico, ossia il settore su cui la popolazione – scarsa e tendenzialmente sempre più anziana per la defezione dei giovani – cerca di puntare.
    Ed è così che mi torna alla mente lo scritto che, ormai oltre un anno fa, ho dedicato a un altro libro, Cronache della restanza, (Riccardo Condò Ed.) di Savino Monterisi il quale narra il suo perseguire in prima persona l’idea e la pratica della restanza contro la tendenza affermata e pervasiva dell’abbandono (cfr. Tra restanti e arrivanti in terra d’Abruzzo, Infodem 18/08/2020). Il discorso iniziato con Cronache della restanza prosegue ora nel recente Infinito restare (Radici 2022) in cui l’autore continua a interrogarsi sulle questioni – politiche, sociali, economiche, ecc. – che la scelta di ‘restante’ comporta alla luce delle trasformazioni che – ostinatamente – hanno tenuto conto del profitto senza mai realmente preoccuparsi del territorio e dell’umanità che lo abita.
    Dal momento che è importante anche ‘inseguire’ i libri, posso aggiungere che il 19 novembre, alle ore 17,30, ci sarà una presentazione di Infinito restare a Castelvecchio Subequo (AQ), nella Sala San Pio (nella Valle Subequana, zona Sirente, oltre le montagne che vedo ad Ovest dal colle della piana di Navelli dove abito).
    E, dal momento che non ci sono solo i libri ma anche i documentari, se vi capita di vedere pubblicizzato il documentario La restanza di Alessandra Coppola, presentato al 39° Torino Film Festival 2021, ambientato in Salento, Puglia, e proposto qua e là per la penisola, non perdete l’occasione. Perché la nostra penisola è molto estesa in lunghezza, molto diversificata tra piano, monti e mare, ma le problematiche si assomigliano e val la pena di esaminarle, da Nord a Sud, dall’Emilia alla Puglia, magari passando per l’Abruzzo.

    Post-Scriptum
    Nel corso di questo percorso ho anche scoperto che
    Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo, a cura di R. Vivarelli, Feltrinelli 1966 e 1974
    Apparentemente introvabile, è stato ripubblicato recentemente:
    Gaetano Salvemini, Dai ricordi di un fuoruscito 1922-1933, a c. di Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri 2021

     

     

     

     

     

  • CONTRO L'OBSOLESCENZA
    DI (ALCUNI) LIBRI

    data: 13/10/2022 17:18

    In un’epoca di sovrabbondanza di merci, esiste anche una sovrabbondanza di libri, spesso scritti e pubblicati per essere pubblicizzati e ‘consumati’ nel giro di una stagione o poco più. Non sempre per il lettore/consumatore è facile orientarsi in questa pletora di titoli. Difficilmente, il lettore/consumatore sceglie libri che non appartengono alla categoria di quelli di immediato consumo, distratto com’è - inevitabilmente - da centinaia di altri prodotti.
    È uno dei tanti effetti del consumismo sul quale si basa l’economia di questi tempi folli che mascherano con l’abbondanza una crisi sempre più incombente.
    In questo quadro, accade che libri più impegnativi, destinati a una riflessione storica basata sulle fonti e tuttavia senza l’eccessivo appesantimento proprio di un volume accademico, divengano obsoleti nel giro di pochi anni e, nella logica del mercato, non trovino spazio per una nuova edizione e pubblicazione, forse in assenza di richiesta.
    Eppure, si tratta di libri che vale la pena leggere.
    È il caso – tra gli altri – di La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, a cura di Angelo Del Boca (Neri Pozza 2009) che contiene dieci saggi di altrettanti storici dedicati agli avvenimenti del periodo compreso tra la fine della Prima guerra mondiale, l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana (1948) e alla lettura e interpretazione di quegli avvenimenti fino al primo decennio del 2000.
    A distanza di alcuni anni, lo rileggo. Perché se leggere un libro è importante, rileggerlo può esserlo anche di più sia perché la prima lettura si è sedimentata sia perché acquista altri significati alla luce dell’obsolescenza cui il libro è stato destinato dalle logiche del mercato. Tre degli autori – Angelo Del Boca, Nicola Tranfaglia, Enzo Collotti – sono mancati, nello stesso anno (2021).
    Lo leggo, come sempre, con l’inesauribile mania per i libri frutto di studio e analisi della prima metà del Novecento e per i testi letterari, anche quelli per lo più dimenticati, dello stesso periodo perché, nel loro complesso, permettono di decodificare un’epoca e di individuare la genesi di questioni attuali. Lo leggo senza omettere le note che considero da sempre parte integrante di un testo e che, spesso, permettono di risalire a storie editoriali di altri titoli non meno interessanti di quello che si ha tra le mani.
    Trovo conferma dell’attualità del libro nelle conclusioni del terzo saggio incluso nel volume, quello di Nicola Tranfaglia, “Il ventennio del fascismo”:
    “… i mezzi di comunicazione nazionale e internazionali hanno riportato sempre, e continuano a farlo anche oggi, le tesi di De Felice come quelle prevalenti nella storiografia italiana e internazionale. Ma le cose non stanno più così da tempo e non c’è dubbio sul fatto che su questioni assai centrali (che riguardano le caratteristiche del movimento fascista e la sua ascesa al potere, il sistema di potere che si afferma in Italia con il 1925 e gli anni successivi, la politica interna ed estera negli Trenta e Quaranta) le tesi che si sono affermate nell’ultimo trentennio, grazie alle ricerche archivistiche e bibliografiche più attendibili, hanno condotto la maggior parte degli storici a un ritratto più simile che ho tracciato sinteticamente in questo saggio piuttosto che a quello che emerge dalle … interviste di De Felice e dai suoi complessi, e a volte contradditori, volumi della biografia di Mussolini. Ma i mezzi di comunicazione non ne prendono atto per ragioni che attengono agli equilibri politici italiani ed europei cioè <…” (La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, pp. 142-3).
    Trovo conferma, inoltre, dell’importanza delle note nello stesso saggio. Tra le numerose note -indispensabili per chi voglia approfondire, non per la comprensione del testo principale - trovo l’indicazione di un titolo di Gaetano Salvemini, Sotto la scure del fascismo, confluito nel terzo volume di Scritti sul fascismo, a cura di R. Vivarelli, Feltrinelli 1966, 1974, mai ripubblicato e introvabile sul mercato.
    Mi metto sulle tracce di questo titolo nei cataloghi delle biblioteche. Lo rintraccio, infine, nella ricchissima Biblioteca Gino Bianco di Forlì che mette a disposizione tutti i materiali inventariati in formato digitale, uno strumento prezioso per qualsiasi lettore appassionato di storia.
    Dalla prefazione risalgo alla genesi di Sotto la scure del fascismo, composto originariamente in inglese tra il 1933 e il 1935, pubblicato a Londra nel 1936 con il titolo Under the Axe of Fascim e in Italia nel 1948, in forma ridotta, adattata e tradotta da Alessandro Schiavi per i tipi della Casa Editrice Francesco De Silva e ripubblicato in versione integrale proprio nel terzo volume degli scritti di Salvemini. Una veloce ricerca online mi permette di verificare che il testo originale, in lingua inglese, è ancora disponibile in vari formati, cartacei e digitali. L’ultima pubblicazione risale al 2020. Sembrano sottigliezze ma sono fondamentali per capire la cultura in cui siamo immersi e le differenze che intercorrono tra un paese e l’altro. Non si tratta di coincidenze ma di scelte editoriali e, forse, di numeri. Quelli dei lettori.
     

  • DA LEGGERE IN UN BATTITO
    D'ALI (D'INSETTO)...

    data: 13/07/2022 18:51

    Nella mia libreria ci sono alcuni libri che leggo e rileggo, con cadenza più o meno ravvicinata. Li conosco bene al punto che, in realtà, non avrei bisogno di rileggerli. Ma, come ogni libro, rileggendoli si scopre sempre qualcosa di nuovo.
    Soprattutto, si scoprono connessioni che erano sfuggite o semplicemente date per scontate.
    C’è da dire che sono libri ‘antichi’, mai ripubblicati, che racchiudono un grande valore affettivo.
    E che varrebbe la pensa di recuperare dagli scaffali delle biblioteche o spersi nella massa dei libri usati.
    Alcuni sono, forse (il forse è d’obbligo, in un caso come questo) - ma non ne sono convinta -, superati come scrittura e come genere.
    Tra questi, Il carosello del tempo (La Prora 1956), raccoglie dodici brevi prose, una per ogni mese dell’anno, preceduta da una prosa d’apertura. L’autore è Filippo Petroselli (Viterbo, 1886-1975), mio nonno. Non ci vuole molto per rileggerlo e, mentre sono intenta alla lettura, mi sorprendo a chiedermi, da vecchia insegnante (anch’io d’altri tempi, ormai), nel quadro di quale genere letterario andrebbero collocate. Forse, sono ‘prose liriche’; o, meglio, ‘poesie in prosa’.
    Decido, tra me e me, che in vista della prossima lettura dovrò documentarmi meglio su questa questione (ho già individuato il saggio dove trovare indicazioni per rispondere: Claudia Crocco, La poesia in prosa in Italia. Dal Novecento a oggi, Carocci 2021). Per il momento mi limito a isolare due brevi periodi consecutivi dalla ‘poesia in prosa’ dedicata al mese di maggio.

    … Inebriati gli insetti volitano ovunque, o riddano a nubecole.
    Filano i ronzii e s’intrecciano tagliando ratti l’aria …

    da Maggio in Il carosello del tempo, La Prora, Milano 1956 p. 34

    La scelta è determinata dall’interesse per gli insetti (e per i libri che ne parlano!) e dalla considerazione che, anche per un occhio inesperto, di una persona che abbia a cuore le sorti del pianeta e che abbia la possibilità di vivere a contatto con un giardino di quasi montagna tanto scosceso da essere terreno prediletto di piante spontanee e alberi da frutto, posto a ridosso di un ambiente rurale, è facile rendersi conto che sono in continua diminuzione.
    Il che non è una buona cosa per il pianeta che abbiamo la presunzione di dominare.
    Ed è facile in relazione a come li ho conosciuti da piccola, a diretto contatto con il nonno e la campagna che era del nonno.
    Di per sé i due periodi si leggono in un attimo – un batter d’ali –, si capiscono ‘al volo’ e si passa rapidamente oltre. Se però si isolano e si rileggono (meglio ancora riscrivendoli su un foglio bianco per assaporarli meglio) è facile riconoscere i diversi elementi che li compongono, la posizione di ciascuno rispetto agli altri, la funzione che assolvono. Inebriati, riferito al soggetto ‘insetti’, suggerisce i profumi dei fiori da cui gli insetti traggono il nutrimento. Gli insetti volitano e riddano. Due azioni. Perché volitano e non volano? Perché riddano e non danzano? Serve fare mente locale e un minimo di indagine. Basta poco per scoprire che entrambi sono verbi utilizzati da Dante.
    Il primo – volitare – si trova nel XVIII canto del Paradiso (vv. 91-93) laddove, nel sesto cielo, Dante ha modo di osservare i beati che si sono segnalati in terra per avere esercitato la giustizia. Questi - ‘volitando’ - disegnano in aria le lettere D I L, le prime tre della frase con cui inizia il libro della sapienza ‘DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM’, nella Vulgata (ossia la Bibbia secondo la tradizione cattolica e ortodossa):

    E come augelli surti di rivera,
    quasi congratulando a lor pasture,
    fanno di sé or tonda or altra schiera,

    sì dentro ai lumi sante creature
    volitando cantavano, e faciensi
    or D, or I, or L in sue figure.

    Paradiso XVIII 72 – 77

    Il secondo – ‘riddare’ – è utilizzato invece nel VII canto dell’Inferno, in un’ampia similitudine tra i dannati – gli scialacquatori e gli avari – che sono costretti ad affrontarsi in una sorta di ‘ridda’ (una danza in tondo con renverse, ossia una giravolta finale) spingendo e rotolando massi gli uni contro gli altri al pari delle acque del Mar Ionio e del Mar Terreno quando si scontrano nei pressi di Cariddi:

    Come fa l'onda là sovra Cariddi,
    che si frange con quella in cui s'intoppa,
    così convien che qui la gente riddi.

    Inferno VII 22- 24

    Non è casuale neppure l’uso di un termine già desueto al tempo in cui la prosa è stata scritta e, in ogni caso, solo letterario, nella locuzione avverbiale di luogo ‘a nubecole’. Nubecola, derivato direttamente dal latino (nubecŭla, diminutivo di nubes «nube»), è usato in luogo di ‘sciame’ (una nuvola di insetti) e si trova in molti testi letterari precedenti a questo, particolarmente in poesia.
    Lo si trova ad esempio in uno dei componimenti che costituiscono il poemetto Farfalle. Epistole entomologiche di Guido Gozzano, Dell’aurora, dedicato al lepidottero noto con il nome scientifico Anthocaris cardamines:

    […] Oh! Messaggiera della Primavera!
    La Terra attende. Il cielo che riempie
    il frastaglio dei rami e delle roccie
    sembra intagliato nel cristallo terso;
    il profilo dell'Alpi è puro argento;
    pallido è il verde primo, il pioppo è brullo,
    la quercia ancor non abbandona il fulvo
    stridulo manto che sfidò l'inverno;
    allieta lo squallore la pannocchia
    pendula verdechiara del nocciòlo,
    la nubecola timida del mandorlo;
    tiepido è il sole, ma la neve intatta
    sta nelle forre squallide, a bacìo.

    Ma si trova anche, molti anni dopo, in una composizione di Eugenio Montale del 1969, dedicata a Carla Fracci, La danzatrice stanca, a conferma della rete di relazioni intertestuali che i letterati intessono, in modo più o meno scoperto, voluto o, forse, a volte, assolutamente casuale: […] Poi potrai / rimettere le ali non più nubecola / celeste ma terrestre e non è detto / che il cielo se ne accorga. Basta che uno / stupisca che il tuo fiore si rincarna /a meraviglia […].
    Nel commento di Vittorio Sermonti alle tre cantiche della Divina Commedia, pubblicato dalle Edizioni scolastiche Bruno Mondadori nel 1991, a proposito della rete di relazioni che un testo intrattiene con altri testi, trovo una domanda che il curatore rivolge direttamente al lettore (ossia allo studente al quale il commento è destinato):
    “Il pane delle tre terzine - ti chiederai - è fatto con la farina dell'esperienza o con la mollica della letteratura?”
    Nella sua immediatezza, la domanda mi convince a far seguire queste poche osservazioni due brevi passaggi tratti dalla stessa raccolta di ‘poesie in prosa’, come promemoria e terreno di indagine per chi sia incuriosito a proseguire l’indagine.
    Per le cicale non è più il primo canto spezzato, svogliato, quasi faticoso di orchestra in prova. Fuse nel grigiore delle cortecce di alberi ed arbusti, cantano senza requie ormai, la loro metallica, monocorde sinfonia che sovrana permea l’aria e l’addormenta
    da Luglio in Il carosello del tempo, La Prora, Milano 1956 p. 46

    … Vola qualche farfalla d’oro, spigrita e non più freddolosa e sonnolente come nelle prime ore.
    Ovunque instancabili alati, corpuscoli d’oro: api e vespe.
    Solo nota nera il cupo, ronzante traffico dei calabroni.
    Spinciona qualche fringuello. Zirlano i primi tordi.
    Su, trasmigrano remigando nel cielo terso le ondose e lucenti schiere dei colombi.
    Il va e vieni di api e vespe è continuo. Si saldano avide ai grappoli per le ultime inebrianti succhiate prima degli invernali digiuni. Si saziano. Vanno. Tornano. Si sono bene accorte che i cuori d’oro al colpo secco del ronchetto colmano i canestri; e sono poi ingoiati dalla rotonda tomba delle bigonce ove la mazza li pigia, sfigura, sfrange, preme, finché raspi, guazzano nel loro sugo.
    E s’indugiano a suggere il dolce umidore sull’orlo e ronzano entro quelle semivuote come per cupa e rabbiosa protesta …

    da Ottobre in Il carosello del tempo, La Prora, Milano 1956 p. 60 – 61

    Dimenticavo. Sermonti fornisce anche la risposta alla domanda: “Non c'è dubbio: con l'una e con l'altra”.

     

  • CATASTROFE AMBIENTALE
    OVVEROSIA: CRONACA
    DI UNA MORTE ANNUNCIATA

    data: 19/06/2022 14:15

    Ho rubato la prima parte del titolo a un libro di tutt’altro genere, lo ammetto (Gabriel Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata, 1981) ma credo che sia un furto scusabile alla luce dell’efficacia del messaggio che ne emerge.
    Il primo dei libri di cui intendo parlare è, in realtà, Oltre i limiti dello sviluppo (D. Meadows, D. Meadows, J. Randers, Il Saggiatore 1993), e si colloca al terzo posto di una serie di pubblicazioni volute dal Club di Roma, costituito nel 1968 da Aurelio Peccei (1908-1984), imprenditore e studioso di questioni economiche e sociali, e Alexander King, scienziato e imprenditore scozzese (1909-2007).
    Le pubblicazioni del Club di Roma, nel loro complesso, raccolgono gli studi degli scienziati coinvolti nella ricerca sulla salute del pianeta.
    Oltre i limiti dello sviluppo è fisicamente accanto a me, sulla scrivania, recuperato ancora intatto nella libreria di mio padre alcuni anni fa. Il penultimo della lunga serie - 2052. Scenari globali per i prossimi quarant'anni, 2013 - è a mia disposizione in formato digitale.
    Solo nel 2015 l’ONU ha fatto proprie le questioni che emergono da questi studi, formulando i diciassette obiettivi (Sustainable Development Goals, SDGs) da perseguire per poterle risolvere, inclusi nell’Agenda 2030.
    Le avvisaglie di tali questioni, peraltro, vanno ricercate a partire da qualche decennio prima.
    Nel 1962 viene pubblicato per la prima volta Silent Spring di Rachel Carson (1907-1964) (Primavera silenziosa, Feltrinelli (1963, 2019), biologa marina di formazione e di mestiere che al mare ha dedicato gli altri suoi scritti. In Primavera silenziosa il suo sguardo si sofferma sulla terra che l’uomo, già allora, stava avvelenando con pesticidi e insetticidi messi a punto dalle industrie chimiche nel miraggio di una produzione in continua crescita grazie alla monocoltura e alla meccanizzazione e, ‘finalmente’, indenne da fastidiosi ‘dintorni’ (erbe spontanee e insetti).
    Gli effetti sociali dell’applicazione all’agricoltura della monocultura meccanizzata erano stati denunciati con grande efficacia da John Steinbeck in un romanzo, Furore, pubblicato nel 1939.
    Nel 1962, John Steinbeck torna a scrivere negli Stati Uniti e sugli Stati Uniti, il suo paese, in Viaggi con Charlie. Alla ricerca dell’America (Bompiani 2017) in cui riscopre, in piena età dei consumi, lo stesso impulso al consumo che gli USA hanno cominciato ad esportare ben oltre i propri confini dalla fine della Seconda guerra mondiale. È lo stesso anno in cui riceve il premio Nobel per la letteratura. Rachel Carson muore solo due anni dopo, nel 1964, per un tumore.

    Quattro anni dopo, nel 1968, Aurelio Peccei e Alexander King, preoccupati della situazione ambientale del pianeta, danno vita al Club di Roma (https://www.clubofrome.org) e si impegnano a radunare scienziati di vari indirizzi per lavorare sulle problematiche economiche, sociali e politiche a livello globale. Grazie a Jay Forrester, professore del MIT (Massachusetts Institute of Technology), ottengono la collaborazione di un gruppo di ricercatori dell’Istituto che dedicano le loro ricerche, con i sistemi informatici allora disponibili, alla questione centrale: la crescita indiscriminata, che non tiene conto dei limiti delle risorse a disposizione.
    Frutto di questa collaborazione è il primo rapporto presentato al Club di Roma: 1972 D. Meadows – D. L. Meadows – J. Randers – W. Behrenss, I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell'umanità, Mondadori
    Il dibattito innescato dal primo rapporto fu tale, a livello nazionale e internazionale, che gli studi continuarono ad essere aggiornati dando vita a nuove pubblicazioni, con titoli diversi, capaci di farsi interpreti degli inevitabili adeguamenti della ricerca, anche in relazione all’avanzamento dei sistemi informatici a disposizione degli studiosi:
    1975 Donella Meadows, Dennis L. Verso un equilibrio globale. i limiti dello sviluppo, studi del System dynamics group Massachusetts institute of technology (MIT), EST Edizioni Scientifiche e tecniche Mondadori
    1993 D. Meadows, D. Meadows, J. Randers, Oltre i limiti dello sviluppo, Il Saggiatore
    2006 D. Meadows, D. Meadows, J. Randers, I nuovi limiti dello sviluppo. La salute del pianeta nel terzo millennio, Mondadori
    2018 Donella Meadows, Dennnis Meadows, Jorgen Randers, William W. Behrens, I limiti alla crescita. Rapporto del System Dynamics Group del MIT per il progetto del Club di Roma sulla difficile situazione dell’umanità (pref. Aurelio Peccei e Alexander Stefes, Lu.Ce

    La lettura di questi rapporti, così come delle numerose pubblicazioni dovute ai ricercatori che collaborano con il Club di Roma (reperibili sul sito, in lingua inglese), permette di comprendere il lento affermarsi di un pensiero divergente rispetto all’idea di sviluppo economico lineare e di crescita illimitata a portata di tutti. Naturalmente, è impossibile leggerli tutti in modo sistematico. Peraltro, anche solo alcune sezioni (ad esempio, in Oltre i limiti dello sviluppo, il capitolo 8 è di una chiarezza esemplare), con il supporto della documentazione presente nel sito, sono sufficienti per rendere l’idea di quello che è avvenuto in poche decine di anni.
    Nel periodo tra il 2013 e il 2014 (a ridosso della assemblea generale dell’ONU), si collocano ancora due rapporti:
    2013 J. Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant'anni. Rapporto al Club di Roma (G. Bologna, a cura di), Edizioni Ambiente, con il quale Jorgen Randers, uno dei coautori del primo rapporto – I limiti dello sviluppo, 1972 –, con la collaborazione di esperti in settori diversi, fa una previsione sull’evolversi dell’economia e sull’uso delle risorse nel prossimi decenni in cui, necessariamente, l’attenzione dei processi economici dovrà essere focalizzata sul benessere umano piuttosto che sulla crescita del reddito pro capite, senza nascondere la possibilità di risvolti impensati e difficilmente prevedibili.
    2014 J. Rockström – A. Wijkman (a cura di G. Bologna), Natura in bancarotta. Perché rispettare i confini del pianeta. Rapporto al Club di Roma, Ambiente, con il quale gli autori pongono l’accento sulla necessità, ormai improrogabile, di trasformare il sistema economico generalmente perseguito, abbandonando la crescita lineare e l’obiettivo della crescita del PIL (il prodotto interno lordo), rivelatosi deleterio per l’umanità e il pianeta, e adottando un numero limitato di indicatori di benessere (servizi) e un’economia circolare e sostenibile.
    L’impegno del Club di Roma sulle tematiche cruciali per il domani dell’uomo e del pianeta trova fondamento anche in studi focalizzati sull’analisi della crescita economica innescata dal neoliberalismo negli anni Trenta negli Stati Uniti (la politica nota come New Deal, attuata in risposta alla crisi economica del 1929) e attuata in modo travolgente a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.
    Nonostante le evidenze ormai macroscopiche della crisi ambientale e dei rischi per l’umanità, solo nel corso del primo decennio del XXI sec. si sono moltiplicate le analisi che, pur di segno diverso, hanno contribuito a porre in evidenza la necessità di interventi a livello locale e mondiale (gli studi di antropologia economica di Serge Latouche, le inchieste di Raj Patel e Jason W. Moore, i movimenti di base innescati dalla crisi economica del 2008, quali Attac https://www.attac.org; Occupy Wall Street / Occupy movement).
    Un documento prezioso, in questa direzione, è costituito dal saggio di Kate Raworth, L’economia della ciambella (Ambiente 2017).
    L’autrice, con al suo attivo studi economici ancora ispirati alle teorie liberiste e un lungo periodo di lavoro sul campo durante il quale ha maturato l’idea della necessità di un rinnovamento degli studi in campo economico, è approdata all’attività accademica forte di questa rinnovata consapevolezza, senza abbandonare l’attivismo. Nel suo contributo, ricostruisce le tendenze prevalenti in economia nel corso del XX secolo, non senza riferimento agli autori antichi (Senofonte e Aristotele, in particolare) dai quali spesso è opportuno ripartire per uno sguardo rinnovato sul presente; tiene conto delle voci che, nel corso del XX sec., hanno tentato di proporre una via alternativa alla crescita lineare, responsabile dell’accelerazione incontrastata dei suoi effetti negativi sul pianeta e sull’umanità; fa riferimento puntuale agli studi più recenti di cui ha fatto tesoro nel formulare la proposta di quella che ha chiamato, efficacemente, economia della ciambella (con riferimento alla circolarità dei processi economici).
    Alla luce di queste analisi, l’Agenda 2030 rappresenta un segnale di acquisizione di consapevolezza e un punto fermo da cui ripartire per diffonderla, organizzata per obiettivi, in modo sistematico, paese per paese, non solo tra gli studiosi e gli addetti ai lavori.
    Eppure, la consapevolezza delle drammatiche conseguenze dello sviluppo lineare a fronte dell’evidente limitatezza delle risorse a disposizione fatica ad affermarsi.
    Nonostante il moltiplicarsi delle voci impegnate su questo fronte, è molto difficile spostare la consapevolezza sui temi ambientali dal piano della ricerca a quello della vita quotidiana, in modo che ciascuno nel suo piccolo possa trasformare la propria consapevolezza in comportamenti operativi giorno per giorno e, per di più, fondamentalmente molto semplici.
    Solo facendo propri questi comportamenti, infatti, si può sperare di raggiungere almeno in parte risultati soddisfacenti entro il termine previsto, ben sapendo che, in realtà, non è né scontato né facile, e che, superandolo, le condizioni ambientali si aggraveranno inesorabilmente e si dovrà necessariamente spostare l’obiettivo in avanti di altri preziosi anni o decenni (2052 e oltre).
    Rinunciare a qualcosa oggi, può garantire la vita delle future generazioni e del pianeta.
    Sempreché non prevalga l’idea – dissennata ma ampiamente diffusa - del vivere nel presente, nel consumo e nello spreco, immemori del mondo circostante e del futuro.
    È una scelta anche questa.
    La generazione attuale e quelle che seguiranno immediatamente la nostra sapranno di essere state responsabili, in cento anni o poco più, della catastrofe ambientale in nome del ‘progresso’.

     

     

  • NOTIZIA VERSUS OPINIONE

    data: 21/05/2022 22:30

    Ci sono momenti in cui è particolarmente difficile districarsi tra le informazioni. Per vari motivi. Perché si affastellano. Perché non fanno in tempo a decantare, trasformandosi da cronaca a informazione vera e propria. Perché spesso rimangono a livello di cronaca passando direttamente a quello del dibattito sulla cronaca. In questo modo, troppo spesso, diventano propaganda o peggio ancora, auto-propaganda.
    Al centro non c’è più, in tal modo, la notizia illustrata nel modo più chiaro e documentato possibile al destinatario dello scritto (ossia l’informazione basata sulla conoscenza diretta o mediata - ma verificata - di un fatto accaduto nonché sulla competenza dello scrivente quanto più possibile basata anche sulla formazione specifica).
    Curiosamente, la notizia passa in secondo piano, rispetto all’opinione che lo scrivente ha su questo o quell’avvenimento.
    Ora, la notizia (ossia ciò che lo scrivente informato di un fatto può scrivere, osservandolo senza porre in campo la propria opinione in merito) e la conoscenza sono strettamente correlate. Scrivere notizie comporta avere conoscenza del fatto, sulla base di una documentazione visiva (essere presente nel luogo dove il fatto è accaduto), di una documentazione storica (ossia sulla base della conoscenza dei precedenti di quel fatto), di una documentazione archivistica (essere a conoscenza di scritti precedenti, di varia provenienza, tali da fornire un quadro complessivo della situazione in cui il fatto si inserisce).
    L’opinione è altro. Nella migliore delle ipotesi, significa esprimere in forma scritta o verbale quello che lo scrivente ritiene più opportuno in quel determinato momento e in una determinata situazione per uno scopo preciso (orientare il destinatario sulla posizione da prendere per fare proseliti, ottenere l’attenzione del pubblico e mantenerla il più a lungo possibile, trasformare la propria opinione in notizia essa stessa).
    La notizia e l’opinione sono antitetiche.
    La prima si colloca nella sfera lessicale della conoscenza e, di conseguenza, è volta a fare informazione e, dunque, conoscenza.
    La seconda si colloca nella sfera lessicale dell’apparenza (sembianza/parvenza).
    Dunque, non ha nulla a che fare con la conoscenza, molto con la spettacolarizzazione di qualcosa che vagamente somiglia alla notizia, moltissimo con l’autopromozione dello scrivente (o del ‘parlante’).
    Dal momento che, in questi tempi non certo facili, gli opinionisti e le loro opinioni – mutevoli, interessate, finalizzate, ecc. - sono troppo spesso alla ribalta, ho sviluppato una forte tendenza a guardare indietro, a recuperare vecchi testi ancora recuperabili per capire, a partire da accadimenti ormai – almeno apparentemente - conclusi.
    Sono convinta che il presente ha bisogno del passato per essere decodificato, un passato che, lo si voglia o no, è ancora molto vicino e che, in modo semplicistico, si tende a liquidare come ormai superato nei fatti, nella presuntuosa convinzione di procedere nella direzione giusta e, soprattutto, di dovere progredire senza incertezze verso un futuro che la ‘conoscenza’ (quella basata sulle notizie provenienti dai vari settori del mondo scientifico, specializzato, ecc.) sa e dice essere sempre più a rischio.
    Peggio ancora, se ciò avviene nell’oltremodo presuntuosa convinzione che il (proprio) presente sia l’unica cosa che conta nel panorama storico-culturale del momento.
    Per contrastare queste tendenze, mi rifugio nei libri. In particolare, saggi dedicati ad avvenimenti del passato, dai quali è possibile risalire alla documentazione coeva.
    Tra questi si colloca 24 maggio 1915 (Laterza 2019) di Elena Bacchin. L’autrice, in venti brevi capitoli, ciascuno seguito da un ricco apparato bibliografico (una vera miniera per individuare altri libri da leggere con profitto), ripercorre da angolazioni diverse e da differenti località in giro per il territorio italiano, gli accadimenti del giorno che corrispose all’entrata in guerra dell’Italia. E lo fa dedicando l’incipit di ogni capitolo a una situazione locale o a un attore della vicenda, spesso secondario e, magari, suo malgrado. Pur frutto del lavoro di uno storico, è leggibile anche per chi, come me, non ha una formazione da storico. Vale la pena leggerlo per ripercorrere in modo scevro da retorica quel che accadde. Non da studioso, da semplice cittadino (italiano, europeo e, in generale, del mondo).
    Ci sono poi libri che, in realtà, contengono le riflessioni e le opinioni di protagonisti del passato (raccolte di articoli, ad esempio; oppure memorie, diari, ecc.), particolarmente quelli relativi alle vicende della Prima guerra mondiale (e agli immediati dintorni).
    Il passare del tempo ha fatto sì che ciò che contengono sia ‘decantato’ e che, di conseguenza, sia più agevole riconoscere e isolare le opinioni dal resoconto dei fatti e dalle riflessioni. Il tempo, inoltre, ha fatto sì che sia facile individuare il pensiero politico che ispira lo scrivente e sul quale si fondano, inevitabilmente, le opinioni che esprime e la sua interpretazione dei fatti. Di conseguenza, permette di comprendere la differenza tra un ‘pensatore’, un ‘politico’ e un ‘opinionista’. I testi che rientrano in questa categoria sono numerosi, la selezione può dipendere dall’occasione, dagli interessi, dalla curiosità o, magari, dal desiderio di confrontare posizioni diverse rispetto alle stesse vicende. In alcuni casi si può trattare di opere narrative (come Mio figlio ferroviere di Ugo Ojetti o Diario sentimentale della guerra di Alfredo Panzini, cfr. Riflessioni dal passato sulla guerra).
    In altri casi si tratta di brevi saggi o articoli scritti in un arco di tempo corrispondente alla guerra o al dopoguerra e poi raccolti in volume. In quest’ultima categoria rientrano, tra i tanti, Conversazioni della guerra di Olindo Malagodi (1870-1934) e Da fiume a Roma di Guglielmo Ferrero (1871- 1942).
    Il primo raccoglie le conversazioni di Olindo Malagodi, di orientamento socialista prima e liberale conservatore poi, con i politici e i protagonisti degli avvenimenti tra il 1914 e il 1919, frutto del lavoro scrupoloso del suo essere giornalista per il quotidiano romano La Tribuna, uscito di scena quando fu interrotta l’attività del quotidiano all’avvento del fascismo. Raccolte in volume e pubblicate postume a cura di Brunello Vigezzi nel 1960 (Riccardo Ricciardi Editore) rappresentano una ricostruzione in presa diretta di quegli anni. L’introduzione chiarisce in modo esemplare il metodo di lavoro dell’autore, testimoniando con immediatezza la distanza dalla ponderatezza nell’uso della parola di allora rispetto alla parola di oggi che, trasferita dall’uso di carta e penna (e dunque, dall’abitudine a preparare scrupolosamente l’intervista) ad una pletora di talk-show dove diviene deliberatamente, da parte dei responsabili, proclama, polemica, urlo, gesto, lite, e via dicendo, giungendo, ripresa e amplificata in ogni modo, anche a chi ha deciso ormai da qualche anno, di fare a meno dello strumento televisivo per ripiegare sul libro e, in generale, sulla parola scritta.
    Il secondo, Da Fiume a Roma, è la raccolta degli interventi scritti da Guglielmo Ferrero all’indomani della fine della guerra, tra l’inizio dell’impresa di Fiume (settembre 1919) e la marcia su Roma (ottobre 1922), curata dall’autore stesso allo scopo di costruire una cornice in grado di fornire al lettore il contesto di riferimento e il legame tra un intervento e l’altro. L’autore, laureato in giurisprudenza e lettere, è stato protagonista del dibattito culturale da posizioni repubblicane radicali, si dichiarò interventista, riconoscendo successivamente di avere fatto un errore ad assumere questa posizione, e dedicando ai lettori la raccolta con queste parole:

    Questo libro è stato scritto per coloro, i quali credono che l’intelligenza e il sapere hanno ancora qualche diritto nel mondo. Perciò è stato scritto “sine ira et studio”. L’autore non ha nulla da temere né sperare dai nuovi dominatori, come nessun bene e nessun male potevano fargli gli antichi. Se non è infallibile, è disinteressato nel conflitto d’interessi e di passioni che devasta da dieci anni l’Italia. Auguro a coloro, che bersaglieranno questi scritti delle loro invettive, di poter dire altrettanto! Poiché purtroppo, se non si è ostentato mai il patriottismo nei discorsi e nelle cerimonie come in questi tempi, non furono mai così rari, come ora, coloro che servono la patria senza chiedere in cambio né onori, né potere, né ricchezze. Il lettore non cerchi l’ispirazione del patriottismo, che invece di servire si fa servire, nelle pagine del libro che si accinge a leggere. G. F.
    1 ottobre 1923

    Come questi e moltissimi altri scritti testimoniano, le guerre, con i loro strascichi nell’immediato, negli anni e nei decenni successivi, sono inevitabili, dolorose e sempre pronte a riaccendersi per questioni economiche e geo-politiche. Anche se nascono da interessi locali possono assumere implicazioni più vaste. E dovrebbero essere al centro dell’attenzione dovunque si verifichino, indipendentemente dalla ‘vicinanza’.
    Ogni guerra, dovunque accada, è una cosa maledettamente seria. Evitarla – con la ragionevolezza, con gli accordi diplomatici, con l’umanità – dovrebbe essere la priorità. Non sempre è possibile, per difendere la democrazia e gli accordi internazionali, nel momento in cui sono deliberatamente violati e da qualsiasi parte provenga la violazione.
    Ma, quando una guerra avviene, il fatto che la parola – quella pubblica, di quanti sono addetti a informare – divenga essa stessa un mero sfoggio di vis polemica per motivi personalistici, arrivando nelle case di un pubblico che non ha nessun diritto di replica ma quello di ricevere un’informazione seria, documentata e commenti scevri da personalismi e atteggiamenti da ‘primadonna’, arrivando a travisare la storia sulla pelle di chi muore e di chi subisce patimenti inimmaginabili, è cosa assai disdicevole e non depone a favore dello stato dell’informazione in un paese che si dice e dovrebbe essere civile.

  • LA SAGGEZZA DEGLI ALBERI
    DI PETER WOHLLEBEN
    E IL NOSTRO GIARDINO

    data: 24/04/2022 15:23

    Il libro è un saggio suddiviso in capitoli che esaminano gli alberi e le parti che li costituiscono. L’autore se ne occupa per professione (è stato guardia forestale e oggi gestisce un bosco) e trasferisce sulla pagina le conoscenze accumulate negli anni. Il bosco è la sua Accademia https://www.wohllebens-waldakademie.de, il luogo dove tiene incontri, seminari, eventi di vario tipo (Nordstraße 15, 53520 Wershofen, Germany). Mi piacerebbe visitarla. Per il momento, continuo la lettura: pagina dopo pagina le informazioni si susseguono, ricche, precise, argomentate e scorrevoli. Perché è un saggio in forma di racconto di cui gli alberi sono indiscussi protagonisti.
    Già dalle prime pagine, l’effetto principale della lettura è un cambiamento di prospettiva.
    Gli alberi sono sedentari ma si spostano (con i semi).
    Sono molto più longevi di qualsiasi altro essere vivente (uomo o animale).
    Non hanno la parola ma comunicano.
    Allo stato originario vivono (vivevano) in ambienti che, ormai, quasi non esistono più.
    L’intervento dell’uomo ha infatti determinato una modificazione radicale di tutti gli ambienti naturali, anche di quelli che ai nostri occhi sembrano selvaggi. Il vero problema, dunque, è sapersi porre nella prospettiva giusta. Cosa non facile.

    Mentre leggo, penso al giardino, agli alberi che abbiamo trovato e a quelli che abbiamo introdotto. Tra i primi, ci sono alcuni mandorli, un noce, un fico, molti prugni, alcuni meli, due albicocchi, un ciliegio. Il noce potrebbe averne circa quaranta, considerando quanto è cresciuto in circa quindici anni; il fico è sicuramente molto più ‘anziano’. O meglio è sicuramente molto anziano l’albero originario di cui rimane il grande tronco all’angolo di casa. I rami sono molto più giovani.

    I prugni resistono e si moltiplicano. I meli continuano a produrre mele, diverse. Non so riconoscerle. L’albicocco ha una grande chioma. In alcuni anni produce solo qualche sparuta albicocca. In altri - pochi - una quantità enorme che trasformo in marmellata, regalo e, per il resto, rimane a disposizione di volatili e insetti di ogni tipo.

    Il ciliegio produce con regolarità i suoi frutti che cogliamo solo dai rami più bassi, lasciando a insetti e uccelli il compito di ‘ripulire’ tutta la chioma. Alla base del tronco, la corteccia presenta una grande ferita (la lettura del libro mi sta condizionando: osservo tutte le cortecce con attenzione, colgo qualche indicazione, ma ci vuole ben altro per comprendere il significato di tutti i segnali che gli alberi ci trasmettono).

    I mandorli – una delle coltivazioni tipiche della piana di Navelli, oggi quasi completamente abbandonata (proprio quando il latte di mandorla si sta diffondendo per le sue indubbie qualità e in generale aumenta il consumo di mandorle, perfette per chi ha problemi con lo zucchero) – si sono progressivamente seccati. Ne rimangono soltanto due (un terzo, nato da una mandorla, è in attesa di trovare una sistemazione). Probabilmente erano vecchi o, forse, la presenza dell’ailanto che tende a diffondersi e a sovrastare tutto può avere contribuito alla moria.
    Chissà chi ha introdotto l’ailanto nella zona. Chissà quando è approdato (o, meglio, atterrato) da queste parti. Nel terreno confinante prolifica indisturbato: il vicino sostiene che fa ombra. In realtà, la sua presenza nel mondo è uno degli effetti del colonialismo ‘botanico’ scriteriato. Stabilito che non usiamo nulla di chimico per eliminare le erbacce che, anzi, lasciamo crescere indisturbate (calendula, salvia sclarea, tarassaco, papavero, ecc.), ci limitiamo a tenerlo sotto controllo, eliminando la nuova produzione in modo sistematico.
    In questi giorni, abbiamo deciso di eliminare una recinzione dovuta all’“ansia da confine” dei precedenti proprietari - come se un albero non potesse serenamente delimitare un confine tra due fazzoletti di terra, come se ci fosse qualcosa da rubare, come se potesse scoppiare una guerra anche tra due confinanti in un paese sperduto di un colle abruzzese, come se i due ipotetici contendenti avessero bisogno di una trincea materiale e bene visibile -: una doppia fila di rete metallica sorretta da metri di fil di ferro che nel tempo si è arrugginito ed ha intrappolato un grande tronco. Non so di che albero si tratti, potrebbe essere un mandorlo.
    Potrebbe essersi seccato proprio per l’uso scriteriato di filo di ferro, rimasto intrappolato nei tessuti del tronco? Non so dirlo con sicurezza ma, certo, non l’ha aiutato.
    Abbiamo ripulito tutta l’area, bonificandola dal filo spinato e recuperando un piccolo olmo piuttosto malmesso che, a distanza di pochi giorni si è già ripreso, riempendosi di foglie.
    La posizione del giardino (esposto a nord/ovest su un colle ai piedi del Gran Sasso) favorisce l’azione dei venti. Proprio il vento ha piegato il melo cotogno che abbiamo introdotto e che già da alcuni anni ci regalava una quantità di mele sufficiente per qualche barattolo di marmellata. Lo abbiamo risollevato e aiutato con un tutore. Ma, a oggi, non dà più segno di vita. Proprio leggendo il libro mi sono resa conto del motivo: lo abbiamo acquistato in un vivaio!
    Nella prima sezione del libro (La messa a dimora, Piantumazione, L’albero di casa nostra, ossia il melo), l’autore descrive come piantare un albero, come sono trattati quelli che si comprano nei vivai con il ‘pane’ di terra. Leggendo ho capito cosa è accaduto al nostro povero melo cotogno: ha resistito alcuni anni ma le radici non si sono estese in modo adeguato e la tempesta di vento di febbraio lo ha miseramente strappato da terra. Il nostro maldestro tentativo di aiutarlo con un tutore è stato completamente inutile!
    (Dal diario dei lavori in giardino, Navelli 17 aprile 2019)

    Sono passati tre anni da queste note. La situazione in giardino è più o meno invariata. Quando si lascia fare alla natura, i cambiamenti avvengono su tempi lunghi.
    Tre avvenimenti soltanto sono degni di nota:
    - l’albicocco – che doveva essere molto vecchio – ci ha definitivamente lasciato. Lo abbiamo sostituito con un altro che, per il momento fa timidamente la sua fioritura.
    - il melo cotogno invece è riapparso dal terreno con un ciuffo di polloni, a poca distanza dalla posizione originaria. Più in forma di arbusto che di albero. Cercheremo di capire se e quanto sfoltirlo. Un segnale di forza offertoci dalla natura.
    - i confinanti hanno ripristinato la recinzione metallica.

    Quest’ultimo è un segnale minimo ma molto significativo.
    Le considerazioni che se ne traggono non sono consolanti in questa fine di aprile 2022, con una guerra in atto su cui si concentra tutta l’attenzione (oltre alle altre in corso che dimentichiamo perché sono lontane e spaventano di meno); con una forte tendenza a passare una spugna su vicende del passato senza neppure una scusa (come dire, ops! È capitato, andiamo oltre da buoni amici), con una emergenza ambientale di dimensioni impressionanti, finita in coda all’interesse dei media (quando l’attenzione tornerà a prenderla in considerazione sarà già passato il tempo utile per trovare soluzioni credibili). La miopia del genere umano regna incontrastata su una natura che disperatamente cerca di metterci sull’avviso.


     

  • MERAVIGLIE DEL DUEMILA
    SCRITTE DA SALGARI
    PIU' DI UN SECOLO FA

    data: 20/04/2022 12:54

    Quando i due protagonisti di Le meraviglie del Duemila di Emilio Salgari (1862-1911) - Toby Holker, un medico che ha trovato il modo per addormentare gli esseri viventi, programmandone il risveglio, e James, un giovane amico ricco e annoiato - escono dalla condizione di corpi addormentati dalla particolare sostanza messa a punto dal medico e dallo stato di ibernazione in un ambiente appositamente predisposto, è il 2003.
    Il romanzo, ambientato tra New York e l’isola di Nantucket (di fronte a Cap Code, nella contea del Massachusetts, che Salgari non ha mai visto, come non ha mai visto tutti gli altri luoghi che ha reso protagonisti dei suoi romanzi) è stato pubblicato nel 1907 e scritto in un periodo di poco precedente.
    Tutti i suoi lettori, ragazzi nella maggior parte di casi, si sono quindi confrontati con le numerosissime situazioni nate dalla fantasia dell’autore, sulla base dei contemporanei progressi nel campo scientifico e tecnologico elaborati grazie a una fervida fantasia.
    Come sempre capita in questa tipologia di testi, ci sono intuizioni che si sono realizzate, in tutto o in parte, altre che anticipano traguardi rimasti nel campo sperimentale, altre ancora realizzatesi in una direzione completamente diversa.
    Rileggerlo oggi, a distanza di quasi venti anni dal momento del risveglio dei protagonisti, è forse ancora più inquietante di quanto può esserlo stato per i lettori del passato.

    Se è vero, poi, che è un romanzo pensato e nato per un pubblico giovanile, è altrettanto vero che sfiora questioni talmente attuali da renderlo interessante anche per un pubblico adulto. Inoltre, avrebbe forse bisogno di un apparato di note o almeno di un’introduzione che decodifichi alcune situazioni (ad esempio, laddove Salgari immagina che la luce sia fornita dal radio, un materiale radioattivo sul quale a quei tempi lavorava Maria Curie che per i suoi studi ricevette il premio Nobel – nel 1903, per la fisica con il marito Pierre Curie e, nel 1911, per la chimica - morendo nel 1934 proprio in conseguenza della radioattività dei materiali studiati).

    Già nel momento della prima cena dopo il risveglio, in casa del medico che ha avuto il compito di risvegliarli (si tratta di un nipote del protagonista), i due cominciano a indagare su come e quanto il mondo sia cambiato, a partire dagli ingredienti presenti nelle pietanze. Anzi, meglio, dall’assenza di carne nelle pietanze proposte, ipotizzando progressi in questo campo, nella direzione auspicata dalle numerose voci contrarie al consumo di carne ai loro tempi (ossia nella seconda metà del XIX secolo, quando vengono fondate le prime Società vegetariane in Inghilterra, Germania e Francia e si diffondono molte voci che sostengono il vegetarianismo anche negli Stati Uniti):

    «Ai nostri tempi si parlava molto di vegetarianismo, specialmente in Germania ed in Inghilterra. Si vede che quella cucina ha fatto dei progressi» (Cap. IV).

    In realtà, la spiegazione che viene loro fornita dal medico/nipote che li ha svegliati, chiarisce l’assenza di carne non per un progresso determinato da consapevolezza animalista, quanto piuttosto dall’esigenza di destinare tutta la terra utilizzabile a fini agricoli per fornire alimentazione adeguata alla popolazione mondiale, enormemente aumentata:

    «Mio caro signore, la popolazione del globo in questi cento anni è enormemente cresciuta, e non esistono più praterie per nutrire le grandi mandrie che esistevano ai vostri tempi. Tutti i terreni disponibili sono ora coltivati intensivamente per chiedere al suolo tutto quello che può dare. Se così non si fosse fatto, a quest'ora la popolazione del globo sarebbe alle prese con la fame. I grandi pascoli dell'Argentina e i nostri del Far-West non esistono più, ed i buoi ed i montoni a poco a poco sono quasi scomparsi, non rendendo le praterie in proporzione all'estensione. D'altronde non abbiamo più bisogno di carne al giorno d'oggi. I nostri chimici, in una semplice pillola dal peso di qualche grammo, fanno concentrare tutti gli elementi che prima si potevano ricavare da una buona libbra di ottimo bue» (Cap. IV)

    L’autore in questo passaggio ha colto nel segno ipotizzando l’aumento della popolazione mondiale (che ai suoi tempi era intorno a due miliardi di persone, oggi si sta avvicinando agli otto miliardi) e, di conseguenza, una crescita dell’agricoltura meccanizzata, senza peraltro ipotizzare la crescita smisurata dell’allevamento industriale degli animali tradizionalmente consumati dall’uomo, in tutte le fasi, dalla nascita alla macellazione e al commercio. Oggi le confezioni da supermercato tendono a equiparare la carne a un qualsiasi altro prodotto al punto che la questione della scelta vegetariana – già presente ai tempi di Salgari – difficilmente si pone alla sensibilità del grande pubblico.
    I due interrogano quindi il loro ospite sulla presenza dei cavalli. Alla risposta che anche i cavalli non ne esistono quasi più, la meraviglia dei due redivivi si fa ancora più accentuata. Si domandano infatti come possono gestire una guerra senza avere cavalli a disposizione.
    La risposta è sorprendente. Nel leggerla è indispensabile fare molta attenzione alle date, tenendo a mente che l’ideazione e la scrittura di questo testo, risalgono all’inizio del secolo XX e che le guerre ‘mondiali’, nel corso del Novecento sono state non una ma due:

    «Da sessant'anni sono scomparsi, dopo che la guerra ha ucciso la guerra, l'ultima battaglia combattuta per mare e per terra fra le nazioni americane ed europee è stata terribile, spaventevole, ed è costata milioni di vite umane, senza vantaggio né per le une né per le altre potenze. Il massacro è stato tale da decidere le diverse nazioni del mondo ad abolire per sempre le guerre. E poi non sarebbero più possibili. Oggi noi possediamo degli esplosivi capaci di far saltare una città di qualche milione di abitanti; delle macchine che sollevano delle montagne; possiamo sprigionare, con la semplice pressione del dito, una scintilla elettrica trasmissibile a centinaia di miglia di distanza e far scoppiare qualsiasi deposito di polvere. Una guerra, al giorno d'oggi, segnerebbe la fine dell'umanità. La scienza ha vinto ormai su tutto e su tutti». (Cap. IV)

    È lo stesso ragionamento che serpeggia in questa nostra primavera 1922. pPeccato che subito dopo, il medico redivivo si rivolga al nipote. Ecco lo scambio di battute:

    «Eppure quest'oggi, appena svegliato, mi fu comunicata dal vostro giornale una notizia che smentirebbe quello che avete detto ora, mio caro nipote» disse Toby.
    «Ah sì! La distruzione di Cadice da parte degli anarchici. Bazzecole! Ormai questi bricconi irrequieti saranno stati completamente distrutti dai pompieri di Malaga e di Alicante.
    «Dai pompieri?»
    «Non abbiamo altre truppe al giorno d'oggi, e vi assicuro che sanno mantenere l'ordine in tutte le città e sedare qualunque tumulto. Mettono in batteria alcune pompe e rovesciano sui sediziosi torrenti d'acqua elettrizzata al massimo grado. Ogni goccia fulmina, e l'affare è sbrigato presto.» «Un mezzo un po' brutale, signor Holker, e anche inumano»
    «Se non si facesse così, le nazioni si vedrebbero costrette ad avere delle truppe per mantenere l'ordine. E del resto siamo in troppi in questo mondo, e se non troviamo il mezzo d'invadere qualche pianeta, non so come se la caveranno i nostri pronipoti fra altri cent'anni, a meno che non tornino, come i nostri antenati, all'antropofagia» (Cap. IV).

    Come dire: qualsiasi oppositore viene eliminato dal potere (e al tempo di Salgari gli anarchici erano particolarmente impegnati contro le gerarchie al potere). Decisamente non è una bella prospettiva. Sono solo al capitolo quarto. Il fatto che l’intera vicenda e le situazioni che la percorrono siano venute in mente a un autore che, oltre un secolo fa, di romanzi ne ha scritti decine, viaggiando e informandosi solo tra le pagine di libri, atlanti e giornali e, per di più, senza raggiungere una condizione economica e un successo minimamente adeguati al lavoro che faceva, non è rassicurante, soprattutto perché portiamo con noi un bagaglio di fatti accaduti nel corso di un secolo che non lasciano molta speranza sul genere umano e la sua capacità di adattarsi a qualsiasi bruttura, pur di salvaguardare il piccolo spazio e il limitato tempo nel mondo che spetta a ciascuno.


     

  • RIFLESSIONI DAL PASSATO
    SULLA GUERRA
    2) Alfredo Panzini

    data: 13/04/2022 15:23

    “Oggi, nessuno legge Panzini. Non è un’impressione o un sospetto, è un dato di fatto. Nessuno lo legge, perché non si saprebbe come leggerlo, dove trovare i suoi libri: tranne che in biblioteca, dove il lettore comune non va a cercare racconti e romanzi”. Sono parole di Giuseppe Petronio (1909-2003), risalgono al 1983 (1) e fotografano perfettamente la situazione in quel momento storico. In effetti, gli scritti di Alfredo Panzini avevano avuto un grande successo ed erano stati pubblicati e ripubblicati più e più volte, fino alla morte dell’autore nel 1939. Negli anni successivi, Mondadori – editore storico di Panzini, alternato a Treves – pubblicò alcune scelte delle sue opere. Poi cadde definitivamente il silenzio sull’autore e i suoi numerosissimi scritti al punto che, poco prima del convegno con il quale il Comune di Bellaria Igea Marina ha inteso dare la giusta visibilità a un suo concittadino, seppure di elezione, le sue carte erano state ritrovate malamente accatastate in un’azienda per l’allevamento di polli (Panzini fra le piume dei polli, intervista a Ennio Grassi - curatore degli Atti -, Nuovo giornale di Bellaria). Naturalmente, rimanevano e rimangono le vecchie edizioni nelle biblioteche private e nel mercato dell’usato.
    Per quanto possa apparire strano, oggi di Panzini si può leggere molto di più, se non proprio tutto, grazie alle risorse online (2) e alle edizioni nei vari formati digitali. Certo, rimangono letture di nicchia. Difficilmente il grande pubblico lo sceglie in prima battuta. Né, peraltro, avrebbe senso, soprattutto perché, nella maggioranza di casi, si tratta di edizioni prive di un’adeguata presentazione che ne ricostruisca la genesi, contestualizzandola nel momento in cui le opere sono state scritte (e lette), in un arco di tempo di alcuni decenni (1893-1937), caratterizzato da un crescendo di successi.
    Ora, Panzini era nato nel 1863 a Senigallia (il 31 dicembre, quindi in tempo per essere coetaneo di Gabriele D’Annunzio che era nato a marzo), aveva studiato a Bologna e, senza dubbio, aveva assorbito modalità, idee e movenze di uno dei suoi maestri, Giosuè Carducci. Quindi è stato docente di liceo e scrittore, perseguendo in modo pervicace il successo, ben consapevole che, allora, come oggi - scrive, tra l’altro: Dire: scrivo è poca cosa. Quasi tutti sanno fare a scrivere. (Alfredo Panzini, Il romanzo della guerra, p. 26) - non lo si raggiunge da docente di scuola superiore, ma da giornalista e/o da scrittore, in particolare, divenendo amico di editori (Emilio Treves) e scrivendo per riviste e giornali (come elzevirista del Corriere della Sera, per oltre venti anni).
    Nel 1914, quando inizia quella che sarà nota come Prima guerra mondiale, ha cinquantuno anni e, di conseguenza, la garanzia di viverla dall’esterno. Peraltro, non può non scriverne, da osservatore lontano dal teatro di guerra, attraverso i giornali. E lo fa in alcune opere nel cui titolo ricorre il termine ‘romanzo’ ma che di fatto, almeno in tre casi, romanzi non sono. Sono piuttosto diari, conditi di riflessioni di ogni tipo, di ricordi, di conversazioni. Si tratta di Il romanzo della guerra nell’anno 1914 (Milano 1915), successivamente confluito in Diario sentimentale della guerra che raccoglie tutti gli scritti dal luglio 1914 al novembre 1918 (Roma-Milano 1923 – 1924), tutti catalogati nel sito dell’Accademia panziniana sotto la dicitura ‘saggi di storia e di letteratura’.
    C’è poi La Madonna di Mamà (Milano 1916), una sorta di romanzo di formazione che ruota attorno al giovane protagonista, di modesta origine ma ‘di belle speranze’ (come si sarebbe detto a quei tempi), che per le sue capacità riesce a concludere gli studi, trovando impiego come precettore in una famiglia della media nobiltà.
    Il romanzo della guerra nell’anno 1914 e La Madonna di Mamà sono agevolmente disponibili in formato digitale. Nel primo, le riflessioni sono quelle dell’autore in prima persona, come nascono dalla lettura dei giornali, dalle notizie che arrivano dal fronte, dalle preoccupazioni per l’estendersi del conflitto che, da lì a pochi mesi, interesserà anche il fronte italiano, dalle conversazioni con amici e colleghi. In La Madonna di Mamà, il narratore riporta, nei dialoghi o in lunghi monologhi dei nobili personaggi, il loro punto di vista, frutto di posizioni contrastanti, ostili alla guerra o palesemente favorevoli per i risvolti positivi che la guerra – qualsiasi guerra – porta con sé (4).
    Di seguito riporto qualche stralcio da Il romanzo della guerra, sufficiente per capire quanto anche un’opera come questa possa essere utile a distanza di oltre cento anni per ragionare di guerra, con tutte le contraddizioni che una guerra ha comportato, comporta e comporterà in futuro, tenendo presente che per un uomo che vive nel suo mondo circoscritto, che non entra in contatto diretto con la guerra e che, di conseguenza, non è direttamente coinvolto, la paura, la preoccupazione, il coinvolgimento sono più forti quanto più la guerra è vicina (geograficamente, culturalmente, ideologicamente, ecc.), si affievoliscono quanto più la guerra è lontana, fino a rimuoverla dal proprio mondo e dai propri pensieri quanto più la distanza è maggiore:

    Fu il 30 giugno, giorno degli esami al Politecnico: uno studente trentino giunse in ritardo. Aveva quasi le lagrime agli occhi per la commozione. La sera precedente — mi pare — era scoppiata la notizia della tragedia di Seraievo: l'arciduca Francesco Ferdinando da Este, l'erede al trono d'Austria, era stato assassinato.
    — Giustiziato!
    — Come crede lei, mio caro giovine, risposi. — Posso convenire con lei che la violenza rimane una delle cose più positive del mondo: ma i suoi frutti non mi piacciono.
    — La storia del mondo procede per atti di violenza!
    — Lo so; ed appunto per questo non è un'allegra storia. E quella povera arciduchessa?
    — Una reazionaria fanatica, peggio di suo marito.
    — E quei poveri figliuoli, innocenti, che non vedranno più i loro genitori?
    — Questioni di dettaglio di cui non si può tener conto.
    […] ma lei che cosa spera che venga fuori da tutta questa faccenda?
    — Una guerra immensa...
    […] Una guerra? La guerra? Un'immensa guerra? Ma si potevano dire più bestialità in poche parole? E da un giovane che fa studi positivi!
    Mi ricordo che proprio lì, al Politecnico, uno dei più autorevoli professori — oggi deputato — mi diceva un giorno: «Ma sa lei che bisogna essere ben letterati, ben poeti, per credere alla possibilità di una guerra europea? La rete degli interessi è tale da impedire automaticamente qualunque guerra. Gli armamenti? un premio di assicurazione contro la guerra, dovuti anche ad un fattore economico di recente creazione: l'industria degli armamenti».
    Osservava un altro professore come i progressi della chimica nella fabbricazione degli esplosivi fosse a tale punto che la guerra doveva per forza essere uccisa dalla guerra.
    I giornali dell'ordine un po' deridevano le così battezzate repubbliche di Pinocchio, un po' denunciavano le violenze, gli incendi, i saccheggi, i mezzi teppistici usati. Se ne raccoglieva un senso — diciamolo pure — di pavore e di incertezza da parte delle classi dirigenti. E su quel pavore tonava da Milano la voce del prof. Benito Mussolini, direttore dell’Avanti! per nulla intimidito, per nulla pentito: «Ma questa era la guerra di classe! la guerra non si fa coi guanti; la teppa rappresenta gli eroici sanculotti della nuova rivoluzione. Vi si preparassero i signori borghesi!»
    […] Sul mondo, d'improvviso, è apparso lo spettro immane della Guerra.
    […] Come la guerra di Ilion, cagionata dalla vendetta di Menelao e dall'isterismo di Elena.

    […] Mi raccolgo su me stesso e mi domando: Ma che bisogno ho io; io, individualmente, di pigliarmela così calda? In fondo questa guerra non è il fallimento più clamoroso di tutte quelle idee di umanità, di fratellanza, di pace a cui non ho mai voluto apporre la mia firma, una firma che, in realtà, non valeva niente, ma io non ho mai firmato. Firmavo, per dovere d'ufficio, le circolari di S. E. il ministro della P. S., quando, in febbraio, invitava i professori di fare le conferenze su la Pace Universale. Vero è che in iscuola io stavo muto come un pesce, con grave scandalo dei miei scolari, i quali volevano anche dalla mia bocca udire la buona novella che le guerre non si troveranno più se non nei manuali di storia.
    Sono sotto l'impressione di un raccapriccio umano; e mi pare inutile discutere. Mi guardo i piedi, le mani, guardo le vetrine eleganti, colme di cravatte, guanti, scarpe, calze di seta. Sotto il riverbero della luce elettrica sta tutta l'attrezzatura del vestire maschile e femminile. Ho un po' di schifo di appartenere alla razza umana. Razze giovani, razze vecchie; razze forti, razze deboli, filosofia di una specie, filosofia di un'altra specie... Ci credo poco.

    (Il romanzo della guerra, pp. 7- 40 passim)

    E, proseguendo, torna sulla guerra di Troia:

    — Signor professore — mi diceva anni addietro quello scolaro — ho inteso dire, ho letto, che Omero è molto immorale. Parla sempre di guerra.
    Scolaro scolaro, dove sei tu ora? Sì! parla sempre di guerra Omero; ma della triste guerra, della lagrimosa guerra. Dice Achille: «Nessuna tregua nell'eterna guerra dell'agnello e del lupo».
    Ma quando il furore è caduto ad Achille, l'eroe accosta a sè, lagrimando, la testa canuta di Priamo: non dice: «Vedi come il vecchio Giove mi aiuta!», ma dice: «È il vecchio Giove che fa micidiali le mie mani!» Come vedi, o scolaro, noi non siamo molto progrediti, ma piuttosto regrediti. È il caso di coniare questo nuovo verbo! (Il romanzo della guerra, pp. 98)

    Per Panzini il confronto quasi quotidiano con conoscenti, studenti, amici, colleghi, giornalisti e il rinvio costante alla guerra come narrata nei poemi epici divengono l’occasione per esprimere dubbi, porre interrogativi (spesso lasciati senza risposta), denunciare la propria inadeguatezza. Né si perita di sottolineare la retorica della formazione classica - che pure persegue naturalmente - che parla di una guerra tramite il filtro attivato dai versi e dai millenni (5). Inutile trovare risposte nelle pagine di Panzini che sa di non avere risposte e palesa l’incapacità di darne. Peraltro, proprio questa mancanza di risposte è un terreno prezioso per riflettere a quanto sia forse ancora più grave la tendenza attuale di molti che parlano senza realmente conoscere, con la sicumera di essere nel giusto e proclamandolo pubblicamente.

    1. La citazione è tratta dall’intervento Panzini scrittore di successo che Petronio presentò al convegno dedicato a Panzini nel 1983 a Bellaria Igea Marina i cui atti sono stati pubblicati con il titolo Alfredo Panzini nella cultura letteraria italiana fra ‘800 e ‘900, a cura di Ennio Grassi, Maggioli Editore, Rimini 1985
    2. Si possono consultare, in particolare, questi siti: https://www.alfredopanzini.it ; http://www.casapanzini.it/it/accademia-panziniana.html (il direttore dell’Accademia panziniana è il Prof. Marco Antonio Bazzocchi, al quale si deve, tra l’altro, una rilettura del letterato e dell’uomo Alfredo Panzini nel suo tempo (Alfredo! Alfredo! Storie di Panzini e della Casa Rossa, Pendragon 2021 con Riccardo Gasperina Geroni); https://www.liberliber.it/online/autori/autori-p/alfredo-panzini/.
    3. Qualche anno fa, nel periodo successivo al sisma dell’Aquila mi sono sentita dire da un conoscente, che lo asseriva con assoluta convinzione: “per la ripresa economica ci sono solo due cose che servono: il terremoto o la guerra”. Ovviamente, ho evitato accuratamente di entrare sull’argomento con la persona in questione, senza fare peraltro mistero delle mie convinzioni in proposito in ogni occasione possibile.
    4. Dovendo oggi leggere con gli alunni alcuni passi dall’Iliade, oltre che decodificarne il messaggio, scevro dal ritmo e dalla bellezza dei versi, sceglierei di accompagnarli con qualche pagina tratta da il silenzio delle ragazze di Pat Barker (Einaudi 1918) che ripercorre gli accadimenti dell’assedio decennale dei Greci alla città di Troia, ponendosi dal punto di vista delle ancelle e delle schiave al ‘servizio’ degli ‘eroi’ nell’accampamento greco, senza infingimenti e senza remore di sorta, con la convinzione che una lettura al femminile sia in grado di leggere la guerra e i suoi contorni senza retorica, cogliendo il nocciolo della questione. Della stessa autrice attendo la traduzione del recente The Women of Troy (Penguin 2021), quelle stesse donne (regine, figlie di regine, ancelle, ecc.) ridotte in schiavitù dagli ‘eroi’ greci che i tragici hanno portato sulla scena nell’Atene del quarto secolo e che i cittadini ateniesi hanno osservato sulla scena nell’abiezione della loro condizione di esuli asservite a un padrone straniero. Perché non è più il tempo di retorica, neppure a scuola.

     


     

  • RIFLESSIONI DAL PASSATO
    SULLA GUERRA
    1) Un romanzo di Ugo Ojetti

    data: 31/03/2022 15:39

    Da circa un mese l’attenzione mediatica si è concentrata, giustamente, sulla situazione determinatasi tra Ucraina e Russia. Ora, parlare della guerra è difficile, soprattutto quando e se le notizie rimbalzano, si accavallano e si inseguono a un ritmo tale che è difficile farsi un’idea fondata sui fatti. Si cerca di tenersi al corrente, per quanto possibile; si aiuta, per quel che si può; si resta basiti quando si sente parlare della guerra come una novità, almeno su territorio europeo, dalla fine della Seconda guerra mondiale.
    Per vari motivi. In primo luogo, perché non è chiara la causa per cui la guerra debba essere importante e debba interessare solo se è su territorio europeo, come cosa nostra.
    In secondo luogo, perché una guerra su territorio europeo c’è stata – lunga e drammatica – proprio alle porte di casa, ai confini orientali del nostro paese, oltre il Mar Adriatico (dalle cui coste, in molti punti, si vedono quelle della penisola balcanica nelle giornate limpide).
    In terzo luogo, perché dal secondo dopoguerra, di guerre (e di avvenimenti affini, non meno sanguinosi: genocidi, ad esempio; repressioni brutali da parte di alcune dittature, ecc.) ce ne sono state tante, ben distribuite e in alcuni casi ancora attive (tanto per citare alcuni paesi che ne sono stati o ne sono ancora interessati: Vietnam, Yemen, Siria, Corea, Palestina, Somalia, Afghanistan, Sudan, Congo, Venezuela, Colombia, ma l’elenco potrebbe continuare).
    Certo, questa è ‘vicina’. Si raggiunge via terra (come anche Damasco, volendo). Più vicini ancora sono i punti di approdo dei profughi che cercano di raggiungere le nostre coste dai paesi dell’Africa e del Medio Oriente, Lampedusa, tra gli altri.
    Questa guerra è esito di una politica imperialista che contrappone a un dialogo di cooperazione politica ed economica la logica del controllo e del possesso di paesi politicamente autonomi.
    Molte guerre sono state il risultato del processo di decolonizzazione (e ci potremmo domandare, caso per caso: ma cosa è stata la colonizzazione?).
    Molte sono state l’esito dell’equilibrio raggiunto alla fine della Seconda guerra mondiale. Altre ancora del disfacimento dell’Unione Sovietica. Quindi, in un modo o nell’altro, siamo partecipi, anche nostro malgrado, delle logiche sottese alle guerre.
    Mentre cominciano ad esserci lievi accenni a un ritorno sul piano della diplomazia (1) che pure non potranno cancellare la morte, il dolore, la paura, la distruzione, i costi economici, sociali, politici, culturali e i contraccolpi psicologici individuali e collettivi di un’operazione ‘annunciata’ da alcuni anni, e nella convinzione che i libri di storia non sempre sono adeguati - le date e i fatti organizzati in uno o più paragrafi, lasciano l’idea che debbano essere imparati ai fini della valutazione e dimenticati subito dopo e, in ogni caso, comunicano l’idea di qualcosa di definito (2) -, ho scelto di riscoprire alcuni testi letterari ormai datati.
    Si tratta di testi reperibili con qualche difficoltà in formato cartaceo ma disponibili in formato digitale. Un romanzo (storico), una cronaca, un diario in molti casi riescono a comunicare in modo più diretto il mondo che l’autore rappresenta e, con quel mondo, i sentimenti, le reazioni, il punto di vista dei personaggi. Anche se questi personaggi sono frutto della creatività dell’autore rispecchiano – volutamente - il mondo qual era nel momento in cui è stato composto quel testo. Di conseguenza, sono datati ma possono essere tragicamente attuali.

    Mio figlio ferroviere, il primo di questi testi, è il titolo di un romanzo pubblicato nel 1922 dalla casa editrice Treves di Milano (attiva fino al 1939). L’autore è Ugo Ojetti (1871-1946), un giornalista che si dedicò alla scrittura nel campo dell’arte e della letteratura, con indiscusso successo e molti riconoscimenti ufficiali. Durante la Prima guerra mondiale si arruolò come volontario e, per questa sua competenza nello scrivere di arte, venne destinato alla salvaguardia del patrimonio artistico presente nelle zone di guerra. Continuò la sua attività di critico d’arte e organizzatore di mostre. Fu nominato Accademico d’Italia nel 1930. Successivamente, come letterato è stato dimenticato, al pari di tanti altri autori più o meno contemporanei. Probabilmente, chi abita a Roma (o a Firenze) ha occasione di nominarlo solo perché in entrambe le città gli è stata dedicata una via.
    Eppure, Mio figlio ferroviere, è un romanzo che vale la pena leggere.
    L’autore affida al protagonista, medico, - un borghese terrorizzato dai cambiamenti in atto e dal diffondersi dell’idea socialista -, il ruolo di narratore. Il medico in questione narra in chiave autobiografica la vicenda del figlio che viene arruolato come macchinista.
    Quando torna a casa dal fronte, comunica due cose nuove e assolutamente inaspettate per il padre: la decisione di partire da lì a pochi giorni per Torino, dove intende frequentare la scuola per macchinisti ferrovieri, e il fatto di essere divenuto socialista. Il racconto dei progressi del figlio – come macchinista e come socialista attivo e impegnato nel partito – procede tra fatti che lo vedono sempre più coinvolto nelle attività sindacali e politiche con storie spesso equivoche che svelano il suo vero volto di approfittatore di persone, situazioni e cose nel nome dell’idea socialista; con le inevitabili trasformazioni di padre e figlio (complice l’acquiescenza della madre nei confronti del figlio, delle sue dubbie scelte e delle sue ‘scappatelle’); con i tentativi del padre di salvaguardalo da iniziative che ritiene pericolose, cercando di mantenersi indenne dal coinvolgimento - senza riuscirci - e ritrovandosi infine proprietario (per conto del figlio) di un oliveto e con la soddisfazione di vedere il figlio ritornare alla condizione di ‘borghese’ e, per di più, ‘possidente’, pur raggiunta con mezzi non leciti.
    La paura per l’affermarsi del socialismo e il paventato crollo della classe borghese sfumano nell’adattamento alla nuova situazione di entrambi – figlio e padre – negli anni del dopoguerra, mentre si affacciano le prime azioni dello squadrismo fascista.
    Impossibile narrare la vicenda e inutile soffermarsi sui risvolti della narrazione affidata dalla voce narrante (il padre medico), in busta chiusa, alla biblioteca del paese, con l’indicazione di aprirla solo dopo cinquanta anni (ossia, nel 1972) per vedere l’“effetto che fa”.
    Ma uno stralcio dal XI capitolo, in cui il narratore si lancia in una lunga digressione sulla guerra e sul progresso, analizzati esclusivamente dal punto di vista dell’interesse e della salvaguardia individuale, può sollecitare qualche improvvido lettore di queste righe a cercare il romanzo e a leggerlo nella sua interezza (tenendo presente che di anni ne sono ormai passati cento), non tanto come prodotto letterario quanto come promemoria e monito sulla degenerazione delle idee, anche le migliori; sui rischi dell’individualismo (che induce a ragionare solo nei termini di ciò che ci riguarda in prima persona); sul rischio che proviene dal valutare la guerra in base alla distanza (e, di conseguenza, alla sicurezza personale) e non al fallimento della diplomazia e dell’umanità o, peggio ancora, in base al colore della pelle o all’appartenenza culturale delle vittime e dei profughi:

    Ma sì, gli uomini, guerra o pace, rivoluzione o reazione, sono sempre quelli medesimi. Il progresso? Il progresso è soltanto l’aspirazione o il desiderio che ciascuno di noi ha di diventare più felice e magari migliore. Ma, vedendo che occorrerebbe troppo sforzo a raggiungere con la nostra volontà questi miglioramenti, affidiamo per comodo al mito Umanità, anzi addirittura all’ignoto Avvenire il soddisfacimento del nostro personale desiderio di diventare migliori e più felici: e questo chiamiamo Progresso. Il ricordo, così, d’aver creduto nei miracoli della guerra m’infastidiva. Ai più la guerra aveva recato, lo riconoscevo, poco o nessun giovamento, e a molti danno e miseria, e a parecchie vanità e follia. Pure alla nazione, se i governanti fossero stati altri, un bel vantaggio di serietà, di considerazione, di compattezza, e finalmente d’unità, l’avrebbe arrecato. Se i governanti fossero stati altri ... Di quelli che una volta si chiamavano neutralisti, tutti gli argomenti m’erano sembrati pietosi perché essi dimenticavano sempre di mettere, tra gli argomenti contrarii alla guerra, l’esistenza appunto di loro neutralisti. Voglio dire che se domani i bacilli della tubercolosi si mettessero a predicare la salute, sarebbero più onesti, scommetto, e comincerebbero la predica dicendo male anche dei bacilli della tubercolosi. Per contro un argomento di quei signori m’aveva sempre fatto impressione: che noi italiani si doveva ormai per lunga esperienza sapere che cosa valgono, l’un per l’altro, i nostri governanti. Se poi vogliamo giudicare la guerra solo dai patimenti e stragi che dà, diciamone pure male: è un facilissimo dire, da Omero in qua. E chi l’ha veduta, può dirne più male di chi l’ha sentita raccontare; e chi l’ha fatta, più di chi l’ha veduta. Ma anche qui mi rifiuto d’andare fino in fondo, e confesso che della guerra in genere, della guerra che non dovessimo ricombattere noi, non arrivo nemmeno oggi a dir male: uno, perché è inutile dirne male, e con tutto il male che se n’è detto e visto e sofferto nei secoli, non se n’è impedita nessuna, altro che da chi, nazione o individuo, al momento buono s’è dato a scappare, e allora sarebbe stato meglio che combattesse e combattendo morisse; due, perchè le guerre altrui, in fondo, non mi dispiacciono. Delle guerre lontane che danno varietà ai giornali e una pennellata di rosso all’orizzonte; che t’insegnano la geografia politica e fisica senza fatica, sera per sera, con un telegramma Stefani e una corrispondenza Barzini; che sono il romanzo alla Verne o alla Dumas per noi adulti, il teatro per chi la sera resta a casa e dopo pranzo si mette in pantofole e si sdraja in poltrona; che a tutti gli scavezzacollo danno un’occasione d’andarsi a sfogare o a riabilitare, lontano, senza che alla fine si sappia bene se sono stati dei truffaldini o degli eroi; che ai pescicagnòli neonati permettono il commercio delle armi vecchie, dei muli zoppi e dei viveri avariati, ma a distanza, con un guadagno ben rischioso ed incerto e con una certa fama di pirati e negrieri che resta loro incollata addosso, losca e romantica; la guerra insomma del Messico o del Marocco, dei boeri o dei boxers, dei giapponesi e dei russi: queste guerre, non mi dite che sono da condannare e da abolire. Distraggono l’umanità e giovano alla sua salute. E speriamo che non finiscano mai. Anzi, sono contento di sapere che non finiranno mai. Ragionamenti questi, lo so, buoni per uomini mediocri come sono io, come sarebbe bene che nemmeno io fossi, come purtroppo sono tanti italiani, come sarebbe bene che tanti italiani non fossero, e come di certo non saranno più appena il Progresso finalmente comincerà ad agire. E tu, lettor mio, tra mezzo secolo ne potrai giudicare meglio di me: almeno, cioè, con un’esperienza di mezzo secolo più lunga della mia”, da Ugo Ojetti, Mio figlio ferroviere, Cap XI

    (1) Il termine greco ‘diploma’ da cui deriva diplomazia, indica propriamente un foglio piegato in due. Rimanda quindi all’idea di doppio/duplice. Tale idea dovrebbe essere la guida di qualsiasi intervento di tipo diplomatico che, per sua natura, deve tenere conto di tutte le questioni in campo, dal punto di vista di tutti i soggetti coinvolti. L’attività degli ambasciatori è ben presente già nell’antichità.
    (2) La storia dovrebbe essere studiata sui documenti (anche quelli di natura letteraria). Fossilizzata in paragrafi successivi diviene cosa stantia. Per rivitalizzarla è indispensabile la mediazione dell’insegnante colto, consapevole del suo ruolo, appassionato (che magari può proporre una selezione di letture). Non dovrebbe sfuggire agli addetti ai lavori della comunicazione che la selezione degli insegnanti passa ormai per concorsi (si chiamano ancora così) ridotti a quiz da settimana enigmistica o, per essere più attuali, da L’eredità, che supera una percentuale minima dei partecipanti. Il che induce a pensare che chi supera ha azzeccato per puro caso le crocette giuste o, forse, più banalmente, che ci siano misteriose vie per sapere quanti chilometri di strade asfaltate ci siano in Afghanistan sui 34.000 km complessivi (non è uno scherzo è una domanda proposta in un corso di formazione per il concorso di tenutosi recentemente nelle varie sedi regionali). Forse è il caso di preoccuparsi anche di questo settore.

     

  • GUERRE, UMANITÀ MALATA:
    RIFLESSIONI DAL PASSATO

    data: 12/03/2022 19:18

    Quando ho parlato di un romanzo ormai dimenticato, proveniente da un passato che appare lontanissimo ma è ancora saldamente presente nei suoi esiti (Letture fuori moda: un romanzo datato e i suoi "dintorni", Kazimierz Brandys, La madre dei re), oltre al romanzo ho attentamente analizzato quelle che Gerard Genette ha definito le ‘soglie’ del testo e, in particolare, il “peritesto” editoriale, ossia le fitte pagine poste dall’editore a conclusione del libro con un consistente elenco di titoli – suddivisi per tipologia - pubblicati nella stessa collana (UE Feltrinelli) alla data di pubblicazione (1962).
    Per quanto strano possa apparire, anche questo elenco ragionato di titoli è una lettura fondamentale dalla quale emerge uno spicchio significativo di ciò che veniva proposto a livello editoriale in quella fase storica. A parte alcuni saggi ancora regolarmente riproposti, solo alcuni titoli sono stati ripubblicati fino agli anni Settanta, altri ancora sono definitivamente scomparsi dalla scena editoriale. Eppure, a ben guardare, potrebbero essere utili per capire l’oggi, tanto complicato quanto diverso e, comunque, risultato anche di avvenimenti superati.
    Mi è poi capitato di riconoscere uno dei titoli presenti in quelle pagine, mentre scorrevo gli scaffali pieni di libri disposti in ordine caotico in un negozio dell’usato: Si fa presto a dire fame. Altro editore, Mondadori, altro anno, il 1967. La prima edizione era stata del 1955. L’autore è Piero Caleffi (1901-1978), attivo nel Partito d’Azione e nella Resistenza, poi Senatore e Sottosegretario del Ministero dell’Istruzione ai tempi in cui frequentavo il Liceo). Non si tratta di un romanzo. Sono le memorie relative alla vicenda vissuta dall’autore tra il luglio del 1943 e il maggio 1945 che, a distanza di dieci anni, fissò sulla carta. La prefazione è di Ferruccio Parri (1890-1981). La narrazione ripercorre la cattura, l’arrivo nel lager di Bolzano, il trasferimento in quello di Mauthausen, la sopravvivenza (perché non di vita si può parlare) degli internati nei campi, fino all’inizio di maggio del 1945 quando, in fretta e in furia, gli addetti al campo, smantellano e fanno smantellare il campo, eliminando gli addetti alle camere a gas, tra urla e grida in cui i deportati riconoscono i nomi di Hitler e di Doenitz, rimanendo in balia di se stessi fino all’arrivo degli americani.
    La pagina conclusiva del testo ricorda i giorni della ritrovata libertà con alcune riflessioni valide al di là dell’occasione specifica. Caleffi e un compagno di prigionia conversano, seduti all’aperto, senza sapere come e dove andare e, soprattutto, senza averne le forze:

    “Negri, com’è bella la vita” dissi.
    “Sarebbe bella se non ci fosse guerra” rispose.
    “Forse non ci saranno più guerre, se i giovani saranno capaci di formare un nuovo mondo”.
    “Illusioni. Ci saranno sempre dei ‘nazisti’, e non solo in Germania”.
    “Forse. Ma bisogna pure che gli uomini se ne difendano organizzandosi in modo diverso, in una società che non abbia armi e non abbia campi di eliminazione e non consenta agli uomini di far valere i loro diritti o la loro frenesia di conquista con la guerra. Nessuno deve più soffrire per le proprie idee, per le proprie convinzioni religiose o politiche. Nessun uomo deve sopraffare un altro uomo. Questi maledetti campi insegneranno pure qualcosa”.
    “Ho gran paura” disse Negri “che sarà come non fossero mai esistiti”.
    “Non dirlo, Negri” risposi; e nella mia voce tremò l’angoscia, ma dentro al cuore la speranza tenne le sue radici.
    “Ma come potrai rimediare all’odio, nato qui dentro e che si spargerà per il mondo, per pochi che siamo rimasti?”
    “L’odio degrada l’uomo e genera la violenza, e in definitiva i campi di eliminazione”.
    “Già” interloquì Calore, “Nulla si riuscirà a costruire se non si potrà garantire all’uomo la libertà dalla fame e dalla paura. L’uomo può essere buono o cattivo, angelo o bruto, a seconda che sia libero o schiavo, a seconda che conosca o ignori”.
    “Hai ragione” dissi. “L’uomo è libero quando la fame non lo degrada e non lo esaspera, non gli impedisce di pensare e di volere. L’uomo è libero quando può decidere il proprio destino, serenamente, senza paura; quando non è schiavo dei suoi istinti peggiori, quando i suoi migliori impulsi sono incoraggiati e guidati dalla ragione e dall’amore degli altri uomini e per gli altri uomini”.

    A distanza di poco meno di 80 anni, in un mondo in cui quello che conta è il potere economico al quale il potere politico si sottomette, nell’illusione generata dal poter ‘liberamente’ godere di ciò che la produzione industriale mette a disposizione senza apparenti limiti, nella deriva rappresentata dal non osteggiato abbassamento del livello culturale e nella conseguente perdita di consapevolezza dei processi storici che hanno visto e vedono altre guerre, altre dittature, altre persecuzioni, altri rivolgimenti da allora ad oggi (impossibile enumerarli, dal Vietnam alla guerra nei Balcani e oltre, in Africa, in America Latina, in Asia) che si traduce in un’attenzione – distorta, semplicistica, disinformata – su quella in atto, semplicemente perché più vicina, suscettibile di sviluppi catastrofici e con il coinvolgimento di persone che sentiamo simili (mentre gli ‘altri’ sono profughi e tali rimangono), lascio la parola a un autore che ha osservato l’umanità dal punto di vista delle patologie psichiatriche, Beppino Disertori (Trento, 1907-1992).
    Mi sono imbattuta in questo autore tramite un libro con dedica autografa regalato da un altro psichiatra, Alberto Bizzarri, a mio nonno nel 1967 (anche lui psichiatra), con la prefazione proprio di Disertori. Ho rintracciato le sue opere tramite la Fondazione Museo Storico del Trentino. La dottoressa che si occupa dell’archivio mi ha indicato, tra l’altro, un articolo – scaricabile online dal sito dell’Accademia degli Agiati di Rovereto (una realtà attiva dal 1750) che mi ha incuriosito già dal titolo: Perturbamenti morbosi nell’evoluzione dell’umanità. Furor razzistico, furor nazionalistico, furor ideologico e nevrotizzazione della società moderna. L’articolo risale al 1966. L’autore è morto nel 1992. Se fosse vivo, con ogni probabilità, sentirebbe l’obbligo deontologico di aggiornarlo. Ne riporto le conclusioni, come spunto per una riflessione sull’umanità:

    “… possiamo catalogare nella medesima categoria … fenomeni psicopatologici collettivi in apparenza assai diversi, come i tre furori razzistico, nazionalistico, ideologico, da un lato, e la nevrotizzazione della società umana, dall’altro lato. Se aggiungiamo che la nevrotizzazione con i suoi sentimenti dell’allarme, d’ansia, di tristezza, di stancabilità irritabile, e con le sue esigenze d’evasione, può interferire con i tre furori nel suscitare incomprensioni, diffidenze e ostilità fra individui e popoli, con scariche di aggressività micidiale, e può perciò contribuire a immani conflagrazioni, di cui questo secolo di massima accelerazione del progresso e della convergenza ci ha offerto già due catastrofici esempi mondiali, allora si manifesta tutta la portata dello studio scientifico socio-psichiatrico delle infermità mentali collettive. E ciò vale tanto per una profilassi delle sciagure che possono mettere a repentaglio l’esistenza stessa della civiltà non solo, ma del pianeta medesimo con il genere umano ospitato, quanto per il raggiungimento di quella meta in cima a tutti i nostri pensieri che è la realizzazione armonica dell’umanità, intesa come comunità di uomini liberi e giusti, pacifici e fraterni, aperti a un sempre maggiore perfezionamento spirituale” (il testo integrale dell’articolo a questo link https://media.agiati.org/page/attachments/agiati-atti-b-1966-b.disertori-p.5.pdf).
     

  • UN TITOLO ABUSATO
    E UN LIBRO SCOMPARSO

    data: 22/02/2022 15:17

    Il libro che ho tra le mani si trova in casa da quando mio nonno è mancato, nell’ormai lontano 1975. Era l’inizio di gennaio e da lì a pochi mesi mi sarei laureata. Il libro risale a molto molto prima: la pubblicazione avviene infatti nel 1949, per i tipi della casa editrice Gastaldi della quale trovo notizia solo fino al 1958. L’ho letto da ragazza e riletto qualche pagina, di tanto in tanto, nel tempo. Poi, qualche giorno fa, l’ho ripreso in mano, iniziando da una novella scelta a caso (che propongo di seguito) e decidendo che è arrivato il momento per rileggerlo.
    Il titolo fa parte della storia "letteraria" della famiglia: Allegro, ma non troppo, primo di due volumi contenenti ciascuno venti novelle (il secondo dei quali pubblicato nel 1953). L’autore è Filippo Petroselli (Viterbo 1886-1975), mio nonno materno, medico di professione e letterato, con molti titoli al suo attivo e giudizi lusinghieri da parte di contemporanei (Grazia Deledda, Bonaventura Tecchi, tra gli altri) e tuttavia rimasto ai margini rispetto ai tanti affermatisi e, in molti casi, ancora ripubblicati.
    Il titolo è un’espressione propria del lessico musicale, utilizzata in italiano - ovunque nel mondo - per indicare la velocità esecutiva di un brano, una delle tante che qualificano "allegro" negli spartiti musicali. Per curiosità ho fatto una ricerca online, trovando numerosi libri di vario genere (musica/poesia/narrativa) con lo stesso titolo, tutti recenti. Tra i tanti l’unico che non conosco ma che leggerei volentieri, è dello storico Carlo M. Cipolla (Allegro ma non troppo con Le leggi fondamentali della stupidità umana, il Mulino 1988, pubblicato originariamente in inglese) il quale lascia la veste di storico per costruire due saggi "umoristici", volendo stigmatizzare in modo parodico l’economia e parlare scherzosamente della stupidità umana. Per il resto appare un titolo un po’ banale e, dunque, decisamente abusato.
    Il volume di novelle di Filippo Petroselli, al tempo della sua pubblicazione, non aveva rivali nel titolo, sicuramente azzeccato rispetto ai contenuti: le novelle di ambientazione locale (vi si riconoscono paesaggi, usi, costumi della Tuscia viterbese senza peraltro che sia mai possibile per il lettore risalire a luoghi e personaggi specifici) sono generalmente brevi e colgono in presa diretta atteggiamenti, difetti, modi di fare di personaggi che rappresentano nel complesso una varia umanità con i suoi difetti ricorrenti, indipendentemente dalla condizione sociale.
    L’attenzione per i particolari, pagina dopo pagina – le descrizioni naturalistiche, i tratti che delineano i personaggi, i primi piani sui luoghi di lavoro (botteghe, campi, uffici, ecc.), attività artigianali, professioni intellettuali o amministrative – è indice della perizia dell’autore nell’osservare con partecipazione - ora ironica, commossa o anche di aperta disapprovazione per vizi e soprusi, ora di bonaria comprensione per le piccole manie inoffensive - i fatti della vita, spesso espressione dello sguardo attento del medico nel quale emerge, di quando in quando, lo specialista in psichiatria.
    La novella che segue, Tremenda vendetta, si risolve in poco più di due pagine nelle quali l’autore narra il sopruso di un ragazzetto di famiglia agiata - annoiato, in cerca di uno svago purchessia e troppo sicuro di sé - che si accanisce contro un povero "ciabattino" che si attarda a lavorare (come ogni forma di narrativa, anche queste novelle sono espressione del proprio tempo: in questo siamo ancora nei tempi in cui un paio di scarpe veniva riparato più e più volte), per divertimento o per fastidio "politico" nei confronti della carta rosso bandiera utilizzata dal ciabattino per chiudere la finestra in luogo del vetro, divenuto troppo costoso.
    La soluzione trovata dal ciabattino per far cessare una volta per tutte il crudele divertimento del ragazzo ai suoi danni offre l’occasione all’autore per una citazione dotta dal XXVIII canto dell’Inferno (v. 26) ove Dante colloca quanti si sono macchiati di carneficine, gli uni contro gli altri armati, costellando la descrizione “con termini del linguaggio tecnico e del lessico quotidiano, di immagini minuziosamente schifose, con impudente maestria" (Dante, Inferno, commento di V. Sermonti, Bruno Mondadori 2000, p. 382).
    La lingua utilizzata si caratterizza per l’uso di alcuni termini oggi desueti (zerbinotto, rovaio, gaglioffo, ecc.), per il ricorso accurato ma sempre accessibile al linguaggio figurato, per l’uso di notazioni coloristiche e uditive ("rumoroso disastro") e di caratteristiche fisiche (il naso "spartivento"), per suggerire atteggiamenti caratteriali in un crescendo che culmina nell’inaspettata situazione finale ("aprosdoketon").
    A distanza di poco meno di tre anni dal cinquantenario della morte, che ho vissuto e vivo ancora oggi come un abbandono al quale non ero preparata, mi piace ricordarlo con una novella che racchiude il succo della sua "poetica" e di tutto il suo modo di essere, caratterizzato da poche parole e lunghi silenzi (maturati già da medico militare durante la Prima guerra mondiale). Le une (le parole) e gli altri (i silenzi) dicevano molto a chi ne osservava l’apparente sdegnosa indifferenza e gli sguardi in cui si accendevano piccoli lampi ironici a svelare come il suo distacco fosse, in realtà, un modo per dissimulare l’acutezza e la partecipazione dolente con cui guardava al mondo e all’umanità.

    TREMENDA VENDETTA
    Si era in quei beati tempi, beati almeno a confronto dei nostri che ci costringono a dirci nati sotto malignissima stella, nei quali non si sentiva così viva e pressante fame e sete di vetri.
    Ma anche allora v'erano dei poveracci per i quali la rottura di un vetro significava un rumoroso disastro; disastro che li costringeva ad incollare nei riquadri delle finestre e delle porte in luogo dell'oggi purtroppo prezioso trasparente, un foglio di assai più economica carta.
    A ciò era stato costretto anche Fluà, il ciabattino di via del Melangolo, che tanto era povero di denaro quanto ricco di figli.
    L'una e l'altra di queste assai convincenti ragioni lo costringevano a vegliare, curvo sul negro e maleolente banchetto, fino a tarda ora, soprattutto d'inverno quando i giorni sono assai corti. e le notti hanno il fiato di gelo.
    A quel riquadro della porta aveva dunque applicato con la sua colla sempre inacidita, un pezzo di carta rossa tolta da un ampio manifesto residuo di vecchie lotte elettorali.
    Ma il destino volle che quella carta od il colore di quella carta o l'una e l'altro dessero ai nervi ad uno spilungone di studente, malignuccio, magro, olivigno, con un assai notevole spartivento di naso.
    Questi, la prima sera che passò di là – le strade erano deserte e spazzate dalla tramontana – fu colpito da quella novità e preso dall’irresistibile idea, non poté frenarsi di tradurla immediatamente in atto.
    Con una ratta beccata della sua prominenza, lacerò il foglio ed introdotto il capo nel piccolo tempio del lavoro e della necessità, esclamò a voce crudele e faccia beffarda: “Ancora Lavori?!”
    Poi, prestamente ritiratosi, sè ne fuggì a tacchi in aria prima che il poveraccio si fosse riavuto dalla sorpresa. Cosi accadde più volte: naturalmente una sera si e tre o quattro no lo studente a dar la sua ficcata con la solita ironica esclamazione appena dentro col capo, ed il povero Fluà ad incollare un altro pezzo del gran foglio rosso.
    Finito quello rosso fu costretto a metter mano a uni giallo, meno giallo però della bile di cui in quella mesata aveva fatto una non indifferente raccolta. Ma invano. Il suo, diciamo così, intellettuale nemico sembrò accanirsi ancor più contro il nuovo colore condannando con maggior gusto il povero ciabattino a quel sisifeo lavoro ed al gelido fiato della tramontana che quell'anno si ostinava a regnare in cielo e peggio in terra malgrado le imprecazioni e le sfrecciate degli intirizziti mortali.
    Al terminar del foglio giallo, Fluà si trovò al punto di aver terminato anche tutta la riserva di pazienza e, quasi preso dalla disperazione, si vide costretto a ricorrere, come dicono i medici, ad un rimedio eroico il quale sortì l'effetto tanto desiderato dal poveraccio: di esser finalmente lasciato in pace al suo lavoro ed ai suoi pensieri.
    Ed il nostro zerbinotto cadde nell'apprestato vischio. Quella sera di strada deserta e di ululante rovaio, diede con più gusto del solito la ficcata e con veemenza maggiore.
    Ma l'indiscreta e crudele esclamazione fu sull'affiorare soffocata da una serrata repentina di labbra. Cosicché ne sortì invece un'altra, quella che i mortali anche più gaglioffi sogliono emettere dal profondo del cuore quando si trovano in penose ambasce: “Uh! Dio!”
    E fuggì a perdifiato come se avesse visto in quell'ispido e canuto pover'uomo il diavolo in persona; fuggi scoppiettando starnuti, sudando freddo, assai più a precipizio che in tutte le altre precedenti imprese, facendosi alla meglio, a rispettosa distanza, schermo un po' con le mani alla faccia, ché con quella maschera di non profumato belletto fabbricato dal “triste sacco”, autentica Marca Fluà, troppo ignominioso sarebbe stato farsi vedere da altri mortali e tanto meno dai suoi.
    E non frenò la corsa che dinanzi alla prima fontana ove, con fretta fervorosa ed assai gelida linfa si lavò, si stropicciò e ristropicciò con rude energia, faccia, orecchie e collo perfino.
    Asciugandosi quindi alla meglio col fazzoletto, filò ad imbucarsi nell'entrata di casa. E mogio mogio sali le scale con nel naso, il maggiore colpevole, quel certo profumo Marca Fluà che non era proprio di gelsomino
    . (Tratto da Filippo Petroselli, Allegro, ma non troppo, Gastaldi Editore in Milano, 1949)


     

  • LETTURE FUORI MODA:
    UN ROMANZO DATATO
    E I SUOI "DINTORNI"

    data: 10/02/2022 12:17

    Quando si entra nelle librerie dell’usato - quelle nelle quali i libri accatastati sono tanti che è difficile farsi strada e bisogna procedere con cautela per non farne crollare intere pile - capita di tornare a casa con uno o più titoli e di accantonarli fino al momento di riscoprirli. Può capitare anche che rimangano accantonati per anni e anni e, forse, anche questa prolungata attesa ha un suo senso.
    Seguendo questo tortuoso cammino, ho ripescato un testo che appartiene senza dubbio a quest’ultima categoria, al punto che riesco con difficoltà a ricostruirne la storia. Mi aiuta una dedica, completa di data (Marzo 1994). Non ho idea di chi ne sia lo scrivente né il destinatario. Peraltro, la mescolanza di italiano, romanesco e portoghese in cui è redatta, mi porta a concentrarmi sulla data. Faccio mente locale. Non c’è dubbio, appartiene al nostro periodo brasiliano dove, inutile dirlo, ho mantenuto la passione per i libri ‘vissuti’, dopo aver individuato la bottega dell’usato (in portoghese brasiliano ‘sebo’, ossia, propriamente, ‘grasso’ e, in senso traslato, ‘luogo dove si vendono libri sfogliati da tante mani, ‘sporchi’) e il relativo libraio, un po’ fuori mano, nel quartiere dove abitavamo.
    Quello che ho tra le mani, di formato piccolo, è anomalo rispetto agli altri che ho acquistato, tutti in portoghese e di autori brasiliani. È in italiano, edito da Feltrinelli nel 1962. L’autore è polacco.
    Un italiano – di Roma, con ogni probabilità – lo ha regalato a un’amica, segnalando che si tratta di un testo importante (da leggere al posto della novela delle 20,30, ossia quella di livello ‘alto’, sulla rete nazionale Globo) e raro. Entrambi, chissà perché, residenti in Brasile, nello stesso periodo. Evidentemente il libro non è stato apprezzato ed è finito, nuovamente, nella bottega dell’usato.
    Mi interrogo a questo punto sul motivo per cui l’ho acquistato. Con ogni probabilità mi ha attirato l’edizione (è il numero 399 della Universale Economica Feltrinelli), così come, in quarta di copertina un’epigrafe in caratteri rossi più grandi rispetto alla sinossi e alle notizie sull’autore: “l’inferno degli onesti”. Forse anche il disegno in copertina dell’illustratore svizzero Heiri Steiner (1906) con in primo piano il disegno di una donna i cui lineamenti trasmettono – mi sembra - l’idea di non essere disposta a lasciarsi piegare dalla vita. La madre dei re è il titolo. L’autore è Kazimierz Brandys (1916-2000).
    Indubbiamente, è arrivato il momento di leggerlo.
    Lo leggo, difatti, cercando informazioni sull’autore e annotandomi gli altri suoi scritti tradotti (alcuni introvabili, al pari di quello che ho tra le mani). La madre del titolo è la protagonista del romanzo, Lucia Krol, rimasta vedova quando il marito, in preda a una sbornia, finisce tra le ruote di una carrozza, al tempo del Maresciallo Pilsusdski (quindi, tra 1918 e il 1935), con quattro figli maschi a cui provvedere, l’ultimo dei quali di pochi mesi. La storia – o, se si vuole, il romanzo – è presto detta: è la narrazione di come questa madre cerca di sopravvivere all’accaduto e, soprattutto, di come riesce a tirare su i figli, con una sola attività da poter legittimamente svolgere – lavare e stirare i panni altrui – e tanti stratagemmi per tirare avanti, mentre i figli a loro modo crescono, diventano adulti, in un periodo non certo facile, maturando la convinzione di non contare nulla e cercando a modo loro di divenire protagonisti, finendo regolarmente per trovarsi invischiati in questioni ai margini delle norme in vigore, tra un periodo e l’altro di una storia complicata per il paese e la città in cui vivono, la Polonia e Varsavia. I figli diventano grandi. Si trovano coinvolti in fatti di politica che la madre fa fatica a capire. Uno viene deportato, un altro finisce in galera. La stessa fine fa il più piccolo. Subiscono processi. La vicenda narrativa si mescola, inesorabilmente e inevitabilmente, con le riflessioni dell’uno o dell’altro dei protagonisti – la madre stessa ma anche avvocati, partigiani, esponenti del partito, sindacalisti, ecc. I dialoghi, i fatti, le riflessioni si confondono e sovrappongono. Il narratore conosce i fatti, i personaggi, non si preoccupa di dilungarsi in spiegazioni, quasi che il lettore sia interno alle vicende. L’autore - che ha composto la storia tra il 1956 e il 1957 – ha vissuto nello stesso luogo, nello stesso periodo, ha sicuramente conoscenza diretta di queste e di altre vicende simili a questa. È difficile capire dove finisca la riflessione di questo o quel personaggio e dove inizia quella dell’autore.
    Per comprendere la storia di Lucia Krol è indispensabile fare mente locale sui fatti della storia, tra invasione tedesca (1939) e occupazione russa (1941), tra Comitato di liberazione nazionale (1944) e avanzata delle truppe sovietiche (1945). La narrazione è percorsa da una trama di riferimenti ad avvenimenti storici, tanto specifici, quanto vaghi, da essere difficilmente ricostruibili. La storia è vissuta in presa diretta, nelle vicende dei personaggi. Sono venti anni circa. Alla fine della narrazione Lucia ha circa cinquant’anni, i figli sono adulti, le fila delle loro avventure personali sono sfilacciate e difficilmente riassumibili in un quadro organico. Le discussioni, le posizioni politiche, le riflessioni, gli scontri ideologici e le azioni pro e contro questo o quello sono all’ordine del giorno. I fatti della storia citati in modo esplicito – quelli che confluiscono nei libri di storia - sono desumibili ma raramente in modo esplicito (uno di questi è il bombardamento atomico sul Giappone, 1945). Tra i personaggi che fanno la storia di quegli anni ricorre Mussolini, ma solo come soprannome di un macellaio in cui gli acquirenti vedono una somiglianza con il dittatore italiano, e baffone (Stalin), citato proprio così, solo con il soprannome. I pro e i contro, l’essere da una parte o dall’altra degli schieramenti, sono all’ordine del giorno e difficilmente decodificabili.
    Il romanzo è stato riedito, sempre da Feltrinelli, nel 1987 con una nota (“Dodici Mesi”) di Rossana Rossanda, confinato anche questo nel mercato dell’usato.
    Non arrivo al punto di comprare un’altra copia dello stesso libro ma confesso che leggerei volentieri lo scritto della Rossanda. È significativo che dal 1987 non sia stato riedito. Troppo realista (espressione del realismo socialista che contraddistingue i primi scritti di Brandys, il quale se ne allontanerà definitivamente con la sua uscita dal Partito Operaio Unificato Polacco nel 1966), e troppo ideologico per un mondo che si è lasciato dietro le spalle quel periodo, senza peraltro essere in grado di fare in conti con quei fatti fino in fondo. Ossia, facendo finta a volte che nulla sia successo o che quanto è successo sia stato un puro accidente sul quale non vale più la pena soffermarsi, studiare e discutere. Sicuramente, è un romanzo che andrebbe riletto con il supporto di un adeguato accompagnamento di contestualizzazioni (una prefazione, una postfazione, note ad hoc) a opera di studiosi specializzati e che, sostenuto da queste cornici a supporto, diventerebbe un buon punto di riferimento per documentarsi su fatti che hanno segnato il XX sec. in profondità e per farsi un’idea di cosa può avere significato vivere al centro di bufere storico-politiche in luoghi che, a distanza di sette decenni e con un mondo trasformato dal progresso, dall’economia capitalistica e dall’emergenza ambientale, si trovano oggi in una fase delicata di riequilibrio in cui sono impegnati, in questi giorni, molti capi Stato.
    Leggere in generale e, in particolare, leggere anche romanzi così datati, può essere un modo per documentarsi su un passato che sembra lontanissimo ma che in realtà è distante solo pochi decenni. Trovo conferma per la lettura di romanzi come questo in un articolo di Andrea Schembari, un giovane studioso che ha lasciato la Sicilia per lavorare nel Dipartimento di Italianistica dell’Università di Stettino: Maestri del dissenso: Leonardo Sciascia e la lezione degli scrittori polacchi (Poznańskie Studia Polonistyczne Seria Literacka 39 (59), nel quale pone a confronto un racconto di Leonardo Sciascia, La morte di Stalin (in Gli zii di Sicilia, Sellerio), una “cronaca della reazione disorientata ma ancora tenacemente illusa dei comunisti italiani seguita alla divulgazione del rapporto (Chruščëv ndr.)”, con il romanzo Matka Królów (La madre dei Re) che “certifica il sorgere dei primi segnali di incertezza da parte dei comunisti polacchi post-staliniani non ancora ideologica, ma figlia di un’insofferenza crescente alle dinamiche sociali dettate dall’ideologia”.
    Trovo un’altra conferma, più generale, alla lettura di romanzi in una riflessione di Mario Vargas Llosa (1936): “Un’altra ragione per assegnare al romanzo un posto importante nella vita delle nazioni è che, senza di esso, lo spirito critico, motore del cambiamento storico e miglior garante della libertà di cui dispongano i popoli, soffrirebbe un irreparabile impoverimento. Perché una buona letteratura è quella che mette radicalmente in discussione il mondo in cui viviamo. In ogni grande testo di finzione, e spesso senza che gli autori se lo siano proposto, aleggia una predisposizione sediziosa. La letteratura non dice nulla agli esseri umani soddisfatti del loro destino, pienamente appagati della vita così come la vivono. La letteratura è alimento degli animi indocili e propagatrice di disaccordo, un rifugio per chi ha troppo o troppo poco dalla vita, nel quale poter non essere infelice, dove non sentirsi incompleto, irrealizzato nelle proprie aspirazioni” (È possibile il mondo moderno senza il romanzo? In La cultura del romanzo, I Einaudi, 2001 p. 9).

     

     

     

  • LIBRI PER RAGAZZI:
    SENZA INTRODUZIONI
    QUINDI SENZA CONTESTO

    data: 22/01/2022 19:10

    Frugando tra vecchie carte, ho ritrovato alcuni appunti dedicati a un libro per adolescenti. Ha senso parlarne? Se consideriamo il diffuso rammarico sul generale abbassamento del livello delle conoscenze e dell’informazione, direi che non solo ha senso ma è indispensabile. Non vi è dubbio, dal mio punto di vista, che la lettura sia un veicolo di fondamentale importanza per conoscere e informarsi. Non v’è dubbio, peraltro, che se il contatto con i libri non avviene durante l’infanzia e l’adolescenza è molto difficile che avvenga successivamente. Non è impossibile, naturalmente, ma sicuramente più difficile. Per di più, è una catena.

    Se un genitore non legge e non propone ai propri figli la lettura come attività prioritaria, difficilmente i figli saranno lettori. Se la scuola abdica al proprio dovere di diffondere l’abitudine alla lettura, se non in modo episodico, con brani antologici come spunto per tutto e il contrario di tutto (spesso preceduti da un commento di poche righe, laddove ne servirebbero molte di più per introdurlo, e seguito dall’immancabile batteria di esercizi a scelta multipla o con puntini in cui inserire la parola richiesta), i cittadini di domani difficilmente saranno abituati a informarsi e ad affrontare la vita – personale e, soprattutto, pubblica – da persone ‘informate dei fatti’. Il domani, peraltro, è arrivato. E da questo dipende il diffuso rammarico di cui sopra. Peraltro, non vedo, oltre al rammarico, indicazioni per trovare ed escogitare soluzioni.

    Il libro in questione è Quando Hitler rubò il coniglio rosa, l’autrice Judith Kerr (Berlino 1923 – Londra 2019) e il titolo provvisorio degli appunti ritrovati è Libri da leggere e da rileggere.
    In prossimità del Giorno della Memoria, e nella convinzione che istituire una ricorrenza per un avvenimento – qualsiasi avvenimento – non sia reale garanzia di memoria ma solo occasione per parlarne fuggevolmente, tranquillizzando i più di aver fatto con questo fugace ricordo il proprio dovere di cittadini, li ripropongo, con poche varianti, e con una espansione dedicata a un altro libro anche questo per ragazzi e ambientato nello stesso periodo, ossia ‘al tempo delle bombe’.
    Ci sono libri da leggere e da rileggere.
    Da leggere quando si è ragazzi e da rileggere quando ragazzi non si è più, ma si ha la possibilità di consigliarli ai figli (ai nipoti, agli alunni, ai figli degli amici, poco importa).
    Perché leggerli (e rileggerli)?
    Perché hanno il merito di narrare esperienze di giovani vissuti in un passato ormai non più tanto recente, diventate testimonianze di un’epoca storica cruciale.
    Perché, attraverso la narrazione di vicende personali, raccontano oltre un decennio di avvenimenti che hanno segnato il Novecento e l’Europa.
    Perché i fatti storici, narrati attraverso il punto di vista dei protagonisti – seppure secondari e loro malgrado -, hanno una freschezza e un impatto che nessun libro di storia può restituire.
    Perché è sempre bene conoscere quello che si consiglia di leggere ai figli (ai nipoti, agli alunni, ai figli degli amici, poco importa).
    Perché sono testimonianza, oltre che di storia, anche di costume, tradizioni, ambienti diversi, colti in presa diretta e in un periodo definito.

    Nel novero di questi libri fanno parte a buon diritto due titoli di Judith Kerr, Quando Hitler rubò il coniglio rosa (BUR Ragazzi, 2009) e La stagione delle bombe (BUR Ragazzi, 2016).
    Racchiudono il racconto di circa dodici anni di vita di Anna (dieci anni), del fratello (poco più piccolo) e dei genitori, dal momento in cui, nel 1933, si allontanano in fretta e furia dal loro paese, la Germania, per dirigersi e soggiornare per un breve periodo in Svizzera, un periodo un po’ più lungo a Parigi, in Francia, approdando infine in Inghilterra.
    Sono dunque il racconto di un’adolescenza in fuga, durante il quale i due fratelli prendono lentamente consapevolezza che non avrebbero potuto vivere più nel loro paese perché il padre, ebreo, scrittore e uomo di cultura, era nel mirino dei nazisti, e della difficile ricerca di una nuova dimensione e di un paese del quale sentirsi pienamente cittadini.
    Judith Kerr ha tradotto in chiave narrativa le vicende realmente vissute da quando era troppo piccola per coglierne tutti i risvolti fino alla piena consapevolezza, durante la guerra, quando con la famiglia viveva ormai stabilmente a Londra, la città che diviene indiscussa protagonista di Al tempo delle bombe e dove è morta, quasi novantaseienne, nel maggio del 2019, dopo un’intera vita dedicata alla scrittura e all’illustrazione di libri per bambini e adolescenti.
    Ora, Quando Hitler rubò il coniglio rosa, è stato pubblicato per la prima volta in lingua originale nel 1971, in italiano nel 1976 dalla casa editrice Rizzoli (con ristampe dal 1980 al 2009 e una nuova edizione nel 2020). Quella del 1980, non contiene una introduzione né una postfazione. Le uniche informazioni sono quelle che compaiono nella quarta di copertina.

    Viste le modalità con cui si affronta il programma di storia in corrispondenza della fascia di età adatta per la lettura (ossia, a partire dai dieci anni), sarebbe auspicabile un’introduzione alle vicende narrate. Lo sarebbe stata già nella prima edizione, probabilmente. A maggior ragione diventa indispensabile con il passare dei decenni e la progressiva tendenza ad affidare la memoria di fatti che hanno segnato un secolo e che hanno, inevitabilmente, una ricaduta a lungo termine nella società, nella cultura, nella politica ecc., all’istituzione di una ricorrenza annuale nel calendario che passa nell’indifferenza pressoché generale, una notizia frettolosa nel corso dei telegiornali.
    E questo non perché io immagini che il bambino legga l’introduzione o la postfazione) ma perché sarebbe auspicabile che la leggesse il genitore, l’insegnante, lo zio o la zia, il nonno o la nonna per rinfrescare i ricordi, per essere in grado di presentare il libro, per guidare alla lettura, per rispondere a eventuali domande. Tutte cose fondamentali per la formazione di un cittadino consapevole di essere cittadino di uno specifico paese e del mondo.

    D’altra parte, la tendenza a non inserire informazioni indispensabili per decodificare un testo che narra vicende passate, che sia stato scritto in prossimità di quelle stesse vicende o a distanza da tempo, è piuttosto generalizzata. La si ritrova, ad esempio, anche in un testo di Pamela Travers scritto tra il 1940 e il 1941, ossia al tempo delle bombe, dal titolo I Go by Sea, I Go by Land (Harper & Brothers, I edizione 1941, tradotto in italiano solo nel 2016 con il titolo Vado per terra vado per mare, Rizzoli). Molti, sicuramente, riconoscono in Pamela Travers il nome dell’autrice di Mary Poppins. A molti, con grande probabilità, non dice nulla. È infatti probabile che i più riconoscano solo il titolo del romanzo, giunto alla notorietà grazie al film di Walt Disney, ad esso liberamente ispirato. Eppure, Pamela Travers è stata una scrittrice prolifica (a Mary Poppins hanno fatto seguito molti altri titoli). Anche lei viveva a Londra, dopo avere abbandonato la natia Australia dove era nata da padre di origini irlandesi e madre australiana. Anche lei ha vissuto al tempo delle bombe. A differenza di Quando Hitler rubò il coniglio rosa, è stato pubblicato già nel 1941, ossia a ridosso della cosiddetta ‘Battaglia di Inghilterra’, la campagna aerea condotta dalla Luftwaffe, l’aeronautica militare tedesca, contro il Regno Unito tra l'estate e l'autunno del 1940.
    Pamela Travers, australiana ma naturalizzata inglese, vi narra la vicenda di un fratello e di una sorella che hanno la stessa età dei protagonisti di Quando Hitler rubò il coniglio rosa durante il bombardamento su Londra e lo fa cedendo la parola alla bambina, Sabrina, che affida al suo diario vicende, impressioni, incontri, preoccupazioni, da quando vengono mandati in casa di amici dei genitori, nei pressi di New York, per metterli al sicuro e sottrarli ai rischi incombenti sulla città di Londra e sui dintorni. Dalla lettura si riesce a ricostruire il contesto di riferimento, dall’agosto al settembre del 1940, l’ambito sociale al quale appartengono i due fratelli – una famiglia di condizioni agiate, una villa nei pressi di Londra, il padre impegnato nella RAF, l’aviazione britannica, la possibilità di provvedere al viaggio dei figli oltreoceano, in nave, con destinazione la costa canadese, il treno fino a Montreal e il viaggio in aereo fino a New York – e la vita per quanto possibile spensierata che conducono nella famiglia ospite, con le notizie che provengono attutite dal teatro di guerra. La bambina fa confluire nel suo diario le cose di tutti i giorni: gli ospiti, le novità, le diverse abitudini alimentari, le scampagnate, le nuove amicizie, la gita a New York per visitare l’esposizione universale del 1949, l’attesa di notizie, la nostalgia per i genitori e la casa.
    Si intravedono, nelle sue parole, questioni sociali ed economiche (partono con dieci sterline cucite in un risvolto del cappotto che devono durare un anno, equivalenti oggi al costo di sei biglietti su un autobus del trasporto urbano), punti di vista a confronto sulla guerra (americani/inglesi), in particolare sulla situazione in patria. Insomma, un intero mondo attraverso gli occhi di una bambina appartenente a una famiglia che ha avuto la possibilità di mettere i propri figli al riparo dalle bombe.
    Anche in questo caso, senza nessun apparato indispensabile non solo per un bambino (la lettura è consigliata dai dieci anni) ma sicuramente anche per un giovane e magari anche un giovane adulto.

    Ottantuno anni sono tanti, da allora ad oggi. La memoria, di generazione in generazione, si appanna; i testimoni diretti se ne vanno, i genitori giovani hanno studiato alla stessa scuola dei loro figli; l’informazione sul passato non è al primo posto nell’agenda della politica italiana, ormai da parecchi decenni. Una lettura competente è auspicabile e, di conseguenza, un apparato editoriale che completi la narrazione indispensabile.

     

     

     

  • "STORIA DI UNA MONTAGNA"
    E RICORDI DEL PASSATO
    PER LEGGERE IL PRESENTE

    data: 16/12/2021 12:24

    La fine dell’anno e l’inizio di un nuovo anno, nel sentire comune e nei meccanismi ineludibili delle logiche del mercato, sono momenti di festa. Si lascia qualcosa, si va verso qualcos’altro che si spera migliore. O, almeno, questa è la lettura corrente.
    Gli ultimi due anni, peraltro, sono stati corredati da una situazione sanitaria che ha in parte modificato la vita quotidiana, costringendo le persone a confrontarsi e adattarsi, anche con ingiustificata insofferenza, alla necessità di ridurre i contatti nella logica del distanziamento sociale, con tutte le conseguenze che ne sono derivate e ne derivano.
    Per una serie di motivi, in gran parte legati a consolidate abitudini familiari in corrispondenza degli anni Cinquanta e Sessanta, non sono mai riuscita a sentire questo momento dell’anno come una vera festa. Certo, a quei tempi, era un’occasione per riunire la famiglia attorno ad una tavola imbandita in modo insolitamente abbondante, con posti rigidamente assegnati, attorno al capofamiglia – il nonno -, partecipando, ça va sans dire, alle funzioni religiose nella Chiesa più vicina (sulla quale aleggiava il ricordo dei bombardamenti alleati che la danneggiarono in larga parte il 17 gennaio 1944, nel quadro di un’azione che mirava a colpire la ferrovia).
    Il presepe – piccolo, allestito in una rientranza della credenza Anni Venti – era lì a ricordare che le festività, dall’Avvento fino all’Epifania, erano prima di tutto ricorrenze dell’anno liturgico, sostituito oggi dall’albero addobbato (ahimè, proveniente spesso da apposite piantagioni da tagliare nell’imminenza della festività).
    A poco a poco, tutto è cambiato. Confrontarsi con il mondo (quello immediatamente circostante e quello più ampio), ha significato confrontarsi con questioni, situazioni e avvenimenti sempre più complessi e ampi, a tutti i livelli e in una dimensione globale.
    Oggi, mentre si riduce, inevitabilmente, il tempo che ho a disposizione, è diventato per me indispensabile guardare al mondo e ai meccanismi che lo governano esercitando il diritto di critica. Per farlo, peraltro, è indispensabile consapevolezza. E la consapevolezza può nascere solo guardando indietro, ripescando dal passato ricordi, documenti, scritti, testimonianze capaci di creare un corto circuito tra quel passato e il presente come è, indipendentemente da noi o, meglio, per la colpevole delega – sicuramente indotta dagli interessi di chi fa politica per affermazione personale più che per convinzione e, indirettamente, dalle logiche economiche imperanti – che, da cittadini, affidiamo a personaggi non sempre in grado di gestire un paese democratico (come emerge in modo desolante dalle cronache politiche). Da questa necessità, discende l’abitudine di ricercare e leggere testi apparentemente superati per trovarvi chiavi di lettura per il presente.
    Percorrendo questo cammino, ho intrapreso la lettura di alcuni titoli di Élisée Reclus, disponibili in rete (1) cominciando da Storia di una montagna (1880), proseguendo con Storia di un ruscello (1869) e lasciandomi trascinare da altri ‘rivoli’ che sgorgano, inevitabilmente, in corso di lettura (2).

    Élisée Reclus – ‘geografo, ma anarchico’, come si autodefinisce – scrive e descrive dal vivo, durante i suoi viaggi in giro per il mondo, da esule e da geografo per la casa editrice Hachette. Storia di una montagna, in ventidue brevi capitoli, non parla di una montagna specifica. È una narrazione che prende le mosse dalla descrizione dell’ambiente montano in tutti i suoi aspetti – rocce e minerali, massi e cristalli, alberi e animali, anfratti e gole, valli e caverne, fenomeni atmosferici e clima, fossili e pietre -, ivi compresa la presenza umana e le caratteristiche di una convivenza non facile e tuttavia pervicace. Non c’è nessun riferimento a luoghi specifici ma le valli, le cime, i boschi, le valanghe, la neve, il ghiaccio, il torrente e l’azione sul territorio degli agenti che intervengono (vento, acqua, ghiaccio…) possono corrispondere a qualsiasi montagna che il lettore conosce o, se non conosce direttamente l’ambiente montano, possono costituire una buona guida per prenderne consapevolezza sulla carta, prima di avventurarsi tra i suoi sentieri.

    La descrizione puntuale e minuziosa non è mai solo descrittiva. È percorsa da una riflessione costante sulla natura sempre all’opera, nei grandi spazi come nei più piccoli anfratti, e sull’interazione dell’uomo con la natura. L’attenzione di Reclus si concentra sugli uomini che vivono, stabilmente o stagionalmente, sulle montagne: il pastore, il boscaiolo, il montanaro. E nei capitoli dove l’attenzione si focalizza sugli uomini, il ragionamento si sposta su questioni etiche e filosofiche che culminano nell’ultimo capitolo (L’uomo) nella critica al comportamento degli alpinisti per i quali la montagna diviene ‘piedistallo’ per il loro compiacersi della vetta raggiunta (“Giacché l'era delle grandi scoperte geografiche volge al suo termine, e, salvo alcune lacune, le terre sono quasi completamente conosciute nel loro insieme, altri viaggiatori, dovendo contentarsi di una gloria minore, si disputano l'onore di essere i primi a superare le montagne non ancora visitate: persino nella Groenlandia si vanno a cercare delle cime ancora vergini di piede umano”); nell’ipotesi sui comportamenti futuri dell’uomo, nel tempo in cui non ci sarà da ‘scoprire’ ma sarà possibile solo ‘utilizzare’ la montagna, nel modo più facile e meno faticoso possibile (con ferrovie di montagna, funicolari, trafori ecc.): “Prima o poi l'età eroica dell'esplorazione delle montagne dovrà finire come in genere avrà termine l'esplorazione del pianeta; e forse il ricordo dei più arditi esploratori diverrà una leggenda. Quale prima, quale dopo, tutte le montagne saranno state scalate: dei sentieri facili, e in seguito (nei luoghi popolosi) delle strade maestre verranno costruite dalla base alla cima, per facilitarne la salita, anche alle persone deboli o di poca lena; per mezzo delle mine si allargheranno i crepacci, per modo che i dilettanti di curiosità naturali possano ammirare la testura del cristallo; chi sa, degli ascensori meccanici verranno disposti nei punti malagevoli; e gli sfaccendati delle cinque parti della terra si faranno innalzare lungo delle muraglie a picco, fumando la sigaretta e ciaramellando della cose più frivole di questo mondo”.

    Le ultime pagine di Storia di una montagna sono un richiamo preoccupato agli effetti collaterali del progresso che rende le condizioni di vita più facili e un invito a mantenere alta l’attenzione sulla necessità dell’educazione (“Checché si dica dai perpetui lodatori del buon tempo antico, la vita, così dura per la maggior parte degli uomini, diverrà ogni giorno più facile, forse troppo facile per ciò che riguarda la ginnastica della volontà e la forza del carattere. Toccherà a noi di vegliare a che questa soverchia facilità non danneggi le future generazioni: procureremo che una gagliarda educazione armi il giovane di indomabile coraggio e lo renda capace dei più eroici sforzi; solo mezzo per conservare all'umanità il suo vigore morale e materiale! Spetta a noi di supplire con delle prove volontarie e metodiche a quella lotta per l'esistenza, che si farà via via sempre meno aspra”).

    Inevitabilmente, vado con il pensiero all’insegnamento della geografia, dalle elementari al biennio delle superiori, da anni ormai divenuta la ‘cenerentola’ delle discipline, alla distanza sempre più ampia tra il libro di testo e la realtà, tra educazione e criteri di valutazione (quiz, scelte multiple, ecc.) e mi interrogo sulla possibilità di introdurre passi da un testo come Storia di una montagna come lettura geografica e ‘ambientalista’, opportunamente contestualizzata, all’insegna dell’ideale proposto da Elisée Reclus, “La vera scuola dev'essere la natura libera”, oggettivamente non praticabile nella pratica quotidiana, se non in casi particolari e con maestri d’eccezione, come valido surrogato e/o introduzione alla conoscenza diretta, quando e se l’alunno ne ha la possibilità, grazie alla scuola e alla famiglia.

    NOTE
    1. Online si reperisce la versione realizzata dall’Associazione Liber Liber nell’ambito del Progetto Manuzio (https://www.liberliber.it/online/aiuta/progetti/manuzio/) che riproduce l’edizione de L’università popolare, 1909, con l’indicazione generica del nome proprio Laura per il traduttore. Su questa attività editoriale esiste un volume di Ettore Fabietti, Manuale per le Biblioteche Popolari, Milano Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari, risultato della collaborazione dell’autore con Filippo Turati nell’ambito delle politiche per l’elevamento culturale delle classi subalterne. Fabietti fu posto da Turati alla guida del Consorzio milanese delle biblioteche popolari, fondato nel 1903. Si può inoltre consultare online il volume dal titolo: Le biblioteche del popolo. Il primo anno del Consorzio milanese per le biblioteche popolari dello stesso Ettore Fabietti con la prefazione di Filippo Turati (https://www.bdl.servizirl.it/vufind/Record/BDL-OGGETTO-14573).
    Esiste inoltre l’edizione in versione EPUB (https://www.bookrepublic.it/ebook/9788835340416-storia-di-una-montagna-bauer-books/), A lettura completata, ho scoperto la versione cartacea di Storia di una montagna per i tipi della casa editrice Tararà di Verbania (2008), arricchita da una prefazione di Mercedes Bresso, dal commento di Claude Raffestin e, soprattutto, con una nuova traduzione, di Marcella Schmidt di Friedberg. Non è detto che non decida di procurami anche questa edizione, soprattutto per il commento di Raffestin (autore tra l’altro di Per una geografia del potere, Unicopli 2008) e la traduzione che sicuramente aggiorna notevolmente quella ormai superata di inizio secolo scorso che presenta, tra l’altro, la ricorrenza di forme ortografiche considerate desuete, come si evince molto chiaramente da Aldo Gabrielli, Si dice o non si dice? Guida pratica allo scrivere e al parlare, Mondadori 1976 (ad esempio, roccie/quercie/erbaccie, ecc. in luogo della normativa corrente rocce, querce, erbacce).
    2. Un ‘rivolo’ di grande interesse è costituito da un volume edito dalla Casa Editrice Elèuthera, Natura e società. Scritti di geografia sovversiva (1999) che raccoglie alcuni saggi brevi di Élisée Reclus di sicuro interesse, in particolare A mio fratello contadino (1893) e Sul vegetarianismo (1901), ancora attuali e, anzi, indispensabili per capire, a distanza di un secolo e poco più, l’evolversi di questioni fondamentali per il genere umano, ossia l’industrializzazione dell’agricoltura (e in particolare della produzione cerealicola) e la pratica dell’allevamento intensivo. Ma questa è una questione da riservare a una prossima occasione.
     

  • OLTRE LO SGUARDO (COLPEVOLMENTE) MIOPE SUL MONDO

    data: 15/12/2021 15:59

    “Entrambe le parole ecologia ed economia derivano dalla stessa radice oikos, ovvero la parola greca per indicare la casa nel senso più ampio, sia del focolare domestico che del lavoro dei campi. Finché l’economia era incentrata sulla gestione di questo ambito, essa riconosceva e rispettiva come sue basi i cicli naturali e i confini della loro capacità di rinnovarsi. Si occupava di provvedere ai bisogni umani primari entro i limiti generosi della natura”, Vandana Shiva, introduzione a Massimo Orlandi, La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, Emi 2014

    Quando, nell’ormai lontano 1975, fresca di laurea, sono approdata per la prima volta in un’aula scolastica ho trovato ad attendermi una biscia, accuratamente ospitata in una bottiglia piena di acqua, in bella mostra di sé sulla cattedra. Gli altri protagonisti sono entrati alla spicciolata, senza fretta, dopo una prolungata ricreazione tra cortile e ambiente esterno di quella scuola media, sperduta tra periferia e campagna romana.
    Trovare una supplente in scrupolosa osservazione della suddetta biscia, deve averli disorientati. Nel silenzio così ottenuto (speravo di ottenerlo, ma non ne avevo nessuna certezza. Se non lo avessi ottenuto forse la mia vita sarebbe stata diversa), ho portato la conversazione sulla biscia (ricordo vagamente di averli convinti a liberarla nel suo ambiente naturale) e ho definito il mio futuro lavorativo.
    In quel preciso momento ho iniziato a interrogarmi sul come utilizzare quello che avevo imparato nei quattro anni precedenti all’Università e ad attrezzarmi per costruire tutto l’armamentario necessario per affrontare una classe, con la consapevolezza (tragica, per certi aspetti) che gli studi fatti andavano sottoposti a una revisione e che la revisione non sarebbe stata cosa facile. Ero sicura che non avrei abbandonato gli autori classici ma quella che era una semplice intuizione - ossia, che la selezione proposta dagli studi accademici e le modalità con cui confluiva nella scuola non fosse necessariamente la migliore – doveva diventare il mio compito se avessi voluto proseguire il percorso intrapreso con le prime supplenze. L’intuizione si è trasformata in un impegno pressoché quotidiano che mi portava a soffermarmi sulle parole, sulla loro origine greca o latina, sulla ricerca dei testi da proporre – spesso divergenti da quelli codificati dalla tradizione accademica e da questa confluiti nei programmi (nei quali, c’è Virgilio ma non il Catone del De agri cultura né Varrone del De re rustica, solo per fare un esempio). La tradizione dei testi da leggere – consolidata e immutata nella programmazione scolastica – aveva poco a che fare con il mondo in quella fase storica. E non tanto e non solo, con il mondo urbano, quanto anche con il mondo in via di spopolamento dei paesi e delle campagne, complici l’industrializzazione delle colture e il diffondersi dell’allevamento intensivo, con tutto il complesso di problematiche che queste realtà portano con sé e che dovrebbero costringere ciascuno a riflettere su cosa compra e cosa mangia (ossia su cosa c’è prima e dietro al prodotto inscatolato e confezionato).
    Oggi, a distanza di alcuni anni dall’ultima classe liceale in cui ho affrontato in diretta le problematiche dell’insegnamento – inasprite dalle trasformazioni in tutti i campi all’esterno e dagli interventi, sempre catastroficamente provvisori, nel mondo dell’educazione pubblica – la prospettiva acquisita grazie alla biscia intrappolata dai ragazzini di una quasi borgata romana con il fine preciso di ottenere una reazione scomposta da parte del malcapitato supplente, è ancora operativa, anche quando scelgo i libri.
    Ogni libro, idealmente, deve poter essere usato per ragionare sul presente, senza dimenticare chi ha ragionato e scritto sulle medesime questioni duemila anni fa e oltre, in un mondo in cui la presenza umana era indicibilmente meno pervasiva.
    Appartiene senz’altro a questa categoria di libri L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo di Kate Raworth (2017). Averlo letto ha contribuito a chiarirmi questioni di fondamentale importanza, a partire dall’economia secondo Senofonte (oiko-nomia, ossia economia della casa, del nucleo familiare) all’economia del villaggio globale basata sul consumo intensivo e indiscriminato e sullo spreco e alla riconsiderazione dell’economia circolare, tendente a eliminare gli eccessi in tutte le fasi, dalla produzione, al consumo e al riciclo. Per incredibile che possa sembrare, c’è in filo conduttore tra il trattato di Senofonte (V sec. a. C.) e il saggio di Kate Rawort (seconda decade del XXI sec.). Nel trattato di Senofonte, la donna è l’ago della bilancia dell’economia della casa (gli Ateniesi, portatori di una cultura al maschile, hanno lasciato grandi figure femminili nell’epica e nelle tragedie, donne che si ribellano e si coalizzano in Aristofane e, appunto, la figura dell’economa di Senofonte). Successivamente, l’economia (delle nazioni) è rimasta appannaggio degli uomini, l’‘economia domestica’ è divenuta materia di insegnamento per le classi femminili (in Inghilterra nel corso del XIX sec., in Italia con la Riforma Gentile, come se l’economia familiare fosse cosa secondaria, insignificante nella gestione della casa, e come se la casa non fosse se non una parte di un insieme più grande strutturato in forma di Stato). Tra la fine del XX sec. e gli inizi XXI, le donne sono diventate protagoniste anche nel campo degli studi economici e stanno contribuendo a un cambiamento di prospettiva, ormai indispensabile (Kate Raworth è solo un esempio: nel suo libro cita altre autrici non meno significative, alcune delle quali hanno contribuito con i loro studi a definire il suo pensiero economico, tra le altre Ester Duflo, Mariana Mazzuccato, Rebecca Henderson).
    D’altra parte, accade anche che i libri, per quanto interessanti e ricchi di suggerimenti per ragionare sulle contraddizioni del presente, possano rimanere lettera morta.
    Se leggo un libro e trovo spunti interessanti per affrontare problemi che sono (o dovrebbero essere) sotto gli occhi di tutti, quanto sarò in grado, scrivendone, di spingere qualcuno a leggerlo e a trarne indicazioni per modificare i propri comportamenti nel quotidiano? Come non è facile catturare l’attenzione di una classe di adolescenti, non è facile neppure trattenere un potenziale lettore su un articolo che prende le mosse da un libro. Ed è ancora meno facile convincere l’eventuale lettore ad acquistare e leggere il libro in questione.
    Potrebbe funzionare ribaltare la prospettiva?
    Nel dubbio, provo a proporre qualche esempio.
    Stabilito che il sistema economico nel quale siamo immersi, spinge al consumo in modo sconsiderato e senza limiti, chiedo all’eventuale lettore di riflettere agli sprechi – spesso inevitabili -, ai rifiuti – spesso conseguenza inevitabile dei suddetti sprechi -, alla noncuranza con cui ci rendiamo responsabili degli uni (ossia, gli sprechi) e degli altri (i rifiuti).
    Bottiglie di plastica, lattine, confezioni di merendine o caramelle sono testimoni silenziosi, ma ingombrati, presenti ovunque, di acquisti fatti senza pensare alla difficoltà di disfarsi del contenitore né, tantomeno, agli ingredienti del contenuto e ai loro effetti sulla salute. Spesso testimoniano l’estrema noncuranza con cui molti abbandonano lungo la strada i residui di ciò che consumano o utilizzano senza preoccuparsi minimamente del fatto che si tratta di oggetti che rimarranno, per un tempo indefinito, negli angoli, lungo i marciapiedi, alla base degli alberi o delle siepi, incastrati nelle crepe dell’asfalto, dovunque ci sia un appiglio per una bottiglia accartocciata, una lattina schiacciata, una confezione di cartone plastificato.
    Chi ha superato la soglia della senectus ciceroniana, ricorda che molti di questi prodotti, negli anni della sua giovinezza, non c’erano o, se c’erano, erano ‘naturalmente’ razionati. Difficilmente un ragazzino aveva a disposizione soldi per una bottiglia di una qualche bevanda analcolica, le merendine erano di là dall’essere una consuetudine (la merenda consisteva in una fetta di pane con un velo di marmellata, una spolverata di zucchero o un filo d’olio). I più giovani, ormai abituati a questi prodotti, e i figli dei più giovani, non percepiscono questo aspetto, apparentemente secondario, dell’affermarsi dell’economia basata su prodotti allettanti, variopinti e, soprattutto, capaci di creare dipendenza e di ‘semplificare’ la vita (la merendina si apre e si mangia, la carta si butta; la fetta di pane si deve tagliare, spalmare; le molliche si devono raccogliere, ecc.).
    Lo stesso scenario si ripropone per ogni acquisto. Le confezioni sono colorate, voluminose e includono spesso materiali compositi e difficilmente riciclabili. La presa di coscienza per una diversa concezione economica – l’‘economia della ciambella’ – deve passare per questa consapevolezza. Laddove il libro può apparire ostico (ma non lo è, realmente), il passa parola sui comportamenti da adottare dovrebbe divenire l’impegno di ciascuno di noi. Ognuno, nei suoi dintorni, potrà attivare un comportamento rispettoso dell’ambiente. Tutti insieme si può invertire la rotta e, perché no, costringere chi produce, impacchetta e mette sul mercato a modificare le modalità attuali.

     

  • GIROLOMONI: ALLE ORIGINI
    DEL BIOLOGICO IN ITALIA

    data: 08/12/2021 18:17

    Gli archivi, cartacei o immateriali, riservano sempre sorprese: ‘scartabellando’ tra pile di carte accatastate negli scaffali di una libreria o tra le cartelle custodite nella memoria del computer, capita sempre di recuperare piccoli tesori che vale la pena rileggere e condividere.
    Sono passati oltre cinque anni dalla visita all’azienda cooperativa pioniera del biologico in Italia: rileggendola ho ripercorso la storia di Gino Girolomoni e del suo progetto di un’azienda agricola rispettosa della terra, nato agli inizi degli anni Settanta, in un’Italia che stava prendendo le distanze dall’agricoltura tradizionale e dalle zone interne con conseguenze sui cui solo alcune voci preoccupate di intellettuali cercavano di portare l’attenzione. Le questioni sono ancora attuali. Anzi, forse lo sono anche di più.
    “Salire a Montebello (Pesaro Urbino) è un’avventura ad ampio spettro.
    Dietro al nome della collina ci sono infatti quarant’anni e più di storia.
    C’è la storia personale di Gino Girolomoni, divenuto contadino quando tutti volevano lasciare la campagna per andare in città, pioniere del biologico in Italia - quando l’unica via sembrava quella del modello industriale applicato all’agricoltura e dell’uso di sostanze chimiche di sintesi -, uomo di grande cultura - a dispetto della formazione tecnica - e dalle grandi capacità di aggregazione, sostenuto da un rispetto per la natura che si accompagna in lui a una spiritualità intensa.
    C’è la storia di un mondo: quello delle zone appenniniche dell’Italia, caratterizzate da una forte tendenza allo spopolamento in favore delle zone costiere dove si sono concentrate le attività produttive, in concomitanza con il lento decadere delle attività tradizionali, agricoltura e pastorizia.
    C’è la storia culturale di almeno due decenni (gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso) quando cominciavano a circolare alcune voci – assolutamente controcorrente – che accusavano il modello tecnologico e industriale che si stava affermando in modo prepotente, in maniera incontrollata, intravedendo in tale modello gli sviluppi nefasti che in pochi volevano o sapevano vedere (con i quali oggi tutti conviviamo e ai quali il mondo attuale sta cercando di porre riparo, pena la propria rovina).
    C’è la storia di un marchio, Alce Nero – dal nome dello sciamano della tribù Oglala (Lakota-Sioux) che spese la propria vita a difesa delle popolazioni native dell’America del Nord. Di lui John G. Neihardt raccolse una lunghissima testimonianza che negli anni Sessanta del secolo scorso divenne un libro di culto per un’intera generazione (Alce Nero parla. Vita di uno stregone dei sioux Oglala,1960). Il marchio è stato abbandonato, non senza dolore, nel 2004 per salvare la cooperativa e i principi ispiratori dei soci fondatori. Il marchio Alce Nero fu sostituito prima dal marchio Montebello e, nel 2012, in seguito alla scomparsa di Gino, da quello Girolomoni. Oltre il biologico (girolomoni.it), che li sostituisce entrambi.
    C’è la storia di una famiglia: Gino, Tullia e i loro tre figli che oggi, a seguito della prematura scomparsa di entrambi i genitori a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, portano avanti le diverse attività della cooperativa. Il prodotto principale della cooperativa è rappresentato dalla pasta di cui realizza tutta la filiera e che distribuisce soprattutto all’estero (Germania, USA, Francia, Giappone e in numerosi altri paesi).
    Arriviamo a Montebello un giovedì sera, con un appuntamento fissato per la mattina seguente. Tra il monastero e la locanda, le due strutture di accoglienza gestite dalla minore dei figli di Gino e Tullia, Maria, abbiamo optato per il monastero. Arriviamo percorrendo la strada che sale con una serie di curve, arrampicandosi sulla collina tra i magnifici panorami che contraddistinguono le parti interne delle Marche, sapendo che al convento c’è qualcuno ad accoglierci. Quel po’ di timore che proviamo all’idea di dormire del tutto isolati, scompare quando capiamo che in realtà la grande struttura oggi quasi completamente ristrutturata è la casa di famiglia. Il chiostro, i grandi corridoi, le sale, una parte delle quali adibita a Museo della civiltà contadina al piano terra, i grandi corridoi dove si affacciano le stanze al piano superiore lasciano facilmente immaginare la passione messa da Tullia e Gino Girolomoni nello scegliere questo luogo per le sue battaglie, per le sue riflessioni e per le sue preghiere.
    La mattina successiva, l’incontro si svolge in una sala ampia, molto semplice, arredata con un grande tavolo e con tutta una serie di manifesti ‘storici’ a ricordare i successivi momenti della lunga lotta intrapresa per dare vita e mantenere la cooperativa, tra difficoltà di tutti i tipi, quando – distrutta ormai l’agricoltura tradizionale – di biologico non si voleva parlare né tanto meno si pensava ancora a regolamentare l’uso dei prodotti chimici in agricoltura.
    A raccontarci la storia c’è uno dei nove soci fondatori che nel 1977, nello studio di un notaio di Fossombrone, impegnando 5.000 lire ciascuno (tradotto nella moneta corrente sarebbero circa cinque euro, ma per quei tempi una cifra considerevole), diedero vita alla cooperativa: Daniele Garota, un diploma all’Istituto d’Arte, più giovane di Gino il quale, a suo tempo, gli aveva consigliato di avviarsi all’attività di restauratore per avere la possibilità di lavorare sul posto.
    Complice l’attenzione di tutti i presenti (compreso un bambino di forse 8/9 anni che non perde una battuta di tutta la conversazione e, anzi, è il primo a fare domande), Daniele rievoca la storia di Gino e dei suoi compagni.
    Il racconto si dipana attraverso gli anni:
    - Gino che, rimasto tragicamente orfano della mamma insieme ai fratellini, mandato in collegio a studiare vince un posto sicuro in Svizzera ma preferisce rispondere al richiamo prepotente della sua terra dove, da piccolissimo, aveva imparato la solidarietà tipica del mondo contadino da cui la famiglia proveniva;
    - Gino che sviluppa l’idea di tornare a far vivere quei magnifici luoghi grazie all’agricoltura, ma a un’agricoltura rispettosa della terra e di quello che può offrire senza le sostanze e i metodi che la modernità vuole imporgli;
    - Gino che diviene sindaco di Isola sul Piano, il paese ai piedi della collina dove è nato;
    - Gino che, con una formazione da perito tecnico, l’aspirazione a fare il contadino e un grande amore per i libri, riesce ad attirare attorno alla realtà che sta costruendo importanti personaggi del mondo della cultura;
    - Gino che lancia a se stesso la sfida di restaurare il monastero di Montebello, ridotto a un rudere (avuto in affitto insieme a una parte delle terre dalla proprietaria), portando a vivere nell’unica stanza recuperabile – proprio quella dove ci troviamo – la moglie Tullia e il primo figlio.
    La cooperativa da mandare avanti, il monastero che diviene un punto di ritrovo, di studio e di raccoglimento della famiglia (allargata agli amici, agli intellettuali, agli ospiti), le difficoltà di affermare il prodotto (la pasta prodotta con tutte le caratteristiche del biologico ante litteram) su un mercato di merendine e di prodotti pieni di conservanti, le delusioni, i momenti di difficoltà economica, la ripresa dopo la separazione da Alce Nero e l’affermazione del nuovo marchio (Montebello), la realizzazione del pastificio sulla collina - che equivale al riconoscimento che le zone interne collinari possono essere un punto di riferimento e non di abbandono -, l’affermazione sul mercato straniero, la creazione della Fondazione che gestisce tutta la parte culturale (patrimonio librario, convegni, una rivista, Mediterraneo): il racconto di Daniele va avanti, si prolunga forse più del consueto.
    Si è creata in qualche modo una comunità solidale che ascolta, interroga e riflette, non senza qualche momento di commozione.
    Un’atmosfera che Gino avrebbe sicuramente apprezzato.
    L’incontro si conclude con una passeggiata che ci porta, lungo una via sterrata con i campi da una parte e il bosco dove si muovono liberamente le mucche allo stato brado dall’altra, al pastificio, un edificio destinato alla lavorazione della pasta, dalla farina alla confezione (si riconoscono i pacchi che partono per paesi diversi dalle diverse lingue utilizzate per la confezione: inglese, tedesco, francese, giapponese), che dimostra come l’integrazione tra campagna e polo industriale possa essere rispettosa e non invasiva”.


     

  • Testimonianze. 1950-1967
    ITALIA-ARGENTINA
    ANDATA E RITORNO

    data: 08/11/2021 16:00

    Con il passare degli anni, il punto di vista sulle cose vissute cambia, inevitabilmente. Anche quelle che erano vicende di famiglia da ricordi assumono la dignità di testimonianze. Tanto più per chi ha avuto la ventura di nascere a cavallo della metà del XX sec. Le testimonianze contribuiscono a raccontare un’epoca, la sua accelerazione, i profondi cambiamenti che l’hanno investita. Divengono un piccolo contributo alla comprensione del presente.
    Da ragazzi, negli anni Sessanta, avere amici italiani nati in Argentina rappresentava una cosa un po’ speciale, che peraltro si percepiva solo nell’accento di chi per tanti anni ha parlato spagnolo e l’italiano lo sta imparando. L’attenzione, a quell’età, è concentrata sul presente, sulla vita, sulle aspettative per il futuro.
    A distanza di alcuni decenni, può capitare di ritrovarsi seduti intorno a un tavolo, nella casa del piccolo paese delle Marche dove tutto è cominciato, all’ombra del castello, trasformato oggi dagli attuali proprietari in struttura storica per l’ospitalità, e ritrovarsi a parlare di come è andata quella lontana storia, individuale eppure collettiva.
    Dunque, si era nel secondo dopoguerra, anni non facili e poco lavoro. Era iniziata una forte ondata migratoria dall’Italia verso gli Stati Uniti e l’Argentina. Tutte persone che, generalmente, sono partite senza mai tornare se non per turismo, racconta Andrea, mentre cerca di rimettere ordine tra quello che i genitori hanno raccontato a lui e alla sorella Monica. Quando è partito, Guido, il padre, ha quaranta anni e lavora nella bottega di fabbro e maniscalco del padre (e, prima di lui del nonno) insieme al fratello. Non si accontenta, Guido e, nel 1950, parte per Buenos Aires.
    D’altra parte, babbo Guido, classe 1910, orfano di mamma (morta durante l’epidemia di ‘spagnola’) non era nuovo a esperienze in terre lontane: aveva partecipato alla Campagna d’Africa e si era fermato a Mogadiscio, dove aveva aperto una bottega di maniscalco con un socio, con il preciso scopo di acquistare una casa in paese (ma l’affare è sfumato e, forse, ha determinato poi la decisione di partire per l’Argentina). I fratelli rimangono in Italia (anche se uno ha seguito la vocazione religiosa e, diventato frate cappuccino, è stato trasferito in Brasile per alcuni anni) ma molti suoi compaesani sono emigrati negli USA, in Canada e anche in Argentina.
    Guido, arrivato in Argentina, lavora come operaio in una fabbrica italiana che produce accessori per le caldaie e le cucine a gas.
    Da Buenos Aires sposa, per procura, una compaesana, Dina, accompagnata dal fratello al consolato, dove avviene la cerimonia. Così Dina, nel 1951, tra febbraio e marzo, si imbarca per Buenos Aires per raggiungerlo, accompagnata da una cugina del marito, sul transatlantico Conte Biancamano, in partenza da Genova.
    Guido e Dina si conoscevano di vista, da paesani. Dina in paese lavorava come sarta. Una volta a Buenos Aires ha ripreso il suo lavoro. Hanno due figli Guido e Dina: Andrea che nasce nel 1952 e Monica che arriva nel 1954.
    Il periodo argentino di Andrea (1952 – 1967) si risolve in poche frasi: per studiare viene mandato in un collegio di salesiani dove mangia malissimo e da dove scappa. Sempre con lo scopo di studiare, entra in seminario dove frequenta fino alla classe corrispondente alla IV ginnasiale (oggi, il primo anno del Liceo Classico). Si diffonde, invece, nel racconto del viaggio di ritorno: ha quasi quindici anni e, tra febbraio e marzo 1967, si imbarca con il padre sulla nave da crociera Eugenio Costa. Sulla nave c’è la piscina anche in seconda classe ma, quando riesce a intrufolarsi, utilizza quella di prima classe, meno affollata. C’è il cinema dove vede il primo film di Sergio Leone, Per un pungo di dollari. Ci sono il ping pong e la sala da ballo. La Eugenio Costa fa scalo a Montevideo, a Santos (il porto di San Paolo del Brasile), a Rio de Janeiro dove sale un corpo di ballo di samba diretto a Cannes per iniziare una tournèe in Europa che, durante il viaggio, si esibisce per intrattenere i passeggeri. Al passaggio dell’equatore c’è una grande festa. E ancora fa scalo a Lisbona, Barcellona, Cannes, Genova e Napoli. Lo scalo di Genova capitò di domenica e c’era il derby doriano tra le squadre di calcio del Genoa e della Sampdoria, racconta Andrea e, continua: “Sempre a Genova ho imparato una nuova parola in italiano: sciopero (huelga in spagnolo). La nave rimase ferma l’intera giornata, così decidemmo di visitare il transatlantico Michelangelo che insieme al gemello Raffaello rappresentavano l’orgoglio delle navi da crociera italiane. Al momento di salire sul transatlantico siamo stati fermati da un marinaio che ci ha vietato la visita causa uno sciopero dell’equipaggio … Il giorno dopo siamo arrivati a Napoli, dopo una notte di navigazione, dove ci aspettavano mia madre, mio zio Gerio (il fratello di mio padre che abitava a Roma e un signore di Monterado (Mario) anche lui residente a Roma. Perché siamo scesi a Napoli e non a Genova? Semplice perché a Roma c’erano gli zii con cui in seguito avrei convissuto”.
    Il contrasto tra ciò che conosceva e ciò che ha visto e sperimentato nel viaggio di ritorno sulla Eugenio Costa, è probabilmente all’origine dei suoi numerosi viaggi in Argentina, lungo gli anni, per conoscere il paese che lo ha visto nascere e farlo conoscere agli altri. Dal 1991, infatti, Andrea unisce al suo lavoro fisso, quello di accompagnatore turistico per Nouvelles Frontieres - Avventure nel Mondo. E, durante questi viaggi, ha avuto occasione di rintracciare gli amici e di tornare nel quartiere di Buenos Aires dove è vissuto (e, in realtà, di conoscere bene anche altri paesi dell’America Latina).
    All’arrivo in Italia, si inserisce nel seminario di Fossombrone per terminare il ginnasio, quindi si sposta a Roma, nel 1969, dove lo ospita zia Pina, in un portierato di via Ticino, e dove frequenta il liceo classico Giulio Cesare.
    Sui banchi del Giulio Cesare inizia l’amicizia che continua fino a oggi, mentre siamo seduti tutti insieme intorno al tavolo della casa di Monterado che Guido e Dina avrebbero voluto avere per sé e i propri figli. Mentre lo ascoltiamo raccontare, siamo ben consapevoli di quanto sia speciale un amico che sa guardare al mondo da due punti di vista, lontani e differenti. Tutto per il sogno del padre: fare fortuna in terra argentina e far vivere la famiglia meglio di come, nel primo dopoguerra, avrebbe potuto vivere in un paese marchigiano. Un sogno al quale in realtà né lui né la moglie hanno saputo adattarsi. Per capire fino in fondo, dice Andrea, bisogna parlare con Monica. È proprio Monica infatti che nel 1966, a dodici anni, si imbarca insieme a mamma Dina per tornare in Italia, con il compito di verificare la fattibilità del ritorno e di un reinserimento che sicuramente non sarà indolore.
    Decido così di parlare con Monica e le invio un questionario con i temi emersi durante la lunga conversazione intorno al tavolo, proponendole di parlarne a voce appena possibile. Inaspettatamente, qualche giorno fa, ho ricevuto da Monica un testo perfettamente organizzato, dal quale emerge tutta la complessità di un’esperienza che segna in profondità, soprattutto quando avviene in età adolescenziale, e che spiega la grande umanità che contraddistingue fratello e sorella, nati in Argentina nel secondo dopoguerra, consapevoli del fallimento dell’esperienza dei genitori, segnata dalla nostalgia e dalle difficoltà del ritorno, reso possibile soltanto dall’aiuto dei familiari e dall’accettazione di una prolungata separazione dai figli, ospitati l’uno dagli zii a Roma e l’altra in un paese vicino, Roncitelli, per garantire loro di frequentare gli studi.
    Ecco la sua testimonianza:

    Mezzo di trasporto: transatlantico Federico Costa
    Date del viaggio: 15-30 maggio 1966
    Itinerario di viaggio: porto di Buenos Aires - Montevideo - San Paolo - Rio de Janeiro – Genova – Napoli.
    Chi viaggia: Mamma Dina (45 anni), Monica (12 anni), con Vincenza (45 anni) e le sue figlie, Cristina (18 anni) ed Elena (14 anni).
    Ricordi di viaggio: Di tutto il viaggio ricordo poco, comprese le soste che venivano fatte lungo la rotta della nave. Forse il fatto che con noi non ci fosse un uomo, rendeva mamma e Vincenza poco sicure, in particolare quando scendevamo dalla nave per visitare i luoghi, se la sosta lo permetteva. Elena ed io stavamo sempre molto vicine alle nostre mamme, mentre Cristina, più grande di noi, si allontanava ogni tanto e faceva qualche conoscenza sulla nave, come quel bel marinaio che, in seguito, è venuto a Monterado a trovarla, durante una sosta della sua nave in un porto vicino. Grazie a Cristina abbiamo conosciuto una ragazza sui 20 anni che viaggiava in prima classe, in una bellissima cabina da sola, mentre noi stavamo in uno scomparto con cinque letti a castello. Sul grande letto all’interno della cabina, aveva sistemato tutte le sue numerose e bellissime bambole. Le bambole sono sempre state una mia passione e ricordo che il primo bambolotto che ho avuto mi è arrivato dall'Italia, dono di zia Maria, una sorella di mia madre. Era bellissimo e mamma gli aveva fatto tanti begli abitini. Poi ho avuto altre bambole che ho portato in Italia, tranne una che la mia amichetta Silvia mi ha chiesto come ricordo, prima della mia partenza per l'Italia. Silvia, che abitava accanto alla nostra casa, non usciva mai fuori a giocare né poteva ricevere amici nella sua casa perché la sua mamma aveva paura della sporcizia, tanto che puliva continuamente la sua casa e il suo patio. L’unica bambina alla quale era consentito entrare in quella casa ero io, forse perché la sua mamma pensava che, essendo italiani, eravamo una famiglia pulita (lei era di origine spagnola). Ricordo che Silvia mi confessò che la sua mamma le puliva con acqua e sapone le suole delle scarpe quando rientrava da fuori. Di tutte le amichette che ho avuto a Buenos Aires, Silvia è l'unica che ho avuto la fortuna di rivedere quando nel 2006, dopo 40 anni, sono tornata a Buenos Aires. Le altre avevano cambiato quartiere e non erano facilmente rintracciabili.
    Periodo argentino: Babbo Guido, originario di Monterado in provincia di Ancona, è arrivato a Buenos Aires nel 1950. Ha sposato per procura mamma Dina, anche lei di Monterado, che lo ha raggiunto nel 1951 a Buenos Aires, nella casa in affitto a via Añasco, nel quartiere Tablada, all’inizio della provincia di Baires, dove abbiamo sempre vissuto fino al nostro definitivo rientro in Italia. Nel 1952 è nato mio fratello Andrea e nel 1954 sono nata io. Mi è sempre piaciuta quella casa che aveva davanti un piccolo giardino e dietro un patio e un grande terreno dove mamma e babbo facevano l'orto, c’erano conigli liberi (peccato che i conigli che tenevo in braccio e coccolavo poi sparivano) e piccioni in una grande gabbia. Dato che c'era tanto spazio esterno, mamma preferiva che non andassi a giocare fuori o a casa dei miei amici e mi chiedeva di far venire gli amici da me. Io in realtà amavo andare dalla mia amica Alicia che abitava in una grande casa, a pochi metri dalla mia, con i suoi genitori, i suoi fratelli, i suoi nonni e uno zio. C'era un grande cortile ombreggiato dove la famiglia si riuniva nel pomeriggio “para chupar mate” (per prendere il mate) e, quando ero presente, mi invitavano a unirmi a loro. Ricordo che mamma non era molto contenta che prendessi il mate perché considerava poco igienico il fatto che la “bombilla” (cannuccia con filtro) passasse da una bocca all’altra. Ho ancora adesso un bellissimo ricordo di quei pomeriggi e di quella famiglia. Mi piaceva anche andare da un'altra amichetta che abitava in un "ranchito" (abitazione di favela). Mi sorprendeva notare la pulizia e l'ordine in una casa così povera. Quanta dignità ho visto in quella famiglia!
    In Argentina gli italiani sono stati sempre considerati persone molto civili, dei gran lavoratori e sempre visti con gran riguardo. Ricordo che quando salutai le mie amichette, prima della mia partenza per l’Italia, una bambina mi disse che ero molto fortunata a trasferirmi in Italia e che anche lei da grande avrebbe voluto vivere in Europa (non ricordo il nome di quella bambina ma spero che sia riuscita a realizzare il suo sogno).
    Ogni tanto penso alle umiliazioni che hanno dovuto subire invece gli italiani che, in quegli stessi anni, sono emigrati verso altri paesi europei o nei paesi del nord America, anche se magari alcuni hanno “fatto fortuna” in quei paesi.
    Babbo lavorava in una fabbrica, la "Dante Martiri", che produceva scaldabagni, cucine e altre apparecchiature a gas e, per far quadrare il bilancio familiare, nel pomeriggio, dopo l’orario di lavoro in fabbrica, provvedeva alla manutenzione delle apparecchiature a gas dei clienti che lo chiamavano. Si spostava sempre in bicicletta e qualche volta nel pomeriggio, quando sapeva che nella casa in cui si recava c'erano delle bambine con le quali potevo giocare, mi chiedeva di accompagnarlo e mi faceva salire sulla canna della sua bicicletta. Ho così potuto conoscere un bel quartiere, sempre nella provincia di Baires, con tante bellissime villette.
    Mamma Dina faceva la casalinga e contribuiva al bilancio familiare facendo la sarta e confezionando per sé e per i figli abiti, partendo da stoffe ricavate da vestiti dismessi che venivano forniti dallo "zio ricco", zio Gino, un fratello della mia nonna paterna, che aveva sposato una ricca argentina grazie alla quale era stato nominato tesoriere presso l'Ospedale Italiano a Buenos Aires. Lo zio Gino, la moglie e la sorella della moglie vivevano in un bellissimo appartamento in un quartiere centrale di Buenos Aires (Palermo). Ricordo che spesso la domenica mattina, babbo ed io, con i nostri vestiti migliori, partivamo da casa nostra e con vari autobus andavano a trovare questo zio ricco. Ricordo l'odore "dolce" dell'appartamento e la squisita torta che la sorella della moglie di zio Gino ci offriva. Mamma non veniva mai, forse perché aveva tanto da fare (non avevamo la lavatrice e mamma lavava i panni nelle vasche che erano presenti in un locale separato dalla casa), e Andrea non poteva venire perché era in collegio dai salesiani, dove nel pomeriggio della domenica andavamo tutti e tre a trovarlo. Mamma Dina gli portava qualche cosa di buono e stavamo nel cortile del collegio a chiacchierare. Una volta mi sono messa a correre e forse la gonna si è sollevata facendo vedere le gambe di una bambina di 10 anni. Questo episodio deve aver scosso un sacerdote che ha detto ad Andrea di riferirmi di non correre più!
    Io ho frequentato inizialmente una scuola privata di suore perché mamma pensava che l'ambiente fosse migliore rispetto alla scuola statale. In realtà, anche se piccola, ho subito notato una mancanza di empatia da parte di qualche suora, come quando una domenica con mamma siamo arrivate in ritardo alla messa, durante la quale avrebbero celebrato la comunione di alcuni bambini e io, che avevo fatto la comunione l'anno precedente, dovevo indossare le ali e l'abito di un angioletto per accompagnare i bambini all'altare. Una suora furiosa per il ritardo mi strappò dalle mani di mamma per portarmi a vestire e, nel mettermi le ali, mi strinse così forte il cordone delle ali che ricordo ancora il dolore e il segno che mi rimase. Dopo quell’episodio, ho chiesto a mamma di farmi andare in un'altra scuola. Devo dire che non ho trovato troppi ostacoli, visto che la retta della scuola di suore era piuttosto alta, per il nostro standard di vita.
    Con la scuola pubblica ho avuto modo di conoscere un'altra realtà: al posto della messa e della comunione tutte le mattine, l'alza bandiera e l'inno argentino. Ho anche fatto una gita a Rosario.
    Durante la nostra vita a Buenos Aires non abbiamo avuto la possibilità di viaggiare; l'unico posto dove ricordo di essere andata è Mar del Plata, una famosa località turistica sull’Oceano Atlantico a circa 600 km da Buenos Aires, dove aveva una villa lo "zio ricco". Qualche volta la domenica zia Alice e zio Orlando (cugini di babbo), con i rispettivi coniugi zio Pancho e zia Carmen, mi venivano a prendere per portami con loro a fare il bagno al fiume. Per me era bello ma poco divertente visto che non c'erano altri bambini con cui giocare.
    Anche quando in qualche casa si riunivano tutti gli amici italiani del quartiere, mamma preferiva rimanere a casa a riposarsi, così andavamo io e babbo, dato che Andrea era sempre in collegio.
    Penso che mamma e babbo non siano mai stati contenti di essersi trasferiti in Argentina. Posso solo cercare una spiegazione attraverso quello che mi diceva mia madre, l’unica che mi parlava cercando di farmi capire. Mi diceva che babbo si aspettava di fare fortuna o almeno di avere una vita agiata; invece, era costretto a fare un doppio lavoro per mantenere la sua famiglia. Di lei mi diceva che si aspettava di rimanere in Argentina poco tempo (nei 15 anni che ha trascorso in Argentina, ogni anno mi diceva che l’anno successivo saremmo tornati in Italia!). Sentiva nostalgia della sua famiglia di origine, in particolare di nonno Domenico, suo padre, al quale era molto legata. Inoltre, voleva occuparsi dei suoi due fratelli che avevano problemi di salute.

    Ritorno in Italia (tra Marche e Roma): al porto di Genova sono venuti a prenderci mia zia Maria (la sorella di mamma) e il marito, zio Armando. Zia Maria, che si era sposata in seconde nozze con zio Armando, dopo essere rimasta vedova, non aveva figli e, nelle lunghe lettere che scambiava con mamma, le ha sempre detto che si sarebbe occupata di me e che già mi stava preparando il corredo.
    La prima cosa che hanno deciso è stato il mio nome. Premetto che mi chiamo Monica Virginia, due nomi perché mamma e babbo non si mettevano d'accordo (mamma voleva chiamarmi Virginia, mentre babbo Monica). Durante tutto il mio periodo argentino sono stata chiamata Virginia o Titina, la semplificazione di Virginia in quanto Andrea da piccolo non riusciva a pronunciarlo. In Italia i miei zii hanno deciso che mi sarei chiamata Monica.
    I primi mesi dopo il mio arrivo in Italia, sono vissuta a Monterado nella casa di mia nonna Emma, la mamma della mia mamma.
    Quando stavamo a Buenos Aires, mamma ha sempre parlato dell'Italia, o meglio di quel poco che conosceva e cioè Monterado e dintorni, con la nostalgia di chi ha dovuto lasciare il posto in cui è nato. Tutte le sue descrizioni erano meravigliose. Per me invece è stata una grande delusione: il paese piccolissimo, la casa della nonna vecchia e poco confortevole...
    Comunque, ormai eravamo in Italia e mi dovevo adattare. Dovevo subito andare a ripetizione durante tutto l'estate, per imparare bene l'italiano, dato che a ottobre dovevo andare a scuola. Dovevo essere brava perché tutti se lo aspettavano. Ho cercato con tutte le forze non solo di imparare a scrivere e leggere bene l'italiano ma anche a parlarlo senza inflessioni, tanto da dimenticare ben presto la mia lingua madre. Una cosa che non mi perdonerò mai. Ma le sorprese per me non erano finite: sarei dovuta andare a vivere da mia zia Maria, in un altro paese (Roncitelli) a pochi chilometri da Monterado, dato che sarebbero stati i miei zii a pensare alla mia istruzione e al mio sostentamento.
    Nel frattempo, Andrea e babbo stavano ancora a Buenos Aires e sarebbero tornati in Italia solo l'anno successivo. Al loro arrivo in ltalia, babbo inizia a lavorare presso la bottega di fabbro a Monterado e Andrea va in collegio a Fossombrone per continuare gli studi iniziati in Argentina. Ben presto, per loro le cose cambiano in quanto il lavoro di fabbro di babbo non si rivela produttivo, e da fabbro e maniscalco si ricicla in operaio presso una ditta idraulica e manutentore di prodotti a gas.


    Andrea chiede di poter lasciare il collegio e di andare a finire il liceo a Roma, ospite presso un'altra sorella di mamma, zia Pina, sposata con un fratello di babbo, zio Gerio.
    Per 10 anni siamo stati separati. Vedevo mamma, babbo e Andrea durante l'estate. Durante il resto dell'anno cercavo di concentrarmi solo nello studio, più per dovere che per passione, e rimandavo continuamente di riflettere sulla mia situazione. Solo una volta ho detto a mia madre che volevo tornare a vivere con lei. Ma forse né io né lei eravamo pronte ...
    Solo nel 1974, con l'inizio del mio primo anno di università, la famiglia ha iniziato a riunirsi. È stata Roma che ci ha visti insieme dal 1974 al 1981, in un piccolo appartamento di un portierato a Via Magliano Sabina.

    Lascio agli eventuali lettori tutte le possibili riflessioni su queste esperienze, dalle quali sono passati, complessivamente, poco più di settanta anni. Ma sono stati settanta anni cruciali, per i singoli protagonisti, per le comunità, per l’umanità intera. Sono indispensabili come monito per il futuro perché se non si tiene conto di come si viveva, dell’importanza che si dava all’istruzione, del poco che si aveva per vivere ecc., è impossibile comprendere come e perché stiamo mettendo a rischio la vita delle future generazioni. Per questo è bene serbarne e tramandarne la memoria.


     

  • IL PREMIO NOBEL PARISI,
    IL SUO MAESTRO CABIBBO
    E "STRISCIA LA NOTIZIA"

    data: 10/10/2021 19:29

    È arrivato il momento di alcune riflessioni che sconfinano in un campo che non è il mio, a dispetto dell’averlo ‘incontrato’ nel corso dei miei studi (nei ‘presocratrici’ e in Democrito, nella Fisica aristotelica, in Lucrezio e nelle riflessioni naturalistiche di Seneca, e così via).
    Quel poco che ne conosco fa parte del pensiero filosofico ai suoi inizi, piuttosto che della scienza post-galileiana oltre che, a pieno titolo, della letteratura greca e latina.
    I due ambiti – filosofia e scienza – si sono andati separando nel corso di centinaia di anni - di pari passo con lo sviluppo del metodo sperimentale – ma continuano a confrontarsi tanto quando si ha a che fare con questioni di laboratorio e, tanto più, quando si ha a che fare con questioni di teoria. Le riflessioni che ho in mente, peraltro, pur sconfinando nel campo della fisica, hanno a che fare in prima battuta con la cultura e il livello culturale del mondo in cui viviamo. Soprattutto, possono contare su un testimone d’eccezione con il quale condivido la vita da oltre un cinquantennio (ossia dai tempi dell’Università, la stessa – la Sapienza di Roma – che abbiamo frequentato negli stessi anni, in edifici diversi, Lettere e, appunto, Fisica) e che, da fisico, studente e poi docente, conosce l’ambiente e le persone.
    Alla notizia del conferimento del premio Nobel al professore Giorgio Parisi, allievo del professore Nicola Cabibbo, inevitabilmente, abbiamo condiviso ricordi, impressioni e pensieri sul professore. Piccole cose, a volte insignificanti che, tuttavia, sono importanti per riconoscere quando, e se (non sempre avviene), l’intelligenza e la profondità degli studi, si coniugano all’umanità e alla capacità di rimanere persone ‘comuni’, che lavorano con passione, senza ricercare a tutti i costi la notorietà e sapendo di lavorare per il proprio Paese e le generazioni future.
    E i ricordi, a volte, si mescolano a fatti e notizie più recenti che, in qualche modo, confliggono con essi, inquinandoli e costringendo a riflettere sul mondo della cultura e su quello dello spettacolo (in particolare dell’intrattenimento televisivo, rivolto – intenzionalmente e a fini commerciali - a un pubblico che spesso non possiede gli strumenti per decodificare correttamente quello che gli viene proposto).
    A questo proposito, la sera dell’8 ottobre 2008, l’autore del consueto servizio di Striscia la notizia si recò sotto l’abitazione di Nicola Cabibbo, professore di Fisica teorica all’Università Sapienza di Roma, per sollecitare una reazione al mancato conferimento del Premio Nobel e consegnargli il ‘premio’ burlesco ideato dagli autori della trasmissione (il Tapiro d’oro).
    Il professore, uno dei maggiori fisici teorici italiani del dopoguerra, nulla concesse al gioco ‘satirico’ di Valerio Staffelli.
    In quell’occasione l’Accademia delle Scienze svedese aveva assegnato il premio a due fisici giapponesi, Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa che, avendo collaborato con il Prof. Cabibbo, avevano poi ampliato la sua teoria. È facile immaginare l’amarezza di Nicola Cabibbo nell’apprendere la decisione dell’Accademia svedese. Ci furono, naturalmente, interventi critici – e specialistici – sulla vicenda, ma, nell’immediato, l’intervento di Striscia la notizia ebbe il solo scopo di abbinare il nome del professore a quello del pupazzo simbolo della trasmissione, sconfinando da quella che dovrebbe essere satira (politica, civile, sociale, ecc.) alla presa in giro, del tutto ingiustificata, di una persona che aveva dedicato tutta la sua vita allo studio delle particelle elementari, senza sottrarre il suo apporto come Presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), dell’ENEA, oltre a quello dell’impegno didattico come docente e ricercatore. E questo all’unico scopo di giocare sull’affinità del cognome del professore con il nome del suddetto pupazzo per far ridere il pubblico, necessariamente all’oscuro dei fatti e del personaggio e, per di più, a spese di una persona che aveva subito, indubbiamente, un torto e un’umiliazione professionale. Insomma, un ‘servizio’ creato a bella posta per deridere una persona ancora attiva ma già colpita da una malattia che lo portò alla morte nel giro di un anno e poco più. Tutto ciò a vantaggio della logica, sottesa alla trasmissione in questione: suscitare la risata facile dei telespettatori.
    Lo sfottò, volto a garantire l’audience del programma, per un pubblico all’oscuro per lo più dell’importanza di un riconoscimento come il Nobel per il lavoro scientifico del professore e dei suoi collaboratori, ha rappresentato la banalizzazione che un certo mondo dello spettacolo – prodotto consapevolmente e ad arte – riserva senza scrupolo a chi lavora con competenza, vivendo del proprio lavoro, fatto di ricerca e insegnamento, e portando il proprio contributo alla crescita culturale e scientifica del Paese per importi economici di gran lunga inferiori a quelli di chi realizza spettacoli di così basso tenore.
    A distanza di tredici anni da quell’8 ottobre 2008, il 6 ottobre 2021, il professore Giorgio Parisi ha ricevuto il premio Nobel per i suoi contributi allo studio dei sistemi complessi.
    In questa occasione, durante una delle prime interviste, il primo pensiero del professore è andato al suo Maestro: “il Nobel sarebbe dovuto andare a Nicola Cabibbo, mi dispiace che le scelte della Fondazione Nobel non siano andate in questa direzione”.
    Il fatto che il primo pensiero del premio Nobel sia andato al suo Maestro è la testimonianza di quanto nel mondo della cultura sia importante, per gli allievi, l’esempio dell’abnegazione nel lavoro e dell’impegno costante, indipendenti dalla notorietà, in generale e, in modo particolare, quando, come nel caso di Giorgio Parisi, si trovano a vedere riconosciuto il loro sforzo.
    E lo fanno con semplicità, dichiarando il proprio debito nei confronti del Maestro e dei propri collaboratori, conferendo il giusto rilievo al lavoro degli altri vincitori, entrambi impegnati nel campo della climatologia e, anzi, approfittando dell’occasione per rimarcare l’importanza del loro lavoro per il futuro del pianeta.
     

  • "C'ERO ANCH'IO
    SU QUEL TRENO"
    DI GIOVANNI RINALDI

    data: 07/10/2021 16:51

    Ci sono modalità diverse di accostarsi a un libro, sin dal titolo. Quel “c’ero anch’io …” iniziale di C’ero anch’io su quel treno di Giovanni Rinaldi, appena uscito per i tipi della casa editrice Solferino, fa pensare all’incipit di una favola raccontata dal protagonista. Il sottotitolo – La vera storia dei bambini che unirono l’Italia – porta immediatamente il lettore nella dimensione di una storia realmente accaduta. Le due cose non si escludono. Per capirlo è indispensabile immergersi nella lettura, scegliendo la modalità che si preferisce: cominciare dall’inizio e proseguire senza interruzione fino alla fine (e si arriva alla fine in un soffio) oppure cominciare dalla fine che, in questo libro, non corrisponde alla fine della storia ma agli apparati che la seguono (“Riferimenti bibliografici” e “Treni della felicità. Cronologia delle opere”) dai quali si evince la genesi della narrazione.
    Peraltro, a un lettore attento, non può sfuggire che il testo è stato pubblicato nella collana Saggi. Cos’è, dunque, quello che è contenuto in questo libro? Un saggio, una storia o una favola? Per rispondere è indispensabile affrontare la lettura lasciando in sospeso il suggerimento inziale che emerge prepotente dal quel “c’ero anch’io”, senza dimenticarlo (a fine lettura il senso di quel suggerimento diviene perfettamente chiaro).
    È indispensabile immergersi nella lettura della storia o, meglio, delle decine di storie che la compongono. Ed è indispensabile farlo, sapendo che si tratta di un saggio storico che racchiude in sé il fascino di storie vere, in tutto e per tutto, con il valore aggiunto della favola. Proprio per questo, anche il lettore che voglia leggere gli apparati prima di immergersi nelle storie, non rimarrà deluso. Semplicemente, le leggerà con la consapevolezza che gli proviene dall’avere capito come il testo è nato.
    Le storie sono realmente accadute, tra il 1945 e il 1952, ossia a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. I protagonisti di queste storie sono bambini che hanno avuto la ventura di nascere subito prima dello scoppio o nei primi anni della guerra, in famiglie del Sud la cui situazione economica, già difficile, si aggrava proprio in questo periodo. Sono storie avviate dal movimento di solidarietà realizzato grazie all’impegno delle donne dell’UDI, Unione Donne Italiane, dei militanti del PCI e dei sindacati e volto a collocare per un periodo di tempo variabile (da alcuni mesi a un anno o poco più) i bambini delle famiglie in difficoltà delle regioni del sud (Campania, Lazio, Puglia, in prevalenza, ma anche Calabria, Sardegna, Basilicata) in famiglie meno disagiate delle regioni del Nord (Emilia Romagna, Toscana, Marche, Lombardia, Piemonte, Liguria).
    Di queste storie esiste, naturalmente, una documentazione negli archivi delle istituzioni coinvolte o in archivi personali. Per la loro caratteristica di storie marginali, che non riguardano direttamente gli avvenimenti destinati a raggiungere le prime pagine dei giornali, né, tantomeno, le pagine dei libri di storia, sono destinate a rimanere sconosciute, custodite solo nella memoria dei protagonisti che, divenuti adulti, le hanno raccontate a figli e nipoti disposti ad ascoltarli (ossia fino a quando l’urgenza della loro vita e del presente non li distoglie da vicende che dal loro punto di vista sono ormai ampiamente superate o, magari, ingrandite nella memoria dell’anziano).
    La loro ‘marginalità’ ne fa storie destinate all’oblio in un mondo in cui le notizie diventano deperibili nel giro di ventiquattro ore.
    A meno che non intervenga uno storico che si appassioni alla ricerca di questi testimoni, impegnandosi in un lavoro di recupero di queste piccole storie che, nel loro complesso, narrano una pagina importante della storia nazionale, trasferendole sulla pagina scritta. In questo modo, la memoria diviene scrittura. I bambini di allora divengono protagonisti. Lo storico diviene mediatore tra quel non lontano passato, di cui troppo frettolosamente vogliamo liberarci, riportandolo in primo piano. I testimoni ridivengono protagonisti e affidano allo storico la loro memoria prima che il tempo la cancelli in modo definitivo.
    Chi può farsi narratore di questa storia? Non certo uno storico tradizionale, quello che frequenta archivi e biblioteche, che collaziona documenti, legge libri su libri per arrivare a ricostruire un periodo più o meno lungo di storia locale, nazionale. Quest’ultimo arriva, con certezza, a leggere lettere e diari, si confronta con protagonisti che sono stati in grado di affidare alla pagina scritta la loro ‘lettura’ di una particolare vicenda. C’è tutto un mondo che gli sfugge, rappresentato da persone – i testimoni - che gli avvenimenti li hanno semplicemente vissuti, tra paura e speranza. E sono questi che lo storico orale recupera e ascolta, una volta che si imbatte in una vicenda che, pur documentata in forma scritta, nessuno prima ha indagato direttamente dalla voce dei testimoni, ossia i bambini, partiti - tra pianti, abbracci, speranza e paura di finire arrosto in casa di estranei - per ricevere accoglienza da famiglie di luoghi più stabili economicamente, in grado di mettere a tavola un piatto in più a pranzo e a cena.
    Le storie serbano la memoria di una vicenda nazionale attraverso le testimonianze dei protagonisti, bambini di allora anziani di oggi. Le testimonianze di quei bambini, divenute scrittura, sono espressione tangibile di un esempio di solidarietà civile, sociale, politica, economica che è stata capace di superare i pregiudizi locali tra Nord e Sud, i quali, a loro volta, affondano nel passato di un paese con una storia unitaria ancora molto recente, con differenze culturali e linguistiche accentuate tra regione e regione, tra paese e paese.
    Quei bambini hanno vissuto in prima persona il significato della solidarietà. La passione, il lavoro e la scrittura dello storico hanno il merito di farsi interpreti di quelle storie e di quella solidarietà traghettandole in un presente tanto diverso da perdere gradualmente il concetto di precarietà e di insicurezza a favore di una vita vissuta nell’oggi, nel consumo e nel divertimento.
    Lo storico, facendosi interprete di quella solidarietà ne rinnova il significato, rendendola protagonista per i lettori di oggi. Perché anche in un mondo globalizzato, in cui tutti potenzialmente hanno accesso alle stesse cose, troppo spesso non vediamo o non vogliamo vedere che molti, moltissimi non hanno accesso a cose che diamo per scontate; che ci sono molti, moltissimi che hanno bisogno di solidarietà per avere anche solo la speranza di sopravvivere. Lo ignoriamo o lo respingiamo.
    Lo storico è divenuto mediatore tra quel non lontano passato di cui troppo frettolosamente vogliamo liberarci, riportandolo in primo piano, in un presente che ha bisogno di quelle storie per riscoprirsi solidale.
    I testimoni, grazie al lavoro dello storico divengono protagonisti. E la loro memoria – fissata nella scrittura - diviene patrimonio collettivo.
    C’ero anch’io sul quel treno, peraltro, è il frutto di una ricerca durata quasi venti anni. Iniziata nel 2002, a distanza di circa cinquanta anni dai fatti, e confluita ne I treni della felicità (Ediesse 2009), in cui le storie sono mescolate alla cronaca e al resoconto del lavoro di reperimento dei testimoni, dei viaggi, delle lettere, degli appuntamenti realizzati per anni - tra il 2002 e il 2006 - in vista della realizzazione del film documentario Pasta nera di Alessandro Piva (2011). Oggi quella ricerca, mai interrotta, è riproposta in una veste narrativa profondamente rinnovata: le storie, sfrondate dal resoconto e dalla cronaca, funzionali al progetto di ricerca e alla realizzazione del documentario, sono presentate a tutto tondo e con tutta la loro forza narrativa, che emerge con intensità anche per chi – come chi scrive – ha letto I treni della felicità e ne ha scritto (cfr. “I treni della felicità. Ma dov'è finito quel senso di solidarietà?” http://www.infodem.it/teatrino.asp?idn=5739 9/2020).
    Una volta giunti alla fine, mentre nel lettore si ricompongono tutti gli aspetti e le valenze della narrazione (favola solidale, storia ricostruita da testimonianze orali, saggio storico dedicato a una vicenda ‘marginale’ della storia nazionale, tra il 1945 e il 1952), se si ripercorrono le pagine di apertura del volume, anche l’epigrafe posta all’inizio del ‘prologo’ acquista un suo significato preciso: la citazione da Narratore ambulante di Mario Vargas Llosa, da porre in parallelo con le parole di Svjatlana Aleksievič, poste ad epigrafe dell’epilogo, suggella perfettamente il senso del lavoro di un ricercatore di storie orali, diverse - tra foresta amazzonica, Černobyl' e Afghanistan - ma accomunate dallo stesso destino: andare perdute definitivamente in assenza di uno storico che decida, per passione, ‘di ascoltarle, trascriverle, riscriverle, rappresentarle in una narrazione’ (cfr. p.15). 

  • STORIE DI LIBRI
    TRA MARE E TERRAFERMA

    data: 11/09/2021 19:49

    Curiosando tra i libri di una biblioteca familiare, soprattutto se conserva volumi appartenuti a più di una generazione, si possono fare scoperte interessanti. È quello che mi è capitato mentre sistemavo uno scaffale tra i meno raggiungibili per spolverare e riordinare: una copia in due tomi de I lavoratori del mare che Victor Hugo scrisse durante il suo esilio sull’isola di Guernsey, pubblicato per la prima volta nel 1866.
    Chissà per quale motivo, i libri che hanno il mare come soggetto, mi hanno sempre incuriosito, complici i miei studi e, soprattutto, l’Odissea.
    Non sono un amante dell’acqua, mi piace la vista del mare e mi affascinano i luoghi di mare ma tra me e l’acqua deve esserci sempre una distanza ragionevole. Sempre che non sia narrata. In questo caso, l’impulso a leggere prevale.
    Così quando scopro questo titolo tra i libri di famiglia, mi ricordo di aver acquistato lo stesso romanzo, ormai anni fa, in una libreria antiquaria: altra edizione, altra traduzione.
    Naturalmente non posso fare a meno di verificare quale sia l’edizione più recente in commercio e di aggiungerla alla collezione (come giustifico l’acquisto? I motivi sono almeno due: paura di rovinare la prima e la seconda, già provate dal tempo, curiosità di verificare le differenze tra le edizioni e tra le traduzioni).
    E così ecco le tre edizioni de I lavoratori del mare, in bell’ordine davanti a me: oltre cento anni di storia dell’editoria italiana attraverso un solo titolo.
    La prima risale al 1910, in due volumi con illustrazioni diverse in copertina, senza apparati (ad eccezione della dedica e della prefazione dell’autore). È dovuta alla casa editrice Bietti che dal 1870 si era specializzata nella pubblicazione di classici. La traduzione è di M. Mazzini (non riesco a trovare il nome completo). Il valore aggiunto di questa prima edizione in mio possesso è rappresentato dalla firma della nonna paterna, completata dal sigillo in ceralacca (sulla prima pagina di entrambi i tomi) e dalle sottolineature a matita con cui la nonna ha posto in evidenza alcuni passaggi, soprattutto riflessioni profonde (e romantiche) sul senso della vita, dell’ignoto e sulla preghiera.
    La seconda risale al 1954: si tratta della prima edizione del romanzo nella Biblioteca Moderna Mondadori, la collana di narrativa che la casa editrice ha avviato nel 1912, dalla caratteristica copertina cartonata di un tenue colore uniforme. Il romanzo è preceduto da un’introduzione dovuta al traduttore, Giacomo Zanga. La vera novità, rispetto all’edizione del 1910, è rappresentata dal fatto che il romanzo vero e proprio è preceduto dal saggio L’arcipelago della Manica che l’autore aveva pensato come complementare al romanzo ma che fu pubblicato per la prima volta solo nel 1883 e premesso alla narrazione solo nel corso del Novecento, com’era nelle intenzioni dell’autore.
    La terza è la più recente: edita da Rusconi libri nella collana Grande Biblioteca Rusconi, la stampa risale al settembre 2017 (oggi è disponibile anche in versione digitale). La novità è rappresentata dall’inserimento in apertura dell’indice: il romanzo è, infatti, suddiviso in tre parti, ciascuna ripartita in libri, distribuiti a loro volta in capitoli. Parti, libri e capitoli hanno, tutti, un titolo e in questa edizione sono immediatamente rintracciabili proprio grazie all’indice. È l’unica che un appassionato di racconti di mare può trovare facilmente in libreria, accanto a tanti altri autori che scrivono di avventure e viaggi per mare.
    Questa ricognizione, oltre a testimoniare un piccolo frammento di storia editoriale, mi ha fatto tornare alla mente una riflessione incontrata in Raccontare il mare (Iperborea, 2015) di Björn Larsson il quale, analizzando la letteratura di paesi tradizionalmente proiettati sul mare (Italia, Irlanda, Inghilterra, tra gli altri) nota che, in realtà: “il mare e, soprattutto, i lavoratori del mare – per riprendere l’espressione di Hugo – non sono, come si tenderebbe a credere in modo stereotipato, un soggetto ricorrente nella narrativa” (p. 21). Scrive anche, parlando di romanzieri che hanno dedicato le loro pagine al mare, che “l’unico ad aver scritto un romanzo davvero di immaginazione sulla vita dei marinai, cioè Victor Hugo con I lavoratori del mare, è anche l’unico a non aver mai posseduto una barca propria, limitandosi a navigare come passeggero”.
    Insomma, mi piace pensare che il breve capitolo de L’arcipelago del mare intitolato L’erba, sia una conferma all’osservazione di Larsson e che, forse, sono molti quelli che privilegiano l’osservazione del mare stando saldamente con i piedi a terra (alla quale l’acqua del mare è assolutamente indispensabile), anche descrivendola minuziosamente.
    È proprio quello che fa Victor Hugo in questa pagina densa di nomi (diciannove tipi di piante erbacee – graminaceae e poaceae -, quattordici insetti), prevalentemente descrittiva, in cui si riconosce il gusto romantico accompagnato dalla sferzante vena ironica e polemica dell’autore quando, nel mondo della natura che sta descrivendo, riconosce la presenza dell’uomo e della cosiddetta civiltà. Vale la pena leggerla (o ri-leggerla):

    L’erba, IV cap. di L’arcipelago della Manica
    L’erba di Guernesey è l’erba d’ogni luogo; un po’ più ricca però; una prateria di Guernesey è quasi simile a quelle di Cluges e Géménos. Vi trovate festuche e poe, come in tutte le erbe comuni, più i denti di cane e la gliceria, e il bromo dalle spighe a razzi, le falaride delle Canarie, l’agrostide che produce una tinta verde, il loglio, la codolina, l’amourette che tremola, l’aglio selvatico, il cui fiore è tanto dolce e l’odore tanto acre, le code di volpe, le cui spighe sembrano piccole mazzuole, le stipe, buone per fa panieri, l’avena, utile per imbrigliare le sabbie mobili. È tutto? No: c’è anche la dattilide, i cui fiori si raggomitolano, il panìco e inoltre, secondo alcuni agronomi indigeni, l’andropogon. C’è la crepide a foglie di radicchiella, che segna le ore, e la cicerbita siberiana che annuncia il tempo. Questa è semplicemente erba, ma non può averla chi la vuole, perché è propria dell’arcipelago: occorre il granito per sottosuolo e l’oceano per annaffiatoio.
    Ora fate correre lì dentro e fate volare là sopra mille insetti, alcuni ripugnanti, altri graziosi: sotto l’erba i lungicorni, i lunginasi, le calandre, le formiche occupate a mungere gli afidi – le loro mucche – le cavallette bavose, le coccinelle, bestiole del buon Dio, e il talpino, bestia del diavolo; sopra l’erba, per l’aria, la libellula, la vespa, le cetonie d’oro, i mosconi di velluto, le emerobe ricamate, le crisidi dal ventre rosso, le volucelle chiassose, ed avrete un’idea dello spettacolo pieno di fantasticheria che in giugno, a mezzodì, i fianchi del promontorio di Jerbourg o di Fermain-Bay offrono a un entomologo un po’ sognatore e ad un poeta un po’ naturalista.
    D’un tratto, sotto quel tenero tappeto verde, scoprite una piccola pietra quadrata dove sono incise queste due lettere: W. D., Che significa War Departement, ossia “Dipartimento della Guerra”. E’ giusto. Bisogna che la civiltà si palesi; diversamente il posto sarebbe selvaggio. Andate sulle rive del Reno, cercate i recessi più ignorati, in certi luoghi il paesaggio è tanto maestoso da sembrare pontificale, e si direbbe che Dio è più presente lì che altrove; penetrate nei recessi dove le montagne fanno la massima solitudine e i boschi il massimo silenzio, scegliete, per esempio, Andernach e i suoi dintorni, visitate il fosco e impassibile lago di Laak, quasi misterioso tanto è ignorato. Non c’è tranquillità più augusta, la vita universale è là, in tutta la sua serenità religiosa; nessun turbamento; dappertutto l’ordine profondo del grande disordine naturale; passeggiate commossi in quel deserto: è voluttuoso come la primavera e malinconico come l’autunno; camminate a casa, lasciando dietro di voi l’abbazia in rovina, perdendovi nella commovente pace dei precipizi, fra canti d’uccelli e fruscio di foglie; bevete nel cavo delle mani l’acqua delle sorgenti, camminate, meditate, dimenticate. Ecco una capanna; segna l’angolo d’un casolare tuffato tra gli alberi: è verdeggiante, odorosa, graziosa, tutta rivestita d’edera e di fiori, piena di bambini e squillante di risa. Vi avvicinate, e su di un lato della capanna fregiata da un sorprendente contrasto d’ombra e di luce, sopra una vecchia pietra del vecchio muro, sotto il nome del casolare – Liederbreizig – leggete: 22° landw, battaillon. 2° comp.
    Vi credevate in un villaggio; siete in un reggimento. Così è l’uomo.

    Post-Scriptum
    In questi giorni, dal centro di Londra, si è mosso un ‘pellegrinaggio’ (o, semplicemente, una marcia) al quale partecipano i rappresentati, gli attivisti e semplici volontari di numerose associazioni ambientaliste. Il pellegrinaggio si è avviato in Svezia a inizio giugno, ha percorso la Danimarca, la Germania, l’Olanda e sta ora affrontando le ultime tappe in direzione di Glasgow, in Scozia, dove, dal 31 ottobre al 12 novembre si svolgerà la 26° conferenza sul clima (UN Climate Change Conference of the Parties, COP26 https://ukcop26.org) la cui presidenza è affidata quest’anno alla Gran Bretagna in partnership con l’Italia. Forse qualcuno potrebbe trovare fuori posto questa informazione. Proviamo a ragionarci un attimo: Victor Hugo scriveva nella seconda metà del XIX sec. (dedicando una riflessione mesta e non priva di polemica alla presenza umana nella natura (la situazione non è certo migliorata!). Solo pochi anni prima, nel 1860, i chimici riuniti nel Congresso di Karlsruhe accettavano in via definitiva la formula chimica dell’acqua (H2O), studiata in laboratorio dalla seconda metà del secolo precedente. A distanza di poco più di due secoli l’acqua rappresenta un problema enorme: distribuita in modo difforme tra chi apre un rubinetto e ne dispone a piacere e chi deve percorrere chilometri per farne rifornimento, minacciata dal riscaldamento globale, avvelenata dai residui dei prodotti che usiamo quotidianamente (plastica, ecc.) e dai veleni che vi vengono immessi dalle industrie, rappresenta una delle questioni più scottanti del nostro presente (alla quale si è cominciato a porre rimedio solo negli ultimi anni), in apparenza tormentato soltanto da questioni di ‘lana caprina’ (Orazio, Ep. I, 18, 15). Che si parta da uno o più libri, da una marcia o dall’annuale conferenza delle Nazioni Unite (https://ukcop26.org/wp-content/uploads/2021/07/COP26-Explained.pdf), ho come l’impressione che gli addetti ai lavori nel settore informazione ne dovrebbero parlare. E, perché no, anche in Italia.


     

  • UN CAPO LOGORO E UN AGO
    L'ARTE SECONDO CELIA PYM

    data: 09/08/2021 11:35

    Calzini o calzerotti. Più o meno sinonimi. Indispensabili. Appaiati ma con una forte tendenza a spaiarsi, sop rattutto se in tinta unita. Più facilmente ricombinabili se di colori accessi e con disegni diversi.Vengono in mente immagini quotidiane: la difficoltà di ri-combinarli quando tiriamo fuori il bucato dalla lavatrice. La busta dove riponiamo gli esemplari spaiati prima di decidere di disfarcene.
    Peraltro, sono immagini abituali ma ‘recenti’: la lavatrice, come gli altri elettrodomestici, è cominciata a entrare nelle case solo alla metà del secolo scorso. In quei decenni anche l’attività di lavare i panni, come tante altre attività proprie dell’ambito domestico, si è trasformata in modo radicale.
    Sembra banale, ma riflettere alla tempistica di attività che eseguiamo rapidamente, in modo pressoché automatico, è un modo per (ri)considerare la società e l’impatto delle nostre attività sull’ambiente.
    Nella quotidianità, infatti, sono azioni che facciamo senza pensarci.
    A meno che non capiti di trovarsi davanti a un’installazione artistica a base di calzini rattoppati, frutto di un lavoro paziente, dai tempi lunghi, recuperato da consuetudini desuete. Si tratta di un grande pannello su una parete della Wellcome Collection (183 Euston Rd, Londra), nell’ambito della mostra On Happiness. Tranquility and Joy, attualmente in corso e visitabile fino al 27 febbraio 2022.
    È quello che mi è capitato solo alcuni giorni fa nel corso della prima uscita dopo ormai oltre un anno e mezzo di distanziamento obbligato, che impediva o comunque sconsigliava spostamenti.
    Piano piano, si riprendono le ‘vecchie’ consuetudini londinesi con i nipotini: sfruttare, per quanto possibile, le possibilità offerte da una città come Londra nel periodo delle vacanze scolastiche oltre il quartiere con la sua biblioteca, i suoi parchi e le zone attrezzate per i giochi. Le uscite si programmano con attenzione: la prenotazione (i musei sono aperti ma, anche quelli a ingresso gratuito come la Wellcome Collection (una camminata da Saint Pancras), richiedono la prenotazione per regolamentare il flusso di persone negli ambienti espositivi), l’itinerario e i tempi per lo spostamento, l’equipaggiamento (acqua, frutta, qualcosa per ripararsi… quest’anno si prospetta un agosto decisamente piovoso, anche al di fuori degli standard londinesi).

    All’entrata, ci spiegano cosa è visitabile, le mostre temporanee, quelle permanenti (Being Human, Medecine Man), la biblioteca e la sala di lettura all’ultimo piano. È uno di quei luoghi dove si può entrare alle dieci di mattina, uscendo alle diciassette, dopo aver trascorso il tempo senza neppure rendersene conto, lontani dalla confusione dell’esterno, e, complici le mostre in atto, uno sguardo diverso su tante cose, compresi i calzini.

    L’installazione consiste in un grande pannello disposto su una delle pareti della seconda sala ed è frutto del lavoro artistico di Celia Pym (celiapym.com), che ha posto al centro del suo interesse i capi danneggiati, quelli stessi che oggi – solitamente – vengono scartati e gettati senza troppi rimpianti. Come i calzini.
    La sua doppia formazione – nel campo infermieristico e in quello del design dei tessuti – si coniuga nel lavoro artistico: partendo da indumenti scartati e usurati li sottopone a un paziente lavoro di rammendo. Gli strumenti della sua arte, oltre a indumenti di recupero, sono filo, ago e forbici.
    Esattamente gli strumenti di lavoro casalingo consueti ancora settanta/ottanta anni fa, quando la lavatrice stava cominciando a entrare nelle case, quando i calzini (ma non solo quelli) si rattoppavano attentamente, perché erano ancora i tempi in cui non si buttava niente.

    Ferma di fronte al pannello, ripercorro rapidamente alcune letture recenti dedicate alla tessitura, casuali, ma non troppo: i passi dell’Iliade e dell’Odissea in cui le donne – non solo Penelope! - sono al telaio (e come contraltare alla visione edulcorata del mondo femminile che emerge dai poemi, il recente romanzo di Pat Barker, Il silenzio delle ragazze, Einaudi), i capitoli iniziali di La trama del mondo. I tessuti che hanno fatto la storia (UTET 2019) in cui l’autrice, Kassia St Clair ha ricostruito la storia dei filati e di tessuti nel tempo e nel mondo, fino alle recenti sperimentazioni per utilizzare la tela del ragno.
    Nel saggio di Kassia St Clair ho trovato un’indicazione bibliografica che mi ha incuriosito, al punto da tentarne la lettura in inglese (non esiste a oggi traduzione italiana, colpevolmente, direi). Si tratta di Women's Work. The First 20,000 Years. Women, Cloth, and Society in Early Times (1996) di Elizabeth Wailand Barber, archeologa che nel corso della sua attività ha indagato in modo particolare i resti dei tessuti a partire dalla preistoria, ridefinendo la storia di un settore solitamente trascurato e ricostruendo, per questa via, una storia al femminile.

    Il tempo di sostare di fronte al pannello, anche tornando sui miei passi per riconsiderarlo, è stato sufficiente per riportarmi alla memoria questa carrellata di letture e per fissare nella mente l’idea dell’importanza del rammendo, del lavoro silenzioso, tranquillo, lento che si fa (faceva) con ago, filo (anzi tanti fili diversi e colorati) e per comprendere il senso di un’opera d’arte che abbina calzini consunti rammendati ad hoc all’idea di tranquillità e di lentezza. Tutte idee alle quali, a mio parere, si aggiunge una considerazione fondamentale sulla necessità di riesaminare l’idea di recupero, contrapposta a quella – sempre più pervasiva sull’ambiente – dell’usa e getta.

    Proseguendo nella visita, mentre siamo nella Sala di lettura, chiedo a mia figlia: ti ricordi la busta dove mettevamo i calzini scompagnati dei bambini?
    Ogni tanto, quando se ne accumulava un certo quantitativo, li passavamo in rassegna per abbinarli. Oggi quei bambini sono abbastanza cresciuti da sistemare da soli i calzini nei rispettivi cassetti. Chissà forse quella busta c’è ancora, da qualche parte. E settanta/ottanta anni fa, anche quella busta non sarebbe esistita. Al suo posto ci sarebbe stato un cesto (esattamente come ai tempi di Penelope e delle altre).

     

  • TRA LIBRO E STAGNO:
    AVVENTURE ESTIVE

    data: 08/07/2021 17:41

    Finite le scuole, le giornate si dilatano. Per bambini che vivono in paese, il mondo è circoscritto ma non ha limiti. Le scorribande in bicicletta sono all’ordine del giorno. Il punto di incontro, solitamente, è il campo sportivo. Poi, ci sono i vicoli da riscoprire ogni giorno, il campo giochi, le disavventure, il salvataggio di gattini, la scoperta di piccole cose inaspettate che diventano oggetto di curiosità e di indagine. E, naturalmente, le letture per le vacanze.
    Quando è arrivata dalla scuola la lunga lista dei libri tra cui scegliere, avevo già proposto alcuni titoli ai tre piccoli allievi che i genitori mi hanno affidato per guidarli nella lettura di testi adatti a integrare e completare la loro formazione. Tra la serie di titoli che abbiamo esaminato insieme, la scelta è caduta, senza troppe incertezze, su L’evoluzione di Calpurnia di Jacqueline Kelly.
    Il romanzo è stato pubblicato in lingua originale nel 2009 ed è stato tradotto e pubblicato in Italia nel 2011, dalla casa editrice Salani. L’autrice, come si ricava dall’aletta posteriore della copertina, è nata in Nuova Zelanda per poi trasferirsi con la famiglia prima in Canada e, successivamente, in Texas (USA) dove vive. L’evoluzione di Calpurnia è stato il suo primo romanzo. Ne sono seguiti altri, sempre dedicati alla stessa fascia di età.
    Ne ho acquistata una copia anni fa. Anche se può sembrare strano, mi piace leggere libri per bambini e adolescenti. E lo ritengo doveroso quando si deve consigliare loro titoli da leggere, in alternativa o in aggiunta ai libri scolastici. Il romanzo di J. Kelly risponde alle attuali esigenze delle letture estive. Pur essendo ambientato in un mondo lontano, tratta di questioni attinenti al programma di scienze. La vicenda dell’autrice ci permette di fissare sull’Atlante i luoghi dove ha vissuto. È vero, il programma scolastico di geografia non ha ancora affrontato i paesi extraeuropei ma ha affrontato il grande tema della globalizzazione. Inevitabilmente, ciò comporta che si debba avere chiara la mappa del mondo abitato per poter capire cos’è il ‘villaggio globale’.
    La narrazione è ambientata nel 1899, in Texas, in una grande famiglia di coltivatori (oggi si direbbe di imprenditori agricoli). Il prodotto principale del loro terreno sono le noci pecan (una varietà originaria dell’America settentrionale). Sicuramente un’ambientazione esotica dalla quale può nascere un confronto con la realtà in cui in protagonisti della lettura vivono (un paesino agricolo nel cuore dell’Appennino abruzzese). La protagonista della narrazione ha la loro stessa età nel 1899.
    E questa è l’informazione indispensabile per comprendere il testo. Rende necessario attivare un confronto critico con il presente. L’autrice, infatti, ha ricostruito nella narrazione le condizioni di vita di un’adolescente in una grande famiglia patriarcale nel contesto in cui vive (una piantagione di noci pecan, Texas, Usa). E Calpurnia, l’adolescente protagonista della narrazione, è curiosa. La sua vita trascorre tra casa e campi nel continuo tentativo di trovare una spiegazione a ciò che osserva. Libellule e cavallette, cavalli e cani, opossum e colibrì, tutto attrae la sua attenzione, tutto osserva in modo meticoloso, a tutto cerca una risposta. Naturalmente, da sola non riesce a trovare le risposte, rendendosi conto che ha bisogno di altro per capire. Quando si imbatte in un titolo – L’origine della specie (1859) – e in un nome – Charles Darwin (1809-1882) – capisce di essere sulla strada giusta: è questo il libro di cui ha bisogno. Con una stratagemma convince uno dei fratelli a portarla con sé in paese dove si dirige in biblioteca. La richiesta del libro in questione suscita, peraltro, sdegno nella bibliotecaria che si rifiuta di consegnarglielo. La questione per Calpurnia si fa ancora più interessante. Una cosa proibita deve essere per forza interessante!
    A partire da questo evento che le suggerisce un mondo di cose da scoprire e imparare, contrapposto alle lezioni di piano che la mamma le impone (perché una signorina deve suonare il piano), e alle materie scolastiche (che per una signorina prevedono, oltre a Lettura, Ortografia, Aritmetica e Calligrafia, anche Comportamento, Postura, Uso del Fazzoletto e del Ditale, che la rinchiudono in un mondo fatto di cose solo femminili, in casa, ad aiutare la mamma, ferma in posture adatte a una signorina), Calpurnia cerca di sottrarsi in ogni modo a un destino che la vorrebbe lontana dal mondo della natura, interessante e pieno di sorprese, per quello che ha potuto intuire nei suoi vagabondaggi solitari, sfuggendo al controllo dei genitori.
    Quando, un giorno, si imbatte nel nonno, silenzioso e burbero, rinchiuso nel suo laboratorio, per Calpurnia la situazione si fa improvvisamente appassionante. Il nonno scopre nella nipote un discepolo curioso, interessato e assolutamente disponibile a partecipare ai suoi esperimenti. È la persona giusta alla quale consegnare il libro di Darwin. Nessuno, in casa, oltre a questa nipotina curiosa, se ne è mai interessato (e la nipotina, guidata dal nonno, scopre che in casa esiste un’intera biblioteca!). È la persona giusta alla quale insegnare il procedimento scientifico a partire dal taccuino che Calpurnia, in modo maldestro, aveva iniziato a riempire con le sue prime osservazioni sulle cavallette. Poco importa a questo nonno - quasi sconosciuto fino a quel momento - che Calpurnia sia femmina. Il desiderio di Calpurnia è diventare naturalista, non seguire le regole dettate dalla mamma per farla diventare una signorina ubbidiente e composta. L’incontro nonno/nipotina segna una stagione di indagini naturalistiche, capitolo dopo capitolo. E ogni capitolo si apre con una citazione tratta da libro di quel signore inglese, Charles Darwin, morto solo sei anni prima della nascita di Calpurnia.
    A distanza di centoventidue anni da quell’incontro, frutto della vena narrativa di un’autrice nata in Nuova Zelanda, siamo qui, in queste giornate estive, a leggere le pagine del romanzo scoprendo, a ogni pagina, argomenti studiati sulle pagine dei libri scolastici ma mai verificati dal vero, spesso esclusivamente memorizzati solo per il tempo necessario a rispondere a una batteria di venti o trenta domande (magari con una crocetta sulla casella corrispondente alla risposta corretta) e, naturalmente, anche argomenti nuovi.
    Ogni tanto ci interrompiamo per analizzare una frase più attentamente, anche dal punto di vista grammaticale e logico (perché mai l’analisi grammaticale precede quella logica, in momenti rigidamente separati e in una pletora di pagine di esercizi dispersivi, senza mai una sintesi: “Cos’è e che funzione ha?”. Un mistero che, per quanto possibile, ho sempre superato negli anni di insegnamento, associando i due momenti) per rafforzare le basi fornite dalla scuola, piuttosto traballanti, a dire il vero. Anzi, ne approfitto per fare una ‘similitudine sottintesa’ tra le conoscenze linguistiche in loro possesso e un palazzo senza fondamenta, prontamente riconosciuta come una metafora (le pagine omeriche sono servite!).
    Non è facile procedere nella lettura. A ogni paragrafo, c’è un interrogativo nuovo (anche per alzata di mano: la forza delle all’abitudine!). Ogni interrogativo ne porta con sé altri. Arrivati al sesto capitolo, decidiamo di fare una sortita fino alla fonte, una sorgente di acqua non potabile utilizzata dagli agricoltori per l’irrigazione dei campi, situata ai piedi del paese. Tutti gli agricoltori del comune si recano a prelevare l’acqua con il trattore e il rimorchio sormontato da un grande contenitore per poi recarsi sui campi che hanno più bisogno di acqua, soprattutto in questo periodo di siccità estiva.
    Accanto all’imbocco per riempire i contenitori (la fonte vera e propria), c’è un lungo canale di acqua stagnante. È questa la nostra meta.
    L’acqua stagnante è stracolma della vegetazione tipica degli stagni, sul fondo e in superficie. Sul pelo dell’acqua decine, centinaia di insetti. Api e farfalle svolazzano da un punto a un altro, su una foglia, su un fiorellino, sulla superficie dell’acqua. Un incredibile brulicare di vita. Ma anche la staticità della morte. Sull’acqua, accanto insetti vitalissimi, galleggiano parecchie farfalle morte. È un terreno perfetto per esplorazioni e osservazioni. Scopro i miei lettori in erba, mentre affondano le mani nell’acqua limacciosa, riemergendone a un tratto con una vitalissima ranocchia (che saltella via per essere poi ricollocata delicatamente in acqua) (credo appartenente al genere Pelophylax). Mi confessano di aver prelevato girini dalla stessa acqua per tenerli sotto osservazione, in un apposito contenitore, fino alla loro completa trasformazione.
    Infine, li riaccompagno a casa, con qualche speranza che la relazione tra libro e vita reale li abbia convinti del fatto che libro e osservazione sono indispensabili e complementari perché per osservare e fare tesoro di quello che si osserva è indispensabile imparare “a vedere le cose con i propri occhi: come si formulano le Ipotesi, si progetta il proprio Esperimento, si verifica tramite l’Osservazione e si arriva a una Conclusione” (per citare il nonno di Calpurnia mentre le spiega il metodo sperimentale). E con la speranza che scuola e vita possano viaggiare nella stessa dimensione. E, infine, con la speranza che le discipline scolastiche vengano percepite non come contenitori stagni ma come vasi comunicanti.

     

     

     

     

  • QUANDO CIASCUNO TENEVA
    LA FRATTA PERSONALE

    data: 17/06/2021 19:55

    Questa storia ha avuto inizio in farmacia. È la storia di un libro. A prima vista, una farmacia non ha nulla a che fare con un libro ma una farmacia di paese è anche un punto di incontro e di scambio. Tutti ci vanno, più o meno regolarmente, e il farmacista non disdegna quattro chiacchiere per scambiare notizie e accadimenti locali. Niente di fondamentale, nella maggior parte di casi, se non quisquilie di interesse puramente paesano. Per gli avvenimenti importanti ci sono due canali: uno moderno – la chat del sindaco che ci tiene tutti costantemente informati (pandemia e notizie di interesse generale) -, l’altro ‘antico’: il suono delle campane che annuncia nascite (rarissime) e morti (decisamente più frequenti).

    Così, un giorno, qualche tempo fa, il farmacista mi ha accolto con fare radioso che preannunciava qualcosa di assolutamente speciale. Appena mi ha visto entrare, ha recuperato qualcosa da sotto il banco - un libro - e me lo ha porto come qualcosa di eccezionale. ‘Guardi, professoressa, guardi! Lo ha lasciato proprio per lei … - e cita l’autore - Giancaterino Gualtieri’.
    Mi è bastato un attimo per capire di cosa si trattasse e per realizzare che, contro ogni aspettativa, il sogno di una vita per l’autore si è materializzato.
    Il libro in questione ha un titolo ‘moltiplicato’: Calendario. L’anno agrario, civile e religioso. La vita quotidiana di ogni giorno ovvero ‘Quando ciascuno teneva la fratta personale’ (1). L’immagine di copertina parla da sola. Si tratta della riproduzione del calendario affrescato sulle pareti dell’Oratorio di San Pellegrino a Bominaco (AQ), risalente all’età carolingia, restaurato nel 1263 e salvatosi dalla distruzione del complesso abbaziale durante le lotte tra Angioini e Aragonesi. Gli affreschi risalgono al periodo del restauro e sono una preziosa testimonianza della diffusione, allora, della regola benedettina e, oggi, di un mondo ormai in estinzione. Per la verità, anche nel paese dell’autore, San Benedetto in Perillis, sullo stesso versante di Bominaco, qualche colle più a sud - quel tanto che basta per essere affacciato sulla Valle Peligna e avere un osservatorio privilegiato tanto sul Gran Sasso che sul versante della Majella - c’è un’abbazia benedettina, in cima al paese. Oggi non è visitabile, come altre zone del paese, a causa dei danni provocati dal sisma del 2009. Il paese peraltro è in posizione interna rispetto alla strada statale, decentrato e ‘disconnesso’. Nell’epoca del ‘villaggio globale’ è semplicemente un ‘villaggio’, con pochissimi abitanti, per la maggior parte anziani, una connessione internet praticamente inesistente, un bar e un negozio di alimentari immerso nell’oscurità, con le pareti tappezzate dalle scansie tipiche delle drogherie di una volta. Entrambi aprono per poche ore al giorno, in una logica precapitalistica.
    Di questo paese, l’autore del libro è stato sindaco. In questo paese, l’autore ha realizzato un Museo civico che gestisce, organizza, tiene pulito, apre per i visitatori, ai quali fa da guida con dovizia di informazioni e di particolari. Il Museo è la sua creatura. Il libro è, per certi aspetti, la versione cartacea del museo. Sono, indubbiamente complementari. Tuttavia, il libro, oggi che ha una veste editoriale, può essere complementare ad altri Musei della civiltà contadina o delle tradizioni popolari, sparsi nel territorio abruzzese e nelle altre regioni del centro - sud ma, con le dovute differenze, anche in direzione Nord.
    Non so con esattezza se è nata prima l’idea del museo o quella del libro. Ricordo che durante la prima visita al museo, recentemente trasferitami in zona dalla capitale, ho sentito parlare anche dello scritto proprio dal sindaco in veste di guida. Da sempre interessata alle tradizioni popolari, al mondo agricolo, ai temi dell’antropologia, pur provenendo da studi classici (affrontati da prospettive metodologiche e disciplinari non solo filologiche e, per molti aspetti, più produttive della filologia pura), ricordo di averne letto alcune parti in formato cartaceo, di averne ricevuta una copia digitale, di averne parlato più volte con l’autore. Qualche mese fa, durante una nostra conversazione, mi è venuta l’idea di fare un tentativo con una storica casa editrice di Firenze per avere un parere sul possibile interesse di un’eventuale pubblicazione, senza troppe speranze. Rimasi sorpresa nel ricevere, prontamente, la risposta del direttore che elogiava lo specimen, consigliando di sottoporlo a una casa editrice locale. L’autore, confortato da questo giudizio, ha cercato, e trovato, una soluzione in una piccola casa editrice di Campobasso (fuori regione, tecnicamente, dal 1963 ma, indubbiamente, locale), Regia Edizioni.
    Solo nel momento in cui l’ho avuto tra le mani, in farmacia, ho saputo dell’avvenuta pubblicazione. E solo grazie alla pubblicazione che ha coronato il sogno dell’autore e che, per quanto limitata, può garantire la diffusione del libro, posso parlarne.
    Certo, non è un romanzo. Non è un libro destinato al grande pubblico e, probabilmente, non è facile procurarselo. Ma vale la pena leggerlo, per tanti motivi. Perché è la testimonianza in presa diretta di un mondo destinato a scomparire, perché è raccontato con gli occhi dell’autore da bambino, da ragazzo, e, infine, da adulto. Ossia di una persona che, nata nella prima metà del 1900, ha vissuto sulla propria pelle tutte le difficoltà della vita in quei decenni (del tutto simili a quelle di centinaia di anni precedenti) e le trasformazioni dei decenni successivi, fino a oggi. Perché l’autore/testimone ha vissuto queste trasformazioni rendendosi conto che proprio le trasformazioni, pur adeguando lo stile di vita agli standard attuali (l’acqua corrente, il riscaldamento, la luce, i trasporti, ecc.), tagliavano fuori il suo paese dal mondo, in modo definitivo, riducendolo nei fatti a un museo a cielo aperto (fatto di anziani, pochissimi giovani, qualche sparuto bambino). Perché è una testimonianza in presa diretta delle stagioni, dei lavori agricoli stagionali, dei lavori manuali ‘specializzati’ (la tessitura, ad esempio), delle difficoltà della vita quotidiana, della suddivisione dei ruoli, della logica dell’autosufficienza, dell’autoproduzione e dell’economia di scambio, dell’accantonamento delle risorse da una stagione all’altra, di un mondo ‘senza’ (2), e naturalmente, del contrario di ciascuna di queste voci (dall’abbandono delle campagne all’agricoltura industrializzata; dalla dispensa al supermercato, dalle stagioni al riscaldamento climatico).
    Alla luce degli attuali rischi ambientali, dell’emergenza pandemica, dell’omologazione culturale, è un libro importante che merita di essere letto ovunque – insieme ad altri, provenienti da altre realtà locali –, quasi un prontuario per capire cosa ci siamo lasciati alle spalle. Non certo per recuperarlo, ma per acquisire la consapevolezza che, forse, non tutto andava scartato e, soprattutto, non tanto e non troppo velocemente, pena il ritrovarsi con problemi ben più grandi e su scala mondiale da affrontare (3).
    Non ho avuto modo di incontrare l’autore dal giorno in cui ho avuto tra le mani la copia, con dedica, del libro. Gli ho però scritto una mail. A conferma della scarsa connessione che caratterizza le zone interne della penisola, ossia tutte quelle che superano il limite della collina per addentrarsi in zone montagnose, ho ricevuto solo qualche giorno fa la risposta. Mi piace riportarne qui uno stralcio dal quale si ricava la genuinità dell’approccio al tema trattato, della scrittura e delle motivazioni di fondo dello scritto:
    “E' grazie a voi se questo libro è stato pubblicato. Spero vi piaccia la grafica di copertina. Vi prego di scusarmi per gli errori di grammatica e di sintassi e per il limitatissimo uso del congiuntivo (nel dialetto di S. Benedetto, che è la mia prima lingua, il congiuntivo, il condizionale e persino il futuro praticamente non sono usati) e per gli errori di battitura (me ne stanno indicando parecchi, "quando" per "quanto", varie "a" che mancano. etc.). Ho dovuto correggermelo da solo il libro. Il problema è che io ho creduto di rileggerlo con gli occhi e pure attentamente, invece il cervello l'ha riletto come lo aveva scritto e quindi gli errori sono passati indenni”.
    Inutile dire che, se lo avessi saputo, avrei corretto volentieri le bozze (è una delle cose più complicate da fare quando si scrive per pubblicare. Ricordo ancora come un incubo quando, ancora negli anni novanta, le bozze arrivavano con il corriere e dovevano essere rispedite, sempre via corriere, nel giro di un paio di giorni per non fare saltare la tempistica in casa editrice!). A conti fatti, sono contenta che non me lo abbia chiesto e che, di conseguenza, non abbia avuto modo di correggerle. Non certo perché mi sarei tirata indietro rispetto alla richiesta, ma perché avrei rischiato di correggere troppo, intervenendo in modo improprio - in direzione di una omologazione innaturale - sulla genuinità complessiva del testo che non è scritto in dialetto ma risente di tutte le ‘imprecisioni’ e le inflessioni di chi parla la lingua italiana come seconda lingua. Perché la prima lingua dell’autore è il dialetto (in una regione dove il dialetto è diverso da paese e paese, anche se si trovano a due chilometri di distanza).

    NOTE+
    1. Il titolo di questo articolo può apparire oscuro. In realtà è il sottotitolo del libro, che l’autore spiega nella prefazione: “Mi è venuto in mente una sera in cui, insieme alle mie sorelle, si raccontava di come vivevamo in paese quando eravamo ragazzi, anzi studenti delle scuole superiori all’Aquila e studenti universitari, almeno io. Ed io osservavo le mie nipoti che facevano fatica a credere a quello che dicevamo e ogni tanto facevano finta di crederci per farci contenti, ridacchiandoci un po’ sopra come a dire: ma che diavolo stanno a raccontare, le stanno sparando grosse enfatizzando ed esagerando i ricordi da ragazzi. Ma quando abbiamo cominciato a parlare del fatto che nelle case l’acqua verso gli anni sessanta è arrivata ma che nessuna casa o quasi aveva il bagno, s’intende solo un cesso con almeno una tazza e un lavandino (e casa nostra non l’aveva, aveva il “necessario” ossia una tavola forata dentro una nicchia nel muro della camera di mamma, che scaricava la cacca dentro il pollaio) e che per i bisogni corporali bisognava ricorrere alle fratte nella buona stagione e alle stalle d’inverno, le ho viste sbiancare, perché si sono rese conto che stavamo parlando di cose serie, di vita vissuta e si vedeva che non riuscivano a capacitarsi, loro nate e vissute nel mondo moderno, che non sapessimo cosa fosse una doccia, cosa fosse il bidet, cosa fosse la privacy (come si dice oggi) et cetera et cetera et cetera”.
    2. Ho preso in prestito questa espressione dalla recensione che ho dedicato a un altro libro sul viaggio in zone del territorio abruzzese senza connessione e oggi completamente spopolate: Ezio Colanzi, Dove tornano le nuvole bianche, UAO edizioni, 2015), pubblicata il 12/11/2020 con il titolo Un mondo "senza" un mondo da ritrovare.
    3. La lettura di Calendario. L’anno agrario, civile e religioso. La vita quotidiana di ogni giorno, potrebbe essere abbinata a letture più impegnative, presentate peraltro in forma comprensibilissima. Con ogni probabilità, l’una contribuirebbe a spiegare le altre, chiarendo dal basso, in modo lampante, questioni attinenti al presente e a un futuro ormai prossimo. Penso, in particolare, a D. Meadows, D. Meadows, J. Randers, Oltre i limiti dello sviluppo, Il Saggiatore 1993 (la riproposta aggiornata del primo rapporto al Club di Roma, uscito nel 1972 con il titolo I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell'umanità, Mondadori 1972) e al recente J. Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant'anni. Rapporto al Club di Roma, Edizioni Ambiente 2013. La lettura combinata di testi così distanti (l’uno frutto di una vita a San Benedetto in Perillis, AQ, l’altro di studi specialistici nell’ambito del MIT, Boston, USA) e diversi (un calendario della vita e dei lavori durante un anno tra fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, da una parte, e il rapporto della ricerca commissionata nel 1968 dal Club di Roma diretto da Aurelio Peccei, dall’altra) rende immediatamente evidente come la situazione attuale e le preoccupazioni per il futuro non siano il risultato imprevedibile degli effetti della crescita ma il risultato della miopia con cui il potere economico e politico ha guardato all’ambiente e all’umanità, diffondendo l’illusione di una distribuzione equilibrata e di una naturale capacità della natura di rigenerarsi, della quale è difficile prendere coscienza e, soprattutto, agli effetti della quale è difficile porre argini.
     

  • LA GLOBALIZZAZIONE
    E LA METAFORA
    DEL MOSCERINO

    data: 11/06/2021 20:12

    Cos’è la globalizzazione? Quanti adulti troverebbero difficoltà a rispondere, al di fuori di una fascia di popolazione colta, informata, ‘connessa’ e, anche se l’aggettivo è desueto, mediamente ‘impegnata’ Ora, immaginiamo che sia chiamato a rispondere un bambino (11 anni, primo anno della scuola secondaria di primo grado) e che la domanda non sia posta in questa forma ma sia collocata all’interno di una batteria di domande sulla stessa questione, come verifica allo studio di una decina di pagine del libro di Geografia, assegnate come compito.
    Immaginiamo che a supporto di questa decina di pagine sia stata assegnata la visione di un video di pochi minuti, tratto dalla piattaforma hubscuola (Mondadori Education / Rizzoli Education), dove si trova materiale preconfezionato di ogni tipo e su ogni argomento, ivi compreso il questionario per la verifica.
    Immaginiamo che la decina di pagine in questione - corredate di materiale figurativo, di un profluvio di ‘occhielli’ a corredo con la definizione dei termini ritenuti determinanti, di spiegazioni ridotte all’osso, tendenzialmente assertive - siano proposte senza alcuna mediazione, se non l’invito a fare ulteriori ricerche in rete.
    Se un genitore, uno zio, un fratello maggiore (che, con ogni probabilità, ha seguito lo stesso metodo di ‘insegnamento’), o, come nel mio caso, una nonna ‘adottata’ per l’occasione si trova in questa situazione, cosa fa?
    Chiunque si sia trovato in una situazione analoga, sicuramente si è ingegnato in qualche modo, con i mezzi a propria disposizione. Nella maggior parte dei casi, la soluzione sarà quella di seguire pedissequamente il video, tornando indietro se è sfuggita la ‘risposta’ alla specifica domanda, e trascrivendo nella riga predefinita la risposta proposta nel video.
    Ora, questo non significa ‘insegnare’ e non significa ‘spiegare’, da un lato. Dall’altro, non significa ‘studiare’ né, tantomeno, ‘comprendere’ e ‘mettere a confronto opinioni’.
    Significa, questo sì, fattivamente e pervicacemente, contribuire al degrado culturale che si sta diffondendo e che interessa ormai anche fasce ben più adulte degli undicenni cui queste pratiche, ormai diffusissime, sono rivolte, inducendo la monocultura di massa e portando avanti un progetto non troppo datato né nascosto.
    Dunque, trovatami in questa situazione, ben consapevole del poco tempo a disposizione, dell’enormità della questione geopolitica, culturale, economica, ecc., assegnata come compito all’undicenne fiducioso nel mio aiuto (e ai suoi compagni), mi attrezzo – come ho sempre fatto durante quarant’anni di insegnamento – chiarendo prima di tutto a me stessa come impostare la questione, individuando i principali concetti da spiegare, cercando di selezionarli e adattarli alle esigenze e alla comprensione di un undicenne. Mi sono inoltre assicurata di avere a disposizione un vero atlante (le cartine che si trovano sul libro, sono molto ridotte e mancano, di fatto, di un’adeguata guida alla comprensione), cercando il modo di spiegare quanto richiesto a partire dalla realtà circostante, ossia quella che lo studente conosce direttamente. Infine, ho affrontato la vera e propria spiegazione di questo coacervo di concetti e temi.
    Non è certo questa la sede per proporre la spiegazione così come l’ho organizzata per il mio interlocutore (non fosse altro perché sarebbe la mia visione, per quanto documentata), dalla definizione del termine all’esemplificazione dei suoi effetti nella realtà sociopolitica attuale nelle comunicazioni e nei trasporti, nell’agricoltura, nell’industria, nella distribuzione della ricchezza, nel campo dei diritti sociali e politici, sull’ambiente, ecc., fino all’idea di ‘villaggio globale’. Tutto ciò sapendo che lo studente deve essere in grado di rispondere alle domande del questionario (che, in realtà, si limita a richiedere risposte desunte strettamente dal video messo a disposizione sull’apposita piattaforma, entrata in vigore nel periodo della didattica a distanza e, curiosamente, rimasta in vigore quando i bambini sono tornati in classe anche per attività assegnate per casa) da inserire meccanicamente nello spazio predisposto, e sapendo anche che, oltre al questionario, sono previste due gruppi di tre domande libere, ossia risultato della comprensione e della capacità di mettere a frutto le nozioni ricavate dal video.

    Il primo gruppo, fornito a scuola, è il seguente:
    1. Spiega cosa si intende per globalizzazione, scrivendo un breve testo in cui si spiega cosa ha comportato il fenomeno a livello economico, sociale e culturale (puoi basarti sul video assegnato su classroom)
    2. Indica quali sono i vantaggi di vivere in campagna e quali quelli di vivere in città e dove sceglieresti tu di vivere, dando almeno 5 motivazioni
    3. Indica quali conseguenze ambientali comporta la moderna tecnologia e come, secondo te, è risolvibile il problema

    (questioni centrali, senza dubbio, ma di una tale ampiezza che non basterebbe un saggio per rispondere).

    Il secondo gruppo è invece posto a complemento della trattazione sul libro di testo:
    1. Che cosa fai quotidianamente per ridurre il riscaldamento globale?
    2. Ti è mai capitato di salire su un’autovettura elettrica? E su un veicolo di car sharing?
    3. Pensi che iniziative come
    M’illumino di meno siano utili oppure ritieni che l’unica via per cambiare le cose sia attendere l’intervento “dall’alto” dell’UE, dell’ONU e dei governi?

    Ho fatto da guida allo studente nel rispondere a entrambi i gruppi, prima in forma orale (per capire quanto e se avesse capito le questioni). Relativamente al secondo gruppo, l’ho fatto riflettere sulle sue abitudini quotidiane, ho spiegato cosa si intende per car sharing e che M’illumino di meno è l’iniziativa di una trasmissione radiofonica (Caterpillar, Rai Radio 2). Di entrambe non aveva la benché minima idea, come è normale per un ragazzino di questa età. Proprio per questo e a maggior ragione un libro deve prevedere schede apposite che spieghino le questioni proposte nelle domande o un insegnante in grado di integrare le informazioni durante la spiegazione. Naturalmente, ha risposto senza incertezze alla domanda sull’autovettura elettrica, confermando che a undici anni motori e calcio, per i maschi, sono un binomio vincente.

    Nel giro di due o tre pomeriggi, abbiamo cercato di venire a capo dell’intera questione. Non è stato facile ma, partendo dal mondo circostante – un paese medievale, arroccato su un colle, il pollaio del nonno, gli attrezzi agricoli parcheggiati nei pressi di casa, le quotidiane difficoltà di ‘connessione’, a dispetto del ‘villaggio globale’ - abbiamo costruito insieme un ragionamento adeguato per rispondere alle domande. Procedendo nel lavoro, abbiamo sempre tenuto presente il contesto, dal particolare (il mondo vicino) al generale (il ‘globo’) che lo studente in questione conosce, a oggi, in modo molto, molto marginale (il tragitto per andare dal paese a un quartiere della periferia romana, dove abita la nonna, e la costa pescarese, per qualche giorno di mare).
    Quando, a un certo punto, ci siamo imbattuti, tra il materiale che avevamo a disposizione, in un elenco di effetti negativi conseguenti alla rivoluzione tecnologica e telematica che, nella realtà e in modo sempre più evidente, sta introducendo altre forme di disparità tra la popolazione mondiale, ci siamo soffermati sull’importanza dello studio. Proprio quest’ultimo rappresenta una garanzia per godere dei benefici del ‘villaggio globale’ dal quale rimane comunque escluso chi non ha accesso alla connessione, chi non riesce a mantenersi al passo con l’evoluzione tecnologica o, molto banalmente, chi non può permettersi strumenti tecnologici di ultima generazione.
    L’ho fatto riflettere sul suo futuro nel mondo, dalla sua prospettiva, con alcuni esempi in forma di domanda: “Che possibilità hai di affermarti, di avere un lavoro adeguato, rispetto magari a tuoi coetanei che vivono in una grande città con tante possibilità di studiare, con una grande varietà di strumenti a disposizione ecc.? È vero, il mondo è diventato, per certi aspetti, un villaggio globale ma l’idea che, solo per il fatto di essere connessi, tutti abbiano accesso alle stesse condizioni è nei fatti una falsa utopia. Quindi ti conviene porti da oggi un interrogativo: se non studio, se non cerco di affermarmi con le mie conoscenze, quanto conterò nel ‘villaggio globale’?”.
    A questo punto, mi è venuto spontaneo usare una metafora. Gli ho detto: attenzione, senza raggiungere un buon livello di studio, sarai e rimarrai, sempre, un moscerino. Che figura retorica ho usato? “Una metafora”, risponde prontamente. E che succede a un moscerino? E lui: “il primo che passa, pum! (e da un colpo sul tavolo), lo schiaccia”. “Ecco! – riprendo - questo è il tuo compito, a scuola e nella vita. Non farti schiacciare”. E, da quel giorno, la metafora del moscerino è diventata il leit motiv dei nostri incontri dedicati al metodo di studio, alla lettura e alla scrittura.
    E nel prepararli (scelta dei passi e dei libri da leggere, preparazione di esercitazioni per lo studio della lingua, della comprensione del testo, di scrittura), esercito la profonda convinzione - maturata gradualmente, dalle prime supplenze nella periferia romana – che il lavoro principe del docente è quello di adattare i contenuti al contesto, di privilegiare la spiegazione sulla lettura, di non dare mai nulla per scontato. Se non adotta queste strategie, l’insegnate rischia, quotidianamente, di parlare ai banchi, tra bambini, adolescenti, giovani - ormai quasi adulti - assorti, completamente e comprensibilmente, nel proprio mondo, assonnati o, in ogni caso, completamente disconnessi proprio perché connessi.
    Mi è venuta in mente, a questo proposito, una frase di San Tommaso - quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur, “ogni cosa è ricevuta secondo il modo di ricevere del ricevente” – che Alberto Cadioli considera precorritrice della ‘teoria della ricezione’ con la quale, in campo letterario, si esprime il punto di arrivo di un messaggio affidato da un emittente (autore) ad un testo (romanzo, in particolare) per essere consegnato al ricevente (lettore). Egli afferma infatti, che: “Adattando l’espressione … al contesto che qui interessa, valorizzandone dunque tutta la modernità, si potrebbe dire che la ricezione di un testo letterario – e, attraverso di essa, la sua interpretazione – dipende in prima istanza dalle possibilità, dalla capacità, dalle condizioni di chi lo riceve; e, naturalmente, dalle sue intenzioni” (Alberto Cadioli, La ricezione, Laterza (1998) 2015).
    Con un ulteriore adattamento, applicando l’espressione ai testi scolastici, si verifica con immediatezza una questione a tutt’oggi irrisolta, in assenza di un canale specifico per la formazione degli insegnanti. L’autore del libro di testo, infatti, dovrebbe conoscere ‘le possibilità, la capacità, le condizioni di chi lo riceve’. Non solo, l’autore del libro di testo dovrebbe essere consapevole di avere un doppio pubblico (e, dunque, una doppia ‘ricezione’, quella del destinatario finale – l’alunno – e, prima di lui, il destinatario principale, ossia l’insegnante al quale è affidato il compito di scegliere il libro per l’alunno virtuale che troverà in classe (e che non conosce ancora). Di fatto, il docente è il primo ‘recipiente’ del testo e il testo sarà la palestra su cui dovrà basare la proposta dell’argomento – qualsiasi argomento, anche quelli che non siano stati oggetto del sua specifica formazione universitaria -.
    Nella confezione di molto materiale destinato alla scuola (cartaceo e non), peraltro, si danno per scontate o, meglio, non si tengono in considerazione, troppo spesso, proprio ‘le possibilità, le capacità, le condizioni di chi lo riceve’, vanificando l’azione educativa, scavalcata nei fatti dall’obiettivo di acquisire le ‘competenze’ richieste dagli attuali curricula scolastici. Sempre più, in modo generalizzato, a prescindere dalle conoscenze. Perché la parola d’ordine, nella scuola di oggi, è ‘competenza’. E le ‘competenze’ si verificano tramite la compilazione di questionari, di esercizi predisposti da completare, con risposte a scelta multipla, ecc., a seguito della lettura o dell’ascolto di un testo, su pagine, pagine e pagine di libri di testo in cui è arduo trovare la spiegazione chiara e concisa di qualsiasi parte del discorso (nel libro di Grammatica), di un fenomeno complesso come la globalizzazione (in quello di Geografia), di un periodo storico (in quello di Storia), accompagnata magari da letture di approfondimento adatte.
    La frammentazione regna incontrastata, la dispersione è la regola, i video con immagini che scorrono rapidamente e una sorta di didascalia parlata che punta esclusivamente sulla memorizzazione senza lasciare spazio al ragionamento, diventano sostitutivi della funzione docente. Non meraviglia, in queste condizioni, il dilagante abbassamento del livello culturale in tutti i campi, denunciato da più parti. Quel che meraviglia è che tra gli addetti ai lavori (commentatori, giornalisti, opinionisti, critici, ministri, ecc.) manchi la capacità di risalire ai nodi cruciali di una situazione che contribuirà notevolmente, in negativo, al futuro del paese.
     

  • MANIE PROFESSIONALI:
    E GLI ERRORI DI SINTASSI
    NON TI SFUGGONO MAI...

    data: 18/05/2021 19:41

    Sono ormai definitivamente convinta che l’avere acquisito alcune modalità proprie della professione, nel corso di una vita di lavoro, le rende indelebili. Da questo dipende, con assoluta certezza, la tendenza a cogliere gli errori nella costruzione dei periodi. E, di conseguenza, la capacità di distinguere un anacoluto (ossia una costruzione sintattica volutamente spezzata all’interno di un periodo) in un testo letterario da un errore di costruzione sintattica in un testo informativo.
    Ne discende una modalità di lettura che aggiunge alla comprensione di quanto vado leggendo anche la sottolineatura (ideale, nella maggior parte dei casi) degli ‘errori’. Mi manca, da quando non ho più una classe alla quale rivolgermi, la seconda fase della correzione: quella che prevede la spiegazione degli errori, individuale o collettiva, al/ai soggetto/i che li ha/hanno commessi.
    Ne deriva un’inevitabile frustrazione che, peraltro, risolvo ogni volta che è possibile con gli ‘sventurati’, piccoli o grandi, che mi capitano a tiro e hanno magari la malaugurata idea di chiedermi aiuto. Perché in quell’esatto momento, scatta la mania professionale e comincio a spiegare e, se possibile, risolvere l’errore.
    Chiaramente, rischio a ogni piè sospinto di essere considerata una terribile rompiscatole. Anche dai nipotini, ai quali mi sforzo di insegnare l’italiano in modo corretto (questi ultimi peraltro si vendicano immediatamente, correggendo i miei incerti tentativi di parlare in inglese).
    La capacità di realizzare una condizione paritaria, tra docente e discente, è, per mia convinzione, indispensabile per comprendere e procedere nell’apprendimento. E sulla base di questa convinzione ho ritenuto da sempre fondamentale la spiegazione, completa di un ampio ventaglio di esempi adatti alle diverse circostanze e alla situazione del singolo discente.
    Ciò detto, e stabilito che non mi sono mai tirata indietro rispetto a questo ruolo, nella convinzione che costruire correttamente la frase è un supporto indispensabile e imprescindibile per mettere in forma scritta il proprio pensiero, per comunicare correttamente e per usare lo strumento della scrittura in tutte le circostanze della vita in modo appropriato, continuo a ‘esercitare’ questa mania ogni volta che me ne capita l’occasione.
    In mancanza di elaborati da correggere, la esercito su ciò che leggo, verificando a ogni piè sospinto una generale riduzione delle capacità di scrittura, la ricorrente presenza di errori nella costruzione del periodo (dall’uso dei modi verbali alla scelta dei legami sintattici) spesso mescolata a un’incontrollata tendenza a mistificare l’informazione con titoli ad effetto che – sovente – neppure corrispondono fattivamente alla notizia oggetto dell’articolo stesso.
    Credo che un esempio sia assolutamente indispensabile, per capire la situazione. Per farlo parto da un breve articolo di cronaca tratto dal quotidiano la Repubblica, pubblicato il 7 maggio scorso, senza il nome dell’autore (peraltro quasi identico all’analogo articolo apparso sul Corriere della Sera). Il titolo - “Spazio, razzo cinese in caduta: 10 regioni italiane del Centro-Sud in all’erta” – mi incuriosisce quel tanto che basta per leggerlo rapidamente, per decidere che se mi fossi preoccupata sarebbe equivalso a preoccuparsi del fatto che nella vita esiste anche il ‘caso’ (contro il quale nulla si può fare), per riflettere al fatto che nell’arco di tempo previsto, sarei stata sicuramente in casa e, dunque, al riparo. Cioè, mi sarei trovata esattamente nelle condizioni indicate come raccomandabili dalla Protezione civile. Abbastanza per passare rapidamente ad altro. Senonché la fase conclusiva dell’articolo, ha attirato la mia attenzione. La riporto:

    “Si consiglia, in linea generale, che chiunque avvistasse un frammento, di non toccarlo, mantenendosi a una distanza di almeno 20 metri, e dovrà segnalarlo immediatamente alle autorità competenti”. Ho cercato di capire, l’ho analizzata, ho individuato le disconnessioni della struttura sintattica, non senza domandarmi chi mai avesse potuto scrivere, nella redazione di un grande quotidiano, un periodo tanto inconcludente.

    L’ho riformulata in forma corretta: “Si consiglia a chiunque avvistasse un frammento di non toccarlo, mantenendosi a una distanza di almeno 20 metri, e di segnalarlo immediatamente alle autorità competenti”.

    Poi, anche sulla scorta del titolo, che mi era sembrato a dir poco allarmistico, ho pensato di risalire alla fonte. Ho cercato la notizia nel sito della Protezione civile e ho trovato il comunicato stampa. Ho copiato e inserito entrambi i testi a confronto in una tabella per verificare in che modo chi ha trasformato il comunicato stampa in articolo di cronaca ha proceduto (a cominciare dal rendere più efficace il titolo in termini allarmistici), smontando e rimontando i vari spezzoni del comunicato, senza nessuna variazione di rilievo. Mi sono sentita tornare indietro nel tempo, quando gli alunni contestavano, con una pletora di scuse più o meno incredibili, l’accusa di copiatura (sistematicamente riscontrata e controllata).

    In particolare, nel passaggio da comunicato stampa ad articolo, non è intervenuta alcuna modificazione nel periodo preso in esame. Ne deduco due cose di una gravità estrema. La prima è che l’addetto che ha scritto il comunicato stampa della Protezione civile ha gravi problemi nella costruzione sintattica dei periodi. La seconda è che chiunque abbia ricavato dal quel comunicato stampa un articolo, non se ne è minimamente accorto. Ecco, ho come la sensazione che siamo in una situazione difficile. Se i professionisti della scrittura commettono errori di questo tipo credo sia giusto porsi una domanda: “E se ricominciassimo a insegnare la sintassi, spiegando, guidando alla pratica della scrittura, verificando e correggendo gli errori?”.

    Post Scriptum
    I resti del razzo cinese Lunga Marcia 5B in caduta libera sono infine ‘approdati’ nell’Oceano indiano, senza nessun pericolo per cose e persone. Trovo notizie più circostanziate – e sicuramente meritevoli di attenzione - in un articolo pubblicato sul sito dell’Ansa il 9 maggio, nella sezione Scienza e tecnica https://www.ansa.it -, peraltro non esente da pecche linguistiche, in questo caso relative all’uso dei tempi. L’articolo inizia infatti con i tempi al passato, dando la cosa per avvenuta, e continua al presente come se dovesse ancora avvenire. Direi che si potrebbe trattare di una ‘copiatura interna’ di due articoli, giustapposti senza nessun intervento di sistemazione.

     

     

  • DISCORSO "POLITICO"
    INTORNO A UN SEMPLICE
    PRATO DI RANUNCOLI

    data: 09/05/2021 19:37

    Dopo un periodo di pensieri conditi da disagio e disillusione, ieri mi sono decisa a scrivere per il mio blog – Racconti artigiani - un breve testo dedicato a un prato di ranuncoli. Ben poca cosa, penserà chi legge.
    In realtà, penso che si tratti di un argomento importante e per certi aspetti decisivo. Anzi, penso che valga la pensa parlarne proprio perché la percezione di questa sua decisiva importanza è minima, se non nulla. Nello scriverlo ho raccontato l’osservazione di un prato che mi appare, per la prima volta, ricco di una fioritura eccezionale, sicuramente determinata dalla situazione ambientale in corso.
    Lo riporto di seguito, non per la descrizione in sé, che pure può giovare a richiamare l’attenzione sulla natura che stiamo bistrattando in tutti i modi possibili, quanto per il finale, nato spontaneamente e divenuto il filo conduttore dei miei pensieri:
    “In questa seconda primavera anomala, capita di scoprire strani effetti collaterali nell’ambiente.
    L’anomalia è dovuta alla pandemia ancora in atto e al clima mutevole.
    Gli effetti collaterali (sulla vegetazione e sul paesaggio) sono il risultato dell’anomalia.
    Le persone hanno circolato e circolano di meno e hanno usato e usano di meno la macchina.
    In cielo sono passati meno aerei (si è percepito chiaramente anche in una zona il cui lo spazio aereo non è molto affollato).
    Perfino in una zona poco popolata, naturalmente ‘distanziata’ e normalmente protetta, gli effetti si notano.
    Anche nel nostro giardino disordinato, volutamente ricco di ‘erbacce’ spontanee, è evidente la fioritura straordinaria di tarassaco (taraxacum officinale), calendula (calendula arvensis), stella di Betlemme (ornithogalum umbellatum), tra le altre.
    Anche in una zona più appartata – una sorta di ‘dependance’ - la novità è evidente.
    Si tratta di un prato posto ai piedi di una scarpata boscosa, situata ai margini del borgo e cosparsa da una fitta trama di aceri minori - acer monspessulanum - e di olmi - ulmus campestris -, tra i quali si insinua, ormai immancabile ovunque, l’ailanto - ailanthus altissima - di lontana provenienza orientale, caratterizzato dalla crescita veloce che tanto piacque ai colonizzatori inglesi al punto da introdurlo nella loro isola e, da lì, nel mondo.
    In questo angolo, dove gli anni passati si vedeva, tra le altre erbe, qualche sparuto capolino giallo di botton d’oro (trollius europaeus, dall’antico tedesco troll, globo, per la caratteristica forma a palloncino del fiore prima di schiudersi), qualche giorno fa abbiamo scoperto un prato verde completamente disseminato di caratteristici bottoncini gialli, proprio nella zona più umida e riparata. Ogni fiorellino a uno stadio diverso: ancora in boccio, semiaperto, completamente in fiore o già sfiorito.
    Tutte le fasi della fioritura sono ampiamente rappresentate, illuminando con il loro giallo acceso il prato e il pomeriggio. Sono diventati una vera e propria colonia, come era consuetudine prima che divenisse una pianta a rischio, al punto da essere rientrata in molte regioni nel numero delle piante protette.
    I ranuncoli, generalmente noti con il nome di botton d’oro (trollblume, globeflowers, boule d’or, ecc.) sono una pianta velenosa in tutte le sue parti. Gli animali erbivori se ne tengono a debita distanza.
    Mentre li passo in rassegna, scopro il secondo effetto collaterale. Un incredibile affollamento di insetti diversi, piccoli, medi e grandi. Sono tutti acquattati, accovacciati, rintanati nelle corolle dei fiori, molti completamente ricoperti di polline. Alcuni sono così grandi che sono ospitati a stento all’interno della corolla che rimane ‘impassibile’ e ben dritta nonostante il peso.

    Non sono in grado di riconoscerli e di dare loro un nome – mi dispiace e invidio un po’ chi sa farlo – ma riconosco ditteri (mosche e affini), imenotteri (api) e coleotteri (tutti considerati impollinatori del botton d’oro). Per la verità, intravedo anche quello che mi sembra un ragnetto (araneae).
    Non rinuncio a immortalarne alcuni, camminando delicatamente tra l’erba alta, evitando di calpestare i fiori e accostandomi quel tanto che basta per non disturbarli.
    Il prato è un vero e proprio condominio di insetti, ospitati dalle corolle dei fiori, in questo pomeriggio di inizio maggio, lontano dal ‘mondo’, dal rumore, dalle polemiche e dalle chiacchiere inutili dei soliti noti che non perdono occasione per farsi pubblicità e dei tanti che contribuiscono a dargliene, facendo rimbalzare le ‘non notizie’, riempiendo pagine e pagine, confezionando materiale per discussioni inutili ai tanti che non riescono a guardare oltre uno schermo, quale che sia”.
    Mi preme qui portare l’attenzione sull’immagine del ‘condominio di insetti’ (sui quali mi è già capitato di soffermarmi, cfr. Gli insetti gregari e i tre requisiti dell'insegnamento). Un prato e centinaia di fiori a disposizione, decine di insetti differenti, con abitudini e stili di vita diversi in un habitat comune. Ognuno si è scelto un fiore.
    C’è, almeno in questa situazione, spazio per tutti. I fiori ne sorreggono il peso, anche di quelli più ingombranti.
    Per quanto piccoli, a volte fastidiosi e, per i più, misteriosi, tutti sono fondamentali per l’ambiente e per noi. Anche se non lo sappiamo, anche se li sterminiamo quotidianamente con insetticidi che li uccidono, danneggiando l’ambiente in cui dobbiamo vivere. Perché ci pensiamo superiori. Difficilmente ci soffermiamo a osservare un prato o anche una sola zolla.
    Se capita e un insetto si avvicina, lo scacciamo o, con gesto repentino, lo schiacciamo. E ci concentriamo nuovamente sul mondo che ci siamo costruiti, sulle non notizie, sulle esternazioni, sulla propaganda, sull’ultimo tweet o sull’ultimo post del personaggio o del politico tale o talaltro. E su questo tweet o su questo post si può continuare a scrivere e discutere per giorni e giorni, accatastando tweet e post che, replicandosi, trasmettono il nulla, facendolo diventare realtà. Senza peraltro che il personaggio o il politico in questione – quale che sia – né tantomeno tutti quelli al contorno che ne riprendono, propagandole, le parole, garantendogli visibilità e successo, sappiano realmente di cosa parlano e le conseguenze di questo replicarsi di chiacchiere.
    Tutte ‘questioni politiche’, nel senso originario del termine. Appartengono infatti alla comunità (virtuale). Ma la comunità virtuale ha perso l’abitudine a confrontarsi con la comunità reale, con la vita di tutti i giorni, le sue tradizioni, la sua cultura, la sua storia, le sue problematiche, perfino la sua lingua. Di qui il dissidio profondo, forse insanabile, tra reale e virtuale, tra opinioni e fatti, tra politica delle parole (tante, discordanti e, troppo spesso, inutili) e politica dei fatti (pochi).
    E allora ritengo più ‘politico’ un prato tornato a una purezza indotta dalla diminuzione dell’inquinamento, a sua volta indotto dalle regole del distanziamento, conseguenza della pandemia in atto. Perché la vera emergenza politica del nostro presente è l’ambiente. E la gestione politica delle questioni ambientali, nella prospettiva futura, deve (dovrebbe) essere la prima preoccupazione di tutti, a partire da chiunque, a qualsiasi titolo, occupa un posto che lo mette (dovrebbe metterlo) in condizione di poter intervenire fattivamente.
    Parlare in modo occasionale (tweet, post, dibattiti beceri, costruiti e fasulli, con interlocutori altrettanto beceri e fasulli), al solo fine di rimanere alla ribalta, garantendosi il ruolo ‘pseudo’ politico e, inutile dirlo, le proprie entrate, non aiuta a salvaguardare la comunità e l’ambiente in cui viviamo.
    Cosa che fanno, silenziosamente e pacificamente, le decine di specie di insetti nel prato/condominio che ho descritto e in tutti gli altri prati sparsi in giro per il territorio, salvaguardati da coloro che faticosamente cercano di preservare il patrimonio di biodiversità, a dispetto della sostanziale noncuranza dei più.
    Il primo non garantisce il futuro. Il secondo, sì. Anche se facciamo finta di non saperlo.

     

  • COME NON FAR CAPIRE
    ILIADE E ODISSEA
    A UNO SCOLARO UNDICENNE

    data: 10/04/2021 17:39

    Qualche tempo fa ho inaugurato un ‘genere inusuale’ (cfr. A lezione di storia). Una ‘non recensione’, per usare l’invenzione linguistica di Lewis Carrol in ‘Alice attraverso lo specchio’ (1). Si trattava di un testo scolastico, ossia di un libro che ha un mercato circoscritto ma ‘sicuro’ (come ebbe a dirmi una persona a proposito della mia attività di autore di testi per il liceo classico) e canali specifici di promozione in vista delle adozioni.

    Proprio per questo, a mio avviso, anche il libro che propongo – come tutti gli altri libri che rientrano in questa categoria – merita molta attenzione in tutte le fasi, dalla scelta degli argomenti alla loro trattazione, dalla selezione dei testi da antologizzare alla loro presentazione e al commento.
    Questo, naturalmente, è vero sempre ma, in particolare, per quelli destinati alle fasce di età più giovani. Per questi motivi non ha senso recensirli.
    Ha senso piuttosto proporne un’analisi, prendendo le mosse da una sezione circoscritta ed entrando nei meccanismi del testo per valutarlo alla luce del pubblico al quale è destinato (studenti di prima media, nel caso specifico), per il tramite dell’insegnante (che, a sua volta, deve poter contare su un libro completo, ben organizzato, didatticamente funzionale, all’interno del quale operare la selezione adatta alla specifica classe e che, di conseguenza, deve scegliere il libro, al momento delle adozioni, in modo oculato).
    A chi è rivolta questa ‘non recensione’? A tutti, idealmente, perché è importante che tutti si rendano conto di come può essere ‘costruito’ un testo che finisce nelle mani dei propri figli e dei propri nipoti.
    In modo più specifico, a quanti si mostrano preoccupati del livello sempre più basso che si percepisce in ogni settore, anche in quelli preposti a fare cultura e informazione, a partire da una considerazione basilare: quello che viene dopo, dipende da quello che è avvenuto prima, durante la formazione.
    Verificare le falle della formazione - ormai pervasive e dilaganti dovunque e a tutti i livelli, dall’uso scorretto della lingua all’incapacità di raccogliere e gestire le informazioni - a posteriori serve a poco. Con l’aggravante che chi non ha imparato a scrivere (e a leggere) al momento giusto, difficilmente riesce a prenderne consapevolezza, anzi, solitamente, ostenta l’errore senza preoccuparsene perché, semplicemente, non lo percepisce come un errore.
    Ciò è tanto più grave se intraprende senza trovare ostacoli un mestiere che comporta la scrittura (magari con qualche ‘facilitazione’ o con la complicità della progressiva immissione ope legis in mestieri che dovrebbero essere fondamentali per la società e per il futuro). L’ostentazione si trasforma in presunzione.

    Dunque, anche questo è un libro di cui vale la pena parlare. Non in generale ma scendendo nel particolare delle modalità didattiche, della funzionalità educativa, della selezione dei passi, della correttezza e della completezza delle informazioni in relazione all’età e agli esercizi proposti.
    E vale la pena parlarne per rispetto al pubblico al quale è rivolto, ossia bambine e bambini alle soglie dell’adolescenza, un momento cruciale per la formazione e per affacciarsi sul mondo e sui suoi meccanismi. Dunque, un pubblico che ha il diritto, in base alla legge fondamentale dello Stato, la Costituzione, ad avere una formazione scolastica corretta che lo metta in grado di crescere e di affrontarlo, questo mondo sempre più complesso, indipendentemente dalle condizioni a contorno (che abiti in una grande città o in un paese spopolato, tra le montagne).
    Il testo in esame fa parte di un volume di antologia letteraria per la prima media, suddiviso in due tomi: il primo contiene letture suddivise per tematiche (781 pagine), il secondo è dedicato specificatamente a passi di epica (da quella antica a quella rinascimentale, 299 pagine). Oltre a questi due tomi la classe ha altri due testi di italiano: una versione in prosa dell’Iliade (105 pagine) e un testo dedicato in modo specifico a fonologia, ortografia, morfologia, lessico (622 pagine) (argomenti già in programma nelle classi delle elementari). Il totale delle pagine – 1807 – preoccupa di per sé. Il problema, peraltro, non è rappresentato tanto dalla mole delle pagine (che pure appare eccessiva e che potrebbe essere ridotta a vantaggio di indicazioni mirate di titoli adatti all’età, per la lettura autonoma (2) quanto dalla scelta e dalla trattazione dei materiali che le riempiono. Per affrontare la questione, propongo, a titolo esemplificativo, l’esame delle pagine relative ai proemi di Iliade e Odissea, ai quali sono dedicate, rispettivamente, sette e quattro facciate.
    Il proemio dell’Iliade è offerto nella traduzione di Vincenzo Monti (9 versi rispetto ai sette dell’originale, del 1810), con una premessa in cui compaiono i termini ‘proemio’, ‘invocazione’, ‘protasi’ (senza spiegazione), un apparato di note, una sezione intitolata “guida alla lettura”, dedicata alla spiegazione di ‘epiteto’, ‘patronimico’, ‘formule fisse’, una prima batteria di 12 esercizi, raggruppati in tre tipologie (comprensione / analisi /lessico). Segue una sezione -SCRIVERE, Guida alla parafrasi - con l’indicazione di procedere: a. riordinando le parole, b. capendo le parole difficili, c. riscrivendo il testo, ed esercitandosi poi sui versi successivi (= Iliade, vv. 10-23, nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti del 1950). Segue un’altra sezione - INSIEME è Facile - in cui viene riproposto il proemio nella traduzione in prosa di Giuseppe Tonna (1968) seguito da una seconda batteria di esercizi, suddivisi per tipologia (comprensione / analisi /lessico) con domande, necessariamente, molto simili a quelle proposte nella prima sezione. Il materiale dedicato al proemio dell’Iliade non è ancora finito: segue un’altra sezione - TRADUZIONI A CONTRONTO – in cui lo stesso proemio viene riproposto nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti (in 11 versi) e di Maria Grazia Ciani (in prosa, 1994). La batteria di esercizi, sempre suddivisa in sezioni (comprensione / analisi /lessico), propone esercizi sulle differenze tra le due traduzioni (ma dove e come l’alunno ha appreso a fare questo tipo di lavoro? Nel testo non c’è nulla in proposito (3).
    Lo stesso schema è riproposto per il proemio dell’Odissea per il quale, in prima battuta, si presenta - nientemeno - la traduzione di Ippolito Pindemonte (in 16 versi, rispetto ai nove dell’originale,1818-1820). La riporto, di seguito, per rendere con maggiore evidenza la sproporzione, a tutti i livelli, tra il testo e il pubblico cui si rivolge. Magari strapperà un sorriso a chi, come me, l’ha affrontata decenni fa al ginnasio:

    Musa, quell’uom di moltiforme ingegno
    Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra
    Gittate d’Iliòn le sacre torri;
    Che città vide molte, e delle genti
    L’indol conobbe; che sovr’esso il mare
    Molti dentro del cor sofferse affanni,
    Mentre a guardar la cara vita intende,
    E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
    Ricondur desiava i suoi compagni,
    Che delle colpe lor tutti periro.
    Stolti! che osaro vïolare i sacri
    Al Sole Iperïon candidi buoi
    Con empio dente, ed irritaro il Nume,
    Che del ritorno il dì lor non addusse.
    Deh parte almen di sì ammirande cose
    Narra anco a noi, di Giove figlia, e Diva.

    Lo schema è lo stesso: un’introduzione di poche righe (assolutamente non in grado di rendere ragione di tutte le caratteristiche del testo che, a dire la verità, non è propriamente una traduzione), le note (tante quante i termini - conditi di numerosi ‘troncamenti’ - che un undicenne sicuramente non può conoscere), la solita batteria di esercizi, sempre organizzati per tipologie, che da tre passano a quattro (comprensione / analisi /lessico / grammatica).
    Nella sezione lessico compaiono domande relative a perifrasi, flashback, prolessi (4). Segue una sezione Produzione nella quale si chiede allo studente di raccontare la vicenda di Odisseo “riscrivendo i versi 1-10 del proemio e conducendo la narrazione in terza persona. Se vuoi puoi iniziare così. “Odisseo è un uomo astuto …”.
    Nella sezione seguente - INSIEME è Facile – viene riproposto il proemio nella traduzione in prosa di Giuseppe Tonna, seguito da una batteria di esercizi suddivisa nelle consuete tipologie (5). (comprensione / analisi /lessico / grammatica) con l’aggiunta di una proposta di produzione scritta (riassumere il contenuto del proemio dell’Odissea).
    Nell’ultima sezione - TRADUZIONI A CONTRONTO – vengono proposte le traduzioni di Salvatore Quasimodo (in 12 versi, 1945) e di Franco Ferrari (in prosa, 2001), seguite da un’ulteriore batteria di esercizi, nell’ultimo dei quali si chiede di istituire un confronto tra le traduzioni di Pindemonte, Quasimodo, Ferrari.
    Ora, sfido chi legge questo sterile elenco di indicazioni e di esercizi – per altro in forma estremamente riassuntiva – a non provare noia e fastidio. Chiedo di riflettere al fatto che questo insieme di nozioni (poche), informazioni (pochissime e quantomeno superficiali), traduzioni (troppe, assolutamente insignificanti per il destinatario, nella maggior parte dei casi, e senza una seppur minima contestualizzazione) sono proposte a un pubblico di undicenni, su tutto il territorio nazionale, indipendentemente dalla conformazione della classe, della provenienza sociale, culturale, economica degli alunni. Potrei entrare nello specifico, facendo notare che non si spiega cos’è un proemio (perché mai un bambino di undici anni dovrebbe saperlo?), dicendo che le note sono sbrigative anche nel caso di termini sicuramente desueti, che gli esercizi sono a dir poco confusi (le categorie sono fluttuanti, incerte e spesso propongono questioni mai affrontate in precedenza), le questioni di contenuto sfiorate o, semplicemente, eluse.
    Non c’è nulla che possa attirare l’attenzione di un undicenne per il quale il proemio di un’opera epica è quanto meno estraneo (nell’adattamento in prosa adottato (5), non a caso, non c’è traccia del proemio). Non c’è nulla sui fatti narrati, sul mondo in cui si sono svolti, sui personaggi né su come tutto ciò è divenuto prodotto letterario, nel corso di quasi tremila anni. Non solo, si propongono esercizi sulle traduzioni legittimi solo in presenza dell’originale (che, per ovvi motivi, non può esserci). La traduzione, peraltro, è, di per sé, un’operazione complessa da tutti i punti di vista, linguistico e culturale (come ben sapeva il Monti (6). Non c’è nulla che faccia riferimento al senso dell’epica ‘omerica’, non c’è nulla a proposito di Omero, non c’è nulla che possa contribuire alla consapevolezza di un undicenne sui contenuti di Iliade e Odissea, sulle origini (prima che diventasse ‘genere’) e sul perché di tante traduzioni (che negli anni si sono moltiplicate, non sempre con esito felice, peraltro). Non c’è neppure un minimo di riflessione sulla cronologia di tutte le traduzioni proposte (le date tra parentesi sono una mia aggiunta).
    Si esce da questa analisi con la sensazione precisa di qualcosa di raffazzonato, incoerente e sconnesso, messo insieme senza consapevolezza dei contenuti, dell’importanza di spiegare gradualmente ma sempre in modo corretto, calibrando le informazioni ma fornendole e documentandole, sempre. L’undicenne, qualsiasi undicenne, è in grado di comprendere, di riflettere e di criticare. E tutto ciò che apprende, tutto ciò su cui riflette, tutto ciò che osserva senza capire, entrerà a far parte della sua ‘attrezzatura’ per leggere, per scrivere, per comprendere il mondo e i suoi meccanismi: tutte questioni che saranno determinanti nel suo percorso futuro, a scuola e nel lavoro. Tutto questo in un mondo divenuto molto complesso, spesso sfuggente, in cui nella maggior parte dei casi gli undicenni di oggi saranno soltanto un granellino senza importanza nel ‘villaggio globale’, sfuggito al controllo e in grado di stritolare i più deboli (soprattutto se provengono da zone marginali, a qualsiasi latitudine) e di mandare avanti i più forti, per il livello culturale raggiunto (magari ‘altrove’ e, spesso, non solo per quello).


    NOTE
    1. Il gioco di parole è costruito sul modello 'compleanno / non compleanno' (in inglese, Birthday / Unbirthday) si trova nel sesto capitolo di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (1871) (Through the looking-glass, and what Alice found there) di Charles Lutwidge Dodgson, noto con lo pseudonimo di Lewis Carrol.
    2. Durante l’estate scorsa ho proposto la lettura di alcuni testi a figli di amici nel passaggio tra scuola primaria e scuola superiore di primo grado (in particolare: Mario Lodi, Bandiera, 122; Jean Giono, L’uomo che piantava alberi, 51 pagine; Judith Kerr, Quando Hitler rubò il coniglio rosa, 277 pagine, tra i tanti possibili), traendone profitto dal punto dei vista dei contenuti e da quello formale. Le pagine – 450 – non hanno rappresentato una mole eccessiva, anzi i bambini hanno chiesto altro materiale (mai sottovalutare i bambini!).
    3. La traduzione è questione complessa, tanto più se l’originale è in lingue non più in uso (come il latino) o, se in uso (come il greco), in una forma molto diversa dal greco dei poemi omerici. In ogni caso proporre l’analisi di due traduzioni, in assenza dell’originale, senza notizie sugli autori delle traduzioni, senza nessuna dimestichezza con testi letterari in altre lingue né sulla forma epica, è quantomeno scorretto a meno che non si proponga una guida ragionata all’operazione, di cui nel libro in questione non c’è traccia.
    4. Il termine ‘perifrasi’ (per indicare un procedimento espressivo che usa più parole in luogo di una) e i termini ‘flashback’ e ‘prolessi’ per indicare, rispettivamente, l’inserimento in una narrazione di un ricordo del passato o un’anticipazione del futuro, potrebbero essere noti all’alunno per averli incontrati in testi di narrativa contemporanei. Peraltro, nella sezione dedicata all’epica, andrebbero introdotti, esemplificati e contestualizzati prima di proporli nella parte operativa.
    5. Roberto Piumini, Iliade in poche parole, Einaudi 2018
    6. Monti ha dedicato un intero saggio solo alla traduzione del proemio: Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell'Iliade (1807)

     

  • UN CONTADINO
    COME MAESTRO

    data: 26/03/2021 17:49

    Dopo aver ‘raccontato’ quello che si può ottenere da una zolla di terra moltiplicata per quante volte entra in un campo di calcio (Una zolla di terra e un campo di calcio, 1-2), ossia quello che dovrebbe essere lo scenario del domani per contribuire in modo fattivo e significativo al futuro, insisto a scrivere di argomenti generalmente poco gettonati, quale l’agricoltura. Il perché è semplice: perché tutti mangiamo, tutti facciamo la spesa e in queste azioni si spende la nostra consapevolezza ambientale. E la consapevolezza ambientale è determinante per il futuro prossimo. Il nostro, quello di figli e nipoti, che siano nostri o di altri, poco importa.
    Lo faccio a partire da uno scenario molto diverso rispetto a quello che ho conosciuto, direttamente, nella Tuscia collinare, per tutta la prima parte della mia vita. Lo faccio grazie alla testimonianza di un bambino degli anni Trenta che ha lavorato la terra tutta la vita, con una parentesi di alcuni anni trascorsi come taglialegna nella Vancouver Island (Canada), della quale ha un ricordo molto molto freddo, che non gli è piaciuta e che lo ha convinto a tornare. Ascoltandolo raccontare, cerco di combinare i miei ricordi di bambina degli anni Cinquanta nella campagna dei nonni con i segni del lavoro agricolo che riesco a cogliere in questo territorio.
    Si tratta di ricostruire la situazione a partire dalla metà del secolo scorso (1), ossia dal momento in cui la meccanizzazione e l’industrializzazione dell’agricoltura hanno cominciato ad arrivare anche in questo angolo di mondo, in cui la collina diventa montagna.
    Al ‘maestro’ contadino faccio due domande, calibrate sulla realtà che osservo, come due domande ho fatto in precedenza a Valentina:
    1. come era e come è suddivisa e distribuita la terra, nella piana?
    2. come si sceglievano (e come si scelgono) e come si ripartivano (e si ripartiscono) le coltivazioni?
    Il territorio, in questa zona, è distribuito tra il fondovalle pianeggiante e le zone che si vanno inerpicando verso i colli, fino ad arrivare ai pascoli più alti.
    Per quel che so e che vedo – osservando, per esempio, il via vai dei trattori lungo le strade asfaltate e quelle di campagna – le proprietà sono frammentate e poste anche a una certa distanza tra loro.
    Le risposte del ‘maestro’ sono profondamente ponderate, durante più conversazioni, attorno al caminetto o seduti sul muretto che costeggia la strada a mezza costa, guardando verso valle e i monti di fronte.
    Con il passare del tempo, ho visto accentuarsi in lui - ‘maestro’ contadino (2) - l’atteggiamento da ‘filosofo’, assorto e apparentemente distaccato, quasi che gli anni e le cose viste si riflettessero nella montagna di fronte o sulla facciata del suo ‘ufficio’, come scherzosamente chiama una piccola e vecchia casa di famiglia, trasformata in pollaio, ricovero per i conigli e magazzino per gli attrezzi.
    Le due domande si riducono, nei fatti, a una duplice questione: “come era e come è” il mestiere di contadino da queste parti? La risposta, in estrema sintesi, si potrebbe racchiudere in un aggettivo e in un avverbio: difficile, sempre, con un’appendice che racchiude il senso del tutto: “se non fosse per l’impegno che la terra reclama e le soddisfazioni con cui ripaga il lavoro”.
    Ed ecco il risultato delle nostre conversazioni, sfrondate, naturalmente, di nomi, di aneddoti e di ogni altra cosa che oggi si definirebbe con la locuzione ‘dati sensibili’ e che, ovviamente, hanno a che fare esclusivamente con la vita di paese, non certo con un piccolo segmento di storia dell’agricoltura in territorio appenninico.
    Alla metà del secolo scorso, dunque, le proprietà più estese, nella piana, erano ancora dei ‘signori’, ossia delle famiglie che possedevano e possiedono i palazzi più importanti nel borgo medievale oggi, nella maggior parte dei casi, abbandonati, semi diruti o abitati solo occasionalmente (3).
    I signori davano in affitto i terreni più estesi per lavorarli a cereali mentre chiamavano a giornata nel periodo della raccolta delle mandorle, gli uomini per la bacchiatura, le donne per raccoglierle da terra. Per questo lavoro, solitamente, pagavano in natura, ossia in mandorle, il frutto dell’albero tipico della zona e molto ricercato. Le mandorle, oltre ad essere conservate per il fabbisogno familiare, venivano vendute e utilizzate per acquistare altri prodotti (4).
    Gradualmente, i signori hanno cominciato a vendere i terreni. Chi ne ha avuto la possibilità, tra gli affittuari, ha comprato, abbinando il lavoro dei campi all’allevamento di bovini, in particolare. Le terre, adatte soprattutto alla coltivazione di cereali e legumi, fornivano il foraggio necessario per gli animali, la farina e i ceci per l’alimentazione e la vendita.
    Quando ancora era in Canada (addetto al taglio di enormi alberi, con le squadre di taglialegna ‘ospitate’ in alloggi di legno e l’unica interruzione di un mese circa quando l’attività si fermava per l’eccessiva umidità, e tutti si trasferivano a Vancouver presso parenti, amici o a pensione), il ‘maestro’ ha cominciato a comprare alcuni terreni, misurandoli rigorosamente in coppe (5,) situati laddove si rendevano disponibili, quindi non necessariamente vicini. Come lui hanno fatti altri. Cosicché la piana è un reticolo di proprietà diverse, impossibili da riconoscere se non ai legittimi proprietari. Agli altri appare soltanto la geometria dei campi arati e coltivati, dai differenti colori durante l’‘anno agricolo’ (6). Al cambio di colore, corrisponde il cambio di stagione e, dunque, la diversa fase di crescita del singolo vegetale.
    Questi terreni sono diventati il suo patrimonio di terra da lavorare, una volta tornato a casa, alternando - come da centinaia di anni si è fatto da questi parti (7) - cereali (segale, grano di solina, mais, orzo), foraggio e legumi (ceci) e maggese il primo anno / legumi, maggese e cereali il secondo / maggese, cereali, legumi il terzo, insieme ad alcuni piccoli appezzamenti adibiti a orto (circa 300 m2, esattamente la stessa misura indicata per il fabbisogno di una famiglia, tra prodotti freschi e conservati, da Valentina (8)) e a poche decine di olivi.
    Quella degli olivi, peraltro, è un’altra storia, probabilmente tipica di altre zone situate oltre i 600 slm, per due motivi.
    In primo luogo sono situati alle spalle del borgo, nelle coste soleggiate della valle del Tirino, a Oriente rispetto al paese e a un’altitudine di circa 500 slm (il massimo per gli olivi). Per i lavori stagionali - potatura, pulizia del terreno, raccolta delle olive - si andava a piedi o in groppa d’asino, portando qualcosa da mangiare e da bere. Oggi, si va in macchina o con il trattore ma, come allora, si parte la mattina e si torna la sera.
    La seconda questione è costituita dalla modalità di acquisto e vendita. Il terreno, in questo caso, non si misura a coppe, ma a olivi. Ossia, un proprietario può decidere di vendere un certo numero di olivi (tre, sette, dieci, ecc.), indipendentemente dall’estensione de terreno. Semplicemente, ogni olivo porta con sé il terreno su cui insiste. E il prezzo si definisce per olivo. Quelli del ‘maestro’ provengono, per la gran parte, dai beni di famiglia, e forniscono l’olio sufficiente per la famiglia allargata (ai figli e alle loro rispettive famiglie, e, occasionalmente, come omaggio a qualche amico). Il terreno, disseminato di pietre, scosceso quanto basta in questi territori montagnosi, costituisce l’orto selvatico dell’intera famiglia (matroni (9), asparagi e le altre erbe commestibili, per sapienza popolare, di generazione in generazione, non mancano mai sulla tavola imbandita nel periodo dell’anno giusto).
    Oggi la situazione è, nella sostanza, invariata, quanto a distribuzione delle proprietà. Quello che è cambiato è il ricorso alle macchine per i lavori nei campi. Il primo trattore è arrivato in paese sul finire degli anni Cinquanta, poi se ne sono aggiunti altri (compreso quello del ‘maestro’), nel corso degli anni Sessanta. Molti sono ormai datati. Chi ha le aziende più grandi, se ne ha la possibilità, aggiorna le sue macchine con modelli più recenti.
    Un’altra questione ancora è cambiata, in profondità: nessuno più compra le mandorle (e, di conseguenza, gli alberi vengono abbandonati, poco per volta, muoiono o addirittura vengono eliminati perché risultano di intralcio ai trattori, con effetti anche sul paesaggio); nessuno più compra i cereali (con l’unica eccezione dell’orzo di cui viene a rifornirsi un birrificio della provincia laziale), un tempo molto ricercati; resiste, per lo sforzo della cooperativa e del consorzio, la coltivazione dello zafferano, introdotta secondo la leggenda, nel XIV sec. e commercializzato come Zafferano DOP Dell’Aquila (10) (quello citato nel cartone animato Ratatouille, per chi lo ricorda!).
    Il ‘maestro’, con il passare degli anni e l’avanzare dell’età, si è trovato costretto a ridurre la varietà delle essenze da seminare: orzo (per la birra), grano di solina, ceci (per il fabbisogno alimentare) e foraggio che vende a una azienda locale di bovini. Per il resto, continua a osservare e riflettere tra sé e sé, valutando le trasformazioni e commentando, sottovoce, “Prima, era tutta un’altra cosa!”.
    Sicuramente, la produzione industriale, meccanizzata, irrorata di fertilizzanti e pesticidi, monopolizzata dalle grande aziende produttrici e dalla grande distribuzione, anno dopo anno, giorno dopo giorno, sta minando in profondità l’agricoltura tradizionale, familiare e, con essa, la biodiversità e il territorio, contribuendo a rendere questi prodotti non competitivi rispetto all’offerta divenuta ormai internazionale, allo spopolamento (11) e al degrado (12).
    Si potrebbe invertire la tendenza? Senz’altro sì, ma sarebbe possibile solo se chi ha in mano le redini del paese prendesse consapevolezza (a livello decisionale) e promuovesse consapevolezza (a livello di informazione e formazione dei cittadini), sgombrando il campo da presenzialismo e giochi di potere, anche sulla base di studi esistenti che si sono occupati e si occupano delle zone interne, proponendo soluzioni e piani di intervento, ad oggi sempre disattesi.

    NOTE
    1. Si tratta di settanta anni (1950 – 2020) a partire dal momento in cui le trasformazioni sono intervenute nel mondo dell’agricoltura, dell’alimentazione e della commercializzazione e, dunque, per i quali si possono verificare le conseguenze sull’ambiente. Per ricostruirli, si possono tenere presenti due testi che, idealmente, aprono e chiudono la questione: Primavera silenziosa di Rachel Carson (Feltrinelli 2016) e I padroni del cibo di Raj Patel (Feltrinelli 2015), la cui prima pubblicazione è avvenuta, rispettivamente, nel 1962 e nel 2007.
    2. Traggo la definizione di ‘maestro contadino’ da un testo (Il contadino come maestro. Lezioni alla Sorbona, Libreria Editrice Fiorentina 2012) che raccoglie le lezioni in cui Marcel Jousse, padre gesuita e antropologo che ha studiato la trasmissione orale dei testi religiosi ma anche dei poemi omerici, discute di ‘scuola delle cose’ e dell’importanza fondamentale di ‘saperi’ e parole trasmessi oralmente.
    3. Il borgo medievale di Navelli, inerpicato su un colle, è racchiuso da ‘case mura’, scandite da quattro porte in corrispondenza dei punti cardinali; da strade e stradine che, spesso, sono piuttosto scale; da case, cantine, stalle ma anche palazzi perfettamente riconoscibili oltre che dalle dimensioni, dalla posizione, dalla cappella annessa e dagli altari delle diverse famiglie nobili nella Chiesa del Suffragio e in quella di San Girolamo. E’ simile, nella stratificazione architettonica e sociale, a tutti gli altri paesi della zona, se non fosse che il castello di epoca federiciana – di cui rimangono pochi indizi – è stato sostituito dal Palazzo baronale di epoca tardorinascimentale. Come è tipico delle zone oltre i 600 slm, non esistevano case e casolari isolati nelle campagne. Si usciva all’alba per andare nei campi, si rientrava a sera.
    4. La moglie del ‘maestro’ ricorda ancora perfettamente l’erbivendola di Bussi che acquistava e accettava come pagamento le mandorle così come le ditte di Sulmona che venivano a scegliere le mandorle da utilizzare per il loro prodotto tipico, i confetti.
    5. 1 coppa = 700 m2 (cfr. Un campo di calcio e una zolla di terra, II)
    6. A Bominaco, a pochi chilometri di distanza, sull’altro lato della valle, oltre ai ruderi del castello federiciano, esiste un magnifico oratorio intitolato a San Pellegrino dove si può ancora ammirare l’affresco di uno dei primi calendari agricoli, ispirati alla Regola monastica benedettina.
    7. È la triplice rotazione introdotta e divenuta tradizionale da circa mille anni, nel passaggio tra alto medioevo e basso medioevo (proprio la questione spiegata in modo farraginoso nel libro di testo del nipotino, con grande confusione tra innovazioni, scoperte e invenzioni, cfr. A lezione di storia).
    8. Cfr. Una zolla di terra e un campo di calcio, 1-2.
    9. I ‘matroni’ sono il nome dialettale di una pianta appartenente alla famiglia delle Brassicacaee, la Bunias Erucago o Erucago campestris. Hanno sapore e consistenza simile alla cicoria (Cichorium intybus) che, in questa zona, esiste – si vede, qua e là, lungo i bordi delle strade, soprattutto quando fiorisce - ma nessuno la considera né, tantomeno, la raccoglie.
    10. Il riconoscimento della Denominazione d'Origine Protetta allo zafferano prodotto nella piana di Navelli risale al 4 febbraio 2005. La scelta di far seguire la sigla DOP dal complemento ‘dell’Aquila’, imposta dal capoluogo, è un chiaro retaggio del suo rapporto sbilanciato con i paesi del ‘contado’ che si è concretizzato nell’attribuirsi una specialità dei paesi della piana di Navelli, quasi in forma di ‘possesso’.
    11. Lo spopolamento delle aree appenniniche e, in genere, delle zone di montagna, è ormai diventato irreversibile con la diffusione del modello di vita cittadino. Iniziato da oltre un secolo (il borgo, a fine Ottocento, contava tremila abitanti), il fenomeno dell’emigrazione ha costellato tutto il Novecento e ha portato gli abitanti in luoghi lontani (Canada e Australia, in particolare, oltre naturalmente all’attrazione rappresentata dalla capitale), pur mantenendo gli emigrati – per quanto possibile - un legame affettivo con la famiglia e con il paese. E’ una questione che interessa tutte le zone oltre i 600/700 slm lungo tutta la penisola e che sarebbe fondamentale affrontare se non altro perché la rivalutazione di queste zone potrebbe essere preziosa per migliorare la qualità dell’ambiente e della vita in tutto il territorio, anche quello in pianura.
    12. L’abbandono delle case e dei campi è causa di degrado. La diminuzione della popolazione, per motivi anagrafici, diviene inevitabilmente causa di degrado. Il mancato apporto di forze giovani ai lavori agricoli è un’ulteriore causa di degrado. Tutte questioni irrisolvibili, in mancanza di interventi e programmi su scala nazionale, volti a rivalutare le zone interne e l’agricoltura, nel rispetto dell’ambiente e della salute e, soprattutto, con un programma di intervento che garantisca a chi vive in zone a bassa popolazione di avere servizi efficienti. Solo per fare un esempio attuale, sia la didattica a distanza sia lo smart working sono estremamente difficoltosi perché utilizzano una rete digitale assolutamente inadeguata. E questo perché si investe tecnologicamente solo per motivi che garantiscano il ritorno economico, sfavorendo le zone montane meno popolate, quasi i pochi abitanti fossero di serie B. Per un primo quadro sulla situazione e le possibilità di ripresa si veda: Manifesto per riabitare l'Italia (a c. D. Cersosimo - C. Donzelli), Donzelli 2020 (dalla cui bibliografia si può agilmente risalire alla documentazione che più interessa al singolo lettore).

     

     

     

  • A LEZIONE DI STORIA

    data: 14/03/2021 19:18

    Per motivi diversi dipendenti, parzialmente, dalla pandemia in atto e dalle regole continuamente cangianti del lockdown, mi trovo chiamata a inaugurare un genere inusuale. Potrebbe essere una recensione ma, volutamente, non lo è, semplicemente perché non faccio riferimento esplicito né al titolo né agli autori del testo.
    Il testo in questione, infatti, fa parte di quella categoria che nasce per uso della scuola e, di conseguenza, è destinata a un pubblico circoscritto - in questo caso, agli alunni di una prima classe della scuola secondaria di primo grado, ex prima media, per chi ancora non si è abituato alle nuove diciture ministeriali, anche queste continuamente cangianti -, solitamente non viene citata nelle bibliografie, troppo spesso è considerata frettolosamente anche dagli addetti ai lavori.
    Tuttavia, è una categoria fondamentale.
    Il libro con cui mi sono confrontata è destinato all’insegnamento della storia. Doppiamente fondamentale, pertanto.
    Il primo utente di un libro scolastico di storia, dunque, è il docente che lo sceglie e lo utilizza nelle ore dedicate a una disciplina che è (dovrebbe essere) fondante per la formazione dei giovanissimi che diventeranno cittadini, prima ancora di entrare, nella maggior parte dei casi e auspicabilmente, nel mondo del lavoro.
    L’argomento in cui mi imbatto nella realtà quotidiana è il basso medioevo, un tema che è (dovrebbe essere) familiare per la scarsa popolazione dello scenario circostante. Siamo in zona appenninica, al margine tra collina e montagna, disseminata di borghi arroccati sui colli a seguito della ‘migrazione’ dalla piana verso l’alto avvenuta intorno all’XI sec., assumendo un assetto nuovo rispetto agli insediamenti di epoca vestino-romana, che ha poi trovato sistemazione, con castelli e rocche comunicanti tra loro grazie al sistema optometrico, al tempo di Federico II (XIII sec.).
    Per certi aspetti, al docente non manca (mancherebbe) la possibilità di spiegare facendo riferimento puntuale al castello situato poco più in alto rispetto alla scuola o a quello del paese nella parte opposta della piana e a molte altre ‘presenze’ di manufatti e resti di quei lontani tempi.

    Nel libro, dunque, la prima pagina - dedicata alla presentazione dell’argomento - contiene una tabella che mette a confronto alcune questioni centrali nel passaggio da alto a basso medioevo (vicende politiche / economia / idee e cultura / vita delle persone).
    Alla voce economia il testo recita: “Si avvia una fase di crescita economica: migliora la produzione agricola, si mettono a coltura nuove terre e, soprattutto, rinascono i commerci e l’artigianato”.
    Nella pagina successiva, la linea del tempo a piè pagina, in corrispondenza di XI – XII secc., pone la dicitura “nuove invenzioni e tecniche: aratro pesante, rotazione delle colture, mulini”.
    Si tratta di brevi frasi che si propongono di presentare in estrema sintesi la lezione del giorno.
    Nella parte superiore della pagina, al punto 2, il testo è il seguente: “Questa più numerosa popolazione poté essere alimentata e continuare a crescere grazie a due elementi: l’estensione delle colture e nuove invenzioni per coltivare e trasformare i prodotti, per esempio nuovi tipi di aratro e mulini che sfruttano la forza dell’acqua e del vento” (al punto 1, si parla, testualmente, della crescita demografica dovuta alla fine delle invasioni, alla diminuzione delle epidemie e, forse, al miglioramento del clima, senza altro aggiungere in proposito).
    Nelle due pagine successive, è contenuta la spiegazione, sotto il titolo “La ripresa demografica e agricola”, articolata in tre sezioni: Una ripresa generale, Nuove terre coltivate, Le innovazioni tecniche. Nella seconda sezione, in particolare, la questione agricola viene presentata a partire da questa affermazione: “La crescita della popolazione rese necessario aumentare le aree coltivate. Senza concimi e fertilizzanti, che nel Medioevo non esistevano, la produzione di cibo poteva aumentare soprattutto se aumentava la superficie coltivata, recuperando terreni inselvatichiti, diventati boscosi o paludosi e adottando in modo sistematico la rotazione triennale” (cereali, leguminose, maggese, ndr.).
    Le successive due pagine – contrassegnate con il termine Laboratoria e intitolate Invenzioni e scoperte. Le invenzioni della ripresa - introducono un approfondimento. Segue la spiegazione de L’aratro pesante, dei Nuovi sistemi di attacco e ferri da cavallo e de L’Europa dei mulini.
    Questo il testo con cui mi confronto. I termini in grassetto sono quelli su cui si concentra la mia attenzione. Sono distribuiti - alternati, variamente abbinati e ricorrenti - su otto pagine. Mentre procedo nella lettura, qualcosa non torna: decido di evidenziarli per cercare di capirne la logica.
    Mi devo rassegnare, dicendo a me stessa che non c’è logica possibile ma solo grande confusione.
    Nello specifico, il termine ‘invenzione’ è usato in modo assolutamente improprio. “Invenzione” indica infatti l’azione di inventare e al contempo la cosa inventata. Viceversa, “scoperta” indica “il ritrovamento o l’individuazione di cose, realtà, relazioni sconosciute ma già esistenti” (traggo le definizioni dal sito dell’Enciclopedia Treccani). I due termini non possono essere abbinati, confusi e alternati per riferirsi all’aratro e al mulino. Né l’aratro, né il mulino sono invenzioni attribuibili al periodo in questione. Entrambi, seppure in fogge diverse, più semplici e meno elaborate, sono precedenti di alcuni millenni. Ovviamente, non sono neppure scoperte.
    L’unica novità, semmai, è il ferro di cavallo. Ma anche in questo caso si tratta di un’innovazione tecnologica nell’ambito della lavorazione del ferro, sviluppatasi a seguito delle innovazioni portate all’aratro semplice, ossia l’aggiunta di un vomere asimmetrico e di un avantreno su ruote, naturalmente con innumerevoli varianti volte a migliorarne le prestazioni, anche per adattarne l’uso a diverse tipologie di terreno. Allo stesso modo, anche gli interventi relativi al mulino sono innovazioni tecnologiche - non invenzioni né scoperte - che sfruttano la forza del vento e dell’acqua, sostituendo la forza meccanica dell’uomo e degli animali.
    Un’altra questione mi costringe a riflettere: iniziare un’affermazione stigmatizzando una mancanza (Senza concimi e fertilizzanti, che nel Medioevo non esistevano ecc.) equivale per il lettore (un bambino alle soglie dell’adolescenza) a un elogio di concimi e fertilizzanti frutto della chimica di sintesi (e non certo quelli tradizionali – quali il letame - già ampiamente in uso e ancora in uso oggi, soprattutto in zone ‘marginali’ come quella dove ci troviamo), gli stessi il cui uso indiscriminato, in alcuni decenni, si è rivelato un problema per la qualità dei prodotti, per l’inquinamento e gli effetti sconsiderati sull’ambiente, la salute e l’alimentazione, a livello mondiale. Strano modo di far accostare un piccolo lettore a un problema di dimensioni così importanti e decisive per il futuro immediato, tenendo conto che questo lettore, tra pochi anni, sarà chiamato a votare, a esprimere le sue idee anche sulla base degli studi fatti. Ahimè, uno strano modo, anche se si considera che il docente in cattedra, potrebbe non avere mai studiato in modo specifico quel periodo storico, se non nel corso degli studi secondari (basta considerare le discipline afferenti agli insegnamenti previsti dai curricula scolastici per capire che non c’è nessun corso universitario pensato in funzione delle ‘cattedre’ previste per la scuola secondaria di primo e secondo grado). Strano modo anche perché, in sostanza, appiattisce la distanza temporale: è indispensabile infatti far capire che le innovazioni tecnologiche sono state continue lungo millenni, rallentando o accelerando in concomitanza con altri eventi, ma sostanzialmente sono rimaste valide per secoli, fino all’inizio del secolo XIX e, soprattutto, del XX. E sicuramente non sono né invenzioni né tantomeno scoperte. E sicuramente non lo sono se le si considera a partire dal X secolo. Una veloce rilettura di L’economia rurale nell’Europa medievale di Georges Duby, me lo conferma (per abitudine acquisita, verifico sempre l’argomento di cui parlo così come ho sempre studiato per preparare la lezione, prima di entrare in classe). Anzi, mentre mi soffermo su alcuni passi, trovo alcuni stralci da poter inserire sicuramente in un testo scolastico, anche a questo livello.
    Le successive due pagine del libro in questione sono occupate da una sezione intitolata Laboratoria, ossia il plurale di un termine del latino medievale, laboratorium (confluito pressoché invariato in italiano, spagnolo e portoghese, nel francese laboratoire e nell’inglese laboratory). Usato al plurale - per di più diviso graficamente in due sezioni (Labora // toria), intervallate dal numero progressivo della lezione - confonde più che chiarire: un adolescente, probabilmente, sorvola senza notare, oppure, se si interroga, sarà portato a pensarlo come plurale di ‘laboratorio’. Peraltro, non si tratta di una sezione operativa, come la presentazione sembra suggerire, ma di un approfondimento.
    Trovandomi nella necessità di spiegare l’argomento, ho cercato di dare il giusto peso alle innovazioni tecnologiche del basso medioevo, utilizzando il confronto diretto con la realtà di un paese agricolo dove gli aratri, solitamente, sono parcheggiati nei pressi delle abitazioni. E’ stato facile farlo perché il bambino in questione conosce l’aratro, il trattore, l’erpice. Il nonno del bambino, chiamato direttamente in causa e da lui intervistato, gli ha spiegato che il primo aratro trainato da una forza motrice è arrivato in paese negli anni Cinquanta del secolo scorso. Lui lo ha acquistato quando erano già gli anni Sessanta. Ed è facile anche fare riferimento ai mulini presenti in paese, quelli tradizionali con le macine di pietra azionati dalla forza animale di un tempo (custoditi gelosamente al pianterreno di alcuni edifici), quello del frantoio che ogni anno ai tempi del raccolto delle olive apre i battenti per accogliere i sacchi pieni, e quello per la farina che si trova in un paese dei dintorni dove il nonno porta a macinare il frumento per la farina che la nonna trasforma magistralmente, come tradizione abruzzese vuole, in tanti formati diversi di pasta, biscotti e ciambelloni, durante tutto l’anno.
    Più difficile, sicuramente, farlo in città, con un pubblico di bambini ignari di questo mondo semiabbandonato dove tutto si conserva accuratamente, grazie ai nonni, ai genitori e - se si dà il giusto valore a ciò che hanno e non si inquina la mente dei bambini con false nozioni mal poste e a dir poco confuse - anche grazie agli adulti di domani.
    A maggior ragione, un libro deve essere basato su informazioni corrette, esposto in modo chiaro, suscettibile di approfondimenti, rivolto in modo sicuro alla fascia di età che su quel libro comincia a formare la consapevolezza della storia ma anche al docente che arriva a scuola con il bagaglio di una preparazione universitaria tendenzialmente autoreferenziale, che non sa, non pensa e non si rende conto - con superiore distacco - che non deve (dovrebbe) formare solo letterati, critici, futuri professori universitari, magari filologi, ma anche, più semplicemente, una schiera di insegnanti ai quali si affida un compito fondamentale: l’educazione dei futuri cittadini. Almeno fino a quando la classe politica non riuscirà a rendersi conto che una riforma della scuola volta alla formazione culturale dei cittadini è indispensabile in un paese democratico e non può essere proposta con interventi formali, episodici ed effimeri che ‘svuotano’ la scuola, progressivamente e proditoriamente, di sostanza culturale. Ma, forse, questo ‘svuotamento’ ha ormai investito anche la classe dirigente.


     

  • UNA ZOLLA DI TERRA
    E UN CAMPO DI CALCIO (2)

    data: 07/03/2021 19:32

    Avere a disposizione un ettaro di terra (ossia tante zolle di terra quante ne entrano in un campo di calcio più un ulteriore quarto di campo di calcio) è una vera e propria provocazione. Valentina l’ha accettata, optando per un orto il più diversificato possibile nel quale praticare la rotazione e la consociazione delle piante.
    Per la verità, almeno dal punto di vista di chi scrive, non si è limitata ad accettarla, ha trasformato la provocazione in una sfida. La racconta come se fosse la cosa più logica del mondo, in un mondo dove la maggior parte delle persone acquista le verdure al supermercato senza sapere da quale paese vengono, chi le ha coltivate e, spesso, senza sapere come si presentano in natura. Per non parlare di quanti optano per prodotti già pronti. Ne parla come se stesse occupandosi di un giardino zen, con ritmi lenti e tutti gli effetti collaterali che ne derivano. In realtà, ha chiaro in mente il suo progetto e, soprattutto, ha chiaro in mente che non possiede un paracadute sul quale fare affidamento, e, di conseguenza, deve rendere produttivo l’ettaro di terra che l’ha provocata.
    Effettivamente, dice, un ettaro è poco. Ma gli accorgimenti ci sono. Ad esempio, 150 m2 di questo ettaro messi ad ortaggi possono dare la disponibilità di ortaggi freschi per una famiglia di 4 persone per un’intera stagione. Se si raddoppia la superficie a ortaggi (300 m2) si ha disponibilità anche di ortaggi da conservare (patate, fagioli, legumi da seccare o da congelare, carciofi perenni) ai quali si aggiunge la frutta (se sul famoso ettaro ci sono alberi da frutta o sono stati introdotti). Se, dunque, coltivasse l’ettaro interamente a ortaggi, potrebbe avere un surplus di prodotti tale da attivare un servizio di orto comune (o orto di comunità) e/o da immettere nelle rete dei mercati contadini o, comunque, mettere a disposizione di quanti amano conoscere la terra dove cresce quello che metterà nel piatto.
    In realtà, continua, è sempre preferibile diversificare. Perché non si vive di solo ortaggi, anche se sono tanti e diversi. E un ettaro di terra, al contrario di un campo di calcio, è di per sé già abbastanza diversificato. Soprattutto se si trova in una zona collinare, in cui storicamente le coltivazioni si alternano ad antichi alberi da frutto, olivi, noccioli, castagni, ai piedi di una quasi montagna che si fregia di una faggeta che risale ai tempi dei tempi (quelli degli etruschi e poi dei romani, per intenderci).
    Così, prosegue, in una porzione di questo provocatorio ettaro si può ricavare un settore specializzato, dedicato a coltivazioni particolari che non richiedono molto spazio: le piante aromatiche – origano, basilico, timo, salvia, mentuccia o nepetella, menta ma anche finocchio – che verranno opportunamente seccate e confezionate; i piccoli frutti - ribes lampone, fragoline - e, perché no, anche i fiori utili in tavola (i nasturzi, ad esempio), quelli utili come cooperanti nella coltivazione come il tagete o, semplicemente, per un mazzolino da disporre in vaso. Il tagete, in particolare, mescolato alle file di ortaggi (ad es. fagiolini, sia bassi che rampicanti, per sfruttare in altezza la pianta) e abbinato ai cespugli di rose, tiene lontani gli afidi, dagli uni e dagli altri.
    Le piante di pomodori, di peperoni e di melanzane sono molto esigenti: assorbono azoto dalla terra; i legumi, al contrario, lo restituiscono. Così, alternare le file di pomodori, peperoni e melanzane a quelle di leguminose (fagiolini, fagioli, fave) contribuisce a riportare equilibrio nelle sostanze nutritive presenti nel terreno, stroncando eventuali malattie.
    È questo il principio della consociazione (1) che può essere estesa agli animali: le galline e le oche contribuiscono a tenere pulito l’orto e forniscono uova. Le prime razzolano, la seconda è più ordinata perché si limita a mangiare l’erba. Combinando questi elementi, ruotando adeguatamente le coltivazioni sullo spazio a disposizione e aiutandosi con la scelta di piante che sviluppano in verticale, la varietà dei prodotti è assicurata. Ancora non ci sono, peraltro, tutti quelli che servono. Per la farina (2) si dovrà ricorrere a un produttore che ha a disposizione uno spazio più ampio da dedicare al frumento o al farro. Ma non sarà un problema. Tra persone che hanno fatto la stessa scommessa, la collaborazione non manca.
    Naturalmente nel provocatorio ettaro ci sono anche alberi. E gli alberi non si eliminano, mai. Al massimo si potano. Oppure si innestano. Se c’è una quercia, anche la più comune roverella, si lascia, a prescindere dal fatto che oggi i suoi frutti - le ghiande – vengono utilizzate solo da chi ha ancora il suo maiale da allevare. Ma è lì e lì deve rimanere a memoria del passato (anche di quello lontano in cui le ghiande erano nutrimento per gli uomini), come rifugio per gli uccelli, per le sue foglie e i suoi colori, per le sue galle (dalle quali un tempo si ricavava l’inchiostro), per la sua legna (e, se si ha un’amica un po’ matta come me, per la tintura delle fibre e la stampa dei tessuti).
    A maggior ragione, rimane il noce o il nocciolo. Spesso sono le piante poste a confine tra le proprietà, in queste zone. Di qua è mio, di là è tuo. Possibilmente, senza innescare rivalità di antica memoria. Una sola pianta può fornire il fabbisogno annuale per una famiglia. La stessa cosa si può dire del castagno, anche quello solitario che annuncia il castagneto posto alle spalle dell’ettaro, dove il terreno comincia a inerpicarsi e suggerisce passeggiate autunnali in cerca di funghi. Se, però, si vuole aggiungere anche questi prodotti alla varietà proposta come orto di comunità, meglio aggiungerne uno o due.
    C’è un melo? Un albicocco o un melograno? Nella stagione giusta, i frutti per il consumo giornaliero si raccoglieranno di giorno in giorno (magari, in tarda mattinata, quando viene un languorino, passando sotto la pianta!). Il surplus verrà messo a disposizione di chi ha aderito all’orto di comunità. Quando i frutti saranno in eccesso, andranno insieme agli ortaggi sui banchi del mercato contadino. Se poi c’è spazio, si possono inserire altri frutti antichi (nespole, giuggiole, corniole). Sono frutti quasi dimenticati, ottimi per il consumo e sicuramente preferibili alla moda dei frutti esotici che, nella maggior parte dei casi, arrivano stipati in aerei cargo dopo essere stati raccolti ancora acerbi e, dunque, non saranno mai all’altezza di un frutto appena colto, a qualsiasi latitudine.
    Per non parlare degli olivi. Se ce ne sono pochi, si possono integrare, magari disponendoli in modo ordinato (anche rispetto all’inclinazione della luce del sole), tenendo conto che venticinque / trenta piante di olivo forniscono l’olio per il fabbisogno annuale di una famiglia.
    Quante pietanze si preparano con ortaggi, legumi, erbe aromatiche e olio? Un’infinità. Dopo la pietanza, la frutta fresca o conservata non manca.
    Ma il lavoro non è ancora finito. La risposta alla provocazione è stata la sfida. Una volta lanciata, intraprendendo il mestiere antico e senza tempo del contadino – una scelta che si muove in ‘direzione ostinata e contraria’ rispetto al mondo –, è indispensabile percorrerla.
    E oggi fare il contadino significa divenire imprenditore. E’ un mestiere che ha un significato profondo solo se lo si fa nella logica di accorciare la filiera (quella cosa terribile che porta il costo di un prodotto da 0,12 centesimi di euro a 2,50 euro al consumatore). In questa ottica il contadino fa trasformazione e diviene imprenditore.
    Il coltivatore - si accalora nel parlarne - è il mestiere più completo che possa esistere sulla faccia della terra: cura il terreno, crea il prodotto dal seme, segue la crescita, raccoglie, trasforma, promuove il suo prodotto (in tutti i modi, anche sui social!), gestisce la contabilità. In una parola, deve essere il più possibile autonomo. Meno passaggi ci sono, più la filiera diviene sostenibile per chi produce e per chi acquista.
    A patto, naturalmente, che in molti si lancino in una sfida come questa. Se intorno a ogni città di media estensione ci fossero tanti e tanti ettari coltivati in questo modo, il settore alimentare, sarebbe molto migliore per una fascia più ampia di cittadini e, a cascata, altri settori se ne gioverebbero.
    È una sfida che guarda indietro? Per certi aspetti sì. Ma, se ci guardiamo intorno, se consideriamo le contraddizioni del mercato alimentare, l’eccesso di confezioni, di colori, di additivi presenti in ogni prodotto confezionato, forse è il prezzo da pagare per tornare alla consapevolezza della terra e dei suoi prodotti. Tornare indietro può diventare un’occasione preziosa per andare avanti. Forse, l’unica strategia possibile. Parola di Valentina. E di tutti i giovani che, come lei, in giro per le campagne italiane, stanno ridando vita agli ettari di terra che rimangono abbandonati per farli diventare una risorsa per sé, per la propria famiglia e, direttamente o indirettamente, anche per tutti noi.
    È una sfida vinta? A oggi è una sfida in atto. Per considerarla vinta, devono passare ancora alcuni anni. Il mondo visto dalla città sembra andare veloce. L’industria dell’agricoltura ha imposto gli stessi ritmi veloci anche alla terra, con effetti terribili. Le sfida dell’ettaro di terra è una sfida che impone di recuperare i ritmi del lavoro contadino, delle stagioni, delle pause tra un lavoro e l’altro, magari dedicate alla raccolta delle erbe di campo commestibili lungo le file di ortaggi, lungo il confine, tra le file di alberi.

    NOTE
    1. Esiste una guida molto agile da tenere a portata di mano, utile per chi ha un ettaro a disposizione ma anche, semplicemente, un giardino o un terrazzo: Gregg Richard, Le consociazioni vegetali e il loro impiego, (1943) Editrice Antroposofica 2009.
    2. Per amore di precisione, ho fatto ricorso a un contadino del territorio abruzzese dove vivo al quale ho chiesto informazioni sull’estensione di terreno necessaria per il fabbisogno familiare di farina. Mi sono ritrovata con una bella storia di frumenti antichi - il vecchio grano di solina -, un problema di equivalenza tra la misura corrente da queste parti in rapporto all’ettaro (1 coppa = 700 m2), e soprattutto una questione di quanta farina usa una famiglia nel corso di un anno. Perché ancora oggi, in una famiglia abruzzese, la pasta non si compra, si ammassa (gnocchetti, sagne, maltagliati, pasta alla chitarra, ecc.). Così come si preparano i biscotti per la colazione, i ciambelloni per avere qualcosa da offrire insieme a un caffè, a chi arriva per scambiare due chiacchiere. Stabilito che una ‘coppa’ a solina rende un quintale circa, una volta portato al mulino di zona, si torna a casa con circa 70/75 kg di farina e il restante in crusca o ‘tritello’, da mescolare alla farina, per l’effetto ‘integrale’. Ma questa è un’altra storia. Arriverà il momento di raccontarla. (2. Fine)

     

     

     

     


     

  • UNA ZOLLA DI TERRA
    E UN CAMPO DI CALCIO (1)

    data: 04/03/2021 17:04

    Fare il contadino oggi non è più di moda. O, meglio, chi lavora per le grandi aziende che producono generi alimentari destinati alla grande distribuzione, non è un contadino. E’ un lavoratore alle dipendenze di una struttura che deve funzionare per produrre, che si affida alle macchine e controlla in parte, o in toto, la filiera del prodotto (mais, pomodori, grano, ortaggi, ecc.). Nel caso migliore lavora in regola, con un regolare salario.
    Se fare il contadino significa ‘lavorare nei campi’, ossia occuparsi di un appezzamento di terra, scegliere cosa seminare, se e quali animali tenere, in relazione al fabbisogno familiare e al mercato locale che assorbe i prodotti in eccesso, si può dire che, generalmente, non è più di moda.
    Anzi, si può dire che proprio il fatto che non sia più di moda è il segnale preoccupante di un disagio di tutto il settore alimentare che è ‘finito’ nelle mani delle imprese e della multinazionali del settore. Sia chiaro, ci è finito per motivi oggettivi: la necessità di dare da mangiare a una popolazione mondiale in continuo aumento e, di conseguenza, la necessità di riempire costantemente gli scaffali dei supermercati, indipendentemente dalla (poca) produzione locale, dalla situazione di chi fa resistenza a questo meccanismo, dal viaggio – spesso in aereo - che i prodotti (non stagionali) devono compiere dal luogo dove sono portati a maturazione su larga scala verso i luoghi dove gli abitanti possono permettersi di fare la spesa regolarmente, magari ordinandola online e ricevendola sulla porta di casa.
    E’ questo lo scenario consueto in tutti i paesi in cui le persone hanno accesso al cibo attraverso la filiera della grande produzione e distribuzione. Per gli altri – tanti, troppi, a dispetto dei programmi alimentari promossi dalle grandi organizzazioni internazionali – la realtà è fatta di un'alimentazione scarsa e uniforme (gli unici cibi che sostentano miliardi di persone sono tre cereali: frumento, riso e mais). Se, dunque, la produzione industriale aveva come scopo quella di produrre per tutti, in realtà il suo scopo è fallito. Produce tanto, quel tanto è mal distribuito, quel che avanza va al macero.
    Con ogni probabilità, qualcosa va rivisto nello schema di sviluppo attuato a partire dal XX sec. (ossia, da quando è iniziata la meccanizzazione del lavoro agricolo) e ancora in auge in questi primi decenni del XXI.
    Forme di resistenza si sono avute già dagli inizi del processo di ‘modernizzazione’ del mondo agricolo. Molti hanno saputo guardare in avanti, con lungimiranza, praticando l’agricoltura con criteri di sostenibilità, documentando e cercando di diffondere le loro esperienze.
    Contrastare le logiche della produzione su vasta scala e quelle del mercato, rimane tuttavia una questione molto complicata. Chi lo fa, scegliendo pratiche legate alla produzione sostenibile e alla rete locale, affiancando le sempre più ridotte file dei piccoli coltivatori diretti ormai anziani e destinati ad essere superati o dimenticati, lo fa con la consapevolezza delle difficoltà, valutando i rischi e studiando. Soprattutto, lo fa sapendo di essere parte di una avanguardia che, con il suo lavoro, lotta per l’ambiente, eliminando tutto ciò che di nocivo viene utilizzato nella produzione meccanizzata e, in ultima analisi, per diffondere un ritorno ponderato al rispetto per la terra e per il cibo.
    Avere la possibilità di parlare direttamente con una persona che ha fatto questa scelta è un modo per entrare nel vivo della questione. I libri sono fondamentali, anche in questo ambito. Tuttavia, raccogliere una testimonianza ha il vantaggio del rapporto diretto, con la possibilità dello scambio di opinioni. Per questo ho proposto all’amica Valentina – la differenza d’età è tale che potrebbe essere stata mia alunna e che sua figlia, una ragazzina avida di letture, potrebbe essere mia nipote – una scambio di idee cui dare forma scritta. Per scelta, le ho fatto solo due domande:
    1. è possibile oggi vivere di agricoltura, con la disponibilità di un ettaro di terra?
    2. quanto e in che misura praticare le consociazioni vegetali aiuta a vincere la sfida?
    Il risultato è stata una lunga conversazione che ho originariamente appuntato in calce alle domande stesse e che ho poi rielaborato.
    I punti di partenza - entrambi suggeriti da Valentina - sono stati due, apparentemente inconciliabili: un campo di calcio e un quadro. Per motivi diversi. Il primo per definire le dimensioni di un ettaro di terra. Il secondo per capire cosa può essere contenuto in un ettaro di terra (oltre che 22 giocatori, un arbitro e un pallone).
    Un campo di calcio misura circa tre quarti di un ettaro (pari a 10.000 m2), comincia da qui Valentina. È un buon punto di riferimento per capire la terra che abbiamo a disposizione. Certo, un campo di calcio, è in piano, è regolare, è ‘falso’. Esattamente come è ‘falso’ un ettaro coltivato a monocultura secondo i dettami della produzione industriale (a frumento, a mais, a girasole, ecc.). Ora, in un ettaro trattato a monocultura non esiste altro se non la pianta coltivata. Tutto il resto viene controllato ed eliminato. È uno spazio artificiale creato dall’uomo con l’esclusivo obiettivo di produrre al massimo.
    Immaginiamo ora lo stesso ettaro su un terreno coltivabile in collina (quello di Valentina si trova nella Tuscia viterbese): presenta una forma diseguale, magari alcuni dislivelli.
    ‘La grande zolla’ è il titolo del quadro. È stato dipinto, ad acquarello, da Albrecht Dürer nel 1503. A suo tempo suscitò reazioni non esattamente benevole. A tutt’oggi rimane una dimostrazione tangibile di quel che si può vedere se si abbassa lo sguardo su una zolla di terra lasciata al lavoro della natura. Certo, la varietà delle ‘erbacce’ riunite in una zolla è diversa da una zolla all’altra. Dipende dalla stagione, dai semi che hanno attecchito, dalle condizioni atmosferiche (umidità, ecc.). Può includere inoltre ‘paesaggi’ naturali diversi (il prato può sconfinare in macchia, in bosco, in stagno).
    Pensiamo ora alla zolla di Albrecht Dürer (immaginando un quadrato di circa 40 cm di lato, all’incirca) e moltiplichiamolo per tante volte quante ne entrano in un ettaro. Un ettaro allo stato naturale è pieno di essenze in equilibrio tra loro, molte di queste essenze sono commestibili (cresta di gallo, raponzoli, carota selvatica, crespigno, fragole, violette, asparagi e così via. L’elenco potrebbe essere lunghissimo). L’ettaro può essere distribuito su una striscia ampia, si può inerpicare lungo il bosco, può comprendere i sentieri e i costoni lungo i sentieri, ricchi anch’essi di specie diverse (anche queste nella maggior parte dei casi commestibili). Un ettaro allo stato naturale contiene anche la vita animale, in aria, strisciante, sotto terra. Solo una zolla può contenere decine e decine di essere viventi che vi trovano gli alimenti per vivere. In condizioni normali (cioè, se non intervengono fattori esterni, introdotti dall’uomo, non presenta malattie). La zolla di terra moltiplicata per un ettaro è idealmente la base che accoglie i semi e le radici delle piante che verranno. Il contadino – nel rispetto della zolla – raccoglie le piante commestibili, seleziona semi e radici utili alla crescita in vista dell’autonomia alimentare ed economica.
    Se concentriamo il ragionamento sull’autonomia alimentare e sulla (eventuale) rendita economica, la domanda da porsi è: se un contadino dovesse scegliere di utilizzare l’ettaro cha ha a disposizione per una monocultura (grano, pomodori, zucchine, o anche noccioli, in file ordinate e con il suolo perfettamente libero), avrebbe di che sopravvivere con le entrate della vendita?
    Proviamo a trasferire lo stesso ragionamento nel campo della finanza (per quanto assurdo possa sembrare): il contadino in questione si comporterebbe come un imprenditore che investe su un solo titolo in borsa. Nessun imprenditore fa una scelta così dissennata.
    Se si trasferisce lo stesso concetto in agricoltura, il rischio connesso alla monocoltura diviene ancora più evidente: quale che sia la scelta fatta, il raccolto è limitato a una o due stagioni. Quindi, per avere un introito bisogna attendere il raccolto e la vendita. Se il raccolto non dà il risultato sperato, si rischia di non avere di che sostentarsi. E, in ogni caso, secondo i dettami della monocultura, il terreno deve essere tenuto libero da intrusi di ogni tipo, vegetali e animali.
    La risposta è, dunque, inesorabilmente negativa.
    Riprendiamo in esame la famosa zolla meravigliosamente dipinta ad acquarello da Albrecht Dürer e domandiamoci: è possibile sostenersi semplicemente con la raccolta di piante commestibili allo stato spontaneo (erbacee, frutti, funghi, radici, ecc.)? Prima di rispondere, riflettiamo un attimo. Proviamo a contare, magari memorizzandole sulle dita, le piante dipinte da Dürer. La maggior parte degli osservatori ve ne riconoscono solo due (e nella maggior parte dei commenti sono citate soltanto le stesse due): il tarassaco (Taraxacum officinalis) e la piantaggine (Plantago major). In realtà vi si riconoscono anche la dattile (Dactylis glomerata), un’erba da foraggio spesso combinata all’erba medica (Medicago sativa); una delle duecento specie di agrostide, l’Agrostis stolonifera (una graminacea); l’erba fienarola (Poa pratensis); la pratolina (Bellis perennis), la pimpinella (Sanguisorba minor); il cinoglosso (Cynoglossum officinalis), una boraginacea e, infine l’achillea millefoglie (Achillea millefolium). Ne riconosciamo solo due? O, magari, neppure quelle? Ne dobbiamo dedurre di essere perfetti esponenti del tipo ‘animale urbano’ (di quelli che è bene non si avventurino da soli nei boschi alla ricerca di funghi).
    In realtà, anche se riconoscessimo tutte le nove piante presenti nel quadro, saremmo costretti ad ammettere che qualsiasi tentativo di sopravvivere esclusivamente a base del raccolto di erbe spontanee risulterebbe fallimentare. Si tratta infatti di esperimenti al limite, sicuramente apprezzabili, se non altro perché attivano la conoscenza diretta delle piante edibili allo stato naturale, ma, indubbiamente, pericolosi e, in ogni caso, ‘elitari’. A livello didattico, tuttavia, sono (dovrebbero essere) uno scenario fondamentale, soprattutto quando sono realizzati in aree appositamente dedicate alla formazione, già dai primissimi anni di età. Significa educare alla conoscenza, alla ricerca, alla sperimentazione, alla natura e alla comprensione delle sue caratteristiche in una condizione ‘originaria’, oggi praticamente scomparsa, almeno su larga scala. Da qui a pensare che si possa sostenere la popolazione in questo modo, c’è la stessa distanza che intercorre tra ciò che abbiamo a disposizione – il pianeta terra, sempre più sfruttato e, per molti aspetti, giunto pericolosamente al capolinea – e l’ipotetica possibilità di avere a disposizione altri mondi. Per capirlo, può essere utile leggere A cena con Darwin di Jonathan Silvertown (Bollati Boringhieri 2017), in cui l’autore ripercorre la storia dell’evoluzione dell’uomo in stretto rapporto con l’evolversi delle abitudini alimentari. A questa lettura se ne potrebbero unire molte altre. Distanti tra loro, ma sicuramente complementari, sono La rivoluzione del filo di paglia, di Masanobu Fukuoka (LEF 1980) e I padroni del cibo, di Raj Patel (Feltrinelli 2015).
    La lettura potrà guidarci nella riflessione sulla provocazione insita nel pensare a un ettaro di terra come fonte di lavoro, di sostentamento e di entrata per una famiglia (due adulti e due bambini, ad esempio). Cioè nel pensare a un ettaro come una provocazione … (1.continua)

     

  • TRA MEDITERRANEO
    E OCEANO. I VIAGGI
    DI UN MODERNO ULISSE
    E DEL SUO MODELLO

    data: 22/02/2021 17:27

    Leggere poesia è sempre una sfida. O, almeno, lo è per chi come me ha accettato per decenni la prova quotidiana di introdurre alla poesia decine di alunni. Anzi, una sfida doppia, considerando che la poesia che ero chiamata a proporre è quella greca e latina. Spesso, tripla, quando mi rendevo conto che qualcosa si era perso per strada, rendendo indispensabile ricostruire o costruire le fondamenta indispensabili per accostarsi alla poesia. Per questi motivi, solitamente non mi avventuro nel recensire opere poetiche a meno che non mi accada di incappare in versi che mi lanciano a loro volta – esplicitamente – la sfida. In questo caso, l’eccezione è rappresentata dalla traduzione della Trilogia di Ulisse di Alejandro Oliveros (Valencia, 1948) a opera di Marcela Filippi, impegnata attivamente nel far conoscere poeti spagnoli e latino-americani con la sua attività.
    Il fatto di trattarsi di poesia in traduzione complica ulteriormente le cose (esattamente come le complica la lettura dei versi di Callimaco o di Orazio). Per facilitare la lettura, ripropongo di seguito il testo in questione, reperibile nel sito di Marcela Filippi (intraduzionisolmar.blogspot.com):

    ULISES (1)
    Desde la cubierta de esta precaria barcaza
    observo por última vez el paisaje que fue
    mi aislado refugio durante más de diez años.
    En lo más alto de la montaña, amparada
    por anchos samanes y rosáceos bucares,
    la gruta de apacibles estancias y pulidas
    paredes. La morada de Calipso venerada,
    la diosa de caoba cabellera y torneados
    muslos, la de níveos pechos y lindos ojos.
    La hija de Atlante generosa, que me escondió
    de enemigos arteros y vivencias falaces,
    que me amó sin denscanso como una posesa.
    ¡Cuántas veces se lamentó Calipso por los
    reiterados preparativos de mi partida!
    Tendida suavemente en el lecho me advertía
    los riesgos del viaje y tornaba la permanencia
    aún más dulce y sus cantos más seductores.
    Ya no es su risa la que viene a mis oídos
    sino el largo llanto que, como un delfín, escolta
    la nave en la más ingrata de las partidas.
    Que no es fácil terminar con lo que, sin avisos
    ni premoniciones, la Fortuna ha comenzado.
    Cuando llegué a estas tierras no pensé que habría
    de permanecer más de unas horas. Una parada
    apenas en el largo viaje de regreso a Ítaca,
    una noche de amor con la codiciada ninfa.
    Más de diez años han pasado y llegó la hora
    de aprovechar la corriente y el viento del este.
    Veo cómo la tarde violeta cae sobre la isla
    que se aleja con buena parte de mi vida.
    Bajo el cielo quedan para siempre los rasgos
    y las voces de espléndidos días y sus noches.
    La niebla blanquecina se va extendiendo
    por el frondoso espacio. La gruta de Calipso
    desaparece de mis ojos. Sus luces brillan
    como una estrella oscurecida en la memoria.

    ULISES (2)
    ¡Me costó tanto regresar a Ítaca!
    Nunca imaginé que el ponto estuviera
    poblado de criaturas tan extrañas.
    Gigantes comedores de un solo ojo,
    muchachos inyectándose en los andenes,
    aquellas caras pálidas, heladas,
    y distraídas, recordando el Hades;
    las islas de Caribdis, Sicilia de Etna
    y escopeta, abundosa en vino y en mieses.
    Tantas veces oré por mi regreso,
    pisar esta tierra de naranjales
    y bucares, repisar el verdoso
    aire del campo y el aroma del mango,
    hasta el calor infinito, el bochorno
    del verano y la humedad de mosquitos.
    La patria en la distancia es tan dorada
    como la luz de Florencia en primavera.
    Desde la altura despejada de esta
    torre contemplo las vinosas corrientes
    del océano. Más allá, amenazas
    de todo tipo, la hierba acechante
    y el dolor de los miembros infectados,
    la gangrena y la sangre oscurecida,
    los sudores y la fiebre terciaria,
    el ávido apetito de Polifemo
    y su amenaza de cegar mi vida.
    No sé como pude escapar
    a la muerte empedernida, a sus lazos
    y acechanzas, a sus citas y quebrantos.
    Cuánto no daría, sin embargo, por
    hacerme de nuevo a la mar, alistar
    el resbaloso leño y encontrarme
    con el cuerpo desnudo de Calipso,
    o, en la noche arenosa de Cumboto,
    abrevar de Circe en sus blancos senos.

    ULISES ,50 ae
    He vuelto a navegar estas costas del Tirreno
    encantado. Lleno de canas y dificultades
    para leer los señales en el cielo y las notas
    en los viejos mapas fenicios. Hace diez años
    las mismas aguas bondadosas fueron camino
    de la nave, y sus cielos siempre más amables
    que los ingratos del Atlántico o la oscura Inglaterra.

    Me he detenido en las alturas de Cuma a consultar
    la blanca virgen del antro, lejana e infinita.
    No fueron tantas, por temor, las preguntas y han sido
    más cortas, como paso de entierro, las respuestas:
    "Nada de lo que te depara el futuro ha de ser largo.
    Haz como los hombres de la costa: los días
    son peces voladores, atrápalos, manténlos
    vivos junto a tu corazón, no los dejes huir,
    no los dejes morir por falta de agua o esmero".

    De Cuma a la isla Circea, la quieta morada
    de la esbelta diosa de cabello hasta la cintura.
    El paso de las estaciones, que todo puede,
    había transformado su hermosa apariencia:
    la cabellera más breve, la mirada demorada
    más allá de la superficie de mis ojos sin brillo.
    Toda pasión dsiminuida, ausente todo desvarío,
    reservada a la memoria inconstante la escritura
    de las noches blancas, el temblor entrelazado
    frente al avance de la aurora, el dolor de los besos,
    la luz de las caricias extendidas como un lago,
    el abrazo sin piedad y las marcas en el muslo.
    Otra Circe, de encantos apagados y serenos labios,
    a salvo de la incertidumbre y el insomnio,
    de los sueños postergados y puertas escondidas,
    otra Circe, de espaldas a un Ulises distraído.

    Delfines y tristezas navegaron con la nave
    hacia el sur, más allá del golfo de Paténope
    y el inmaculado santuario de Isis. A un lado,
    la isla de Capri, la de luz bendecida, el único
    resto de Paraíso entre nosotros. Más allá Sorrento
    y luego el aroma a desastre en las rocas espumosas,
    con la advertencia de Circe fresca en la brisa:
    "Tanto como los vientos de mi corazón ha cambiado
    la fascinación de las sirenas. Será necesario
    más de una cuerda para salvarte. Son jóvenes
    ahora y atractivas. Sus ojos de miel derramada,
    y tan peligrosos como el silencio. Cuídate,
    Ulises, de estas criaturas que dejaron plumas
    por piel de bronce y vientres turgentes, bocas
    entreabiertas y juventud de alondra. Cuídate,
    Ulises, a los cincuenta no bastará una cuerda para salvarte".
    (da Espacios en fuga. Poesía reunida 1974-2010. Colección de La Cruz del Sur. Editorial Pre-Textos)

    ULISSE (1)
    Dal ponte di questa precaria barcaccia
    osservo per l'ultima volta il paesaggio che fu
    il mio isolato rifugio per più di dieci anni.
    Nel punto più alto della montagna, protetta
    da grossi samani e bucares rosati,
    la grotta di placide stanze e levigate
    pareti. La dimora di Calipso venerata,
    la dea dai capelli di mogano e modellate
    cosce, quella dai seni nivei e occhi belli.
    La figlia di Atlante generosa, che mi nascose
    da nemici insidiosi e da esperienze fallaci,
    che mi amò senza sosta come un'ossessa.
    Quante volte Calipso si lamentò per i
    reiterati preparativi della mia partenza!
    Distesa dolcemente sul letto mi avvertiva
    sui rischi del viaggio e rendeva la permanenza
    ancor più dolce e più seducenti i suoi canti.
    Non è più il suo riso che giunge alle mie orecchie
    ma il lungo pianto che, come un delfino, scorta
    la nave nella più ingrata delle partenze.
    Non è facile porre fine a ciò che senza avvertimenti
    né premonizione, la Fortuna ha iniziato.
    Quando sono arrivato a queste terre ho pensato che sarei
    rimasto non più di qualche ora. Una sosta
    appena nel lungo viaggio di ritorno a Itaca,
    una notte d'amore con la desiderata ninfa.
    Sono passati più di dieci anni ed è giunta l'ora
    per sfruttare la corrente e il vento dell'est.
    Vedo come la violacea sera cade sull'isola
    che si allontana con buona parte della mia vita.
    Sotto il cielo rimangono per sempre le tracce
    e le voci di splendidi giorni e notti.
    La nebbia biancastra si va diffondendo
    attraverso il frondoso spazio. La grotta di Calipso
    scompare dai miei occhi. Le sue luci brillano
    come una stella divenuta scura nella memoria.

    ULISSE (2)
    Mi ci è voluto tanto per tornare a Itaca!
    Non avrei mai immaginato che il ponto fosse
    popolato da creature così strane.
    Giganti mangiatori con un solo occhio,
    ragazzi che si drogano sulle banchine,
    quelle facce pallide e gelate,
    e distratte, che ricordano l'Ade;
    l'isola di Cariddi, Sicilia dell'Etna
    e lupara, ricca di vino e raccolti.
    Tante volte ho pregato per il mio ritorno,
    calpestare questa terra di aranceti
    e bucares, respirare la verde
    aria di campagna e l'aroma del mango,
    perfino il calore infinito, l'afa
    dell'estate e l'umidità da zanzare.
    La patria nella lontananza è così dorata
    come la luce di Firenze in primavera.
    Dall'altezza chiara di questa
    torre contemplo le vinose correnti
    dall'oceano. Oltre, minacce
    di ogni sorta, l'erba in agguato
    e il dolore degli arti infetti,
    la cancrena e il sangue scuro,
    la sudorazione e la febbre terziaria,
    l'avido appetito di Polifemo
    e la sua minaccia di accecare la mia vita.
    Non so come ho potuto scappare
    alla morte accanita, al suo cappio
    e trappole, ai suoi appuntamenti e ingiurie.
    Quanto non darei, tuttavia, per
    tornare nuovamente in mare, preparare
    lo scivoloso legno e trovami
    con il corpo nudo di Calypso,
    o, nella sabbiosa notte di Cumboto,
    bere da Circe dai suoi bianchi seni.

    ULISSE 50 ae
    Ho navigato di nuovo su queste coste del Tirreno
    incantato. Pieno di capelli bianchi e difficoltà
    per leggere i segnali nel cielo e le note
    sulle vecchie mappe fenicie. Dieci anni fa
    le stesse acque gentili furono il cammino
    della nave, e dei suoi cieli sempre più amabili
    di quelli ingrati dell'Atlantico o dell'oscura Inghilterra.

    Mi sono fermato sulle alture di Cuma per consultare
    la bianca vergine dell'antro, lontana e infinita.
    Non furono tante, per paura, le domande e furono
    ancor più brevi, come passo da sepoltura, le risposte:
    "Nulla di ciò che riserva il futuro dev'essere lungo.
    Fai come gli uomini della costa: i giorni
    sono pesci volanti, catturali, mantienili
    vivi nel tuo cuore, non farli scappare,
    non lasciarli morire per mancanza d'acqua o di cure. "

    Da Cuma all'isola di Circe, la quieta dimora
    della slanciata dea dai capelli lunghi fino alla vita.
    Il passaggio delle stagioni, che tutto può,
    aveva trasformato la sua bellissima apparenza:
    i capelli più corti, lo sguardo più lento
    oltre la superficie dei miei occhi spenti.
    Ogni passione diminuita, assente ogni follia,
    riservata alla memoria incostante la scrittura
    delle notti bianche, il tremore intrecciandosi
    di fronte alla crescita dell'aurora, il dolore dei baci,
    la luce delle carezze diffuse come un lago,
    l'abbraccio senza pietà e i segni sulla coscia.
    Un'altra Circe, d'incanti affievoliti e serene labbra,
    al sicuro da incertezza e insonnia,
    da sogni rimandati e porte nascoste,
    un'altra Circe, di spalle a un Ulisse distratto.

    Delfini e tristezze navigarono con la nave
    verso sud, oltre il golfo di Partenope
    e l'immacolato santuario di Iside. Da una parte,
    l'isola di Capri, quella dalla luce benedetta, l'unica
    rimanenza di paradiso tra di noi. Oltre Sorrento
    e poi l'aroma di sciagura sulle spumeggianti rocce,
    col nuovo avvertimento di Circe fresca nella brezza:
    "Così come i venti del mio cuore è cambiato
    il fascino delle sirene. Sarà necessaria
    più di una corda per salvarti. Sono giovani
    ora e attraenti. I loro occhi di miele versato,
    e così pericolosi come il silenzio. Guardati bene,
    Ulisse, da queste creature che hanno lasciato piume
    per pelli di bronzo e turgidi ventri, bocche
    socchiuse e gioventù di allodola. Guardati bene,
    Ulisse, ai cinquanta non basterà una corda per salvarti. "

    (Trad. Marcela Filippi)

    Per un’abitudine ormai irrinunciabile, procedo per gradi. Se qualcosa nel testo, per quanto apparentemente insignificante, sollecita la mia attenzione, lo rileggo più volte.
    In questo caso specifico, dedico la prima lettura all’originale, pur non conoscendo la lingua. Meglio, conoscendola solo per inferenza (ossia, da quello che riesco a cogliere con al mio attivo italiano, latino e portoghese). Si tratta di una lettura per molti aspetti fallimentare (non mi permette di cogliere appieno il significato del testo né tantomeno tutte le sfumature che lo caratterizzano) ma sufficiente a richiamare l’attenzione su nomi, vicende, luoghi. Si impone la lettura in italiano. Comincio a sottolineare alcuni versi, ad appuntare accanto a qualche verso un nome, alcuni punti interrogativi.
    La voce narrante è quella di Ulisse. Parla e se stesso. Dall’imbarcazione – quella che ha costruito con le sue mani – guarda all’isola dove si è trattenuto per anni, presso Calipso. E’ tempo di tornare a Itaca. Il viaggio tante volte rimandato è già iniziato. La terra ospitale di Calipso è ormai lontana. Non c’è dubbio, ci troviamo nel V libro dell’Odissea: Calipso, su richiesta degli dei, deve lasciar partire Ulisse, aiutandolo a prendere il largo. Doveva essere una sosta di poche ore o poco più (può Ulisse rinunciare a una notte d’amore con una ninfa?). È stata una sosta di alcuni anni. Questo il primo quadro.
    Secondo quadro. Ulisse ricorda. Nel pensiero scorrono e si confondono le disavventure del viaggio, i mostri, i malanni, i paesaggi. Rimpiange Calipso. Ma anche Circe. “Mi ci è voluto tanto per tornare a Itaca!”. È l’incipit di questa seconda sezione della trilogia. Non c’è dubbio, siamo ancora nell’Odissea. Tra le parole si riconoscono le avventure del viaggio raccontate da Ulisse, in prima persona, alle corte dei Feaci (dove, di sfuggita, ha incontrato Nausicaa, quel poco che basta per affascinarla e per rischiare di perdere di nuovo l’occasione del ritorno. Ma non la cita. Probabilmente, un’avventura mancata. Nessuno potrà mai saperlo con certezza).
    Terzo quadro. Ulisse ha ripreso il mare. L’arrivo a Itaca non c’è. L’incontro con Penelope neppure. Un’ellissi di alcuni anni. “Ho navigato di nuovo su queste coste del Tirreno / incantato”. Questo l’incipit. Sono passati anni. Il presente è un nuovo viaggio. Vecchi e nuovi incontri. Circe e la Sibilla di Cuma. Circe lo mette in guardia. entrambi sono invecchiati. Le sirene sono in agguato. Ma sono altre sirene, giovani e disinibite. Pericolose.
    Siamo ancora nell’Odissea. Ma solo di sfuggita. L’eroe dell’Odissea mal tollera la sedentarietà. Penelope lo sa bene. Si rassegna anche a scomparire. Si abitua all’assenza. Il viaggio che intraprende contribuisce a fare di Ulisse un eroe ormai avanti negli anni che vive o si illude di vivere altre avventure, in approdi sempre diversi. Forse, più mentali che reali. In giro per il Mediterraneo, e oltre, nel vasto oceano tra Capri e le coste venezuelane.
    La chiave di lettura deve essere nella sigla, posta accanto al titolo (50 ae). Forse non sono passati solo alcuni anni. Forse ne sono passati migliaia.

    Che cosa c’è tra l’Odissea e il poeta contemporaneo? Tra Omero e Alejandro Oliveros?
    Duemila e ottocento anni di letture odissiache, prima di tutto. Dalle recitazioni degli aedi a quelle dei rapsodi, dalla riuso di temi omerici nel teatro, nell’Atene del V sec., alle riflessioni sull’identità, il significato e il portato dell’epica nei filosofi. C’è la poesia alessandrina – Callimaco, in particolare - che richiama l’esperienza dell’epica, la utilizza, la tradisce e la recupera, in forma breve, colta e allusiva. E, di seguito, la poesia latina, quella italiana, quella europea.
    Ogni poeta è poeta a modo suo, con la sua ispirazione poetica, il suo immaginario e il suo modo di guardare il mondo e di esprimerlo in versi. Ma ogni poeta è anche lettore di poesia. In misura diversa, si pone nel solco di una tradizione che si è differenziata e moltiplicata, che ha scavalcato frontiere, senza temere il confronto, l’emulazione, il richiamo e l’allusione.
    Non teme di tradire né teme di sovrapporsi a un eroe divenuto archetipo dell’amore per la conoscenza (in Dante) ma anche dell’uomo del Novecento, per molti aspetti inadeguato (come in Joyce), o semplicemente, mascalzone (come in Jean Giono).
    C’è la combinazione di elementi prevenienti da mondi diversi. Il paesaggio è una mescolanza di elementi mediterranei e di elementi estranei, lontani, esotici. Il Mediterraneo, in realtà, non è mai nominato. È nominato il Tirreno. È nominato l’Oceano (che L’Ulisse dantesco non temeva di affrontare per amore di conoscenza) e sono suggerite le terre oltreoceano con alcune piante tipiche della vegetazione tropicale. Sono nominate località precise del Tirreno (quasi che Ulisse sia un gaudente in cerca di avventure in prestigiosi luoghi di vacanza).
    C’è la contaminazione letteraria (la Sibilla di Cuma rinvia all’Eneide di Virgilio, il quale, a sua volta, ha tratto ispirazione dai poemi omerici per il suo poema, ponendosi sulla scia della poesia alessandrina).
    I confini del viaggio dell’Ulisse omerico, le cui tappe, seppure non sempre riconoscibili, si situano comunque all’interno del ‘mare chiuso’, si sono spezzati. Il viaggio è in larga parte un viaggio esperienziale dell’uomo e del poeta, eredi, ancora nel XXI secolo, del viaggio archetipico dell’eroe vagabondo per eccellenza, immortalato nell’Odissea.
    E’ una conferma dell’attualità indiscussa del modello omerico e dei mille e mille percorsi che il materiale e i personaggi dei poemi possono assumere negli autori contemporanei.

     


     

  • TRENI SPECIALI
    PER BAMBINI IMPAURITI
    IN QUEL LIBRO DEL '54

    data: 06/02/2021 11:40

    Ci sono libri di cui vale la pena parlare, anche se sono ‘scomparsi’. I motivi per cui ne vale la pena sono spesso molteplici. Nel caso di Treno speciale, unico romanzo scritto da Fernanda Macciocchi, di motivi ne ho trovati talmente tanti che ho ritenuto necessario parlarne.
    Sicuramente è un libro che non si trova in libreria. Se ne possono trovare alcune vecchie copie nel mercato dell’usato e, sicuramente, in qualche biblioteca. Scriverne potrebbe essere una goccia nel mare del silenzio per auspicare una sua ripubblicazione a partire dalla considerazione che si tratta di un romanzo destinato ai ragazzi (dai nove anni in su, fino a quando non cominciano a ‘snobbare’ tutto ciò che ha sentore di qualcosa ‘da piccoli’). Naturalmente la fascia di età per la lettura dipende molto da come i ragazzi sono abituati a casa e dall’esperienza di lettura a scuola: quanto prima vengono a abituati – a casa e a scuola – a leggere tanto più avranno sviluppato l’attitudine a farlo e, di conseguenza, a continuare (1).
    La fascia di età è importante perché l’autrice del romanzo ha tratto ispirazione da una vicenda storica, svoltasi tra il 1946 e il 1952 (2), di cui ricostruisce un segmento trasferendolo in una narrazione liberamente ispirata alla realtà, rispettata nella sostanza ma frutto della sua fantasia nei personaggi e nei dialoghi, verosimili, ma non riconoscibili, di ambientazione napoletana, nella prima parte e modenese, nella seconda, con il ricorso prevalente al dialogo tra i ragazzini divenuti protagonisti.
    Il romanzo è stato scritto quando la vicenda si era appena conclusa. L’autrice, Fernanda Macciocchi (1931), nell’anno in cui il romanzo è stato pubblicato dalla casa editrice Vallecchi – il 1954 -, aveva 23 anni, era redattrice de “Il Pioniere” il giornale per ragazzi diretto da Dina Rinaldi e Gianni Rodari, e sicuramente aveva conoscenza diretta della vicenda in quanto sorella di Maria Antonietta Macciocchi (1922-2007) che, nel quadro della sua attività politica nell’UDI e nel PCI, aveva contribuito direttamente, proprio a Napoli, all’organizzazione di quei treni ricolmi di bambini impauriti e speranzosi. È facile immaginare le conversazioni tra le due sorelle sull’attività portata avanti dalla più grande e il grado di coinvolgimento della più giovane nel contatto con l’impegno, le storie e le impressioni che la sorella viveva in prima persona.
    Su questa base ha costruito il romanzo che ha come protagonisti tre ragazzini napoletani che dialogano, si incontrano, si organizzano, scherzano, vivono la loro situazione aiutandosi sia in casa propria sia nelle case delle famiglie adottive. L’ambientazione, prima napoletana, poi modenese, ricostruisce le giornate di questi bambini tra i vicoli di Napoli e nelle ‘nuove’ case. Le giornate napoletane sono ambientate nelle vie e nelle piazze, tra i servizi per la famiglia, l’apprendistato in qualche bottega, le marachelle tipiche di bambini abituati a vivere per molta parte del tempo in strada, la felicità di quando riescono a mangiare. Quelle modenesi sono tutte dedicate alla scoperta di case costruite con criteri diversi, paesaggi, abitudini e lingua differenti, non senza qualche fraintendimento con genitori e fratelli ‘adottivi’, la frequenza regolare della scuola e, in generale, in un diffuso clima di solidarietà, che contribuisce a sciogliere paure e sospetti nei bambini partiti verso l’ignoto.
    Alla fine tutti tornano, nonostante qualcuno avesse pensato di fermarsi presso le famiglie ospitanti, non certo per oblio della famiglia o per rifiuto della condizione di povertà, quanto piuttosto per non gravare sulla famiglia originaria. Il racconto è affidato a un narratore onnisciente che conosce la vicenda, la presenta, interviene per raccontare retroscena, punti di sutura, introdurre riflessioni e chiarimenti, facendosi da parte per introdurre i personaggi che, parlando tra loro, fanno avanzare la vicenda (3).
    Il testo è corredato dalle illustrazioni di Giovanni Boselli Sforza (Asmara 1924 – Roma 2007), rispondenti al gusto dell’epoca e, dunque, per certi aspetti, datate, ma sicuramente perfettamente in linea con la narrazione verbale. All’epoca della pubblicazione italiana, ebbe anche traduzioni estere, in Albania, Cecoslovacchia e Unione Sovietica.
    Avrebbe senso riproporlo oggi? Esiste un pubblico al quale rivolgerlo?
    Riconsiderandolo a distanza di alcuni giorni dalla celebrazione del Giorno della memoria per le vittime dell’Olocausto, istituito dalle Nazioni Unite il 1 novembre 2005, durante la 42ª riunione plenaria e fissato per il 27 gennaio, ossia il giorno in cui, nel 1945, l'Armata Rossa liberò il campo di concentramento di Auschwitz, si può affermare senza tema di smentita che sarebbe una lettura perfetta ancora oggi per ricostruire ‘dal vivo’ una vicenda storica nella fase della prima adolescenza, per una scuola fattivamente ispirata ai principi costituzionali e impegnata a formare cittadini consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri, a partire dal concetto di solidarietà “politica, economica, sociale” (Art. 2 della Costituzione).
    È inoltre un’ottima palestra per parlare di memoria. Scritto a ridosso della vicenda, nata dall’idea di dare un sostegno fattivo alle popolazioni meridionali messe più duramente in difficoltà dalla guerra per le pregresse difficoltà economiche, e affidato per grande parte alle parole di ragazzini che quelle vicende hanno vissuto realmente, pur essendo un testo di narrativa, ha l’indubbio vantaggio della vicinanza dell’autrice con una delle protagoniste di quell’azione di solidarietà. Non è frutto di ricerca né testimonianza diretta, ma una narrazione che ha per protagonisti personaggi ideati dall’autrice, sulla base di un reale coinvolgimento con quell’azione di solidarietà di cui la sorella Maria Antonietta fu tra le artefici.
    Oggi avrebbe bisogno di un’introduzione volta a presentare i fatti e a mettere in condizione il lettore di comprendere la vicenda oggetto della narrazione in prima persona o, meglio ancora, tramite la mediazione dell’insegnante e del genitore, proprio per fornire gli elementi necessari a una reale comprensione del testo. La prefazione presente nell’edizione del 1954 sarebbe infatti insufficiente, a distanza di oltre settanta anni, a meno che, naturalmente l’adulto che propone la lettura non abbia letto la ricerca dedicata in modo specifico a questa vicenda (2).
    In tal senso, il romanzo (4) di Fernanda Macciocchi potrebbe essere inserito, a pieno titolo, in un percorso di lettura dedicato alla memoria di un decennio estremamente complicato – quello tra il 1940 e il 1950 – a testimonianza che oltre al dramma dei treni della morte diretti nei campi di concentramento, ideati per l’eliminazione dei cittadini di origine ebraica e di altre categorie invise al nazismo e al fascismo, sono esistite encomiabili vicende di solidarietà, durante e subito a ridosso della fine della guerra.
    Le iniziative di ricerca e salvaguardia dei testimoni dei fatti di quel decennio, che si aggiungono alle testimonianze scritte, già pubblicate o ancora in via di pubblicazione, sono tanto più importanti proprio perché, per questioni anagrafiche, il numero dei testimoni va diminuendo di anno in anno, con il rischio dell’oblio, dettato anche dalla distanza temporale. Così, fatti che hanno faticato a emergere in prossimità degli eventi (5) – quasi che l’enormità di quanto avvenuto li rendesse incredibili e, dunque, falsi – potrebbero correre il rischio di essere dimenticati per la seconda volta per mancanza di testimoni diretti. A maggior ragione è importante l’opera di quanti si dedicano a individuare testimoni e testimonianze, di morte ma anche di solidarietà, per metterle al riparo dall’obblio. E questo non solo un giorno all’anno ma tutti i giorni dell’anno, un anno dopo l’altro.

    1. È proprio questa attitudine l’unica in grado di contrastare il fenomeno illustrato recentemente da Maria Rosaria Grifone (“Covid-19: vendite record per i videogiochi” su Infodem.it).
    2. La vicenda dei treni organizzati dall’Unione Donne Italiane (UDI) per accompagnare i bambini di famiglie in gravi difficoltà economiche per gli strascichi della guerra, verso famiglie adottive per un periodo di alcuni mesi, è stata oggetto di un lungo lavoro di ricerca svoltosi tra il 2002 e il 2006, e proseguito fino al 2011 per la realizzazione di un documentario cinematografico. Dunque, ha preso il via a più di cinquant’anni dall’inizio delle vicende che racconta. In questo lasso di tempo Giovanni Rinaldi con il team di Alessandro Piva ha individuato i testimoni, li ha intervistati e registrati, mentre il team faceva le riprese, raggiungendoli nelle città di residenza. La ricerca è confluita ne I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie (Ediesse 2009) di Giovanni Rinaldi e nel film documentario Pasta nera di Alessandro Piva (2011).
    3. Una panoramica sulle tipologie del narratore si trova in Andrea Bernardelli, La narrazione, Laterza (1999) 2013.
    4. Treno speciale è la prima opera di narrativa ispirata ai treni della solidarietà e solo recentemente è uscito, per i tipi della casa editrice Einaudi, un altro romanzo, di Viola Ardone, Il treno dei bambini (2019), derivato esplicitamente dalle vicende narrate dai testimoni e raccolte ne I treni della felicità di Giovanni Rinaldi, e promosso come prima opera narrativa dedicata alla vicenda.
    5. Le testimonianze scritte redatte dai sopravvissuti, a partire da Se questo è un uomo di Primo Levi, faticarono ad essere accettate per la pubblicazione o, comunque, rimasero isolate e ben presto dimenticate, nel primo decennio successivo agli eventi e oltre. Un caso paradigmatico è rappresentato da J. Mesnil Amar, Quelli che non dormivano. Diario 1944-45, Edition de Minuit, 1957, ripubblicato in francese solo nel 2008 e in italiano nel 2009 dalla Casa editrice Guanda.

     

     

  • E SE COMINCIASSIMO
    A FORMARE CITTADINI?

    data: 18/01/2021 19:31

    Fare parte di un blog è una responsabilità. Sapere che altri leggono quello che si scrive comporta un impegno (documentarsi, scrivere bene, avere come obiettivo la chiarezza, ecc.). In realtà anche il ruolo di lettore è impegnativo se non altro perché la varietà degli interventi costringe a cimentarsi con argomenti poco noti sui quali è necessario spendere più tempo.
    Mi è capitato, recentemente, con un articolo - Libertà d'informazione: serve a tutelare cittadini e democrazia – che pone una questione fondante, sulla quale vale la pensa riflettere.
    L’autore, Paolo Butturini, tratta del corretto rapporto tra informazione e democrazia e lo fa con l’obiettivo di ristabilire la giusta relazione tra i due termini, precisando che “la Costituzione intende difendere l’interesse dei cittadini non quello di una pur nobile professione, dal che ne discende che quello dei giornalisti è un diritto riflesso. Non è una distinzione di poco conto, perché chiarisce quale sia la gerarchia delle tutele e il fatto che i professionisti dell’informazione ne sono investiti come delegati a proteggerle ed esercitarle in nome e per conto della collettività”. L’articolo si apre, efficacemente, con una espressione «Senza libertà di informazione non c’è democrazia». I due termini, peraltro, precisa l’autore, “alla luce dell’insieme del dettato costituzionale, non sono sullo stesso piano: ovvero la libertà di informazione è uno dei caposaldi della democrazia, ma la democrazia non si esaurisce nella libertà di informazione. Senza le fondamenta non è dato costruire una casa, ma da sole non bastano ad affermare che si sia realizzato un edificio”.

    Lo stesso ragionamento vale per altri settori professionali che intervengono nella costruzione della democrazia. In particolare per quello di un insegnante al quale, dal primo livello all’ultimo, è affidato il compito di formare il giovane chiamato a essere, prima di tutto un cittadino. Ripenso al percorso formativo e professionale. E provo ad affrontare la questione da questo punto di vista a partire dalla considerazione che il binomio 'informazione – democrazia’ dovrebbe passare per un altro termine fondamentale, colpevolmente trascurato nella costruzione della democrazia, nel corso di decenni. Il termine in questione è ‘formazione’.
    Il primo compito di una democrazia, nel suo complesso, tramite chi viene posto dai cittadini alla sua guida, è proprio la formazione dei cittadini, dai primi anni alla piena cittadinanza che si esprime (si dovrebbe esprimere) nel voto e, per quanto possibile a ciascuno, nell’impegno attivo di cittadino. Quindi, la scuola – dal livello iniziale a quello più alto – dovrebbe essere (dovrebbe essere stata) il perno di tutto il sistema. Ora, per descrivere il percorso che porta un aspirante docente in classe con il gravoso compito di ‘formare’ (nel settore disciplinare di competenza), posso elencare corsi di formazione, situazioni tragiche e comiche, affollate soste nei locali del Provveditorato agli studi, supplenze, punteggi, concorsi (o il ‘miraggio’ dei concorsi), senza sostanziali cambiamenti se non nelle procedure che oggi passano unicamente per le piattaforme online. Nulla che abbia a che fare realmente con la ‘formazione’. Lo sa chiunque, in buona fede, abbia percorso e percorra questo cammino. Perché non esiste, e non è mai esistito, un progetto unitario per la formazione degli insegnanti. Ciascuno è entrato in classe con il proprio bagaglio di informazioni ‘disciplinari’ con una vaga idea di quello che avrebbe dovuto fare. Gli studi universitari, per quando di alto livello, non prevedono un percorso integrato volto a ‘formare’ un ‘formatore’ che, a sua volta, ha il compito, fondamentale, di formare un cittadino, capace di capire il mondo che lo circonda, di decodificare i messaggi che riceve, di informarsi e di informare correttamente, di ‘partecipare’ al sistema democratico (con l’impegno, con lo scambio di opinioni e il dibattito, con il voto) oltre che capace di fare immagazzinare le nozioni e le pratiche fondanti delle discipline afferenti al percorso di studi prescelto. La realtà è che la formazione è stata delegata al singolo, con il risultato che ognuno si è attrezzato come ha potuto, sulla base della propria consapevolezza, del livello culturale raggiunto, degli strumenti a disposizione. La conseguenza, inevitabile, è una diversificazione di procedure, di conoscenze e di acquisizioni sempre più evidente nei fatti (il livello sempre più carente nelle competenze linguistiche, nella capacità di lettura e comprensione di un testo), che si propaga inarrestabile in ogni dove. Le indicazioni provenienti dagli organi statali a ciò preposti (in termini di schede, di questionari, di prove preconfezionate, ecc.) sono diventate gli unici punti di riferimento per intere generazioni di insegnanti e di alunni. Gli esiti si fanno sentire con prepotenza.
    Una delle questioni irrisolte della democrazia è proprio questa. E invade – inevitabilmente – tutti i campi. Il mondo del giornalismo non fa eccezione, se non altro perché anche la formazione dei giornalisti passa per la scuola. Trovo la risposta nell’apertura di un articolo di Giuseppe Marchetti Tricamo, successivo di soli pochi giorni a quello di Paolo Butturini:
    Quando non c’erano le scuole di giornalismo e le Università non se ne occupavano ancora, erano i quotidiani a formare i giovani che sognavano di andare per il mondo a realizzare reportage o scrivere cronache di eventi che non si sarebbero mai ripetuti. E in quell’attesa stavano lì a imparare a fare ma soprattutto a essere giornalisti, tra le telescriventi delle agenzie di stampa, le vecchie Olivetti, le bozze, i clichés e i flani da controllare, mentre i linotipisti continuavano a picchiettare sulle loro enormi tastiere per produrre le colonne di piombo degli articoli e le rumorose rotative erano pronte per regalare l’emozione di ogni sera: la prima copia del giornale, profumata di carta e d’inchiostro” (Stefano Tomassini giornalista e storico di Roma risorgimentale, 15/01/2021). Quindi i giornalisti si formavano (si dovrebbero formare) nelle redazioni dei giornali, ossia sul campo. Con una marcia in più rispetto agli insegnanti per i quali ‘sul campo’ ha sempre significato e significa essere catapultato, da solo, davanti ad una classe.
    Poi sono venute le scuole di giornalismo. E la moltiplicazione degli indirizzi universitari. E anche i corsi per la formazione degli insegnanti. Questi ultimi troppo spesso senza un progetto chiaro alla base, se non quello – chiarissimo – di replicare il sistema universitario. Sicuramente senza pensare che, se è indispensabile conoscere le basi della lingua per scrivere e correggere chi scrive (con autorevolezza e fermezza), per leggere e comprendere quello che si legge, per spiegare con cognizione di causa, è altrettanto indispensabile far capire che è impossibile prescindere da queste competenze per accedere a certe professioni, pena il fallimento della formazione.
    E, sia chiaro, non è solo una questione formale. È anche e, direi, soprattutto, una questione sostanziale. Insegnare comporta una dimensione civica, a partire dal rispetto della Costituzione. Quindi, quando si parla di libertà di insegnamento, è indispensabile parlarne alla luce del dettato costituzionale. Anche informare comporta una dimensione civica e coinvolge, potenzialmente, un numero di persone (cittadini) molto più ampio. Anche la libertà di informazione, dunque, è una libertà che si deve muovere entro il quadro dei dettami costituzionali.
    Nell’un caso e nell’altro, l’uso corretto degli strumenti, la documentazione, la chiarezza dei risultati da raggiungere (formare/informare) dovrebbero essere la norma, all’insegna della professionalità e della sua dimensione etica e ‘politica’.
    D’altra parte, in mancanza di un progetto, il mondo è cambiato, aprendo spazi prima impensati e livellando le conoscenze, introducendo nuovi modelli di comportamento a partire dal diffondersi della generale convinzione di poter scrivere – dovunque – senza rispettare l’ortografia, la punteggiatura, le concordanza e i tempi verbali –, con ampio spazio ai simboli, all’attacco, al turpiloquio, all’immagine (non sempre appropriata) e una generale abdicazione al linguaggio ‘a-sintattico’ o ‘pre-sintattico’. Tutte cose che lasciano ampio spazio all’ignoranza (culturale) e alla manipolazione delle notizie e delle idee.
    Le regole del gioco – a tutti i livelli della formazione – sono cambiate. Chi esce di scena lascia una situazione culturalmente sempre più incerta. Chi è sulla scena da ‘mattatore’, pretende di rimanervi e gli viene consentito di rimanervi, anche solo per ripetere le stesse cose, ormai stantie e superate (da intervistati / da intervistatori, poco importa, quel che conta è l’esserci). In assenza di progetti di formazione (civica e culturale), solidi e adeguati alla nuova realtà, lo scenario cambia, vorticosamente, e si impone, travolgendo competenze professionali e impedendo la formazione di competenze aggiornate nelle giovani generazioni (fondate sul ‘vecchio’ – ortografia, punteggiature, ecc., ma idonee al ‘nuovo’). La preoccupazione è evidente in uno dei commenti all’articolo di Paolo Butturini. L’autore, Michele Mezza, entra nel cuore della questione: “Le notizie non sono più il prodotto dei giornalisti, e i giornalisti, per altro, non sono più i soggetti principali del mercato dell’informazione. Sul primo punto non possiamo non constatare come il processo di disintermediazione abbia prodotto almeno un condominio della notizia, in cui i giornalisti inseguono e commentano notizie di flusso, di cui sono autori utenti di rete. Il secondo aspetto riguarda la potenza intelligente che concretamente lavora sulle notizie. In rete il 65 % delle informazioni non sono prodotte da essere umano”, puntando l’attenzione sul fatto che “oggi libertà e democrazia devono fare i conti con la potenza di un intelligenza artificiale che sta interponendosi fra il giornalista la notizia e fra questo due e gli utenti. Il tema è chi comanda oggi nell’informazione? I monopolisti della rete”.
    Comincio a temere che la scommessa – la formazione di un cittadino in un contesto democratico – a oggi - sia definitivamente perduta. A meno che un’ondata d consapevolezza non ci spinga in qualche modo a ricominciare a pensare in termini di formazione civica, ciascuno nel proprio campo e con le proprie competenze.

    Post Scriptum. Mi rendo conto che le questioni al margine di un articolo come Libertà d'informazione: serve a tutelare cittadini e democrazia di Paolo Butturini sono tante e tutte di rilievo. Contrariamente alla mia consuetudine, non inserisco note - sarebbero troppe - ma solo alcune osservazioni suppletive che possono chiarire meglio alcuni aspetti della professione ‘docente’. La scelta dell’insegnamento è tra le più gettonate a seguito di un corso di studi umanistici che pure non sono volti in modo specifico a preparare insegnanti. Nel caso specifico, uscire da un Istituto di Filologia classica insegna (insegnava /dovrebbe insegnare) a scrivere una tesi, a leggere e scrivere un articolo accademico, e a destreggiarsi con la scrittura saggistica. Non insegna certamente a scrivere articoli giornalistici (in tutta la loro varietà), Eppure, quando ci si trova a insegnare al biennio, le tipologie testuali fanno parte del programma. Dunque ci si deve ‘attrezzare’. Come? Ancora una volta “sul campo”: prima di tutto leggendo i giornali (faccio parte della generazione che ha vissuto da lettore la nascita di La Repubblica e che è in grado, sempre da lettore, di valutare i cambiamenti). Poi, con i libri di testo che, spesso, sono il terreno privilegiato per la formazione dell’insegnante prima che dell’alunno, in questo con l’aiuto, nel mio caso, di una casa editrice scolastica, dove ho trovato una redazione (forse, un po’ ‘vecchio stampo’) colta, affiatata, collaborativa e severa, e colleghi che si sono specializzati in campi diversi dell’editoria scolastica (ad esempio, Elisabetta Degl’Innocenti, autrice di Competenti in comunicazione oggi (Paravia, 2019). Infine, con la lettura di saggi (prima di scrivere queste righe, ho consultato, ad esempio, Come la democrazia fallisce di Raffaele Simone, Garzanti 2019 e ho in lista di attesa Il contagio dell’algoritmo di Michele Mezza, sul quale – da filologa mancata e da insegnate - dovrò ‘sudare’). Una nota a margine, sulla quale mi riservo di tornare e sulla quale tutti dovrebbero riflettere, è la convinzione, ormai fatta propria da governi di ogni orientamento, che la scuola debba esser paragonata a una azienda, alla quale però non è dato il diritto/dovere di giudicare l’esito degli studi dei singoli, rimuovendo progressivamente le verifiche intermedie e, dunque, la possibilità per lo studente di capire il livello raggiunto (e, di conseguenza, di migliorare). Che è esattamente il contrario di quel che avviene in una qualsiasi azienda che voglia essere produttiva, nello specifico settore in cui opera.
     

  • MA SERVE ANCORA
    SCRIVERE BENE?

    data: 02/01/2021 15:59

    Qualche tempo fa un articolo a firma Valentina Chiarini - nel suo blog su infodem.it - ha attratto la mia attenzione. Il titolo mi incuriosisce, come sempre quando si tratta di libri datati. Li considero infatti occasioni preziose per approfondire, raccogliere informazioni da aggiungere alla documentazione già disponibile, cartacea e non. Per di più, in questo caso, non si tratta di un libro ma di un’intera enciclopedia: “Il tesoro del ragazzo italiano, 80 anni dopo, a fronte della rete” (16/11/20) (1).
    Nel corpo dell’articolo trovo due frasi che mi colpiscono in modo particolare: la prima è relativa ai lavori domestici (2), la seconda alla scrittura: “C’è anche una parte che si chiama Scriver bene, e il primo capitolo s’intitola Punti e virgole”. Trattandosi di libri ormai reperibili soltanto sul mercato dell’usato (ammetto, ho pensato di acquistarli! Poi mi sono guardata intorno, volgendo lo sguardo alle librerie, e ho accantonato precipitosamente il pensiero), ho considerato che non c’è nulla di male a procurarsi i due capitoli in questione. Un veloce messaggio all’autrice e le foto delle pagine mi arrivano nel giro di pochi minuti (sono questi gli aspetti preziosi dei moderni mezzi di comunicazione!). Sul momento li accantono, poi li leggo in modo episodico, qua e là, decidendo di concentrarmi sulla scrittura, con la quale ho un rapporto professionale, da docente, mai sopito e forse un po’ maniacale.
    Penso che valga la pena parlarne perché la scrittura è divenuto un problema in quanto tale e in rapporto con i suoi esiti. Sia chiaro, ci sono molti che sanno scrivere e che scrivono bene. Ma molti, troppi, scrivono male, spesso malissimo e, nella maggior parte dei casi, senza averne la benché minima consapevolezza. Da cosa lo si ricava? Molto semplice: ormai si tende a scrivere molto e a rendere immediatamente pubblico quello che si scrive, senza nessun controllo della forma. L’idea di scrivere in brutta copia e di copiare appare antidiluviana, superata nei fatti dal correttore automatico che, peraltro, non evita “strafalcioni” di ogni tipo. Quelli da matita rossa e blu, di antica memoria, per intenderci.
    Alcuni casi sono emblematici. Ad esempio, le infinite discussioni per le correzioni di lingua italiana in un compito di lingua latina o greca, come se l’errore di italiano (grammaticale o sintattico, poco importa) non fosse a tutti gli effetti un errore. O, ancora, quelle sull’ortografia. Perché, sia chiaro, la scrittura è anche ortografia e se non si impara a scrivere bene le lettere – in stampatello e in corsivo – da piccoli, non si impara più (3).
    Gli esiti investono anche la lettura. Quando mi è capitato di ascoltare bambini leggere (nella fase di passaggio tra elementari e medie – propriamente ‘secondaria di primo grado’ - per lo più), ho avuto modo di verificare situazioni molto diversificate, in relazione alla provenienza scolastica. Ma la stessa cosa si verifica anche a livelli di scolarizzazione più alta, fino all’università e oltre. Per la verità, capita anche nei vari (tentativi di) corsi per la formazione degli insegnanti.
    Andando ancora più a fondo, investono il contenuto. Perché non è facile trasformare quello che si vuole esprimere in forma scritta. Se non si maneggiano gli strumenti della lingua (dall’ortografia, alla grammatica, dalla grammatica alla costruzione sintattica della frase e del periodo) la funzione primaria della lingua – la comunicazione – viene meno.
    Le motivazioni sono tante, diversificate e complesse. Quello che si vede, nella dimensione pubblica (giornali, riviste, social, ecc.) dà materiale per una riflessione approfondita, per la quale peraltro è molto difficile immaginare soluzioni.
    Per tutti questi motivi, ho intrapreso una lettura sistematica della trattazione enciclopedica in questione, dall’inizio alla fine (si tratta di trentuno pagine complessive), senza tralasciare neppure una spiegazione, dalla punteggiatura al sintassi, dall’uso dei numerali a quello dei modi verbali, nel discorso diretto e indiretto. Già immagino la reazione di molti: “Oddio, che noia”. In realtà non mi sono annoiata neanche un po’. Anzi, mi sono divertita e, a dispetto di quaranta anni di insegnamento, ho anche imparato qualcosa (perché poi, in fondo, ho sempre spiegato la grammatica e la sintassi latina e quella greca - con una dissennata preferenza per quest’ultima -, meno quella italiana che gli alunni dovevano già conoscere o, a volte, avrebbero dovuto).
    Ho avuto bisogno di documentarmi, cosa non sempre facile. L’autore della sezioni in questione è Antonio Radames Ferrarin (4). Di lui trovo che è stato un traduttore, un critico letterario e uno scrittore italiano. Peraltro, l’unica menzione certa è relativa alla prima traduzione italiana di La condizione umana di André Malraux, pubblicata in Francia nel 1933 e tradotta in italiano nel 1934, proprio da Ferrarin (5). La sezione è accompagnata da deliziosi disegni di Gino Baldo (6), che rappresentano efficacemente le situazioni evocate dalla narrazione, di pagina in pagina.
    Mentre leggo le pagine di Scriver bene, mi rendo conto dell’abilità dell’autore nelle spiegare tutti gli aspetti della lingua, tornando anche più volte sugli stessi argomenti, ogni volta da un punto di vista diverso e con piccoli approfondimenti, sempre indispensabili.
    Nel complesso, sono dodici capitoli. Ciascun capitolo ha un titolo. Il titolo non è un titolo qualsiasi: incuriosisce perché, in realtà, non ha a che fare direttamente con questioni di grammatica e sintassi, nella maggior parte dei casi. Il primo (“Punti e virgole”) e il sesto (“Vecchie conoscenze”) prendono le mosse dalla punteggiatura. Può sembrare strano, ma in realtà saper usare la punteggiatura e saper leggere - a mente o a voce alta - tenendo conto della punteggiatura, è fondamentale per la comprensione.
    In almeno due casi, il titolo rimanda all’ambito letterario: il settimo capitolo, dedicato alla concordanza e alla posizione di aggettivi e sostantivi, chiama in causa, inaspettatamente, Carducci. Riportando un esempio di posizione scorretta nella disposizione di aggettivo e sostantivo (ossia di iperbato) (7), l’autore coglie l’occasione per narrare un aneddoto che mette in berlina l’illustre poeta per il suo esorbitante ricorso all’iperbato, riservandogli l’onore del titolo (“Si parla del Carducci”). Il capitolo successivo ha un titolo che, almeno in prima battuta, a pochi richiama alla mente il riferimento letterario. Il riferimento, peraltro, non viene esplicitato nel corpo della trattazione, relativa all’uso di pronomi personali in funzione di soggetto e oggetto. Il titolo è “Il padrone sono me” che è anche il titolo di un romanzo di Alfredo Panzini (8), perfetto per spiegare l’errore che contiene. In questo caso, non ha alcuna importanza che il giovane lettore capisca il riferimento. L’importante è che colga l’errore nell’uso del pronome!
    La narrazione – perché di narrazione si tratta, seppure di argomento grammaticale e sintattico – è condotta in modo semplice, chiaro e divertente. L’autore racconta spiegando o spiega raccontando (dipende dalle situazioni e dalla prevalenza dell’una modalità sull’altra), anche chiamando in causa gli alunni ai quali si rivolge, interpellandoli per nome e riportando domande, obiezioni e perplessità che immagina gli rivolgano. Curiosamente, l’unico nome femminile, ricorrente, è Penèlope, rigorosamente con l’accento acuto (un uso ormai ‘antiquato’): “Penèlope! Deliziosa sgobbona! Che cosa mi vuoi chiedere?”, la interpella a proposito di un chiarimento sulla costruzione delle proposizioni subordinate. Una scelta curiosa, che meriterebbe un discorso a parte, non solo per il nome in sé ma anche per le modalità con cui l’autore chiama in causa gli alunni, rendendoli protagonisti della spiegazione.
    Nel complesso, ‘storielle’, aneddoti, esempi e tutti gli accorgimenti usati dall’autore per tenere alta l’attenzione dei lettori (ossia, degli alunni) sono datati, comprensibili solo per un pubblico adulto e colto, ma oscuri, nella maggior parte dei casi, per un giovane studente (9). Se dovessi parlare di un periodo complesso usando un’analogia comprensibile agli alunni, ad esempio, non farei riferimento al funzionamento dell’esercito. Preferirei usarne una ricavata dalla formazione di una squadra di calcio o di un qualsiasi altro gioco di gruppo. E così via.
    Quello che è assolutamente valido è il racconto in forma di narrazione. Ossia, la spiegazione.
    Ecco, il nocciolo della questione è proprio questo, da quando le “ossessioni normative” (10) hanno preso il sopravvento sull’oggetto dell’insegnamento, corrodendo ciò che c’era, in assenza di un reale progetto per l’educazione del cittadino.
    Le “ossessioni normative” hanno fatto sì che strumenti utili alla didattica – definizioni, questionari di vario tipo, schemi, ecc. – abbiano preso il sopravvento sulla spiegazione al punto da eliminarla dai libri di testo, riducendola a poche righe di definizione del fenomeno in questione, seguita da un batteria di domande e risposte, apponendo una crocetta o, al massimo, scrivendo una parola). Alla pagina successiva, l’argomento è un altro. E sul precedente, nella maggior parte dei casi, non si torna più. E questo soprattutto ai livelli iniziali di scolarizzazione, quelli in cui si dovrebbero porre le basi della formazione di un cittadino consapevole, capace di scrivere, di esprimersi, di ascoltare e argomentare.
    Queste procedure - indotte dalla indicazioni fornite dagli organi statali preposti alla “pubblica istruzione” e dai servizi che da essi dipendono, addetti al mantenimento e al rinnovamento del sistema educativo – confluiscono, inevitabilmente, nell’editoria scolastica, nel sistema di selezione degli insegnanti e, infine, nella scuola, dal livello iniziale a quello universitario.
    Il risultato? Il livello delle competenze (scrittura, lettura, comprensione di un testo, e così via) si abbassa, in concomitanza con l’abbassamento dei criteri di valutazione (qualsiasi bambino trova l’opzione giusta tra tre possibilità predefinite!). Inutile dire che questo meccanismo è molto efficiente, con l’aggravante di creare nel bambino prima, nell’adolescente poi e, infine, nel cittadino, la convinzione che sia giusto così, che va tutto bene. La presunzione di sapere (scrivere, leggere, comprendere ed esprimere i propri pensieri) lo porta a supporre di essere in possesso delle chiavi giuste e, di conseguenza, a poter esprimere le proprie convinzioni. Va da sé che tutto ciò torna ad essere un problema di ‘classe’. Diverso, rispetto a un secolo fa, ma tuttavia di classe.
    Ne trovo la conferma in un articolo che dà conto di una prossima iniziativa del team che guida Facebook, volta a creare un’applicazione capace di fornire il riassunto di articoli di informazione troppo lunghi per essere letti dagli utenti. Ora, se il direttore tecnico di Facebook (11) annuncia questa novità è perché sa benissimo – nulla sfugge a chi dirige questi settori – che mediamente le persone non leggono. Se leggono, riescono a leggere solo poche righe. Spesso senza capire neppure quelle. Non solo, chi compie la selezione da leggere è un algoritmo (12) esterno basato su criteri selezionati da chi dirige. Un buon motivo per reagire, leggendo e diffondendo lettura, a partire dalla prima età. Scrivendo e diffondendo scrittura. E ben sapendo, tra l’altro, che non sono indispensabili: esiste ancora un mondo di ‘saggi’ immersi nel mondo della non scrittura e della non lettura, per i quali la saggezza è frutto di esperienza, di quotidianità nel lavoro, contadino, artigianale, manuale, affidate alla memoria e alla tradizione orale. Ma è un mondo che si sta esaurendo, per questioni anagrafiche e per l’invadenza di quello della scrittura che, da sempre, si è considerato superiore, salvo decadere in modo (quasi) irreparabile.

    1. La sezione Scriver bene si trova nel III volume dell’enciclopedia “Il tesoro del ragazzo italiano”, edito nel 1940.
    2. “Una parte sui lavori domestici con foto di bambine armate di scopettone e ferro da stiro. Ma è pur vero che a tutt’oggi, nella maggior parte delle pubblicità, chi s’accolla i lavori domestici è la donna, che sembra anche felice di farlo, oltretutto”. Questione complessa e delicata. Merita approfondimento, documentazione e il tempo necessario per riflessioni non occasionali.
    3. Nei primi anni di scuola, si è diffusa la tendenza a lasciare che i bambini scrivano in stampatello, passando al corsivo in modo occasionale, tramite l’apprendimento della grafia delle singole lettere dell’alfabeto e, di conseguenza, del legame tra le lettere. La cosa più grave è che ad essere abbandonati a questo malcostume sono i bambini provenienti da ambiti linguistici più deboli.
    4. Oltre che dedicarsi all’attività di traduttore, Ferrarin ha fatto parte del gruppo dei redattori che hanno affiancato il primo direttore della Fiera letteraria, Umberto Fracchia (Lucca, 1889-Roma, 1930), una rivista con cadenza settimanale, uscita tra il 1925 e il 1936 e, successivamente, in varie riprese, l’ultima delle quali tra il 1970 e il 1977.
    5. L’opera di Malraux, che affronta il tema enunciato nel titolo da un punto di vista particolare (il massacro di Shangai e l’inizio della guerra civile cinese, aprile 1927), è stata ripubblicata più volte fino al 1996 dalla casa editrice Bompiani, sempre con la stessa traduzione. Recentemente, la stessa casa editrice lo ha riproposto con una nuova traduzione, di Stefania Ricciardi.
    6. I disegni sono dovuti alle matite e ai pastelli dell’illustratore Gino Baldo (Padova 1884 – Milano 1962).
    7. L’esempio è tratto da Piemonte, in Rime e ritmi, 1899: … l’esultante di castella e vigne / suol d’Aleramo, interessato oltre che da iperbato anche da anastrofe e appesantito, per di più, dall’antonomasia (suol d’Aleramo = Monferrato).
    8. “Il padrone sono me”, uno dei romanzi più noti di Panzini, è stato pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1922. Ne posseggo una copia del 1955 (nella collana Biblioteca Moderna Mondadori). Fa parte della eredità in libri che conservo gelosamente, affrontandone la lettura gradualmente. Quanto prima cercherò di scoprire se contiene altri strafalcioni linguistici con cui l’autore stigmatizza il ‘villano’ divenuto padrone, nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale.
    9. In realtà, la lettura di alcuni passi contenenti riferimenti obsoleti, potrebbe essere una buona occasione di approfondimento sui cambiamenti (culturali, di costume, ecc.) intervenuti in circa ottanta anni. Sono esperimenti che a livello di classi ginnasiali ho verificato con successo, ad esempio proponendo alcuni passi del Saper vivere. Norme di buona creanza di Matilde Serao (1900, Mursia 2012), suscitando grandi risate ma anche riflessioni affatto peregrine.
    10. L’accostamento dei termini è tratto dal sottotitolo di La scuola, le api e le formiche. Come salvare l’educazione dalle ossessioni normative (Donzelli, 2015) un testo di W. Tocci, un po’ datato ma ancora decisamente attuale.
    11. https://www.buzzfeednews.com/article/ryanmac/facebook-news-article-summary-tools-brain-reader (se ne trova un sunto in lingua italiana in https://www.primaonline.it/2020/12/29/317653/riassunti-di-articoli-con-lai-e-una-app-per-interagire-con-i-video-creators-le-novita-allo-studio-di-facebook/?fbclid=IwAR3ABJ6JIoHCLgHlax_25sUZuF-h6eBGXQKxjditvvTWNC_-PB3wsAfYZc4-.
    12. Per queste questioni rimando al recente articolo di Michele Mezza, nel suo blog su infodem.in: Intelligenza artificiale: così l'irruzione in atto nei processi dell'informazione (31/12/2020).

     

  • THE WARNINGS: SMINUITE,
    TRASCURATE, NEGATE

    data: 06/12/2020 15:34

    In generale, nessun libro esaurisce la sua funzione con la fase di lettura. Una volta letto rimane nella mente e nei pensieri di chi lo ha letto. In qualche modo entra a fare parte della sua dimensione quotidiana. Possono passare anni senza pensarci più ma, in ogni caso, sarà lì. Spesso anche in modo inconsapevole. 

    Ce ne sono altri che non solo non esauriscono la loro funzione, ma dovrebbero rimanere in primo piano per le informazioni che trasmettono e le riflessioni che ne derivano. Spesso sono i più ‘ingombranti’. Danno fastidio. Costringono a riflettere e, con la riflessione, dovrebbero contribuire a modificare le proprie convinzioni, magare infondate o, come spesso capita, basate su chiacchere non documentate e non documentabili. Chiacchiere da bar, si sarebbe detto in altri tempi. Chiacchiere da social si può dire oggi, più correttamente: il che amplifica il problema a dismisura.
    Tra i libri ‘fastidiosi’ collocherei, senza dubbio Spillover di David Quammen. Ne ho dato conto in Progresso e malattia (Leggendo ‘Spillover’), in aprile, durante il primo lockdown.
    Propriamente, si tratta di un’inchiesta giornalistica. Ma l’impegno, la documentazione, l’approfondimento sono di livello talmente alto che assume le ‘dimensioni’ di un saggio pur mantenendo il carattere narrativo che la rende appassionante e leggibile anche ad un pubblico di non esperti. Gli esperti (e le ricerche da essi condotte), peraltro, sono sempre in primo piano. Per ogni questione trattata la bibliografia specialistica è ricchissima e, in buona parte, accessibile online.
    D’altra parte, un libro come Spillover pone due questioni: le ricerche di cui parla sono datate (l’inchiesta di David Quammen è durata sei anni e documenta lo stato delle conoscenze fino al momento della prima pubblicazione, nel 2012), la ricerca scientifica non si è fermata e, di conseguenza, ha bisogno di aggiornamenti.
    Proprio in cerca di aggiornamenti, sono incappata in quello che definirei un ‘supplemento’ al testo in questione, pubblicato da pochi giorni (il 26 novembre) dalla Casa Editrice Adelphi nella collana ‘Microgrammi’, usa serie di volumi di dimensioni molto ridotte che ha preso in prestito il nome dalla scienza (un microgrammo è pari a un milionesimo di grammo), se ne trova una definizione stuzzicante nel sito di Adelphi www.adelphi.it/news/116/microgrammmi). Era quello che cercavo.
    Sia chiaro, non sono mancate e non mancano, pubblicazioni occasionali, cartacee e online, che affrontano le questioni determinate dall’ondata pandemica con la quale siamo tenuti a confrontarci e adattarci ormai da quasi un anno (resoconti, cronistorie, cronache, diari, riflessioni estemporanee, meditazioni, libelli), dettate dal malessere, dall’incertezza, dalla costrizione, dai dubbi, dal protagonismo. Diciamo che c’è una certa tendenza, individuale, per lo più, a trasferire sulla tastiera il proprio modo di vivere la situazione. Con gli strumenti oggi a disposizione è molto facile trasferire questi testi estemporanei e occasionali in uno o più post, nel proprio sito o, per i più vicini al mondo editoriale - dalla realtà locale più piccola a quella più grande (dipende dal livello di consuetudine con il mondo editoriale) – anche in una pubblicazione cartacea.
    Questa vasta gamma di testi, peraltro, documenta uno stato d’animo, difficoltà quotidiane, impressioni. Non affronta le questioni che sono alla base di questi sentimenti, tutti legittimi ma fini a se stessi se non si conosce lo status delle cose che hanno determinato le modalità di intervento, a livello nazionale e internazionale del diffondersi del virus, e, di conseguenza, se non si possiedono gli elementi per affrontare la situazione in modo razionale, nel rispetto delle norme e della salute di tutti. A dire, il vero, se si procedesse in tal modo, le norme dovrebbero essere soltanto l’intervento doveroso e imprescindibile che gli organi deputati alla conduzione della cosa pubblica sono tenuti a stabilire per il bene comune. I cittadini, debitamente informati, potrebbero essere in grado di attenersi al comportamento migliore in vista del bene del singolo e di quello comune, senza sentirsi costretti dalle norme.
    Il ‘supplemento’ a Spillover, contrariamente al volume da cui prende le masse, è agile, si legge velocemente e senza particolari difficoltà. Anch’esso è nato nel periodo del primo lockdown (la prima pubblicazione risale all’11 maggio sul sito del The New Yorker, dove è ancora reperibile, https://www.newyorker.com/magazine/2020/05/11/why-werent-we-ready-for-the-coronavirus). Il titolo dell’edizione Adelphi – Perché non eravamo pronti - è lo stesso della pubblicazione sul The New Yorker. Quello originale è The Warnings, ossia ‘Avvertenze’. Ed è proprio di questo che l’autore parla, ossia delle avvertenze che il mondo scientifico ha ampiamente trasmesso, derivandole dagli innumerevoli studi scientifici che hanno dato conto delle scoperte relative ai virus e alla capacità di alcuni virus di passare dagli animali selvatici all’uomo e, dunque, di propagarsi in forma pandemica. Questo già a partire dal 2006. Per farlo, naturalmente, fa riferimento a uno dei massimi esperti nel settore, Ali S. Khan, che insieme a molti altri, si occupa di ‘patogeni speciali’, ossia di virus. Anche Ali S. Khan, medico ricercatore, nato a New York da genitori pakistani, oggi presiede Del College of Public Health del centro medico dell’Università del Nebraska a Omaha (USA), ha pubblicato un libro (The Next Pandemic, On the Front Lines Against Humankind's Gravest Dangers, 2016) per mettere in guardia dai rischi connessi al diffondersi di virus zootici (cioè, capaci di passare da animale ad uomo) diversi, responsabili di altrettante forme patogene. 

    A braccetto con l’esperto, rivolgendogli domande precise e ottenendo risposte altrettanto precise, David Quammen si fa portavoce delle motivazioni che sono alla base dell’impreparazione degli USA e degli stati in generale di fronte al rischio di una pandemia, ampiamente annunciato, da quasi quattro anni, quando un virus molto simile al Covid è stato individuato e, di conseguenza, da quando il mondo scientifico ha cominciato a lanciare avvertimenti sulla conseguenze che la sua diffusione avrebbe comportato, sulla necessità di programmare interventi lungimiranti per evitare improvvisazioni e arrivare attrezzati al momento in cui la diffusione, inevitabile, sarebbe iniziata. Inevitabile, sia chiaro, non per colpa del virus. Perché la prima responsabilità va individuata negli stili di vita, nella presunzione dell’uomo di poter invadere il mondo della natura senza che la natura reagisca, in tutti i campi e, soprattutto, nell’abitudine a invadere i pochi ambienti naturali ancora presenti nel pianeta per curiosità, svago, voglia di diversivi, di avventura, magari senza conoscere nulla o quasi dei paesi, dei borghi o dei boschi ai quali si vive accanto. Anzi, facendo danno anche lì, all’occorrenza.
    Le avvertenze, dunque, ci sono state, sono documentate dalla letteratura scientifica e sono rintracciabili anche a distanza di tempo. Quel che è mancato è la consapevolezza della classe politica che spesso non ha le competenze per decodificare le ‘avvertenze’, preoccupata più del tenersi a galla in situazioni non sempre facili che del fare tesoro delle indagini scientifiche e dei risultati della scienza (per definizione disponibili a livello internazionale) e, dunque, per trasferire tali risultati sul piano della operatività in vista del bene comune. E questo, con le dovute differenze, è avvenuto in paesi diversi e distanti, con caratteristiche, nella sostanza, molto simili tra loro. Le ‘avvertenze’, contenute nello spazio della ventina di pagine della pubblicazione meritano di essere lette. Possono divenire un buon punto di partenza per una presa di consapevolezza individuale che, a sua volta, può ingenerare una catena di comportamenti collettivi responsabili. Passare le prossime festività in ‘quasi’ solitudine senza gli eccessi consumistici che ormai da anni le caratterizzano può essere un modo per ripensare la nostra presenza nel mondo. Con qualche sacrificio, senza dubbio. Magari ripensando al fatto che l’idea di sacrificio è stata una costante della vita, fino a pochi decenni fa. Veniva insegnata ai bambini. E non ha impedito di vivere una vita soddisfacente e piena di affetti, anche in periodi di grande difficoltà.

     

     

     

     

  • LA RAI TI INSEGNA A FARE
    LA SPESA INTELLIGENTE?
    NO, MA A COME FARLA
    PER RIMORCHIARE

    data: 26/11/2020 11:26

    Il fatto in sé è talmente assurdo che, a mio parere, l’unica cosa da fare sarebbe stata quella di ignorarlo. Rispondere, in qualsiasi modo (condividendo il video, commentando in modo fugace, ecc.), ha ottenuto l’unico effetto di replicare all’infinito il video in questione.

    Immagino che sia possibile risalire a quante siano state le visualizzazioni. Così come è sicuramente possibile risalire a quante persone hanno assistito al programma.
    Peraltro, il fatto in sé è indice di un tale degrado che tacere sarebbe colpevole.
    Inizialmente, ho fatto resistenza passiva. Poi. Mi sono decisa e ho cliccato sul video. Non credo di essere arrivata fino alla fine. Ho cominciato a ridere prima. Dopo la prima reazione, è scattata la riflessione. Mi sono domandata: caspita, ma quanti tra gli utenti dei servizi RAI che stanno davanti alla TV dalle 14,55 alle 16,30, hanno avuto la mia stessa reazione?
    Mi sono incuriosita. Ho scoperto che si tratta di un programma in onda dal 2013, di ‘genere factual’, ossia un programma televisivo “che intende rivolgersi a un pubblico più giovane e più ampio rispetto a quello che seguiva i talk show precedenti”.
    Ora, a ‘genere factual’ corrisponde una brevissima voce su Wikipedia: “Factual è un genere di programmazione televisiva che documenta gli eventi e le persone reali. Questa tipologia di programmi televisivi sono descritti anche come documentari osservazionali, docudramma e televisione di realtà. Anche se il genere è esistito in una forma o nell'altra sin dai primi anni della televisione, il termine di fatto è stato più comunemente utilizzato per descrivere i programmi prodotti dagli anni 90”. A corredo di questa definizione ci sono due articoli, uno da La Stampa, e uno da Il Fatto quotidiano. Da entrambi si evince che si tratta di programmi che si propongono di documentare la realtà ‘così com’è, senza filtri, senza interventi, senza manipolazioni’.
    Mi sono cominciata a preoccupare.

    Il programma in questione è prodotto, come molti altri tra i più seguiti nelle fasce di programmazione più ambite, da Endemol (Endemol Shine Italy S.p.A, sezione italiana di Endemol Shine Group, con sede a Londra). Nella homepage del sito scorrono in rapida successione le schermate dei programmi in corso. Sotto a ciascun titolo, un’epigrafe. Per Detto fatto, l’epigrafe è “Consigli utili in ogni campo della vita quotidiana”.
    Potrei continuare la ricerca e ricostruire la rete di relazioni nazionali e internazionali, gli interessi economici, le interconnessioni politiche. Non credo di averne la necessaria competenza.
    La preoccupazione resta. Da donna, da madre e da nonna.
    Perché il titolo completo di quel video è “come fare la spesa in modo provocante”. Ora, l’idea che in un servizio che va in onda nel primo pomeriggio, per di più in un periodo in cui, anche con le belle giornate novembrine, la maggior parte delle persone è costretta in casa, e che tra queste persone ci siano bambine e bambini, adolescenti, e che a queste persone venga proposto un video di questo tipo come uno spaccato ‘di vita così com’è’, è talmente raccapricciante che le parole per definirlo non sarebbero adeguate in questo contesto. E per di più che ciò avvenga nel servizio della RAI pubblico, per il quale paghiamo un canone obbligatorio (ritrovandoci con un servizio da televisione privata).
    Stabilito che il video non ha nulla a che fare con gli acquisti, che sbatte in prima pagina o, peggio ancora, sul video una giovane donna nel contesto di un supermercato, in una mise improbabile, a suggerire posizioni accattivanti (con la precisazione che non devono essere volgari).
    Come fare la spesa? Meglio sarebbe ‘come rimorchiare’. Ma anche in questo caso, risulterebbe un’istigazione a mettere in mostra il peggio, al maschile e al femminile, in un mondo dove c’è solo bisogno di umanità e di riconsiderare i rispettivi ruoli, esclusivamente in chiave di rispetto reciproco.
    Perché la spesa è un’altra cosa. La spesa nel supermercato è una questione delicata. Ha a che fare con la scelta di prodotti, con la provenienza di quei prodotti, con il loro costo, con le etichette e con l’enorme difficoltà di sapere cosa c’è realmente in quei prodotti. Ha a che fare con le scelte alternative ai supermercati (mercati rionali, mercati contadini, reti di acquisti solidali), Si potrebbe andare avanti. Ci sarebbe materiale per un numero consistente di programmi (e ci sarebbe anche spazio per le repliche di quegli stessi programmi). Questo se veramente la Rai volesse fare un servizio pubblico, attento alle necessità dei cittadini, delle famiglie, delle giovani generazioni alle quali, in via privilegiata, il programma in questione pretende di rivolgersi.
    In qualche modo, potrebbe contribuire a diminuire le richieste di aiuto che pervengono a un programma di prima serata come Chi l’ha visto, dove di settimana in settimana non manca mai la scomparsa di una giovane ragazza che sparisce nel nulla, magari dopo una serata con i tacchi a spillo, dopo avere incontrato il bullo di turno.
    E tutto ciò, solo il giorno prima della ‘Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne’.

     

     


     

  • UN MONDO "SENZA"
    UN MONDO DA RITROVARE

    data: 15/11/2020 16:54

    È necessaria una premessa: la casa editrice che ha pubblicato il libro (Dove tornano le nuvole bianche di Ezio Colanzi, UAO edizioni, 2015) si è ‘dissolta’. Il sito non compare più online. La pagina Facebook è ancora in linea ma non risulta attiva da anni. Ma questo vale per moltissime altre realtà (comprese le persone). E’ stata una delle tante iniziative indipendenti che non riescono ad affrontare e sopravvivere alla logica del mercato editoriale polarizzato dai grandi gruppi. Potrei rintracciare le persone che la idearono e mi coinvolsero nella presentazione del libro. Ma temo che sarebbe triste tornare con il ricordo a un’esperienza conclusa. Tra l’altro, l’esperienza nacque solo alcuni anni dopo il terremoto che sconvolse L’Aquila e i suoi dintorni nel 2009, con tutte le implicazioni che un evento del genere comporta, sulle persone e sulle cose. Un segnale di resistenza, forse ancora troppo vicino all’evento, quando l’evento stesso era ancora sotto i riflettori della stampa, soprattutto per la problematica gestione del ‘dopo’ terremoto (fino quando un altro ‘evento’ drammatico – Amatrice - non lo ha sostituito nell’interesse e nell’immaginario nazionale).

    Lo scritto che segue è, con poche varianti, il testo preparato in occasione della presentazione, tenutasi in una grande sala a volta di un convento del XIV sec., completamente ristrutturato ma utilizzato solo occasionalmente, in un piccolo paese dell’Abruzzo montano. Uno di quei paesi in cui, inevitabilmente, per questioni anagrafiche, la popolazione diminuisce a ritmo costante. Uno di quei paesi in cui, fino a qualche decennio fa, il fenomeno più significativo è stato quello dell’emigrazione: partivano intere famiglie in cerca di fortuna, per destinazioni vicine (Roma e le sue borgate, ad esempio) o lontane (Australia, Canada, in particolare). Oggi vi è in atto un lento stillicidio: i pochi giovani tendono a stabilirsi più vicino al capoluogo o sulla costa abruzzese, quando se ne presenta l’occasione. Non mancano casi di resistenza. E casi, isolati e controcorrente, di ‘arrivanza’ che, peraltro, nulla aggiungono in termini di vitalità della popolazione e che, non senza difficoltà, si integrano. Come pure la presenza di lavoratori stranieri, spesso con famiglie e bambini, che si aggiungono al ridottissimo numero di bambini locali, garantendo il permanere della scuola.
    Le questioni che l’autore pone sono determinanti per tutta la zona appenninica, lungo tutta la penisola. Sono questioni mai affrontate, realmente e concretamente1. La pianura, le zone dove si concentra la produzione, le città sono diventate i destinatari delle attenzioni dei politici, del dei parlamentari, del governo. I paesi dell’interno, al di sopra dei sei /settecento metri slm interessano poco o nulla, soprattutto in termini di bacino di voti. E tuttavia sono fondamentali. Per la tutela del territorio e delle tradizioni, per lo stile di vita, perché i territori montani - boschi, valli, corsi d’acqua - costituiscono un bene prezioso per tutti, anche per la città e per chi ci vive. Fanno parte della necessità di rivedere abitudini che abbiamo date per scontate e che la situazione attuale ci costringe a riconsiderare in profondità.

    Un libro di viaggio, oggi, nasce come blog. Non è una regola ma una ‘quasi’ regola.
    Il libro di Ezio Colanzi non fa eccezione: per leggere il libro è indispensabile seguire il suo blog (https://cicloeremia.jimdofree.com). E’ una questione di adattamento che comporta il pensare un blog come un libro.
    I libri di viaggio che mi vengono in mente sono innumerevoli, a partire dall’Odissea. I primi cui ho ripensato accostandomi al libro di Ezio Colanzi sono stati In Patagonia di Bruce Chatwin (1977) e Strade blu di William Least Heat-Moon (Blue Highways: a Journey into America, 1982). Entrambi si caratterizzano per essere diari di viaggi estremi, in spazi infiniti e comunque da prospettive inconsuete, finalizzati alla ricerca delle origini, di un significato da dare all’esistenza, oltre il quotidiano, e comunque a trovare risposte.
    Nell’esperienza di viaggio di Ezio Colanzi intravedo possibili analogie. Senza dubbio il viaggio in bicicletta che porta Ezio, dalla costa abruzzese (densamente popolata, fornita di strade che raggiungono ogni luogo - non sempre pianificate, per lo più - e di tutte le sovrastrutture della vita contemporanea, ossia bar, discoteche, ristoranti, negozi, centri commerciali, ecc.) verso l’interno, dove le tracce della modernità si perdono in una distanza imponderabile nel giro di qualche decina di km, ha un significato profondo.
    Immergendomi nella lettura mi appunto via via qualche osservazione che provo a ripercorrere, riorganizzando il percorso mentale che il testo mi ha suggerito.
    Addentrandosi nelle zone interne dell’Abruzzo con la sua bicicletta, Ezio si è accostato a un mondo che lo ha costretto a porsi una serie di interrogativi (‘Si viaggia per incontrare domande’, p. 69).
    A ben guardare, il mondo che ha incontrato è fatto di tanti ‘senza’:
    - senza architetti (i resti di ciò che era sono frutto di quella che può essere definita ‘architettura senza architetti’ nata spontaneamente, per le esigenze di vita, lavoro, preghiera, con quello che c’era a disposizione, cfr. Bernard Rudofsky, Architecture Without Architects: A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture, 1987 o anche Paul Oliver, Dwellings. The vernacular House World Wide, 2003);
    - senza abitanti (o, meglio, dove i pochi ‘esemplari’ rimasti sono gli avanzi degli anni di emigrazione, p. 68) e dove le persone che si incontrano sono lì per cercare a loro volta domande e risposte (‘veniamo per assistere alla nostra assenza’, p. 74);
    - senza quei luoghi / spazi ai quali rivendico il nome di ‘sovrastrutture’ (bar, birrerie, discoteche, musica, ‘campo’ del gestore telefonico, ecc.) indispensabili al giorno d’oggi per ‘esserci’ o illudersi di ‘essere’;
    - senza previsioni metereologiche che seducono o terrorizzano a comando, in una presunta informazione che suppone di poter pianificare il corso della natura allontanando gli esseri umani dalla capacità di guardare il cielo e coglierne i segnali (Va bene, i fulmini, p. 51);
    - senza Google maps (che arriva solo fin dove le strade sono percorribili e si arresta dove inizia il sentiero).
    In realtà, ho fatto almeno il tentativo di rintracciare i luoghi con l’ausilio di Google maps, senza successo, nella maggior parte dei casi. Ma ho avuto la possibilità di valutare sulla mappa le distanze dalle aree urbane e la vastità di quelle ancora dominate dalla natura. Una lezione importante, devo dire.
    Ognuno di questi ‘senza’ porta con sé una serie di domande. Ciascuna domanda è foriera di risposte, molteplici e variegate. Sicuramente il viaggio intrapreso dall’autore (come ogni viaggio non organizzato, non ‘intruppato’, ossia quelli in cui si va in un altrove che – a volte – non si sa neppure collocare nello spazio2) è uno spazio di scoperta, di conoscenza e di consapevolezza. Percorrere le ‘strade blu’ dell’Abruzzo interno significa risalire ai motivi dell’abbandono e dell’assenza. Significa, soprattutto, prendere consapevolezza delle distanze, della mancanza o inadeguatezza (secondo il canone attuale) della rete stradale, della presenza della natura (boschi, prati, dislivelli ma anche volpi, lepri, lupi, cinghiali, cervi, orsi, ecc.), del significato profondo della solitudine. Tutte cose di cui si tende a fare a meno, per privilegiare le ‘sovrastrutture’ e la compagnia a ogni costo, per quanto effimera.
    La sfida intrapresa da una piccola casa editrice è una grande sfida, che merita di essere percorsa perché libri come questo – nati da un’esigenza interiore di conoscenza di sé e del mondo – divengono un veicolo fondamentale di conoscenza anche per gli altri. Sono strumenti preziosi. Sono geografia e storia dal vivo, momenti di studio ‘sul campo’, magari accompagnati da una visita guidata competente. Li vedrei molto bene negli ultimi anni della scuola secondaria di primo grado e nei primi del secondo grado. Perché, dal mio punto di vista, lo studio non può mai prescindere dalla conoscenza in presa diretta di quello che si studia, ossia dalla pratica. Imprescindibile per una riflessione sul rapporto studio/pratica è, ad esempio, il capitolo dedicato all’ultimo scalpellino dei Monti della Laga, p. 48, dove si tocca con mano la banalizzazione di un presente fatto da un lavoro sicuro ma generico a fronte della maestria artigianale e artistica del lavorare la pietra.
    In conclusione, Dove tornano le nuvole bianche è una forma di epopea dei paesi abbandonati dell’Abruzzo e, in quanto tale, ha tante cose da insegnare.

    Naturalmente, ho ricontattato l’autore per sottoporgli questa nuova versione dell’intervento originario. Ancora possiede le copie del libro rimaste invendute, se qualcuno fosse incuriosito.
    Dopo uno scambio veloce di messaggi, mi ha fatto attendere un po’, prima di rispondere alla questione che gli ponevo, tutto preso dal lavoro di quella che è oggi la sua attività principale, l’apicoltura. Nelle sue parole ho trovato la risposta alla questione fondamentale per invertire la tendenza alla fuga. La sua visione, in alcuni anni, è leggermente cambiata: “mi capita di paragonare i paesi abbandonati alle canzoni tristi. Ascoltiamo canzoni malinconiche, ci ritroviamo in quel sentimento ma non proviamo a cambiare la melodia, in effetti possiamo riconoscere che c'è molta bellezza in tanta tristezza. Non so se è giusto ma per ora è così. È anche vero che nell'entroterra si può vivere e lavorare, ho le prove, basta fare un mestiere con passione e trovare il proprio mercato”. Il mestiere. Ecco il segreto per vivere in queste contrade. Apicoltore o guida ambientale escursionistica (come Savino Monterisi, cfr. Fra restanti e arrivanti in terra d'Abruzzo) poco importa. L’importante è sfidare, con il proprio lavoro e la passione per la propria terra, l’incuranza nazionale e ufficiale nei confronti di territori che realmente garantiscono la qualità della vita per tutti, anche per chi vive in pianura.

    1. Può sembrare un’affermazione esagerata. E, in realtà, lo è. Sono innumerevoli infatti i testi, gli studi, i progetti dedicati a questioni attinenti alle realtà che corrispondono a quelle di cui parla l’autore del libro, Ezio Colanzi. Primo fra tutti si può citare AA.VV. RIABITARE L’ITALIA. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (a c. di Antonio De Rossi), Donzelli 2018, al quale ha fatto seguito il Manifesto per riabitare l'Italia a c. di D. Cersosimo e C. Donzelli, Donzelli 2020. Con il manifesto ‘«Riabitare l'Italia» diventa così un'associazione, un progetto editoriale, un «marchio» che si impegna a condurre un itinerario di conoscenza e di condivisione civile’. Il volume contiene testi che raccolgono studi pregevoli, analisi accuratissime e punti di vista di sicuro interesse. Ho letto con coinvolgimento i contributi contenuti nel volume. L’ho fatto, inevitabilmente, dal punto di vista da cui guardo al mondo da quindici anni, per scelta (da un paese arroccato su un colle dell’Appennino abruzzese, avvantaggiato dall’affacciarsi sulla SS 17). Ne ho apprezzato la documentazione, il rigore, l’innovazione, l’approfondimento. Giunta alla fine, arricchita dalla lettura e invogliata a proseguire con altre letture, ho sottoposto quanto letto all’esperienza diretta, con tutti i pro e i contro dell’inserimento in una comunità monolitica che accoglie rimanendo se stessa, che ospita senza tradire il suo essere secolare, che vive il suo essere cittadino di un mondo isolato di cui non fanno parte, atavicamente, idee quali ‘cooperativa di comunità’, ‘cittadinanza attiva’, ‘partecipazione’, solo per fare qualche esempio. Perché la comunità originaria, per quanto limitata di numero, si riconosce come comunità per avere in comune i ricordi, le tradizioni e generazioni di avi. L’integrazione, gli interventi, le novità sono possibili ma rischiano di rimanere in superficie, senza in realtà scalfire il nucleo originario. L’oggettiva disattenzione dell’organizzazione statale, in tutti i settori, si traduce in meccanismi di sostegno che poco hanno a che fare con le reali potenziali e la possibilità di ripresa di comunità tradizionalmente chiuse in se stesse.

    2. La presentazione del libro risale a circa cinque anni fa quando era ancora imperante l’idea del viaggio in luoghi esotici, in strutture alberghiere da sogno, in angoli ‘intatti’ piegati in realtà alle esigenze del ‘mercato’ del viaggio per tutti. La situazione creatasi a seguito della pandemia, sviluppatasi a partire dal gennaio 2020, sta ridefinendo il panorama dei viaggi, per questioni mediche ma anche economiche e ambientali. Queste ultime, in particolare, stanno diventando prioritarie e proprio le conseguenze dirette e indirette della pandemia contribuiscono a metterle in primo piano.

     

     

     

     

     

  • L"ESORTAZIONE"
    DI PROVENZAL
    AGLI ADOLESCENTI
    DA EDUCARE

    data: 04/11/2020 18:52

    Ci sono libri che potrebbero non meritare di essere ricordati. Perché sono marginali rispetto agli scritti che hanno superato un’epoca. Perché sono superati dall’avanzamento delle conoscenze in settori specifici. Perché non sono entrati nel novero dei capolavori. Perché sono desueti per scelte linguistiche e stilistiche. E altro ancora.
    Eppure, mi pervade la sensazione che alcuni libri, pur appartenendo a una di queste categorie, possano aprire squarci su questioni che contribuiscono a decodificare un passato ancora recente, magari da punti di vista tanto insoliti da potere essere riconsiderati in una nuova chiave di lettura. Pur non essendo entrati tra quelli degni di memoria e, dunque, di essere ripubblicati, sono documenti. In quanto tali, vale la pena lasciarsene incuriosire.
    Quando mi capita di rintracciare un testo di questo tipo, pubblicato nel periodo tra le due guerre, vicino ai miei interessi, lo acquisto senz’altro.
    Con il passare degli anni, ho rafforzato la sensazione che del periodo in questione si studi poco e si sappia ancor meno, in generale. I programmi scolastici tendono a ‘dimenticare’ quei decenni cruciali del Novecento. In campo letterario, rimangono solo i ‘grandi’ (ossia quelli che hanno avuto riconoscimenti importanti a livello internazionale), degli altri autori si perde memoria. Eppure, sono spesso importanti per osservare un’epoca nella quale si annidano questioni che hanno segnato i decenni immediatamente successivi in tutti i campi. Se risalgo ai miei ricordi di bambina degli Anni Cinquanta non trovo memoria del periodo precedente. A scuola, il programma di storia iniziava (e inizia) sempre dall’antichità. Le vicende di Mesopotamia, Egitto, Grecia e Roma erano (e sono) ricorrenti. Poi, il Risorgimento, Mazzini, Garibaldi, Caporetto, il Piave, i canti patriottici e, sulla fase successiva, fino al referendum repubblica /monarchia, una grande confusione.
    Il recupero di libri che propongono angolature inconsuete su un periodo tanto cruciale è l’occasione per interrogarsi su com’era quel mondo, su cosa è archiviato ma anche su ciò che vale la pena riconsiderare se non altro per cercare di capire se, nell’ansia generalizzata di archiviare per evitare di fare i conti con ciò che è stato, non si sia perso anche qualcosa che valeva la pena salvare (tollerando invece che si diffonda il recupero di aspetti da liquidare senza ripensamenti di sorta). Ed è anche un tentativo di creare argini alla diffusa tendenza alla superficialità, diretta conseguenza della crisi del sistema scolastico (che si diffonde a macchia d’olio in tutti i settori direttamente o indirettamente ad esso connessi).
    Il punto di partenza, in questo caso, è un testo che definirei un ‘racconto educativo’ o, ancora meglio, un’”esortazione in forma di discorso”. L’autore è Dino Provenzal (1), il titolo Le forze dell’uomo, la casa editrice l’Istituto editoriale Italiano (2). L’anno di pubblicazione il 1927. Il racconto è suddiviso in cinque capitoli (Noi, La famiglia, La scuola, La famiglia più grande, La società), in ognuno dei quali si snoda un ragionamento rivolto agli adolescenti (nel corpo del testo c’è una sola indicazione precisa in tal senso, quando l’autore si rivolge ai ragazzi tra i dodici e i quindici anni). Manca qualsiasi altra indicazione sul destinatario ma dal corpo dello scritto e dagli esempi che l’autore porta appare esclusivamente maschile. In ogni caso, non sono mai citate in modo esplicito adolescenti di sesso femminile. Anzi, per la verità, l’unica figura femminile che compare è la madre, nel capitolo dedicato alla famiglia, introdotta da due terzine di Giovanni Pascoli, da Colloquio, IV in Myricae, (che era stato il suo insegnante di latino e greco durante gli studi liceali) e dal ricordo di altri autori che dedicano i loro pensieri alla figura della madre nei propri scritti (3). Un segno dei tempi, non certo perché esistesse solo la versione materna della donna ma perché era l’unica di cui si potesse parlare, particolarmente a un pubblico di adolescenti (4).
    Incuriosisce l’incipit del ‘discorso’, dedicato a una riflessione sul posto dell’uomo nel mondo che muove dal rapporto tra la quantità delle terre emerse (circa 150 milioni di km quadrati) e la quantità di uomini che le abitano (stimato intorno miliardo e mezzo, in quegli anni). Già questa pagina iniziale potrebbe essere lo spunto per riconsiderare la problematicità dell’impatto dell’uomo e delle sua attività sulle terre emerse (e non solo su quelle), alla luce dell’‘avanzamento’ delle conoscenze dell’uomo in tutti i campi, in relazione all’aumento della popolazione (che oggi, a distanza di poco meno di cento anni, si attesta intorno ai 7, 8 miliardi) e al modificato rapporto tra spazi a disposizione, presenza umana e risorse a disposizione.
    Proseguendo, le modalità del discorso persuasivo emergono pagina dopo pagina: l’‘esortazione’ (che, già di per sé, è strumento della retorica) procede nel ragionamento senza esitazioni affastellando esempi, citazioni (la prima è una terzina dantesca (5)), fiabe, novelle, aneddoti, apologhi, esempi, storielle, sofismi.
    L’obiettivo è duplice. C’è quello generale, volto a fornire indicazioni per passare dallo stato di bambini (‘ometti’, ragazzi, giovinetti) a quello di giovani uomini (alla fine della scuola superiore) e con esso alla maturità, quando ciascuno potrà intraprendere il cammino professionale per il quale si sente più portato.
    Ma c’è anche un altro obiettivo che dipende direttamente dalle tipologie testuali adottate. Introducendo l’aneddoto, l’autore ne mostra in presa diretta le caratteristiche. La stessa cosa avviene per ognuna delle tipologie testuali. Il ragionamento, dunque, è realizzato quasi in forma di manuale esemplificativo delle varie tipologie testuali. Una ‘guida alla scrittura’. Ancora una volta, l’autore è, prima di tutto, insegnante e non dimentica mai di esserlo sia quando dà indicazioni sui comportamenti da tenere a scuola e nel mondo esterno (ossia, sulla ‘disciplina’), sia quando suggerisce gli atteggiamenti da tenere in campo etico, fisico e intellettuale (rinunce, volontà, pulizia, autocontrollo e dominio di sé, esercizio fisico, rifiuto dei vizi - gioco e alcol -, impegno e applicazioni costanti) che vanno attivati e rinforzati: “il periodo più adatto per questo lavorio di costruzione è l’adolescenza: periodo importante anche perché, per la prima volta, cominciamo a conoscerci un po’ e a renderci conto di qualche brutta tendenza che, nonostante le cure di genitori e maestri, ha già fatto strada dentro di noi”.
    I personaggi portati ad esempio, sono quelli classici, tratti da autori dell’Ottocento (Leopardi, Manzoni, D’Azeglio, Alfieri, Monti, Dickens, ma anche Elena Keller (6)). Poi c’è un lungo capitolo dedicato alla scuola “in cui, persone più mature, consce che la maggior forza del mondo è il sapere, distribuiscono con metodo e con ordine questa forza, e di ragazzi ignoranti ed incolti fanno a poco per volta degli ometti i quali imparano tutto ciò che loro occorre e potranno così essere utili a sé e agli altri”.
    In questa sezione i consigli si fanno pratici, a partire da quello di tenere un Diario scolastico sul quale appuntare quello che accade e quello che si impara durante la lezione, da scrivere solo per sé e da conservare negli anni per rammentare all’occorrenza quello che sembra di avere dimenticato. Una sorta di ‘autodeterminazione consapevole’ del tempo dedicato alla propria formazione, da sottrarre al controllo degli altri (insegnante, genitori, compagni) per acquisire autoconsapevolezza nell’apprendimento. Perché nella scuola, “punto di partenza della vita sociale”, “non vi devono essere distinzioni di nessuna specie: all’infuori (s’intende) di quelle che derivano dal merito particolare di ciascuno”. Già in queste osservazioni, pur vestite di un linguaggio sorpassato, è interessante isolare e sottolineare tre termini: metodo, ordine, merito. Sicuramente desueti. Peraltro, da riconsiderare alla luce della situazione attuale.
    Procedendo nelle indicazioni pratiche, l’autore affronta la questione di come imparare, focalizzando l’attenzione su due modalità: imparare a memoria e imparare a senso. Partendo dalla considerazione che l’imparare a memoria è pratica desueta (già a quei tempi), ne ribadisce l’importanza con una serie di indicazioni pratiche a partire da un sonetto di Ugo Foscolo (Solcata ho fronte, occhi incavati, intenti). Il culmine del ragionamento, peraltro, si concentra sull’imparare a senso, ossia su lettura di una pagina, comprensione dei concetti e capacità di esporli in forma corretta, prendendo le mosse dal libro di testo ed esercitando la capacità di attenzione e la curiosità. La pagina del libro di testo sarà solo il punto di partenza perché, per il resto, “la principale delle occupazioni intellettuali fuori della scuola sarà la lettura […] il libro, pronto sempre quando noi lo interroghiamo, parla con fretta maggiore o minore secondo il nostro desiderio: ci dà tempo, se ne abbiamo voglia, di meditare e anche di prendere appunti, senza impazientirsi; se lo contraddiciamo mentalmente, o magari ad alta voce, non se ne ha per male: può darsi che due o tre pagine più innanzi risponda, pacatamente, alle nostre osservazioni, ma con ragionamenti, non con male parole. E quando siamo stanchi d’ascoltarlo si lascia chiudere la bocca di colpo. Siamo sempre padroni d’interrogarlo dopo giorni, mesi ed anni”. E ancora: “Basterà che leggiate due, tre, quattro libri. Poi da quelli che avete letto vi verrà sicuramente lo stimolo ad altre letture: un romanzo storico che abbia tenuto avvinto l’animo del lettore basta a far nascere un vivo desiderio di studiare il periodo di storia a cui quel romanzo si riferisce […] e una lettura ne suggerisce un’altra e un libro ne chiama un altro, finché si forma una catena che non si spezza mai più: per una persona colta la lettura è una abitudine a cui è impossibile rinunziare”.
    Per concludere le riflessioni sull’importanza della lettura, l’autore introduce il suggerimento di redigere “una serie di articoli contenenti il succo di ciascun libro”, fornendo indicazioni precise sul come procedere: “Prima di tutto il titolo con le indicazioni bibliografiche, cioè nome e cognome dell’autore, data e luogo di stampa, nome dell’editore, formato e numero delle pagine: indicazioni che serviranno a ritrovare il libro se, per un caso qualunque, dovessimo perderlo. Poi note varie: parole difficili con la spiegazione che ne abbiamo trovato sul vocabolario, notizie, massime, frasi che desideriamo ricordare, ecc. ecc. Dopo ciò, un breve riassunto del libro, col giudizio che esso ci suggerisce. Il giudizio deve essere sincero e appassionato: poiché nessun curioso getterà mai l’occhio in queste pagine, non dobbiamo aver timore di apparire presuntuosi o leggeri. Noi soli rivedremo, dopo qualche anno, ciò che abbiamo scritto, e certo non avremo altro desiderio che di trovare il ricorso della prima impressione ricevuta. Forse, anzi quasi certo, modificheremo il nostro giudizio, più tardi: sarà perciò utile lasciare in fondo uno spazio bianco per le aggiunte posteriori. E sfuggiamo le espressioni comuni “libro bellissimo”, “libro dottissimo”, “libro pessimo”: parole vuote che, con tutta la loro superlatività, non dicono proprio nulla. Cerchiamo invece di vedere perché una lettura ci è sembrata buona o cattiva, utile o inutile. L’articoletto terminerà indicando quali desiderii ha lasciato in noi la lettura, quali punti vorremmo chiarir meglio, quali libri ci proponiamo di leggere per integrare la nostra cultura che qua e là abbiamo sentito insufficiente”.
    Nel leggere queste indicazioni, teniamo presente che sono rivolte alla fascia dai 13 ai 15 anni. Chi ne ha la possibilità lo verifichi con le realtà che conosce direttamente. Sottoposte a verifica, non credo possano essere considerate indicazioni peregrine.
    Nel capitolo successivo - La famiglia più grande - dopo alcune pagine dedicate a un farraginoso tentativo di definire patria e nazione, all’affermazione della pari dignità di tutte le nazioni e ai rischi del cosmopolitismo, l’autore redige un excursus di sole cinque pagine che, partendo dalla caduta dell’impero romano, culmina con la marcia su Roma, il 30 ottobre 1922 (unica data del breve excursus) che porta a instaurare ‘l’impero della Legge’ e ad annientare ‘le forze dissolvitrici dello Stato”. L’excursus è condotto con un crescendo retorico tutt’affatto diverso dalla retorica tradizionale utilizzata nei capitoli precedenti e perfettamente corrispondente alla retorica del regime ormai instauratosi da alcuni anni, al quale peraltro non c’è alcun altro riferimento nel corpo del testo. Questo brusco cambiamento, oltre a disattendere penosamente le indicazioni di metodo fornite nel capitolo dedicato alla scuola, viene abbandonato nell’ultimo capitolo – La società (7)– in cui torna la scrittura distesa, ricca di esemplificazioni, dei primi capitoli, quasi che il capitolo La famiglia più grande sia una sorta di aggiunta che, se doveva garantire la pubblicazione e la diffusione del testo, non ha garantito l’autore dal provvedimento di epurazione dall’insegnamento nel 19381.
    Debitamente sfrondato degli orpelli retorici tradizionali in eccesso (fatta salva l’opportunità di sapersi muovere tra paradigmi, aneddoti, storie e storielle, soprattutto per chi intende intraprendere professioni che abbiano a che fare con la scrittura) e di quelli ‘funzionali’ ai tempi in cui il testo è nato, il libro si presta bene per riconsiderare alcuni cardini propri dell’educazione e della formazione (sapere scrivere, leggere e comprendere i testi che si leggono per poi saperli riutilizzare in forma orale e scritta, in modo ordinato e organizzato, dal punto di vista formale e da quello contenutistico, ecc.).
    Considerando la sostanziale incapacità dimostrata dalle istituzioni repubblicane di realizzare, in oltre settanta anni, una riforma capace di attivare pienamente i principi costituzionali (artt. 33 e 34), che sta ormai dando i suoi effetti in tutti i campi, la sezione educativa del testo fornisce indicazioni non trascurabili.
    Poche parole – scrittura, lettura, studio, ordine, metodo, merito – dovrebbero essere ancora fondamentali8 per superare la parcellizzazione degli interventi che induce fenomeni diffusi di incapacità di lettura, scrittura, ascolto e, dunque, comprensione, a partire dalla ‘formazione’ dei formatori (sui contenuti, non sulle cornici dei contenuti che oggi sono divenute il ‘centro’ della scuola al punto da ridurre l’attività scolastica alla somministrazione di batterie di domande che richiedono solo di apporre una crocetta su una risposta preconfezionata. Basta sfogliare alcuni testi delle elementari per rendersene conto).

    NOTE

    1. Dino Provenzal (Livorno 1877 – Voghera 1972) è stato uomo di scuola, letterato, giornalista. Quando ha scritto Le forze dell’uomo aveva cinquanta anni, una lunga carriera di insegnante alle spalle, iniziata dopo la laurea in lettere a Firenze nel 1900 e interrotta dal 1938 al 1945 a seguito del provvedimento di epurazione che lo allontanò dalla scuola (di famiglia ebraica si era convertito al cattolicesimo nel 1926). Accanto all’attività di insegnamento e dirigenza, coltivò sempre l’attività letteraria, concretizzata in decine di opere letterarie e didattiche e in collaborazioni con giornali e riviste. Fu in contatto epistolare con numerosi letterati e intellettuali, come testimonia l’ampio carteggio conservato presso il Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche (SIUSA).
    2. L’Istituto Editoriale Italiano fu fondato nel 1911 da Umberto Notari e continuò ininterrottamente l’attività fino al 1982. Dopo una breve ripresa, ha chiuso definitivamente nel 1984. Ha pubblicato, tra l’altro, una collana di Classici latini e greci. Il fondatore, Umberto Notari, partecipò attivamente al Futurismo e nel 1939 fu tra i firmatari del Manifesto della razza. Nel volume di Dino Provenzal non appare la numerazione dell’era fascista in numero romano. La pubblicazione è del ’27 ma anteriore all’entrata in vigore dell’obbligo di aggiungerla (29 ottobre 1927).
    3. Gli autori citati, oltre a Giovanni Pascoli, sono significativi come testimonianza della formazione ‘ottocentesca’ e ‘risorgimentale’ dell’autore: Edmondo De Amicis (1846-1908), Giovanni Marradi (1852-1922), Carlo Bini (1806-1842). Di quest’ultimo, fondatore insieme a Domenico Guerrazzi, de L’indicatore livornese, finito in carcere per essere vicino a Mazzini e alla Giovane Italia, l’autore riporta due intere pagine dedicate alla madre e alla condizione di dolore che le è propria per il fatto stesso di essere madre, senza indicazione dello scritto da cui sono tratte. Gli scritti di Bini sono stati pubblicati dalla Casa Editrice Erasmo di Livorno (Tutti gli scritti, 2016). L’articolo di presentazione nel sito della casa editrice parla, tra l’altro, di un autore cui sono dovute “riflessioni di straordinaria attualità sul ruolo della donna, sul matrimonio …”, cfr. erasmolibri.it ).
    4. Del resto l’editore, Umberto Notari, prima di essere editore era scrittore e un suo romanzo, Quelle signore (1904), era stato processato per oltraggio al pudore (garantendo al romanzo successo di pubblico e di vendite).
    5. La prima citazione che appare nello scritto è una terzina dantesca (“Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza”, Divina commedia, Inferno XXVI, 118-120). Questa come tutte le altre citazioni che percorrono il testo non sono corredate da alcuna indicazione del testo da cui sono tratte né da alcun riferimento per risalire con agilità al punto esatto da cui sono tratte (capitolo/canto, paragrafo/pagina/edizione) come oggi correntemente in uso. E’ il segno di un approccio ai testi diverso, supportato dalla memoria. È una questione molto antica, che interessò già il passaggio da civiltà orale a civiltà della scrittura, di cui si fece interprete Platone attribuendo alla scrittura, nel Fedro, la responsabilità della dimenticanza. Oggi, la questione è attualissima e va di pari passo con la disponibilità pressoché illimitata di archivi virtuali, da una parte, e l’accentuata tendenza a perdere memoria anche di fatti recentissimi.
    6. Elena Keller (1880-1968), divenuta cieca e sorda a diciannove mesi di età, con una forza di volontà non comune, riuscì a coniugare l’impegno politico, quello di scrittrice e di avvocato, comunicando con un sistema ideato per lei dall’istitutrice che le fu vicina per decenni.
    7. Nel capitolo, a proposito della possibilità di raggiungere risultati di rilievo anche partendo da modeste condizioni, l’autore introduce alcuni casi esemplari, tratti dal mondo dell’editoria: quello di Felice Le Monnier, di Gasparo Barbera, dei fratelli Emilio e Giuseppe Treves, di Nicola Zanichelli, di Giovanni Ricordi, infine, dei fratelli Paggi (fondatori della casa editrice Bemporad), di Raffaello Giusti di Livorno (editore delle opere di Giovanni Pascoli) e Luigi Pierro di Napoli. Una conferma dell’importanza di testi ampiamente superati per ricostruire la storia culturale tra Ottocento e Novecento.
    8. A conferma dell’interesse che le numerosissime pubblicazioni di Dino Provenzal possono rivestire ancora oggi per riflettere su questioni legate all’educazione, si può tenere presente il testo di Margherita Borghi, «Con una voce sua propria». Lingua ed educazione linguistica nelle opere di Dino Provenzal, Cesati 2020.

     

     

     

     

  • LEGGERE PER GUARDARE
    ALLA SALUTE DEL PIANETA
    E PER COLTIVARE

    data: 28/10/2020 08:37

    Libri recenti, meno recenti o anche decisamente datati. Questa è la mia biblioteca. Da alcuni anni, ai classici e ai libri di studio, aggiungo costantemente libri dedicati all’ambiente. L’ambiente infatti è o, meglio, dovrebbe essere, il tema centrale, oggi. Per capire cosa sta succedendo, leggere per conoscere è fondamentale, scegliendo oculatamente tra i titoli.
    Sono importanti, tra tanti altri:
    • Rachel Carson, Primavera silenziosa, I ed. italiana 1963, IX ed. Feltrinelli 2019 (ne ho parlato in Il risveglio della primavera. Storia di un colossale abbaglio). Il titolo, Primavera silenziosa, diventa immediatamente chiaro se si decide di leggere La storia delle api di Maja Lunde (Marsilio 2017). In forma di romanzo, racconta lo stesso silenzio.
    • Elizabeth Kolbert, La sesta estinzione, I ed italiana 2014, VI ed (Beat Editore 2019).
    Servono per guardare alla salute del pianeta con uno sguardo documentato, con l’assoluta certezza che quello che vi si trova è tutto, drammaticamente, vero. Servono anche per capire che la salute del pianeta deve essere collocata al primo posto. La nostra, anche se siamo portati a pensare che sia più importante, dipende da quella del pianeta di cui siamo ospiti e che siamo tenuti a rispettare. In caso contrario diventiamo (forse, già lo siamo) ospiti indesiderati. E la natura, come testimoniano le successive estinzioni, può vivere tranquillamente senza di noi e continuare il suo corso. Dovremmo, quindi, meravigliarci delle conseguenze solo se guardassimo al problema con occhi molto miopi. Ma, di fatto, continuiamo a meravigliarci come se la responsabilità fosse di altri.
    Ci sono poi libri datati che appartengono al passato e che non vengono ripubblicati, magari perché affrontano le problematiche dell’ambiente da prospettive più circoscritte.
    Sono libri che si trovano solo nel mercato dell’usato o che, come è capitato a me, si ricevono in eredità. Molti parlano di terra, di suolo, di agricoltura, di coltivazioni. Ne parlano in modo ‘professionale’ e critico. Perché chi sta a contatto diretto con la terra, la conosce e la ama, sa cosa fa bene alla terra, alle piante, agli animali piccoli e grandi che la popolano.
    E, soprattutto, sa cosa le fa male e, di conseguenza, fa male a noi. Perché tutti dipendiamo dalla terra e dalle piante per vivere e per la nostra alimentazione. E più la distanza tra produzione e alimentazione è ampia (in conseguenza dell’industrializzazione delle coltivazioni, del costante processo di urbanizzazione, della mancanza di politiche agricole avvedute e del potere economico della grande distribuzione), più la situazione dell’ambiente e dell’uomo, si aggrava.
    Tra i libri del passato, ne esistono molti interessanti, se non altro perché testimoniano le trasformazioni avvenute a partire da inizio Novecento (e quindi una storia recente) (cfr. Usi e costumi 1820-1920 di quando gli italiani chiamavano pane il pane).
    Ne esistono poi, alcuni che ‘resistono’ al tempo e che di conseguenza, vengono anche ripubblicati.
    Tra questi, si colloca un breve testo edito dalla Libreria Editrice Fiorentina, nella storica collana intitolata Quaderni d’Ontignano (tra gli autori inseriti nella collana ricorrono nomi importati: Pfeiffer, Fukuoka, Gandhi, tra gli altri):
    Raul Gasperini, Coltivare, I ed. 1987 (l’edizione che ho ereditato), ripubblicato nel 2009 e ancora disponibile.
    Si legge velocemente ed è una testimonianza appassionata e pratica, al tempo stesso, di una persona che ha abbandonato, negli anni ottanta, con scelta consapevole, i prodotti provenienti dalla chimica di sintesi per tornare a convivere con la terra con il solo ausilio della chimica naturale.
    La prima parte, dedicata alle riflessioni dell’autore, contiene un breve capitolo intitolato IL SUOLO. Ne riporto uno stralcio come invito alla lettura:

    … E' possibile l’esistenza di persone che vedano il suolo soltanto per costruirvi strade, o sezionarlo in aree speculative, o vi pongano mente soltanto superficialmente, considerandolo un conglomerato di elementi inerti, nel quale le piante, bontà loro, sanno produrre spighe, fiori, foglie, frutti, legno.
    Il terreno è invece un’entità assai più complessa, molto viva, se le condizioni naturali siano mantenute al meglio.
    È un qualcosa che muore se l’uomo, da quel rapinatore che spesso risulta, lo maltratta, scientemente o no.
    È nelle leggi, insite nella sua stessa vita che la Natura corregge errori umani, sanando piaghe dall’uomo ricevute, … ma la potenza menomativa, distruttiva dell’uomo d’oggi sulla crosta terrestre, per mezzo dei suoi marchingegni e metodi, detti scientifici, non di rado antiscientifici e talvolta cinici, si è fatta troppo rilevante.
    Mi pare arrivata l’ora di voltar pagina. È tempo di finirla con una cultura che presenta l’uomo per buono, onnisciente e onnipotente, come un Superessere, che possa tutto, mentre o conscio o inconscio o cinico sta avvelenando suolo, acqua, atmosfera e se medesimo …

    Mentre leggo il libro, il pensiero corre all’orto di Candeloro, a pochi metri dal borgo medievale dove abito. Un nome ‘antico’, una vita spesa nei campi, dopo una decina di anni trascorsi, in gioventù, lontano, troppo (Vancouver Island, Columbia Britannica, Canada), come taglialegna. Tanto lontano che ha preferito tornare per riprendere il lavoro di contadino nel suo paese. Oggi, ormai in pensione, continua a trascorrere il tempo tra orto e pollaio. Lo chiama, scherzosamente, ‘il mio ufficio’. E mentre cura le piantine in questa stagione 2020, tra ‘non inverno’, primavera anticipata, troppo calda e secca, estate arida che non finiva più e, ormai in autunno, le notizie della ripresa della pandemia che non accenna a finire, riflette. E mentre ascolta i vari telegiornali, scuote la testa, con poche parole di commento. E le sue riflessioni non sfigurerebbero in un libro. Anzi. Quanto a profondità non sono da meno di quelle di tanti che, insegnando filosofia, non si definiscono, umilmente e correttamente, ‘professori’ ma, ostentatamente, ‘filosofi’. Con il vantaggio di essere meno verbose e più immediate.


     

  • GLI INSETTI GREGARI
    E I TRE REQUISITI
    DELL'INSEGNAMENTO

    data: 13/10/2020 09:50

    Terra insecta. Il titolo, indubbiamente, colpisce. Sembra immediato. In realtà è problematico, per vari motivi. Insecta (1) è un termine latino. Terra è un termine latino, divenuto italiano. Abbinati, costituiscono un asindeto che, reso in italiano, è molto meno efficace (‘La terra gli insetti’). Per curiosità, risalgo all’originale norvegese: Insektenes planet, ossia Il pianeta degli insetti. Il sottotitolo italiano - Il mondo immenso raccontato dalle creature più piccole - è molto meno efficace e immediato dell’originale: Om de rare, nyttige og fascinerende småkrypene vi ikke kan leve uten ossia Sugli insetti strani, utili e affascinanti di cui non possiamo fare a meno. Insomma, al di là dell’indubbia efficacia, la traduzione è piuttosto scadente, anche a fronte delle scelte attuate nella traduzioni inglese e tedesca (2).

    L’autrice è Anne Sverdrup-Thygeson, un’entomologa, professoressa della Norwegian university of Life Sciences. Si occupa quindi di insetti. La casa editrice è Rizzoli (2019). L’epigrafe premessa al libro è un adattamento di una frase di Plinio il Vecchio, posta ad inizio del libro XI della sua Storia naturale: ‘La natura non è mai così grande come nelle cose piccole’ (nell’originale: In his tam parvis atque tam nullis quae ratio, quanta vis, quam inextricabilis perfectio, ‘In questi animali così piccoli, quasi nulli, quanto criterio, quale potenza, quale perfezione indicibile (della natura)’, XI, 2).
    Il tema è o, meglio, dovrebbe essere, di grande interesse. L’attuale situazione ambientale, fortemente dominata dalla presenza sempre più invasiva di noi umani e delle nostre attività, tutte volte a garantire l’alta qualità della vita raggiunta negli ultimi decenni e, peraltro, ancora molto male distribuita, lo richiede con forza. Il problema è che se ne rendono conto solo coloro che vivono a contatto con l’ambiente in situazioni non contaminate, o solo parzialmente contaminate, dai modelli di vita cittadini, soprattutto se il loro sostentamento dipende dalla terra. La siccità che ha contraddistinto i mesi primaverili ed estivi lo ha reso immediatamente evidente. I raccolti sono stati scarsi e, in buona parte, lo saranno anche quelli autunnali, nei frutteti e negli orti. Le api ne hanno risentito. I bombi (insetti della famiglia delle Apidae) sono stati molto meno numerosi dell’anno scorso quando volavano tra i fiori spontanei del giardino: quelli rosati della salvia sclarea, quelli gialli del guado (Isatis tinctoria la pianta dalle cui foglie si ricava il blu ‘europeo’!), quelli rosa acceso o bordeaux del malvone (Alcea rosea), ecc. La stessa cosa è vera anche per calabroni e vespe, nelle diverse varietà, tutte appartenenti alla famiglia delle Vespidae.
    Chi ricorda le lucciole (un piccolo coleottero della famiglia Lampyridae) che si illuminavano nelle serate estive? Se oggi volessimo indicarle ai bambini, come accadeva quando i nonni di un tempo li mostravano ai nipotini, prima di andare a dormire, per una passeggiata nel buio illuminato da decine e decine di piccole luci svolazzanti, sarebbe quasi impossibile. E la diminuzione è palpabile, di anno in anno (3). Bisogna essere molto ‘distratti’ da cose che ci sembrano più importanti, per non accorgersene.
    La verità è che gli insetti sono fondamentali per l’ambiente. Ma soprattutto sono fondamentali per la vita dell’uomo. Se, grazie alle attività dell’uomo, in ogni campo (a partire da quello dell’agricoltura intensiva), continueremo a trascurare gli insetti, quando ce ne renderemo conto, sarà troppo tardi. L’autrice lo spiega in modo chiaro, esaustivo e, spesso, divertente. Il risultato, per il lettore, è un drastico cambiamento di prospettiva rispetto alla pretesa centralità degli umani: gli insetti sono più piccoli, è vero, ma sono molti di più di noi e, soprattutto, lavorano per garantire l’ambiente, non per ucciderlo, ognuno nel suo minuscolo settore di intervento. Per evitare che ciò avvenga, dovremmo prendere esempio proprio dagli insetti e, in particolare, dagli insetti gregari, api e formiche, in particolare. La sezione dove se ne parla ha per titolo un proverbio latino (Vade ad formicam et disce sapientiam) che risale a tempi in cui delle formiche si sapeva poco o nulla rispetto agli studi recenti. L’autrice pone una questione: ‘si può dire che gli insetti sono intelligenti?’. Per rispondere, esamina proprio l’attività degli insetti gregari, ossia degli insetti capaci di attivare un processo di insegnamento/apprendimento, quali api, vespe, formiche. Gli studi più recenti hanno verificato che questi insetti possiedono i tre requisiti specifici dell’insegnamento: “il comportamento esibito deve essere tale da prodursi solo quando un soggetto informato interagisce con un allievo ‘insipiente’, lo scambio deve comportare una spesa per l’insegnate e l’allievo deve apprendere in modo più rapido di quanto avrebbe potuto fare da solo” (p. 45). Questi tre requisiti sono stati osservati, tra l’altro, nella dinamica della cosiddetta “uscita a tandem”, tipica di una varietà europea di formica: la formica insegnante precede le formiche allieve, si ferma, attende che l’avvertano di aver capito e memorizzato il percorso e, solo dopo aver verificato l’apprendimento, l’insegnante formica riprende il percorso.
    Ho cercato di verificare le modalità di insegnamento/apprendimento su alcuni testi per le scuole elementari, soffermandomi sulle poche nozioni relative agli insetti. Generalmente, si tratta di poche frasi, seguite da una ‘batteria’ di domande espresse con le stesse parole della ‘spiegazione’ precedente, seguite da spazi dove inserire la risposta corretta tra tre opzioni (risposte a scelta multipla) con una croce che dimostri l’avvenuta comprensione (qualsiasi bambino, si rende immediatamente conto che basta rileggere la frase sopra per rispondere correttamente). Non è chiamato a comprendere realmente le nozioni né ha modo di verificarlo nella realtà.
    Ho provato a sottoporre alcune pagine di Terra insecta a una bambina che ha appena finito le elementari e sta iniziando la prima media. Ho riscontrato che la bambina in questione è perfettamente in grado di capirlo, andando ben oltre le poche nozioni del libro di testo, proposte senza alcuna ulteriore spiegazione in classe. Ho verificato che la capacità di apprendere di un bambino è molto più alta di quello che i testi scolastici offrono, a condizione che si attivino i tre requisiti dell’insegnamento: l’insegnante deve sapere più dell’allievo (deve conoscere bene l’argomento, senza incertezze, senza ricorrere alla semplice lettura della frasi riportate nel libro, sapendo portare esempi adeguati, sapendo verificare la comprensione da parte dell’allievo); quindi deve ‘spendere’ il proprio tempo in termini di informazione, formazione, metodo e sicurezza; l’allievo deve ricevere qualcosa che vada ad arricchire le sue conoscenze (oltre quelle che sarebbe in grado di verificare da solo, semplicemente osservando ciò che lo circonda). Devo ammettere che la bambina in questione, partiva avvantaggiata. Abita in campagna (4). Ma non è un buon motivo per lasciare i bambini di città nell’ignoranza del mondo degli insetti (anche di tante alte cose, per la verità) e, soprattutto, non è un buon motivo per non acquisire tutti la consapevolezza dell’importanza del mondo degli insetti, gregari e non, per la nostra vita da umani.
    Terra insecta, a dispetto della bizzarra scelta nella ‘traduzione’ di titolo e sottotitolo, è perfetto per insegnanti, genitori, nonni e chiunque abbia a che fare con bambini in crescita. Possono ricavarne informazioni e indicazioni preziose per indirizzare i bambini all’osservazione e al rispetto della natura prima che siano travolti dal mondo circostante (con effetti che possono essere devastanti) senza aver prima capito quanto e come l’ambiente di cui siamo ospiti, spesso un po’ troppo ingombranti, possa essere interessante. Possono leggerlo, almeno in parte, insieme a loro. Resteranno stupidi dalla facilità con cui apprendono. Esattamente come le formiche, se bene guidate. Per gli adulti, è un ottimo modo per capire quale pesante eredità stiamo lasciando alle prossime generazioni, replicando e permettendo di replicare comportamenti che, ormai è chiaro, stanno distruggendo l’ambiente a ritmo incalzante.

    (1) Insecta è il participio passato sostantivato del verbo latino insecare (tagliare) ed è usato da Plinio il Vecchio (I sec. d. C.), nella sua Naturalis historia (XI) per indicare gli insetti. Plinio rende con questo termine l’aggettivo sostantivato greco τὰ ἔντομα, formato con la stessa preposizione in = ἐν e la radice del verbo τέμνω, tagliare, usato già da Aristotele. Il termine si prestava bene, ed è rimasto nelle lingue moderne, perché rendeva l’idea di piccoli esseri costituiti da tre sezioni apparentemente giustapposte che, in mancanza di microscopi adeguati, non potevano essere analizzate in modo specifico.
    (2) Terra insecta è il titolo adottato, oltre che nella traduzione italiana, in quelle olandese, polacca, spagnola, il che suggerisce una possibile dipendenza dell’una dall’altra. Nelle due versioni inglesi e in quella tedesca, il titolo viene reso in modo più fantasioso (Buzz, Sting, Bite. Why We Need Insects / Extraordinary Insects: Weird. Wonderful. Indispensable / Libelle, Marienkäfer & Co.). Viene il sospetto che il titolo originale – Il pianeta degli insetti – sia stato ritenuto non abbastanza attraente per il pubblico, proprio perché ribalta il rapporto tra umani e insetti, già dall’incipit.
    (3) La questione delle lucciole è pluridecennale. Risale agli inizi degli anni Sessanta (quando fu pubblicato Primavera silenziosa di Rachel Carson). Nel 1975, Pier Paolo Pasolini usò il fenomeno della scomparsa delle lucciole come punto di partenza per interpretare il potere politico (“Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta)”, "Il vuoto del potere" ovvero "l'articolo delle lucciole", Corriere della Sera, 1 febbraio 1975, in Scritti corsari, Garzanti, 2015). In realtà, in zone ‘periferiche’ di alta collina e montagna dove, per motivi logistici, non si diffonde l’agricoltura intensiva, fino a quindici anni fa le lucciole c’erano ancora. Le ho viste ed è uno dei motivi per cui ho scelto di abitare a 750 slm. Oggi, non ci sono più.
    (4) Una volta iniziata la lettura, la bambina ci ha preso gusto, così abbiamo continuato. Ho recuperato dagli scaffali dedicati ai libri datati Bandiera di Mario Lodi (Einaudi, 1985), la storia di un albero di ciliegio durante un anno, dal punto di vista di una fogliolina curiosa, frutto del lavoro in una classe di V elementare, e L’uomo che piantava alberi di Jean Giono (1953), il racconto di un pastore solitario che si dedica al rimboschimento di un’area montagnosa piantando ghiande, sistematicamente, anno dopo anno. Così, a distanza, con le rispettive copie davanti, ci siamo alternate nella lettura, decifrando metafore (per Bandiera) o approfondendo questioni geografiche e storiche (per L’uomo che piantava alberi). Da leggere e rileggere entrambi, prima di tutto dagli adulti.

     

     


     

  • "I TRENI DELLA FELICITA'"
    MA DOV'E' FINITO
    QUEL SENSO
    DI SOLIDARIETA'?

    data: 28/09/2020 15:52

    Può capitare che il punto di partenza per parlare di un libro sia un post sulla bacheca Fb dell’autore? A me è capitato con I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie (Ediesse 2009) di Giovanni Rinaldi. Il libro era in attesa di lettura già da un po’ sulla mia scrivania, quando, il 29 agosto, mi imbatto in questo post:

    Le domande di Francesco, nel bosco.
    “Zio, nel libro dei treni, tu hai scritto quello che ti hanno raccontato i vecchietti?
    Ma questi vecchietti, allora, erano stati proprio sui treni!
    Quando erano bambini, erano saliti sui treni?
    E tu sei andato a trovarli?
    Dove vivevano, in campagna?
    Quando erano bambini avevano paura?
    E dopo che i vecchietti ti hanno raccontato le storie, siete diventati amici?
    E tutte le parole stanno nel libro.
    Io ho visto un film in cui c'era un lupo che mangiava i bambini. Poi lo uccidevano.
    Zio, tu sei famoso?”
    “Solo per chi mi vuol bene, Francesco”.
    Non conosco direttamente l’autore e non conosco il suo nipotino, ma il libro è passato immediatamente in cima alla lista dei libri da leggere.
    Le vicende narrate nel libro risalgono agli anni tra il 1945 e il 1952. La ricerca, confluita ne I treni della felicità e nel film documentario Pasta nera di Alessandro Piva (2011), si è svolta tra il 2002 e il 2006, proseguendo fino al 2011 per la realizzazione del documentario. Dunque, ha preso il via a cinquant’anni dall’inizio delle vicende che racconta.a
    Ha senso rievocarle oggi, a distanza di altri diciotto anni dall’inizio della ricerca sul campo?
    La domanda è legittima. Per rispondere, date alla mano, ritorno ai miei primi anni di bambina degli Anni Cinquanta. Nessun sentore della guerra se non, sul finire di quel decennio, i ricordi che ogni tanto circolavano tra gli adulti sul pericolo rappresentato dalle bombe inesplose. Il ritrovamento e l’esplosione accidentale di queste bombe ogni tanto aveva provocato morti nei dintorni, spesso giovanissimi che si avvicinavano per curiosità, gioco o avventura. Ricordo ancora i luoghi precisi dove questi ordigni, risalenti ai bombardamenti del 1944, colpirono, a guerra ormai conclusa. Immagino che queste conversazioni avessero il preciso scopo di metterci in guardia dal toccare oggetti sospetti durante le scorribande estive.
    Per il resto, non rammento conversazioni relative alla guerra e ai suoi risvolti, in presenza dei bambini. Il nonno era persona molto taciturna. Non l’ho sentito parlare né della prima guerra (alla quale aveva partecipato) né, tantomeno, della seconda. Al punto che ho sempre pensato alla guerra come una cosa molto lontana nel tempo. La scuola, in tal senso, non aiutava. Per qualche strano motivo, il programma di storia si fermava sempre agli inizi del Novecento, con qualche vago accenno alla prima guerra mondiale e alle canzoni di guerra (‘il Piave mormorava’ ricorreva tra i testi che ci insegnavano a cantare, insieme all’inno nazionale, a quei tempi).
    A dire il vero, non credo che la situazione sia molto cambiata da allora, anzi.
    Indubbiamente, fare i conti con il XX secolo è una cosa complicata. In silenzio, senza parere, molti – in primis chi è addetto ai programmi scolastici - pensano sia preferibile ‘bypassare” (ma questa è una questione che merita successivi approfondimenti). Andando avanti con gli anni, ho sviluppato la precisa sensazione di aver vissuto un drammatico errore di prospettiva, probabilmente indotto. La consapevolezza di questo errore comporta il recupero della vicinanza dei fatti e, di pari passo, dell’importanza di riscattarne la memoria. Chissà, forse l’autore, Giovanni Rinaldi, ha vissuto un’esperienza simile e il suo libro è un tributo alla memoria di vicende passate che vale la pena ricordare.
    I treni della felicità è molto più di un racconto.
    È la ricostruzione di un progetto di solidarietà tra Sud e Nord d’Italia, ideato dalle donne dell’UDI, Unione Donne Italiane (1), il movimento nato tra 1944 e 1945 in supporto alla campagna per il voto alle donne, e volto a dare ospitalità per un periodo più o meno lungo a bambini di varie regioni del meridione in famiglie del centro nord.
    È una ricostruzione effettuata attraverso le fonti orali che, opportunamente trascritte, diventano una ‘storia orale’ di interesse storico antropologico e sociale (quella che in inglese si definisce Narrative analysis o Narrative inquiry).
    I treni della felicità è il lavoro di scrittura, abbinato alle riprese effettuate da Alessandro Piva per il film documentario Pasta nera (prod. Seminal Film - Cinecittà Luce, 2011), in forma di resoconto della ricerca sul campo durata alcuni anni.
    L’idea di partenza per la ricerca è quella di ricostruire quanto accadde a San Severo nella primavera del 1950 a seguito di uno sciopero non autorizzato (2), realizzando un documentario per il programma RAI La storia siamo noi. La proposta arriva all’autore dal regista Alessandro Piva che intende affiancare con questo documentario le immagini dedicate ai braccianti agricoli del Sud che Ugo Zatterin (1920 - 2000) girò all’inizio degli Anni Sessanta (3).
    Prima di dare inizio a una qualsiasi ricerca sul campo, è necessario reperire informazioni, partendo da testimonianze scritte. L’autore ricorda Il cafone all’inferno di Tommaso Fiore (4), Baroni e contadini di Giovanni Russo (5), soffermandosi in modo particolare su Cari bambini vi aspettiamo con gioia (6) di cui scoprono una copia fotostatica in casa di Severino Cannelonga, a San Severo.
    Con questo libro fotocopiato tra le mani, la ricerca entra nel vivo.
    I primi contatti portano ad altri contatti. Si organizzano i primi viaggi per incontrare i testimoni e registrare le interviste. Spesso le interviste diventano monologhi. I testimoni, i bambini di allora, ricordano liberamente. Le loro paure di bambini che partivano da condizioni di disagio per essere ospitati in casa di altri, per un periodo variabile di alcuni mesi fino a un anno. La nascita di legami di affetto profondi, ben oltre il periodo di convivenza. La scoperta che i timori iniziali che circolavano insistentemente prima della partenza (quale è la vera meta del viaggio? potrebbe essere la Russia, dove ‘i comunisti mangiano i bambini’: è questo il leit motiv dei ricordi, e dei manifesti elettorali del tempo). Il ritrovarsi con genitori adottivi e fratelli adottivi. I ricordi che permangono a distanza di decenni, spesso scanditi da ritorni con le rispettive famiglie. La scoperta di un mondo ‘altro’, dove si mangia in modo diverso. Anzi, dove, in prima battuta, si mangia. Dove si parla in modo diverso.
    È la scoperta che oltre il proprio paese, la propria casa e i campi circostanti, esistono altri mondi.
    È la scoperta, con gli occhi di bambini nati agli inizi degli anni ’40, di un’Italia frammentata in tanti mondi diversi per conformazione geofisica, per strutture architettoniche (le case di campagna della Romagna sono diverse da quelle del Basso Lazio o della Puglia), per clima, per lingua, tradizioni, costumi. La ricerca diventa anche occasione di incontri tra protagonisti, un tempo bambini, che non si sono incontrati più e che si riscoprono a distanza di decenni, arricchiti dal bagaglio di una vita.
    A conti fatti, è la scoperta che i comunisti non mangiavano i bambini. Anzi, li ospitavano, li rivestivano, li accoglievano come figli (al punto da suscitare gelosia nei figli naturali), piangevano nel momento di lasciarli ripartire, mantenendo nel tempo il legame con loro e con i loro genitori.
    È anche la scoperta di una rete di solidarietà umana e sociale che, nei protagonisti, ha avuto un impatto indelebile.
    Oggi, a distanza di settanta anni o poco più dall’inizio di quella gara di solidarietà, guardarsi intorno dà molto da pensare.
    Dove è finito il senso di solidarietà tra essere umani? Dove è finito il senso di comunanza che ha fatto sì che famiglie poco più avvantaggiate accogliessero i figli di persone meno fortunate, provenienti da terre per certi aspetti più difficili?
    I treni della felicità, sicuramente, non è stato il punto di arrivo per l’autore. Chi sviluppa la passione per la storia nella particolare forma della storia orale, non può smettere di cercare storie, di ricostruirle, di tessere una rete di contatti che diviene rete di conoscenze, di affetti, di solidarietà culturale.
    Per chi decide di leggerlo può essere il punto di partenza per cercare di rispondere agli interrogativi che la lettura stimola, inevitabilmente, a partire dalla considerazione che avere accantonato l’umanità a tutto vantaggio del benessere individuale, del divertimento fine a se stesso, della noncuranza per l’ambiente dove viviamo (da ospiti, in ultima analisi) sta rendendo molti di noi insensibili, incuranti, insofferenti e, in sostanza, ignoranti.
    Un libro come questo è un’occasione da non perdere per ricominciare a studiare il nostro passato recente, per ricostruire le fila di avvenimenti che fanno parte integrante della nostra storia, anche di quelli tra noi che ancora non erano nati. Perché da quei fatti ci separano pochi decenni.
    Ma sono decenni fondamentali che abbiamo il dovere di raccontare a figli e nipoti.

    POST SCRIPTUM
    Mentre mi pongo queste domande, un fatto nuovo mi porta ad alcune riflessioni aggiuntive: un altro post dell’autore, Giovanni Rinaldi, apre uno scenario diverso e apparentemente poco lusinghiero sullo stato dell’editoria e su certe operazioni editoriali. Il post rimanda a un ampio articolo pubblicato nel suo sito (Alle fonti - nascoste? - del romanzo Il treno dei bambini, parte terza giorinaldi.wordpress.com, 29 maggio 2020) e dedicato all’uso “disinvolto” delle fonti nella scrittura in un testo narrativo che si propone di raccontare una storia poco nota, accaduta agli anni dell’immediato dopoguerra. Il titolo è Il treno bei bambini, l’autrice Viola Ardone, l’editore Einaudi (2019). La voce narrante è quella di Amerigo, uno dei bambini ospitati da una famiglia del Nord. Ora, Amerigo è uno dei tanti bambini che riempiono le pagine de I treni della felicità di Giovanni Rinaldi, e la vicenda narrata dall’autrice corrisponde al racconto del bambino di allora, incontrato da Rinaldi, insieme al regista Alessandro Piva, nel corso della ricerca sul campo di ‘fonti orali’, durante il loro lungo lavoro di documentazione. L’articolo è un’analisi minuziosa del rapporto di Viola Ardone con il testo. Non solo, l’analisi di Rinaldi era iniziata in precedenza (cfr. parte seconda e terza, sempre nel blog, 2 gennaio 2020) con lo studio delle corrispondenze tra la narrazione della Ardone e altri testi che lo avevano accompagnato nella ricerca sul campo (di cui c’è ampio e circostanziato riferimento ne I treni della felicità). Nel romanzo di Viola Ardone non compare traccia del debito nei confronti dei testi da cui ha tratto ispirazione fino alla nona ristampa (gennaio del 2020), quando vengono aggiunte due pagine con la bibliografia principale di riferimento (e questo solo nell’edizione italiana).
    Ora, in ambito letterario, in prosa come in poesia, aemulatio/imitatio sono concetti fondanti, come ben dovrebbero sapere una docente di italiano e latino e i responsabili della Casa Editrice torinese (l’esperienza poetica di Orazio e Virgilio, la prosa di Livio non esisterebbero senza i ‘modelli’ greci o sarebbero completamente diverse). Ma oggi, a distanza di oltre duemila anni, in un contesto editoriale completamente diverso, ispirarsi a testi precedenti non richiede sin da subito l’accortezza di rendere note le fonti di ispirazione ai lettori per dare il merito a chi, per primo, ha lavorato sul soggetto che ha ispirato il romanzo?

    (1) Oggi Unione Donne in Italia, cfr. http://www.udinazionale.org/Doppia%20Origine.html,
    (2) Nel 1950 il Presidente del Consiglio della neonata repubblica era Alcide De Gasperi (in carica dal 1946 al 1953, nel corso di sette successivi mandati). Il Ministro degli interni Mario Scelba, Ministro dell’agricoltura e delle foreste, Antonio Segni. La questione agraria era una delle questioni da affrontare e risolvere nel panorama della nascente repubblica. A pochi mesi dai fatti di San Severo, fu promulgata la Legge n. 841 del 21 ottobre 1950, Norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini (nota come Legge stralcio). Un articolo a firma Emilio Romagnoli del 1961 dedicato alla riforma agraria si trova nell’Enciclopedia Italiana Treccani online. Se ne ricava un quadro, seppur parziale, di quanto la questione fosse complicata.(3) “Viaggio nell’Italia che cambia” è l’inchiesta che Ugo Zatterin ha realizzato per documentare la trasformazione sociale e culturale dell’Italia tra gli anni ’50 e gli anni ’60. L’inchiesta andò in onda nel 1963 sul Programma Nazionale in 5 puntate.
    (4) Il saggio di Tommaso Fiore (Altamura 1884 - Bari 1973), pubblicato nel 1955, è stato recentemente ripubblicato dalla Casa editrice Palomar (2020),
    (5) Il saggio di Giovanni Russo (Salerno, 1925 – Roma, 2017) è un classico della letteratura meridionalista, pubblicato originariamente nel 1955 (Laterza, Bari),
    (6) Gli autori del testo (Teti editore, 1980) sono Angiola Minella, Nadia Spano, Ferdinando Terranova.

     

  • USI E COSTUMI 1820-1920
    DI QUANDO GLI ITALIANI
    CHIAMAVANO PANE IL PANE

    data: 10/09/2020 16:12

    Ci sono libri datati che risultano superati nei fatti. Ciò nonostante leggerli può rivelarsi estremamente interessante. Quello di cui parlano non è ‘nuovo’. Ma, proprio perché è superato, può contribuire a una lettura critica del nostro presente. Soprattutto perché il nuovo ha portato con sé il diffondersi di una generale superficialità nel rapportarsi alla società in cui siamo immersi e, con essa, all’incapacità piuttosto diffusa di elaborare un pensiero critico sulle cose. Un libro datato costringe a fermarsi, a riflettere, a interrogarsi.
    Così, quando mi capita tra le mani un libro di questo tipo lo tratto come un piccolo tesoro da custodire. Solitamente, quando il libro in questione tratta, direttamente o indirettamente, questioni antropologiche e sociali, diviene un terreno di indagine privilegiato per comprendere come e quanto è cambiato il mondo in circa cento anni, con una accelerazione che non ha avuto precedenti e una ricaduta che può rivelarsi devastante per l’intera umanità nei prossimi decenni.
    La prima cosa che mi colpisce è la frase di un entomologo e naturalista francese, Jean Henry Fabre (1) (1823 - 1915), utilizzata come epigrafe, ad apertura del volume: “La storia celebra i campi di battaglia dove incontriamo la morte, ma sdegna di parlare dei campi arati dei quali viviamo, sa i nomi dei bastardi dei Re ma non può dirci l’origine del grano. Queste sono le vie dell’umana pazzia”.
    Mi sembra una buona chiave di accesso alla lettura.
    Il libro si intitola Chiamavano pane il pane ed è stato pubblicato nel 1979 per i tipi della casa editrice Edagricole, specializzata in testi su questioni di agricoltura.
    Sull’autore, Armide Broccoli, trovo poche notizie in un sito che raccoglie fatti e personaggi di Bologna e provincia: è nato nel 1926 a Castenaso, ha ottenuto la licenza elementare, è stato partigiano dal 15 aprile 1944 al 21 aprile 1945, ha lavorato la terra. Non ho trovato altro e non so se sia ancora in vita. Forse sì, perché ho trovato solo la data di nascita.
    Di cosa parla il libro? Di lavoratori della terra, di coltivazioni, metodi e strumenti di lavoro, di strutture sociali e lavori contadini; parla della famiglia contadina e dei lavori artigianali connessi alle attività agricole.
    Per certi aspetti è una sorta di summa dedicata alle attività contadine e al come e perché tali attività si siano trasformate nel tempo, in concomitanza con il diffondersi della meccanizzazione, dei prodotti chimici e dell’agricoltura intensiva. Una particolare attenzione è posta sulla questione della mezzadria, il contratto agrario diffuso fino a metà e oltre del secolo scorso nelle campagne italiane. Nel 1964 una legge ha vietato di stipulare nuovi contratti, anche se continuarono a rimanere in vigore, salvo essere sostituiti da un contratto di affitto con una legge del 1982.
    Per moltissimi aspetti è un testo ampiamente superato. Ma, proprio per gli effetti delle trasformazioni che hanno interessato l’agricoltura, dovrebbe essere riletto e riconsiderato. I cambiamenti infatti sono stati tali e tanti da averci fatto perdere il contatto con la realtà della terra fino perdere cognizione della provenienza dei prodotti agricoli, limitandoci alla scelta della confezione sul banco del supermercato. Spesso senza che si sappia in quale stagione matura un frutto o una particolare verdura. Insomma, questioni tanto importanti da meritare tutta la nostra attenzione (e la rilettura di un libro come questo, se ci capita tra le mani).
    Naturalmente, non ha molto senso scrivere la recensione di un libro che, se ancora si trova, è disponibile forse in pochissimi esemplari, in qualche libreria antiquaria o in polverose biblioteche di famiglia.
    Non è detto, però, che non sia interessante proporne qualche brano, come spunto su cui riflettere.
    E allora mi piace partire da un’attività collaterale a quella agricola, appannaggio della donna, come altri lavori nell’economia domestica, improntata all’autoproduzione di tutto ciò che serviva per il fabbisogno familiare: la tessitura (per la quale si utilizzavano le fibre derivate dalle piante che si coltivavano, la canapa in particolare, o la lana delle pecore che si allevavano). Il primo riferimento alla tessitura si trova a p. 15, a proposito dell’abito:

    “A fare il contadino c’era questo di positivo; un vestito durava tutta la vita, perché le occasioni per metterlo erano limitate al Natale, alla Pasqua e poco più. Quattro-cinque volte all’anno in tutto. Erano dei forti consumatori di abiti da lavoro, di lana per l’inverno e di rigatino in estate, frutti entrambi di un artigianato domestico razionale ed efficiente. Lei ne sapeva qualcosa in proposito; filare tessere cucire e cucire, tessere e filare senza sosta ad un ritmo incalzante. Già quando il pastore portava la lana di pecora doveva iniziare col lavarla, poi cardarla e filarla prima di passare dall’ordito e alla tessitura. Ne otteneva delle pezze spesse e resistenti come il cuoio con le quali il sarto confezionava giacche e pantaloni. Gli uomini indossavano quegli indumenti ai primi di novembre e li smettevano in aprile per ripararsi dai rigori invernali quando stavano nei campi a potare o fare altri lavori. Ciascuno ne aveva due capi, uno da adoperare tutti i giorni e l’altro da mettere quando andava via. Quelli estivi invece erano di cotone, più leggeri quindi e li chiamavano rigatino, perché tessuti a righe bianche e turchine. Bisognava acquistare matasse di cotone, colorarne una parte poi, durante la tessitura, fare attenzione ad alternare i colori”.
    Ritorna poi a pagina 60, per parlare di biancheria (ma anche di ortaggi ed erbe):
    “L’aspetto più sorprendente della reggitrice casalinga [arzdòura (2)] era il suo carattere, quel suo modo disinvolto e paziente, tutto campagnolo, di affrontare i problemi, l’amore e l’impegno che metteva in ogni lavoro. Nella casa, ad esempio, non doveva curare solo l’alimentazione, ma teneva anche la chiave dell’armadio della biancheria che apriva quando c’era il cambio nei letti per il bucato. Controllava il logorio di lenzuola, federe, asciugamani, asciugapiatti, dei tessuti di lana e di rigatino – tutta roba che si consuma con un nulla - diceva sospirando – e faceva le previsioni sia per le sostituzioni sia per le doti dei figli. Non c’erano alternative i rifornimenti familiari richiedevano duecento braccia di tela all’anno e si riusciva a raggiungere quel traguardo filando e tessendo anche la notte. La donna doveva andare nel campo a raccogliere gli ortaggi, piselli, patate, zucchine, radicchi, e nei periodi adatti tagliava le erbe medicinali che poi seccava al sole su dei graticci. Appena pronte le metteva in sacchetti di tela bianca sistemati su una scansia del granaio. La camomilla e le altre erbe emanavano un profumo intenso, penetrante, che si diffondeva nelle camere, lasciando scie buone che deliziavano l’olfatto”.
    Giunta all’ultimo capitolo di Chiamavano pane il pane di Armide Broccoli, posso azzardare qualche parola per definire di che tipo di testo si tratti. Non è facile inserirlo in una categoria.
    Sicuramente è un’opera di narrativa. Racconta infatti la storia di una famiglia contadina, tra il 1901 e il 1918. Ma la storia di famiglia recupera la storia degli antenati, risalendo fino al 1820, ossia all’inizio delle trasformazioni nel mondo dell’agricoltura grazie all’apparizione delle prime macchine. Diventa quindi una narrazione corale attraverso il tempo.
    La coralità caratterizza anche la narrazione relativa al periodo centrale (1901/1918). C’è infatti la famiglia. Ma attorno alla famiglia e al suo mondo c’è tutto un brulichio di altre persone che ruotano attorno ai lavori dei campi, fino a spingersi incittà. Anzi la novità, a partire dal 1911, è proprio rappresentata dal contatto tra città e campagna: la nuova moda della ‘scampagnata’ per i cittadini, la domenica alla scoperta della città per i giovani delle campagne.
    C’è ancora molto altro nel racconto. La narrazione diviene infatti occasione per spiegare tutto ciò che ha a che fare con il mondo contadino: le piante, gli animali, le coltivazioni e le tecniche, gli attrezzi e i lavori artigianali, i lavori stagionali, le tradizioni e le novità, le ricette, la vita quotidiana, le stagioni e il paesaggio. Narrazione, parti descrittive e spiegazioni si intrecciano continuamente ed è frequente il ritorno sugli stessi argomenti – quasi un ritorno ciclico – come quello delle stagioni!
    Per molti aspetti è una narrazione epica con tratti di un’enciclopedia del mondo contadino. Esattamente come l’epica di Omero (non quella eroica dell’Iliade, ma quella dedicata all’avventura del ritorno, l’Odissea), filtrata dal poema ‘agricolo’ di Esiodo.
    Le ripetizioni non guastano. La narrazione deve (doveva/dovrebbe) avere una valenza formativa.
    Così non sorprende che il cuore dell’ultimo capitolo contenga una sorta di ‘storia al femminile’ in cui l’autore ripercorre la vita di una donna, dalla nascita alla vita adulta. Si intitola Cataclismi. Si apre con lo scoppio di una guerra che travolge tutto e tutti. Si chiude con la morte di due figli, un garzone e una ragazza divenuta quasi figlia adottiva per l’epidemia di ‘spagnola’. Era il tempo delle suffragette. Le donne delle campagne italiane non ne sapevano nulla. Per la verità, neppure gli uomini.
    Il risultato è una storia al femminile molto datata di cui peraltro vale la pena parlare, se non altro perché da quelle donne ci separano poco più di cento anni (mediamente, quattro generazioni!).
    Il contenuto è superato ma fondamentale. Può essere il punto di partenza per riflettere sui cambiamenti, sulla loro velocità e, soprattutto, sulle conseguenze che hanno avuto a livello di produzione e di effetti sulla vita, sul lavoro, sull’ambiente. Può essere un’occasione per rallentare e riflettere sul mondo che abbiamo voluto. Non si tratta di nostalgia: non c’è spazio per la nostalgia nella narrazione. Si tratta di consapevolezza.

    (1) Di Jean Henry Fabre è recentemente uscito per i tipi Adelphi, il primo volume di Ricordi di un entomologo, originariamente apparsi tra il 1879 e il 1907 e pubblicati per la prima volta in italiano nella collana I millenni (Einaudi) nel 1972.
    (2) La lingua usata da Armide Broccoli è un italiano fortemente caratterizzato da termini dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’artigianato, spesso alternati alla variante dialettale di area bolognese. L’“arzdòura” è uno di questi termini, quello che percorre tutto il testo ed è, forse, il più significativo. Se ne trova la spiegazione, originaria e attualizzata, in un articolo di Serena Bersani in Tessere.org https://tessere.org/arzdoura/.


     

  • UNA BAMBINA RACCONTA:
    1960, DALL'ABRUZZO
    IN AUSTRALIA. E RITORNO

    data: 24/08/2020 15:08

    Vasto (CH), inizio di ottobre, anno 1960. Una mamma con le sue due figlie prende la corriera diretta a Brindisi. A Brindisi si imbarcano sulla nave che le porta in Australia. Il marito è partito a febbraio. Le aspetta a Sydney. Nell’ultima lettera che ha scritto alla moglie si è raccomandato di acquistare i cappelli per le bambine perché “in Australia bambine e ragazze indossano i cappelli. Questa è la moda!”. Stanno lasciando, definitivamente, un mondo difficile. Il lavoro del padre – un agricoltore che lavora a mezzadria nei dintorni di Vasto – dà troppo poco per sostenere la famiglia. 

    Le persone che decidono di emigrare sono tante, dal dopoguerra, e nel 1951 si è costituita l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. L’Italia fa parte dei paesi fondatori. I compiti dell’organizzazione sono, oggi come allora (cfr. https://italy.iom.int/it/chi-siamo/missione), gli stessi: favorire lo sviluppo economico e sociale attraverso la migrazione; difendere la dignità e il benessere dei migranti; sostenere la solidarietà internazionale attraverso l'assistenza umanitaria agli individui in condizioni di bisogno; migliorare la comprensione delle questioni legate all'immigrazione; facilitare il dialogo internazionale sulle tematiche migratorie; offrire consulenze operazionali nel campo della gestione delle migrazioni.
    Sono seduta accanto alla più grande delle bambine di allora, Anna, al tavolo del suo soggiorno in paese. Ci incontriamo regolarmente. Ad Anna fa piacere parlare nella sua seconda lingua, l’inglese. A me serve per capire i miei nipoti (ai quali, peraltro, sono tenuta a parlare solo in perfetto italiano per far sì che mantengano la lingua della mamma).
    Ogni settimana troviamo argomenti sui quali imbastire le nostre conversazioni. Il racconto del viaggio transoceanico è troppo importante per continuare nel mio inglese incerto. Ben presto, ci ritroviamo immerse nel viaggio parlando in italiano.
    I ricordi si affollano nella mente di Anna. Sul suo volto vedo la felicità di quei giorni. La nave è enorme. A bordo ci sono tanti bambini. Il personale mette a disposizione veri giocattoli. La maggior parte di loro non ha mai visto veri giocattoli. C’è la piscina sulla nave. E i bambini si divertono un mondo. Fanno presto a fare amicizia i bambini (1).
    Si fa colazione, si pranza e si cena, a bordo. Si fanno tappe intermedie. La prima dopo aver superato il Canale di Suez, in territorio africano, dove si avvicinano alla nave piccole barche guidate da uomini scuri – non hanno mai visto uomini così scuri nel loro paese le bambine - per vendere i loro prodotti, banane e tessuti colorati. La mamma acquista due tessuti a fiori, uno giallo e uno verde. Una volta giunti in Australia diventeranno due bellissime gonnelline per le sue bambine. Da indossare rigorosamente con i cappellini nuovi (2).
    Si fa festa sulla nave. La più importante viene organizzata in corrispondenza dell’Equatore. Una bellissima festa, con musica e tante cose da mangiare. Si festeggiano anche i compleanni dei bambini sulla nave. E Anna compie dieci anni proprio durante il viaggio che, in tutto, dura quaranta giorni.

    Mentre Anna racconta, mi sforzo di ricordare dove ero in quell’ottobre 1960. Cerco di ricostruire: non è facile. La mia è stata un’infanzia segnata da continui trasferimenti per motivi di lavoro. Più fortunata, sicuramente, ma i ricordi delle scuole, dei compagni, degli insegnanti si sono confusi in un magma indistinto. Quando ci penso, ancora mi domando come sia riuscita a imparare qualcosa. Evidentemente avevo abbastanza anticorpi per sostenere quel continuo andirivieni per luoghi diversi e distanti della penisola. Dunque, nell’ottobre del 1960 avevo iniziato la quarta elementare in una scuola romana, dopo avere trascorso l’estate dai nonni, in campagna. Senza giocattoli ma con un intero mondo a disposizione.

    Negli occhi di Anna, intanto, scorrono le immagini del mare: non è il mare di Vasto questo, sembra non finire mai. È pieno di animali e la notte il cielo si riempie di stelle e, piano piano, le stelle cambiano. Poi arriva la prima tappa australiana, a Perth. La nave fa scalo il tempo necessario per consentire di scendere. Così le due bambine con la mamma hanno tempo di pranzare a casa di zii che non ha mai conosciuto e che, probabilmente, non vedranno mai più.
    Prima di arrivare a Sydney, la nave fa altri scali. Anna non li ricorda esattamente ma, ricostruendo, si tratta di Adelaide e Melbourne.
    A Sidney inizia la sua nuova vita, con la famiglia riunita, e inizia la scuola in una lingua diversa, indossando il cappello con i vestiti nuovi. Alla fine del percorso di studi viene prontamente assunta da una banca, come ragioniera. Passa poco tempo prima di incontrare il marito. Erano tempi in cui l’unica possibilità per incontrarsi era un breve fidanzamento e il matrimonio.
    La conclusione è presto detta: il marito è originario di Navelli (AQ) e, a un certo punto della propria vita, non si è sentito di lasciare i genitori soli in paese, con tanti figli, tutti dispersi per il mondo – tra Australia e Canada.
    Così sono tornati. Uno strano caso, quello di Anna: partita da un paese della costa abruzzese e tornata in un paese dell’Abruzzo montano, serbando nel cuore e nella mente il paese di adozione, Sydney, New South Galles, Australia, dove ha lasciato la sua famiglia di origine.
    Di quel paese, serba gelosamente alcuni ricordi. Tra gli altri, una collezione di School Magazine, ossia libri di lettura del The new South Wales Department of Education che risalgono al 1965 dai quali traiamo spunto per le nostre conversazioni (3).
    Se siamo qui a ricostruire questa piccola storia individuale, vissuta con l’inconsapevolezza di una bambina che partiva felice per raggiungere il papà, godendosi tutte le novità del viaggio e del nuovo paese, e che durante quel viaggio ha ‘sfiorato’ la Storia, è grazie alla sua “rientranza” (4) e alla mia “arrivanza” nel medesimo luogo.
    Quando le chiedo, “Per caso, ricordi come si chiamava la nave?”. “Toscana”, mi risponde senza nessuna incertezza. Con un nome e una connessione a disposizione, ricostruirne la storia è un attimo. Il transatlantico Toscana è nato tedesco, con un nome tedesco (Saarbruken). Ed è stato costruito nel 1923 dalla compagnia di navigazione tedesca Norddeutsher Lloyd (North German Lloyd) attiva dal 1857. È stato adibito a nave passeggeri, a nave per il trasporto delle truppe, a nave ospedale per la Regia Marina, tra il 1941 e il 1945. Alla fine della seconda guerra (nel 1947) venne adibito al trasporto dei profughi dall’Istria in Italia e, infine, dal 1948, è stato adibito ai viaggi transoceanici in direzione dell’Australia, attraverso il Canale di Suez, per il trasporto degli emigranti, rimanendo in servizio fino al 1960. Sicuramente, era partito dal porto di Trieste, facendo la prima o forse la seconda tappa a Brindisi dove erano salite a bordo la mamma con le sue due bambine. Il viaggio di Anna fu dunque l’ultimo per il transatlantico (che era stato rinominato Toscana nel 1935). Nel 1962 venne demolito nei cantieri di Trieste.
    Fu anche l’unico viaggio di Anna in nave. Quando tornò in visita ai suoceri, negli anni Settanta, il viaggio si faceva ormai in aereo. In quaranta anni i fatti della Storia avevano cambiato il mondo. Anna ha incrociato questi fatti nella cabina, sul ponte, nella sala mensa del transatlantico. Non immaginava che sarebbe tornata in Abruzzo, a Navelli. Anche questo è un caso di “restanza”.

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    (1) I ricordi di Anna, sommati a quelli della sorella Maria, interpellata in videochiamata, fanno un contrasto tanto forte con le immagini delle navi pieni di migranti di oggi e con il trattamento loro riservato che viene da domandarsi se mai chi si trova nei posti addetti a dare disposizioni abbia consapevolezza della nostra storia recente. E, di conseguenza, come sia possibile che i cittadini chiamati a votare queste figure abbiano rimosso i nostri emigranti dalle loro menti e abbiano "dimenticato" di trasmettere queste memorie ai giovani di oggi perché arrivino con consapevolezza al momento del voto. Eppure non erano tempi facili. A ottobre 1960 il primo ministro era Amintore Fanfani, succeduto a Fernando Tambroni (marzo/luglio 1960). È quasi incredibile che allora, in un momento storicamente difficile, a pochi anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, i governi, anche molto distanti, abbiano trovato un accordo per gestire i flussi migratori. Ed è ancora più incredibile che oggi nel nostro paese tanti si scaglino contro i nuovi migranti senza il supporto dei fatti, senza umanità e, troppo spesso, con atteggiamenti di vero e proprio razzismo. Basta la lettura attenta di un veloce testo di Don Luigi Ciotti, Lettera a un razzista del terzo millennio, Edizioni Gruppo Abele 2019), per smontare alla radice tutte le motivazioni di questi atteggiamenti.
    (2) Nella mente, l’immagine delle due bambine con i loro cappellini si sovrappone a quella dei personaggi femminili di Pamela L. Travers che indossano sempre il cappello. Non solo quelli di Mary Poppins ma anche quelli dei suoi racconti, in particolare, Zia Sass (Zia Sass, 1941, Sellerio 2015).
    (3) I vecchi libri di scuola sono vere e proprie miniere per ricostruire come e cosa si studiava e la visione del mondo che la scuola trasmetteva. Nel fascicolo del luglio 1965, c’è un brevissimo articolo (meglio, una riflessione) dedicato alla Giornata nazionale degli Aborigeni (National Aborigines and Islanders Day Observance Committee, NAIDOC, cfr. https://www.naidoc.org.au/about/history ): “Nel National Aborigines Day, il 9 luglio di quest’anno, pensiamo in modo speciale ai nostri aborigeni. Le strade invisibili che un tempo seguivano da una pozza d’acqua all’altra, in molti distretti sono state arate o edificate. La strada che seguono oggi è quella della piena cittadinanza. Puoi aiutare un amico aborigeno a seguire questa strada?”. È un buon punto di partenza per riflettere sul come si sia realizzata la colonizzazione del suolo australiano da parte della Gran Bretagna a partire dal 26 gennaio 1788, quando una nave carica di deportati, indesiderati in patria, approda nella Botany Bay, nei pressi dell’attuale Sydney, per costruire in quella terra "disabitata" una prigione lontana dalla madrepatria. Una volta elaborato il marchio della loro origine (in almeno 150 anni), divenuti rispettabili cittadini della Corona e distrutti i riferimenti territoriali delle popolazioni nomadi (che abitavano l’Australia da trentamila anni e più), la scuola invita i loro figli a "guidare" un "amico" aborigeno a adottare il punto di vista del colonizzatore (cfr. Robert Hughes, La riva fatale, I ed. 1986, Adelphi 1990).
    (4) Nell’accezione usata da Savino Monterisi nel suo Cronache della restanza (cfr. Fra restanti e arrivanti in terra d'Abruzzo).

     

     

     

     

    “On National Aborigines' Day 9th of July this year, we think especially of our aboriginal people. The invisible roads they once followed from waterhole to waterhole are, in many districts, ploughed under or built over. The road they follow now is the road to full citizenship. Can you help an aboriginal friend to follow this road?”

     

     

     

  • FRA RESTANTI E ARRIVANTI
    IN TERRA D'ABRUZZO

    data: 18/08/2020 15:46

    1 agosto 2020. A San Benedetto in Perillis (1) si apre “Libri nell’Entroterra, San Benedetto in Perillis Book Festival” ideato da Paolo Fiorucci, titolare di una libreria, Il Libraio di Notte (a Popoli, PE) e realizzato in collaborazione con l’Associazione culturale Perill’arte, costituitasi nel 2014 per iniziativa dei giovani di San Benedetto (una decina, forse, su una popolazione di poche decine di persone. Nel 1931 erano circa 900). Il protagonista del primo incontro è Savino Monterisi con il suo Cronache della restanza (2), Riccardo Condò Ed. Interviene il sindaco Gianfranco Sirolli (in carica dal 2015).
    L’evento si tiene all’aperto, nel campo sportivo, davanti a un pubblico (una quarantina di persone) distribuito a doverosa distanza nelle gradinate. I relatori introducono l’autore e il libro, addentrandosi nelle questioni e accompagnandole con la lettura di alcuni passi.
    Il libro, Cronache della restanza, è stato pubblicato da una piccola casa editrice con sede a Pineto (Teramo), Riccardo Condò Editore, che si propone di recuperare una realtà calabrese, fondata da Consolato Condò (1833-1919), avvocato, giornalista ed editore, pubblicando opere di saggistica e narrativa.
    L’autore, Savino Monterisi, è un giovane di Bagnaturo (Sulmona) che, come tanti, si è trasferito a Roma per gli studi universitari di Scienze Politiche (le mete universitari dei giovani di Sulmona e dintorni sono Pescara, Bologna, Roma e, a volte, l’Università dell’Aquila. Anche in queste scelte si annidano questioni profonde). Poi è tornato, con all’attivo qualche articolo su Il Manifesto e sulla rivista Gli Asini, diretta da Goffredo Fofi, e una collaborazione con Il Germe, rivista online sulmontina diretta da Patrizio Iavarone.
    Molti giovani, terminati gli studi universitari non tornano nel paese di origine abruzzese.
    Savino Monterisi ha compiuto una scelta controcorrente: è tornato. Qualche articolo, seppure su pubblicazioni prestigiose, e l’impegno come attivista politico non bastano, quando si tratta di creare il proprio futuro. Così, diventa guida per l’Associazione Italiana Guide Ambientali Escursionistiche (AIGAE), in collaborazione con Terre Colte d’Abruzzo. Come ogni guida, ogni escursionista e viaggiatore ama fare, racconta i luoghi, i paesaggi e le esperienze di viaggio nel suo blog (www.cronachedellarestanza.it).
    I contenuti del libro? Cronache, ricordi, persone, luoghi, montagne, paesi semiabbandonati, eremi, paesaggi, percorsi tratturali e chiese lungo i cammini dei tratturi. In molti casi, le riflessioni si distendono per alcune pagine. Ogni cronaca, anche la più breve, pur partendo da un’occasione specifica (un sentiero, il ricordo di un’escursione, una persona) affronta questioni di importanza centrale per l’Abruzzo montano che corrisponde, oggi, alla provincia dell’Aquila - la più estesa delle province su tutto il territorio nazionale - e, nella ricostruzione storica di epoca preromana e romana, al territorio di alcune popolazioni italiche (in particolare i Peligni e i loro confinanti Pentri, Carricini, Marrucini, Vestini, Marsi). Lo stesso territorio, dalla fine dell’impero romano, ha vissuto le successive trasformazioni di epoca tardo antica, medievale, rinascimentale, fino al tormentato periodo napoleonico e risorgimentale, cambiando padrone, signore, amministrazione e, conseguentemente, confini.
    Nei decenni successivi all’Unità è iniziato lo spopolamento verso paesi lontani (Nord Europa, Americhe, Australia), proseguito, ininterrotto, con alcuni picchi significativi, fino agli anni Settanta. Oggi è teatro dello stillicidio dei giovani che si allontanano per studiare o per cercare lavoro, stabilendosi nella maggior parte dei casi altrove.
    Nei paesi rimangono gli anziani, gli adulti che diventano presto anziani; le campane suonano prevalentemente a morto, raramente a festa (e a volte sono morti e nascite che avvengono lontano, di cui arriva solo la notizia). I pochi rimasti, di cui le pagine e le riflessioni di Savino sono popolate, sono custodi delle tradizioni, dei ricordi, della memoria di chi non c’è più. Sono custodi pervicaci, ostinati e gelosi, nella mente e nel cuore, e se trovano chi è disposto ad ascoltarli li esprimono nel loro dialetto (diverso da paese a paese, da paese a frazione e, a volte, da contrada a contrada).
    I paesi e le case si sono adeguate, in modo episodico, provvisorio e, spesso, senza un preciso piano di intervento armonico, contribuendo a una crescita non sempre rispettosa delle architetture in pietra realizzate nei secoli. Le case rimaste deserte tendono a un inevitabile deterioramento, fino a diventare ruderi. Le comunità, ridotte all’osso, hanno ereditato e ripropongono gelosamente le antiche diatribe tra paesi confinanti, rimanendo chiuse in se stesse e poco disposte ad accogliere estranei. Dove si inseriscono ‘arrivanti’ (spesso stranieri attratti dal fascino ‘esotico’ dei luoghi), più che essere inclusi possono sperare al massimo di essere accettati con benevolenza. Non saranno mai parte integrante della residua comunità originaria.
    In questa situazione lo sviluppo del turismo non è facile. Lo sviluppo del turismo è legato alle strutture. La realizzazione delle strutture dipende dalle capacità imprenditoriali, penalizzate da una storia prevalentemente agricola e pastorale. La realtà agricola e pastorale, a sua volta, è stata affossata dallo sviluppo industriale, tipico delle zone costiere e della pianura. La politica, anche in queste contrade, pensa prima di tutto a difendere i propri spazi e a replicare se stessa piuttosto che lavorare al servizio delle comunità. Chi arriva ai vertici locali della politica non sempre è chi ha più competenze e più capacità da spendere per lo sviluppo del territorio ma chi è più abile a proporsi e a mettere insieme quella manciata di voti che gli assicura la prima, la seconda, spesso la terza rielezione a sindaco.
    C’è tutto questo e molto altro nelle pagine di Savino Monterisi. E sono pagine che dovrebbero interessare tutti i cittadini della penisola, troppo spesso ignari delle zone appenniniche ricchissime di risorse in termini di ambiente, di paesaggi, di umanità sospettosa ma, al tempo stesso, ospitale (l’incontro con un paesano è spesso segnato da una domanda fatidica: “ma tu, di chi sei figlio?”, nelle varianti dialettali).
    11 agosto 2020. La presentazione di Cronache della restanza è fissata a Gagliano Aterno. Decido di seguire il percorso da Navelli (dove abito da quindici anni, condizione che mi conferisce il privilegio di leggere le riflessioni di Savino da un’altra prospettiva, ossia quella dell’ “arrivante” o, come qualcuno mi definisce in paese, del “forestiero”), passando per San Benedetto in Perillis da dove mi affaccio sulla valle subequana, guardando il monte Sirente e, superato Acciano, attraverso Molina Aterno, Castelvecchio Subequo (l’antica Superaequum, uno dei centri abitati dei Peligni) e, lasciato sulla destra il bivio per Secinaro (1900 abitanti circa nel 1931, 380 circa nel 2011), Gagliano Aterno. Sulla via del ritorno, percorro lentamente la SS 5 Tiburtina attraversando le Gole di San Venanzio in direzione di Raiano e ragionando sulla ‘relatività’ delle distanze (ossia, l’incredibile differenza tra il percorso Roma – Pescara via Tiburtina e lo stesso percorso via Autostrada). Sono solo alcuni dei luoghi di cui c’è menzione nelle cronache di Savino Monterisi. Sono solo alcuni luoghi tra le centinaia che percorrono la dorsale appenninica. Tutti meritano di essere visitati lentamente, a piedi, alla scoperta della natura e delle solitudini paesane. Ogni tanto, qualcuno, come l’autore, diventerà “restante” con la consapevolezza di tutte le difficoltà – politiche, sociali, economiche - del restare. Ogni tanto qualcuno diventerà “arrivante” e scoprirà a proprie spese quanto sia difficile entrare a fare parte di una comunità, arroccata sui monti, con una storia di millenni alle spalle e un secolo, il XX, che è quasi riuscito a demolire quel che rimaneva dei millenni precedenti.

    1. A San Benedetto in Perillis (AQ), sede di un Monastero benedettino e di un’Abbazia (VIII – XII sec.), c’è un Museo Civico realizzato dall’ex sindaco Giancaterino Gualtieri, in cui sono raccolti ed esposti reperti e oggetti di provenienza locale, di interesse geologico, antropologico, agricolo e artigianale. Di lui possiedo uno scritto interessantissimo (L’anno agrario, civile e religioso. La vita di ogni giorno ovvero: quando ciascuno “teneva” la fratta personale), uno di quelli destinati a mai diventare libri ma che possono incontrare l’interesse di uno studioso di antropologia culturale, se mai avesse il desiderio di accedere al testo.
    2. Il termine restanza, nell’accezione utilizzata da Savino Monterisi è una proposta di Vito Teti in un articolo, Il senso della restanza, reperibile nel sito dell’Enciclopedia Treccani. (http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Il_senso_della_restanza.html)

     

     

  • UNA VECCHIA QUESTIONE
    SEMPRE NUOVA:
    LA TRADUZIONE
    E IL "SECONDO" AUTORE

    data: 21/07/2020 11:04

    A proposito di Fuga di morte (Sheng Keyi, Fuga di morte, trad. Eugenia Tizzano, Fazi Editore 2019)

    La passione per la lettura è nata con me, credo. Poi, con il tempo si è arricchita di motivazioni e strumenti. Leggere testi letterari è stata la base indispensabile della mia attività professionale. Per questo, quando affronto questioni relative alle forme letterarie, tendo a tenere presenti gli archetipi. A questo proposito, le prime questioni da affrontare nell’approccio alla letteratura latina riguardano, nell’ordine, la contemporaneità, sulla carta (ossia, nei programmi), tra letteratura greca e latina, e il particolare approccio dei primi letterati latini con i testi prodotti nella Grecia, ormai conquistata. Di fatto, i primi letterati latini sono stati traduttori. Gradualmente, si sono resi autonomi dal testo greco, emulandolo in modo progressivamente più indipendente fino a produrre qualcosa di sostanzialmente diverso. Peraltro, non hanno mai abbandonato la cultura greca come punto di riferimento imprescindibile con cui confrontarsi, da cui attingere e da rielaborare.
    La traduzione è quindi un aspetto fondamentale della produzione letteraria, ogni volta che si decida di trasferire un testo dalla lingua in cui è nato a un'altra lingua. Tale trasferimento è un’attività di grande complessità, in ogni caso. Tanto più se il trasferimento avviene tra lingue profondamente diverse in tutti gli aspetti – grafia, fonetica, struttura e sistema culturale di riferimento.
    Peraltro, è una prassi tanto connaturata nell’attività letteraria che, nella maggior parte dei casi, il lettore neppure pensa a questo aspetto (dice, semplicemente, ‘ho letto l’ultimo romanzo di …’, senza aggiungere, come sarebbe doveroso, ‘tradotto da …’). Capita anche a me. Anche se, per la verità, ho sempre avuto il cruccio di non riuscire a leggere l’originale (arrivando, in alcun casi, ad acquistare un testo sia nell’originale sia in traduzione). Laddove posso farlo, come nel caso della letteratura brasiliana, leggo senz’altro l’originale, anche se non sempre è facile (un esempio per tutti, e non casuale, in questo contesto, è Grande sertão di João Guimarães Rosa).
    La questione mi si pone con una urgenza del tutto nuova e, per certi aspetti, inaspettata quando una studentessa dell’ultimo corso che ho accompagnato agli esami finali, Eugenia Tizzano, mi dice di avere messo da parte per me il romanzo di una autrice cinese contemporanea che ha tradotto per la casa editrice Fazi: Fuga di morte di Sheng Keyi. Non resisto, a dieci anni dall’ultima volta in cui ci siamo viste, decidiamo di incontrarci, a debita distanza e con le dovute precauzioni, davanti al liceo.
    Forte solo delle poche notizie fornite nell’aletta di prima e in quella di quarta di copertina, mi rendo conto dalle prime pagine che sto per immergermi in un mondo. Mi appunto i nomi per districarmi nel sistema dei personaggi, i luoghi – quelli reali e quelli ideali – cercando riferimenti geografici precisi. Mi appunto le date (ne trovo soltanto due: 2019, 2039). Tuttavia – per capire l’intreccio dei piani temporali, riconsidero la dedica  iniziale ("Ai cinesi nati negli Anni Sessanta’) e gli indizi disseminati nel testo, già dall’incipit (gli eventi tumultuosi, la lotta, la piazza, ecc.).

    Per i lettori occidentali nati negli Anni Sessanta (o prima) non dovrebbe essere difficile recuperare nella memoria le immagini che giungevano da Piazza Tienanmen (Pechino), tra aprile e giugno del 1989. Ma la data, 1989, nel testo non c’è. Per la verità, non c’è neppure il nome della Piazza e nessun altro riferimento diretto a quegli avvenimenti. Tra  i cinesi nati negli Anni Sessanta cui l’autrice dedica il romanzo, peraltro, ci sono tutti coloro che hanno manifestato in Piazza Tienanmen e tutti quelli, tra i manifestanti, che sono morti in nome della lotta per un sistema più giusto; ma anche tutti quelli – come il protagonista (Yuan Mengliu) – che hanno preferito defilarsi, salvo vivere nell’ombra e nei rimorsi per tutta la vita. Faccio mentalmente i conti per capire quanti anni potevano avere i protagonisti. Ipotizzo che ne avessero circa 25 all’epoca in cui i carri armati hanno avuto l’ordine di avanzare contro i manifestanti. Dunque, nel 2019, ne hanno 55 o giù di lì. Nel 2039 ne avrebbero 75. Ma ho il dubbio che quest’ultima data sia una incongruenza, come capita inevitabilmente in opere di grande respiro. Mi rendo conto che la narrazione è tutta giocata sul parlare di quei fatti, senza fare riferimento puntuale ed esplicito a quegli stessi fatti e che, evidentemente, l’autrice vuole richiamarli alla mente, a dispetto dell’obblio imposto dall’alto, con un’incredibile serie di strumenti che dicono senza dire. E capisco perché, nonostante le strategie adottate, il romanzo, in patria, è stato censurato. Cerco disperatamente di recuperare nella mia memoria le immagini di quello che accadde a Pechino tra il 15 aprile e il 4 giugno del 1989, senza accontentarmi delle ombre presenti nella mente ma cercando una documentazione più precisa.
    Mi appunto i riferimenti letterari presenti nel testo, o, almeno, quelli che riconosco, da Aleksandr Solzenicyn (Arcipelago Gulag, in particolare) ad Anna Achmatova di cui ricordo le edizioni nella collana Collezione di poesia Einaudi, da Gabriel García Márquez (in particolare, L’amore ai tempi del colera, altro titolo non casuale) al Jin Ping Mei, classico erotico cinese, la cui prima edizione appare nel 1617. Non sono le sole citazioni, altre sono solo accennate, dedicate al lettore più attento. Poi c’è il titolo. Fuga di morte. Todesfuge, nell’originale tedesco. Il titolo del romanzo è lo stesso della poesia che Paul Celan - ebreo, rumeno, scrittore di lingua tedesca - ha dedicato al dramma dei campi di concentramento nazisti. Già il titolo, quindi, è una chiave di lettura.
    Procedo nella lettura sottolineando sul testo e appuntando sul quaderno gli innumerevoli passi in cui il descrittivismo assume un ruolo di primo piano, soffermandosi su elenchi di piante, presenze animali, oggetti di porcellana bianca e blu, paesaggi con alberi, con boschi, con nebbia, con acqua, ecc. Mentre sottolineo, mi passano per la mente le descrizioni di oggetti in Omero, il racconto della porcellana di Edmund De Waal (La strada bianca. Storia di una passione, Bollati Boringhieri, 2016) e mi rendo conto che, descrizione dopo descrizione, nella mia mente si va componendo un intero mondo, di cui, nei fatti, so poco o nulla.
    Le descrizioni spesso si ampliano in metafore; le metafore includono descrizioni.
    La metafora è presente, in tutte le sue declinazioni, dalla semplice similitudine fino al suo sviluppo più estremo, come strumento privilegiato dell’immagine poetica. La metafora è lo strumento conoscitivo, linguistico, culturale preferito da Sheng Keyi in modo tale che la prosa si evolve in forme poetiche. Non poteva essere diversamente.
    L’intera vicenda è percorsa – dall’inizio alla fine – da una grande metafora.
    Il giovani del 1989, protagonisti in modo diverso delle giornate di Tienanmen, si affidano alla poesia per comunicare gli ideali, ascoltano poesia come viatico per continuare la lotta, muoiono nel nome della poesia. Il protagonista – uno de I tre moschettieri, ossia dei tre poeti riconosciuti come espressione di quelle giornate – non riesce ad affrontare i rischi, si tira indietro. La sua fidanzata, Qi Zi, diviene uno dei leader della lotta. La perde di vista. Viene data per morta durante la repressione armata. Yuan Mengliu rinuncia alla poesia. Si allontana e continua la sua vita, da medico. Ha altre donne, numerose. Ma continua a essere convinto che Qi Zi sia viva. Incapace di dimenticare e sopraffatto dal rimorso per aver abbandonato i compagni, lascia la normalità della vita da medico, per andare in cerca di Qi Zi. Incappa in un mondo ‘ideale’, La Valle dei Cigni. Si ferma. Ma il tarlo dei ricordi continua a operare nella sua mente. Apparentemente, gli abitanti della Valle vivono solo nel presente, un presente senza turbamenti, perfettamente organizzato e predisposto per occuparsi solo della mente, dello spirito, di questioni filosofiche. Con il tarlo dei ricordi in mente, cerca di capire questo mondo: chi lo manovra gli chiede insistentemente di tornare alla poesia. Gli indizi che lo porteranno a svelare l’inganno sotteso a questo mondo ideale, gli impediscono qualsiasi forma di poesia. La poesia può essere solo espressione di libertà. Cedere alla richiesta di poesia encomiastica significherebbe sommare un secondo tradimento a quello di avere abbandonato nel 1989 la lotta (e la poesia). 

    La seconda parte del romanzo, più veloce, corre in modo rapido verso la conclusione, inaspettata ma, per certi versi, prevedibile.
    Il romanzo nel suo insieme è una grande metafora sulla complessa relazione tra un ideale e la sua realizzazione, sull'impossibilità di realizzare un ideale, sul fallimento di un ideale e sulle sue conseguenze, sull’ideale che nasce sulle ceneri del precedente e sul suo fallimento.
    In ultima analisi, è un romanzo sull’impossibilità di portare l’idea sul piano della concretezza. Un ideale implica un’idea di perfezione. Ma la perfezione è impossibile da realizzare senza un controllo assoluto sull’individuo. L’ideale ripiomba nella concretezza che si risolve in controllo dell’individuo, di ogni sua minima azione, nella pianificazione di ogni singola vita, nell’eliminazione di chi non serve più, di chi disturba, di chi serba, nonostante tutto, la memoria. Emblematico a tal proposito è il fatto che nella Valle dei Cigni proprio coloro che conservano la memoria del passato - gli anziani - siano relegati in case di cura che si rivelano centri di eliminazione massiccia di uomini e donne ormai privi di valore in una società che per certi versi ricorda molto quella cinese contemporanea, in cui lo slogan è “guardare avanti” e non volgersi mai indietro a ricordare il passato. Non c’è spazio per la poesia nella realizzazione di questo mondo ideale dove in nome del bene comune è annullata ogni azione individuale.
    Il testo è anche un grande romanzo sulla poesia, in tutte le sue forme. E se la poesia è libertà (la stessa libertà vagheggiata dall’ideale) non può essere poesia che inneggia alla realizzazione concreta dell’ideale di una società libera, in cui il cittadino non sia sottoposto al controllo e in cui il leader non diventi il controllore (al punto da essere assimilato ad un automa = robot /Alien).
    La prima opposizione fondante dell’intero romanzo è, di conseguenza, quella tra POESIA / SILENZIO (la fine scelta dal protagonista è la metafora delle metafore).
    La seconda opposizione fondante è quella REALTÀ / UTOPIA, con la consapevolezza che l’utopia, da Omero in poi, è destinata a rimanere tale. Anche in questo caso, è indispensabile riconoscere che difficilmente il lettore è in grado di cogliere il senso del fallimento della concreta realizzazione di un ideale (= utopia) con riferimenti appropriati alla cultura cinese. Per farlo deve ricorrere agli innumerevoli mondi utopici che scandiscono le letterature occidentali, con un picco significativo nel periodo rinascimentale, Tommaso Moro, in particolare, al quale l’autrice ha fatto esplicito riferimento.
    La complessità del romanzo porta con sé, come inevitabile conseguenza, una pluralità di livelli di lettura, tutti parimenti legittimi.
    Il lettore potrebbe non cogliere i riferimenti ai fatti storici che scatenano l’intera vicenda ma comunque apprezzare la narrazione per il piacere della lettura, per l’intreccio delle vicende, per il crescendo della seconda parte, per l’accumularsi delle immagini. In una parola per il ‘semplice’ piacere della lettura.
    Il lettore potrebbe essere incuriosito dalla presentazione – molto essenziale – che appare nell’aletta di copertina e seguire la narrazione cogliendo il riferimento – seppure generico - ai fatti. Il livello di coinvolgimento sarà diverso anche in relazione all’età del lettore. L’intera narrazione potrebbe diventare più chiara per un lettore nato negli anni sessanta del secolo scorso – ossia un lettore che abbia la stessa età del protagonista – che ricordi le immagini degli eventi di Piazza Tienanmen.
    Il lettore potrebbe essere in possesso di tutti gli elementi – di diverso grado, in relazione alla conoscenza di una letteratura ‘altra’ come quella cinese – - per decodificare le immagini, i piani temporali, l’intrecciarsi di passato e presente, di ricordi e realtà, di detto e non detto. Con una certa probabilità, potrà cogliere le sfumature, gli indizi, le chiavi di lettura presenti nella narrazione, evitando il rischio di semplificazioni e fraintendimenti. Potrà, in misura differente, cogliere la trama di riferimenti letterari presenti nel testo.
    La scelta editoriale di non includere nel volume una prefazione, una postfazione e, in generale, un apparato di note, una bibliografia e alcune schede di approfondimento (storico/geografiche e linguistiche, in particolare) non agevola il raggiungimento di una lettura informata e competente. Ed è un peccato, soprattutto per un romanzo che si colloca a buon diritto nel numero delle opere che Franco Moretti ha definito ‘opere mondo’ (Opere mondo, saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi 2003).
    L’autrice lo ha definito, in un articolo, ‘un museo commemorativo, dove santi e despoti, martiri e assassini, compassionevoli e indifferenti tornano ognuno al loro posto, grazie alla capacità della finzione di aprire un varco laddove non vi è strada, di creare speranza dove c’è solo disperazione’ (da Il romanzo guarisce dalla storia di Sheng Keyi in La stampa, 30 novembre 2019).
    Il privilegio di conoscere il ‘secondo autore’, Eugenia Tizzano, che ha ‘riscritto’ il romanzo in lingua italiana, trovandosi nella necessità di addentrarsi nel testo e di uscirne con un testo ‘altro’, capace di veicolare tutti gli strumenti linguistici, espressivi, culturali utilizzati da Sheng Keyi, mi mette in condizione di anticipare la possibilità di affrontare questioni qui solo sfiorate in una prossima intervista. La mediazione linguistica è sempre complessa. La sua complessità è estrema se i mondi da mettere in contatto sono distanti, a dispetto della velocità dei viaggi che non modificano preconcetti, preclusioni, superficialità di approccio. Vale la pena approfondire la questione con un mediatore culturale di professione, ossia il ‘secondo’ autore.

     

  • A COSA È DOVUTA QUESTA DIFFUSA IGNORANZA DELLA LINGUA ITALIANA?

    data: 11/07/2020 19:14

    A volte ho la netta sensazione che lo scrivere di libri sia un’attività assolutamente inutile.

    Sicuramente risponde a un’esigenza personale. E, alla fine, non fa male a nessuno. Chi legge quello che scrivo, può apprezzare o meno, può commentare o passare oltre. E tutto finisce lì.

    Non è vera la stessa cosa per la fase della lettura. Leggere è, in prima battuta, un atto individuale che arricchisce prima di tutto chi legge. Peraltro, complice la mia vita professionale, leggere è stato sempre un momento di formazione. Senza formazione – possibilmente non statica – non si può essere formatori.

    Entrambe queste attività – lettura e scrittura – sono frutto di pratica, di crescita, di verifica, di correzioni e autocorrezioni. Per lo meno, questa è la mia convinzione. So, per esperienza, lo stato d’animo che si prova a essere corretti, da bambini alle prime prove, da alunni, da insegnanti (può capitare di fare errori nel correggere, per quanta attenzione si faccia), e da autori, quando si ha a che fare con una redazione. Ho vissuto in prima persona tutte queste fasi. Un misto di delusione, di stizza, di disappunto che costringono a riflettere. Se la correzione è giusta, superato il primo momento di contrarietà, si interviene e si fa tesoro dell’errore. Se la correzione è arbitraria (capita anche questo!), si fa tesoro dell’accaduto e si memorizza, per non cadere nello stesso errore con altri. C’è anche il caso che non si raggiunga mai la forma migliore. A me, a volte, capita con i titoli.

    La sensazione di partenza, peraltro, si affaccia ogni volta che incappo in testi scritti male, anzi malissimo. Soprattutto se ciò non accade in un compito in classe (che, alla fine, ha un diffusione circoscritta) ma in testi resi pubblici senza la benché minima preoccupazione, da parte dello scrivente, della forma in cui sono redatti. E, nella maggior parte di questi casi, risulta evidente che gli errori non sono frutto di casualità (fretta o sbadataggine) ma di ignoranza delle strutture più elementari della sintassi, dell’uso delle forme verbali così come dell’uso della punteggiatura.

    Così, se trovo un frase come quella che segue, in un testo scritto da un bambino appena uscito dalle elementari:

    “Oggi la mamma mi ha portato dalla nonna visto che doveva andare a lavoro”

    guido l’autore (poco più che decenne) a renderla più fluida, con esempi e indicazioni, fino a renderlo autonomo.

    Se il testo scritto male è una mail che arriva a un professore universitario (Facoltà di ingegneria, ma potrebbe essere qualsiasi altra Facoltà), la situazione si fa più complicata.

    Il testo in questione è il seguente:

    Gentile Professore, volevo comunicarle che, essendo che faccio parte del gruppo di venerdì 10 ore 8.30, ed essendo che abito abbastanza lontano da (…) e che per rispettare l’orario dovrei partire la mattina molto presto, è possibile che faccia un po' di ritardo (per via di eventuali problemi che possono manifestarsi durante il viaggio). Alla luce di questo le vorrei chiedere se sarebbe un problema presentarsi in ritardo rispetto all’orario stabilito. Grazie

    (la firma non è omessa per questioni di riserbo sullo scrivente. Manca perché lo scrivente non ha firmato!)

    Non è questo il luogo per analizzare e correggere il testo (impresa ardua, peraltro: i due periodi che lo compongono, sarebbero da ‘smontare’ e ‘rimontare’ completamente, per dare loro una veste per lo meno accettabile). Sicuramente è il luogo per una riflessione sul come sia possibile che uno studente arrivi al primo anno di università con una formazione linguistica di livello inaccettabile anche per un alunno di quinta elementare e, soprattutto, per il suo futuro.

    La forma della mail denuncia una stratificazione di mala scrittura accumulatasi nel corso di tredici anni di scolarità (cinque + tre + cinque). A cosa è dovuta questa ignoranza della lingua italiana? Certamente, lo scrivente in questione non ha tra le sue aspirazioni quella di divenire un letterato o comunque quella di esercitare un’attività che richieda la pratica costante della scrittura. Ciò non significa che la scuola non debba metterlo in condizione di scrivere in modo corretto. Potrebbe anche darsi che non abbia particolare capacità neppure nell’esposizione orale. Ma neanche questo è un buon motivo perché la scuola non intervenga a modificare atteggiamenti o rifiuti in tal senso. Mi si potrebbe obiettare che lo scrivente ha scelto una facoltà scientifica. E’ evidente che neppure questa può essere una giustificazione accettabile. Da quando chi si dedica alle discipline scientifiche non deve scrivere? Anzi, chi lavora nel campo tecnico scientifico scrive sia testi di tipo specialistico sia testi di tipo divulgativo. La lingua è lo strumento che permette di capire cosa si legge, di studiare, di fare ricerca, di lavorare, di esprimersi e di comunicare per tutti, esattamente come lo è per chi aspira a essere letterato, nel senso lato del termine. Non solo, soprattutto nelle discipline scientifiche, si deve padroneggiare agevolmente e senza incertezze non solo la lingua madre ma anche la lingua inglese, usata in modo pressoché generalizzato per le pubblicazioni scientifiche.

    La verità è che la stratificazione di errori nel testo in questione denuncia i mali di un sistema scolastico accumulatisi per decenni, di governo in governo, senza grandi distinzioni tra uno e l’altro. Ogni successivo governo modifica, interviene, aggiunge. Accorpa ministeri, li separa di nuovo. Cerca soluzioni a questioni di rilevante importanza come fossero quisquilie. Modifica prove ed esami, fino a renderli inefficienti se non controproducenti. Sceglie il ministro della pubblica istruzione senza alcuna consapevolezza dell’importanza della sua funzione. Affronta i problemi della scuola elementare come fossero quelli dell’università e viceversa. Licenzia studenti meno che mediocri, dal punto di vista linguistico e culturale, fornendo loro la convinzione che il diploma sia un obiettivo raggiunto una volta per tutte. In altri termini, li inganna, derubandoli degli anni della formazione primaria e secondaria, difficilmente recuperabili.

    Soprattutto, nessun governo ha mai affrontato, in modo serio, consapevole e definitivo, la questione della formazione della classe docente. Attenzione, della classe docente nella sua interezza perché l’insegnamento della lingua è trasversale: interessa e deve interessare tutte le discipline, da italiano a educazione fisica (ivi compresa l’ora di religione o della materia alternativa alla religione). Non solo, ogni riforma, negli ultimi decenni, è stata dettata esclusivamente dall’esigenza di ridurre i costi (in primo luogo con l’abolizione, nella pratica, di ogni tipo di verifica esterna).

    La scuola, dal livello più basso a quello più alto (nella successione temporale, perché tutti i livelli hanno e devono avere pari dignità!), ha il dovere di dare a tutti gli strumenti linguistici per affrontare il mondo del lavoro o il mondo universitario, secondo gli interessi dei singoli, e la vita, in genere. La lingua deve essere appannaggio di tutti. Uno Stato democratico ha l’obbligo di dare a tutti gli stessi strumenti per affrontare la vita, in qualsiasi campo.

    Se lo Stato non è in grado di darsi gli strumenti per formare docenti, non può che essere giudicato fallimentare. E, in tal senso, tradisce i principi costituzionali.

    Forse proprio qui si annida il motivo per cui pochi leggono libri, pochi leggono articoli e, ahimè, pochi leggono anche solo i titoli. E, di conseguenza, il motivo per cui molti parlano senza sapere bene come e di cosa parlano.

    Il vero problema? Tale status quo tende ad allargarsi a macchia d’olio. Andrebbe arginato. Ma è ormai arrivato a quelli che dovrebbero essere i vertici politici dello Stato.

    Il mio cruccio? Non so a chi appellarmi perché si faccia qualcosa in una direzione più costruttiva.

    Post scriptum: con il bambino decenne autore della frase citata sopra, ho letto recentemente (rigorosamente online) Bandiera, lo scritto che Mario Lodi ha ricavato dai racconti dei bambini della scuola dove insegnava. Nel racconto, capitolo dopo capitolo, si svolge un anno di vita di una foglia - Bandiera – dalla nascita alla morte, affrontando molti argomenti del programma di scienze in una forma letteraria delicata, poetica, ricca di metafore di ogni tipo. È la testimonianza che fin dai primi anni di scuola si può imparare a scrivere bene, a esprimersi con concretezza o in forma allegorica. La ricetta di Mario Lodi era la cooperazione. Dove, quando e perché abbiamo perso l’occasione per creare una scuola realmente formativa?

     

     

     

     

  • PROGRESSO E MALATTIA
    (LEGGENDO "SPILLOVER")

    data: 04/07/2020 15:34

    I testi classici rappresentano una sorta di chiave per leggere il mondo. Sono superati, certo, ma contengono riflessioni che anticipano questioni sempre attuali. Sono frutto del pensiero di persone vissute ormai due millenni e mezzo fa, o poco meno, che, in qualche modo, hanno posto le basi del mondo in cui viviamo. Partire dai classici significa avere la possibilità di una più ampia consapevolezza sul presente, anche e soprattutto perché l’uomo ha studiato, analizzato e modificato in profondità l’ambiente in cui vive.
    Conoscere il passato e il cammino intercorso tra quei tempi lontani e il presente accelerato che viviamo è un buon esercizio di riflessione. È anche un modo per prendere consapevolezza di quello che l’uomo ha fatto, nel bene e nel male, soprattutto attribuendosi – motu proprio – una supremazia presunta sul mondo animale, vegetale e sulla natura tutta.
    In molti campi del vivere e del sapere umano, i classici forniscono notizie inutilizzabili dal punto di vista pratico. Possono, e devono, essere utilizzati come preziose testimonianze storiche.
    Se ci trasferiamo dal piano della pratica a quello della teoria, le intuizioni di alcuni testimoni del passato hanno una validità che travalica i secoli e i millenni. Per questo nel mio primo contributo in questo blog, ho riservato un posto privilegiato ad alcuni versi di una tragedia di Sofocle (vedi Un libro tira l'altro accompagnandoti per tutta la vita). Non li riporto, ma vale la pena tenerli a mente: sono una sorta di monito sull’ambigua grandezza dell’uomo, combattuto tra male e bene, volto a sfruttare le risorse del mondo circostante, con la speranza di vincere la malattia ma nella certezza di non poter evitare la morte. C’è racchiuso il destino dell’uomo, in questi versi. Indipendentemente dal livello del progresso raggiunto nelle diverse epoche. Adattato alla situazione, parlano anche a noi, nel nostro presente alle prese con una pandemia.
    Del resto, quando Lucrezio (I sec. A.C,) ha intrapreso la trasposizione in versi della dottrina filosofica di Epicuro, sapeva di presentare una teoria materialistica che poteva risultare scomoda. L’ha proposta in versi, quasi ad addolcire il messaggio, in forma di poema didascalico (De rerum natura). Un messaggio senza implicazioni e credenze ultraterrene, affidato alla sola materia. La materia peraltro è soggetta a mutamenti, a malattie, alla morte. E dopo la morte non c’è nulla. Dunque non si deve temere. Ciò che rimane è rappresentato dai progressi che l’uomo raggiunge in tutti i campi, nella consapevolezza che potrà goderne solo per un breve periodo. Dopo di lui, a goderne, saranno le generazioni successive. A ognuna, si presenterà la stessa questione. A sottolineare il destino delimitato dell’uomo, il VI libro del De rerum natura si chiude con la terribile descrizione della peste di Atene, già rappresentata dallo storico ateniese Tucidide (V sec.).
    Il messaggio che si ricava da questi testi è chiaro: l’uomo ha innescato il progresso, ogni uomo ne godrà per il periodo della vita mortale, poi ne godranno altri uomini, generazione dopo generazione. L’uomo può sconfiggere una malattia ma non potrà sconfiggere ogni malattia e, in ogni caso, non potrà sconfiggere la morte.
    Leggerli oggi, in tempo di pandemia, assumono un significato, se possibile, ancora più importante. La crescita del progresso, in tutti i campi e in modo particolare in campo medico, è stata inarrestabile negli ultimi duecento anni. Solo in questi ultimi due secoli sono state sconfitte e debellate malattie infettive incurabili (vedi L'eterna lotta alle malattie infettive e due libri scoperti in un negozio dell'usato). Ma, per quante malattie siano state sconfitte, altre se ne presentano, in particolare all’insegna di quello che viene chiamato, con un efficace termine inglese, spillover (‘traboccamento’ è la traduzione che fornisce Google), ossia il ‘passaggio’ o ‘salto’ di agenti patogeni da una specie a un’altra cui fa seguito la diffusione di malattie (zoonosi) infettive che si diffondono in forma epidemica o pandemica. Il termine inglese, come spesso capita, è tanto più efficace che la casa editrice Adelphi, nel proporre la traduzione dello scritto di David Quammen, ha preferito lasciare la prima parte del titolo in lingua originale, Spillover (1), appunto. Ed è questa l’unica parte del titolo che appare in copertina. Il sottotitolo è diventato L’evoluzione delle pandemie. La traduzione, concentrando in un’unica espressione quello originale (Animal Infections and the Next Human Pandemic) è riduttiva.
    Il testo, nel suo insieme, è di una ricchezza incredibile. Le 537 pagine (608 se si considerano gli apparati di note) si leggono agevolmente e, direi, d’un fiato. Anche laddove, timidamente, mi è venuta l’idea di sorvolare su uno dei nove capitoli (solo per accelerare i tempi di lettura, visti i testi in attesa), l’ho rapidamente abbandonata dopo le prime due pagine. Si trattava dell’ottavo capitolo, interamente dedicato all’AIDS (provocato dal virus HIV-1 gruppo M), uno dei più lunghi. Dentro di me, ho pensato: “Mi ricordo abbastanza, forse. Magari, ci ritorno in un secondo momento!”. Poi, ho cominciato a leggere. Pagina dopo pagina mi sono resa conto di avere un’informazione piuttosto superficiale, limitata a certi periodi, non priva di una visione eurocentrica o occidentale, in senso lato. Non solo, l’abilità di Quammen nel ricostruire e raccontare le ricerche su una malattia, oltre a scendere in profondità con il ricorso alla letteratura scientifica, al viaggio accanto agli scienziati durante esperimenti e ricerche e all’intervista sul posto, arriva al punto di ricostruire in forma di narrazione tutti i risultati a disposizione degli scienziati. Ed è una narrazione con una forte componente geografica: i luoghi in cui la malattia ha avuto origine (vari paesi dell’Africa centrale, meridionale, orientale), e quelli in cui si è diffusa, Haiti, Stati Uniti, Argentina, Colombia, Paesi bassi, Francia, Regno unito e Germania, e così via fino a diventare globalizzata. Non solo, la ricostruzione si svolge in un arco temporale di un centinaio di anni (dal 1907 fino al 2011, data di pubblicazione dell’ultimo articolo cui l’autore ha avuto accesso, prima della prima pubblicazione in lingua originaria del testo nel 2012).
    Altra caratteristica fondamentale del testo è l’attenzione dell’autore alle questioni sociali, politiche ed economiche che caratterizzano i paesi in cui la ricerca scientifica si svolge, traducendosi in una visione a tutto tondo su questioni attinenti colonizzazione e decolonizzazione, da un punto di vista spesso inconsueto. Buona parte del testo assume così la forma del reportage.
    Fin dal primo capitolo, inoltre, risulta immediatamente chiara la responsabilità dell’uomo nel primo diffondersi delle malattie. E le responsabilità vanno ricercate nel crescente impatto ambientale delle attività umane sugli ambienti naturali ma anche nella contaminazione di ambienti ancora intatti grazie a forme di turismo estremo e, di fatto, nell’essersi l’uomo appropriato di tutti gli ambienti, entrando in contatto, anche solo per curiosità, con animali selvatici. Senza dimenticare, naturalmente, i rischi connessi con l’allevamento intensivo. Ciascuno dei nove capitoli si occupa di una malattia o di un gruppo di malattie, accomunate dal fatto di essere provocate dal passaggio di un virus o di altri agenti patogeni da un animale all’uomo (ma può accadere anche il contrario), di essersi manifestate per la prima volta in un luogo diverso, di essere infettive, provocando, di conseguenza, epidemie o vere e proprie pandemie. L’ultimo capitolo (“Dipende …”) è dedicato alle future emergenze (Attenzione: l’autore ha lavorato per sei anni al libro, fino alla sua pubblicazione nel 2012), ossia a quello che gli addetti ai lavori chiamano Next Big One (NBO). In altre parole, l’ultimo capitolo è una sorta di anticipazione di quello che stiamo vivendo, basato su dati scientifici, precisi, documentati, incontrovertibili. Solo per questo è un libro che vale la pena leggere. In ritardo, ma in tempo per capire quello che sta succedendo. E dunque per capire come andare avanti. Perché modificare alcuni comportamenti può rivelarsi la scelta vincente per l’ambiente e, dunque, per gli uomini e le future generazioni.

    1. Probabilmente a molti miei coetanei, o giù di lì, viene in mente il parlato, ormai storico, di Francesco Guccini che apre l’Album concerto del 1967, prima di Statale 17: “Sulla strada di Kerouac era molto bello letto in italiano ma con i nomi americani: "Quella sera partimmo John, Dean ed io sulla vecchia Pontiac del ’55 del padre di Dean e facemmo tutta una tirata da Omaha a Tucson"... porco cane! E poi lo traduci in italiano e in italiano dici "Quella sera partimmo sulla vecchia Fiat 1100 del babbo di Giuseppe e facemmo tutta una tirata da Piumazzo a Sant'Anna Pelago". Non è la stessa cosa! Gli americani ci fregano con la lingua”.
     

  • L'ETERNA LOTTA
    ALLE MALATTIE INFETTIVE
    E DUE LIBRI SCOPERTI
    IN UN NEGOZIO DELL'USATO

    data: 21/06/2020 15:57

    “Quanto al medico, sembra a me che la cosa migliore sia che egli pratichi la previsione; perché con una conoscenza e previsione preventive, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, passati e di quelli che dovranno presentarsi in futuro, e con una puntuale esposizione di quanto gli infermi tralasciano di dire, egli sarebbe maggiormente accreditato di conoscere le condizioni dei malati, così da risolversi, gli uomini, ad affidar se stessi al medico”, Ippocrate, Prognostico (460 -370 a. C. circa), trad. A. Lami.

    La citazione da Ippocrate è d’obbligo. Si tratta dell’incipit del Prognostico - oggi diremmo
    ‘prognosi’ ossia ‘previsione sull’ulteriore decorso e soprattutto sull’esito di un determinato quadro morboso in esame’ (cit. Treccani) -, un breve testo in cui Ippocrate spiega come sia importante avere il quadro delle condizioni del malato per formulare una previsione sull’esito della malattia, con la consapevolezza che la morte può sopraggiungere in ogni caso, a dispetto del medico e delle sue osservazioni.
    Sono passati 24 secoli circa da questo scritto. I testi di Ippocrate o, meglio, della scuola ippocratica, rivelano lo sforzo di registrare e organizzare dati, per formulare teorie. Non c’era molto altro che il medico potesse fare. Per la verità, non c’è stato molto altro che i medici potessero fare per molti e molti secoli successivi a quello in cui la scuola ippocratica compose i testi giunti fino a noi (gli stessi testi che entrano solo ‘di sguincio’ nei programmi della scuola, perché – si sa – chi redige i programmi tende a prediligere il testo puramente letterario).
    La lettura di Ippocrate (meglio, ma non necessariamente, in greco) è un buon punto di partenza per un insegnamento che non si limiti al dato puramente letterario per indagare, partendo dai testi in lingua originale, questioni di fondamentale importanza nella storia della cultura.
    I due termini – storia e cultura – vanno intesi nel senso più ampio, in modo da includere questioni che attingono a discipline diverse, cooperanti e imprescindibilmente connesse.
    Esplorando una selezione ampia di testi – che includa i ‘classici’ tradizionalmente intesi ma anche i testi scientifici, per quanto agli occhi del pubblico attuale (gli studenti ma non solo loro) abbiano poco di scientifico – si percorre un cammino che apre gli occhi su questioni rilevanti che ci riguardano, tutti, direttamente o indirettamente. Come pazienti e come medici, come scienziati e come uomini comuni, come specialisti e come semplici cittadini. E questo in considerazione del fatto che gli studenti (cui in prima battuta spetta il compito di apprendere i testi antichi) diventeranno anche medici o scienziati, oltre che ‘semplici’ cittadini, che è forse il compito più arduo, nella Grecia di Pericle, nella Roma di Cicerone, nell’attualità complessa che viviamo.
    Dunque, forte dei miei studi ‘classici’ e di una inestinguibile passione per i libri, anche quelli datati, qualche mese fa ho recuperato, fortunosamente, in un negozio dell’usato alcuni testi di argomento scientifico. Su ogni libro un timbro - l’ex libris - con nome, cognome e indirizzo del proprietario. Evidentemente la sua biblioteca non aveva alcun interesse per i suoi eredi che se ne sono disfatti. Impossibile perdere quell’occasione preziosa. Ne ho comprati più di uno. Poi, come faccio solitamente in questi casi, li ho messi in ordine di interesse per leggerli. Ero reduce da alcune letture di argomento entomologico e botanico – fra tutte, Dave Goulson, Il ritorno della regina. Le mie avventure con le api selvatiche, Hoepli 2019 (dove si parla di bombi, ossia di un genere di imenotteri appartenente alla famiglia Apidae) – e forse per questo, nel decidere la successione in cui leggere i testi appena acquistati, non ho avuto dubbi. La scelta è caduta su questioni di argomento medico:  Joseph Löbel, Salvatori di vite, Bompiani 1942 III ed. (Collana: Avventure del pensiero, No. 13), titolo originale Lebensretter, 1ed. 1935; Milton Silverman, Magia in bottiglia, Garzanti 1953 (Collana: Piccola scientifica) titolo originale: Magic in a bottle, 1 ed. 1941.
    Impensabile proporne una recensione. Si tratta di testi datati, mai ripubblicati e praticamente introvabili. Ma fanno parte della storia dell’editoria italiana. Da entrambi si risale agli
    altri titoli delle rispettive collane (non meno interessanti), che mi appunto scrupolosamente in vista di ulteriori scoperte casuali.
    In seconda di copertina di Salvatori di vite è riportata la recensione che gli dedicò il Giornale di Sicilia, illuminante. Affronto la lettura in ordine cronologico.
    A lettura finita mi trovo con pagine di appunti, un ventaglio di informazioni su malattie debellate solo nel corso degli ultimi due secoli e mezzo (prendendo le mosse dalla metà del XVIII sec.) e, in particolare, nel corso dell’ultimo secolo, e un elenco di considerazioni da sviluppare.

    La prima considerazione riguarda autori e testi, diversi, gli uni e gli altri.
    Joseph Löbel (Braṣov 1882 - Praga 1942) è stato un medico e uno scrittore. Brașov, il luogo dove è nato, si trova in Romania ma ha anche un nome tedesco (Kronstadt) e un nome ungherese (Brassó). È morto (avvelenato) poco dopo la deportazione della moglie. E’ sepolto a Praga, nel cimitero ebraico (senza nome, la sua sepoltura è indicata con il numero 32/11/4). Solo nome, luogo di nascita e di morte potrebbero essere il punto di partenza per ricostruire un ‘frammento’ di storia europea. Esercitò la professione medica sulle navi e presso alcune stazioni termali. I suoi scritti hanno come soggetto la divulgazione scientifica realizzata in forme narrative. Salvatori di vite contiene tre sezioni, dedicate, rispettivamente, alle ricerche sul diabete, sulla sifilide e sulla tubercolosi raccontate in forma di romanzo breve. Lo zucchero è dedicato all’individuazione della causa del diabete e al ritrovamento della sua soluzione (l’insulina) tra 1889 e il 1923. “Il Pallido” è dedicato al Treponema pallidum ossia al batterio responsabile della sifilide, individuato nel 1905. Un dilettante nella guerra contro i batteri, infine, è un romanzo epistolare tra un padre e il figlio che studia presso l’Istituto Pasteur, a Parigi, fondato nel 1887 e destinato allo studio dei microorganismi, delle malattie e dei vaccini. La narrazione si concentra sulle ricerche dedicate al bacillo che attacca i polmoni, Mycobacterium tuberculosis, identificato e descritto nel 1882 da Robert Kock. Naturalmente le notizie che contengono sono parziali. Gli studi e le ricerche sono proseguite successivamente alla pubblicazione del testo. Le malattie esistono, soprattutto in alcune parti del mondo; gli strumenti per combatterle sono migliorati, anche se non sono applicati in modo omogeneo.
    Del secondo autore, Milton Silverman trovo solo quello che compare nell’aletta posteriore della copertina. Si è laureato a Stanford nel 1930 ed è stato un divulgatore scientifico statunitense, per molti anni redattore scientifico del San Francisco Chronicle (fondato nel 1865, è ancora attivo). L’intero libro è percorso da commenti e da formule chimiche aggiunte a penna dal proprietario del libro che doveva essere un chimico o un biologo. Naturalmente, non sono in grado di valutarle. Ma i contenuti sono di grade interesse anche per un profano. Si tratta infatti di brevi monografie dedicate alla scoperta e alla sperimentazione di sostanze medicinali ricavate dal mondo vegetale o provenienti da procedimenti chimici di sintesi. Ogni storia è unica e ricostruisce il quadro della situazione all’inizio degli anni Quaranta, a proposito di morfina, chinino, penicillina, sulfamidici e molto altro.
    Quel poco che trovo sugli autori, porta a riflettere sull’importanza della divulgazione scientifica. Il fatto che una persona specializzata si dedichi, in tutto o in parte, all’informazione, trasferendo le proprie conoscenze in un campo specifico del sapere in testi di vario genere che raccontino ciò che avviene nei laboratori, negli ospedali e dovunque il medico entri in contatto con il paziente rappresenta un terreno di mediazione tra specializzazione e conoscenze generali. Se la specializzazione rimane confinata nel laboratorio e viene messa a disposizione soltanto del mondo degli addetti ai lavori tramite articoli scientifici, il ‘grande’ pubblico – ossia tutti coloro che non sanno di medicina, di chimica, di farmacologia e di tutte le altre discipline coinvolte nel processo di individuazione delle cause e dei rimedi per le malattie cui l’uomo è soggetto – rimane all’oscuro o, peggio, acquisisce nozioni generiche che sconfinano facilmente nell’errore.
    L’avanzamento della specializzazione tende a separare, al suo livello più alto, le conoscenze, creando una inevitabile frattura con i beneficiari di quelle stesse conoscenze. In realtà, tende anche a separare il medico che opera sul territorio dallo scienziato e dai risultati della ricerca. Per questo la divulgazione scientifica a opera di persone con una specifica competenza è fondamentale. Costituisce il ponte tra il territorio della scienza e il comune cittadino. Se il cittadino può attingere all’informazione divulgata ma corretta e puntuale non cade in false credenze, antiscientifiche e pericolose.
    La storia della cultura scientifica occidentale è la storia del passaggio da un’originaria unità del sapere filosofico e scientifico alla progressiva specializzazione del sapere. Nel corso di circa due millenni e mezzo si è passati dalla molteplicità di interessi in una sola scuola (quella aristotelica) alla separazione tra discipline e, con il progresso delle conoscenze, alla nascita di nuove discipline. La divulgazione scientifica può svolgere il compito, fondamentale, di mettere in luce la cooperazione tra discipline diverse. Botanica, zoologia, biologia, chimica, farmacia, medicina sono interconnesse. Gli studi di un campo confluiscono in un altro e viceversa, in una continua interrelazione tra conoscenze che contribuiscono alla crescita. Capire le trasformazioni e le implicazioni del progresso nei diversi campi è fondamentale. Comprendere le implicazioni, nei diversi campi, del passaggio dalla chimica naturale alla chimica di sintesi, anche. Specialmente oggi, in un panorama scientifico diversificato e specializzato, con implicazioni in tutti i campi del vivere (dalla medicina all’economia, ad esempio). Soprattutto perché è fondamentale rendersi conto che, rispetto ai due millenni precedenti, il progresso nella lotta alle malattie che hanno decimato milioni di persone nel corso di epidemie di peste, di vaiolo, ecc., senza che si potesse intervenire in alcun modo, è avvenuto negli ultimi due secoli. In molti casi si è verificato studiando i principi attivi contenuti nelle piante che, ancora nel Settecento, venivano soltanto descritte e classificate. Per questa via, si è giunti a usare anestetici per effettuare interventi chirurgici (a metà dell’Ottocento), tra l’altro.
    Di altre questioni ancora è bene avere piena consapevolezza. Di come l’uso medicale dei principi attivi delle piante ha portato oltre a indubbi benefici anche conseguenze nefaste (visto il passaggio - sempre fluido – tra medicamento, benefico, e droga, dannosa). Quando ciò è avvenuto e quando ai principi attivi ricavati dalle piante si sono sommati i ritrovati frutto della chimica di sintesi, la situazione si è ulteriormente complicata. La ricerca sulle piante era (ed è) anche frutto dei viaggi e delle passioni degli esploratori/botanici. I risultati della ricerca chimica e della chimica di sintesi possono scavalcare il campo della scienza per approdare in quello del malaffare (nelle sue forme clandestine ma anche in quelle ufficiali). Capire come e perché è fondamentale. Anche in questo la divulgazione scientifica fatta da ‘addetti’ è indispensabile.
    Una questione altrettanto nodale è costituita dalla consapevolezza dello spessore temporale. Sapere che molte malattie sono state debellate solo nel corso del secolo scorso e che, ancora solo cento anni fa, l’unica sostanza utilizzata per curare la malaria era il chinino (con proprietà antipiretiche, antimalariche e analgesiche), ricavato dalla corteccia di piante del genere Chincona, è importante. Per passare sul piano pratico. La mia generazione ha sperimentato il chinino come antipiretico. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, sono febbricitante, in casa dei nonni. Erano gli anni dell’ “asiatica”. il nonno, medico, mi prescrive il chinino. La nonna interviene prontamente con una scatolina dove sono ‘religiosamente’ custodite delle ostie. Ne adagia una, inumidita con un po’ d’acqua, su un cucchiaio. Il nonno misura la dose di chinino e la depone sull’ostia, richiudendola opportunamente. La sottile cialda non basta a mascherare il terribile sapore amaro del chinino. La scena mi si affaccia nitida alla mente. Ho ancora il sapore in bocca.
    Oggi si comprano antidolorifici di ogni tipo in bella mostra anche sugli scaffali dei supermercati e senza ricetta. Gli antidolorifici sono diventati un prodotto di mercato, esattamente come le merendine che hanno sostituito la fetta di pane con un filo d’olio per merenda.
    Ecco a tutto questo fanno riflettere i due libri scovati nel negozio dell’usato.
    Ne userei sicuramente qualche pagina, accanto a un passo di Ippocrate. È un modo per riflettere e fare riflettere sul presente. Siamo immersi in un mondo talmente accelerato in avanti che stiamo perdendo la consapevolezza di cosa era il mondo appena settanta anni fa (nel secondo dopoguerra). E, cosa più grave, non abbiamo la capacità di dare questa consapevolezza alle nuove generazioni.
    È anche un modo per scegliere le prossime letture. Ho acquistato e letto Spillover di David Quammen (Adelphi 2012). Lascio la riflessione su questo testo (già datato, per certi aspetti, e tornato in auge in questa fase di pandemia) alla prossima puntata.

    Post scriptum: nel testo di Milton Silverman l’indicazione del traduttore – Bruno Tasso – è accompagnata da una nota redatta a penna dal proprietario del libro: ‘Traduzione pessima!’. Non resisto e vado in cerca di notizie sul traduttore, figura di fondamentale importanza per avere accesso nella propria lingua a testi scritti originariamente in altre lingue. Bruno Tasso (1914-1962) è stato giornalista e traduttore. Ha tradotto testi letterari notevoli nel panorama letterario in lingua inglese come collaboratore di Garzanti e di altre case editrici. C’è chi ipotizza che il suicidio sia stato determinato dallo stress per un lavoro che impone di riscrivere ciò che altri hanno scritto. Immagino che il giudizio negativo del primo proprietario del libro in mio possesso dipenda dalla necessità di usare un linguaggio prevalentemente tecnico. La questione merita un approfondimento.


     

  • CELEBRAZIONI: CALENDARIO
    E PRATICA QUOTIDIANA

    data: 06/06/2020 10:30

    Non so quanti abbiano raccolto, il 23 maggio, l’invito di Maria Falcone, sorella del magistrato vittima dell’attentato del maggio 1992, a dedicare la Giornata nazionale della legalità a quanti sono impegnati ad affrontare l’emergenza sanitaria. L’ANCI lo ha fatto suo proponendo di attaccare un drappo bianco alle finestre di casa.
    Io l’ho fatto. Un lenzuolo bianco ha sventolato tutto il giorno dal balcone che si affaccia su una valle abruzzese. Un altro ha sventolato dalle finestre del Comune. L’ho fatto ripensando alla storia siciliana raccontata da Edoardo Borgomeo (cfr. ORO BLU, Nove storie di acque e di terre) dove, tra l’altro, l’autore ricorda la “Giornata mondiale dell’acqua” (World Water Day) la cui celebrazione, a partire dalla sua istituzione nel 1992, ricorre il 22 marzo. Il riferimento alla celebrazione della giornata cadeva a proposito, nel cuore della narrazione di una vicenda legata agli interessi della mafia nella gestione delle acque. A quella vicenda Mario Francese, ai tempi in cui era ancora pratica comune il giornalismo d’inchiesta, aveva dedicato una serie di articoli circostanziati (1977). A due anni di distanza, Mario Francese fu ucciso da alcuni colpi d’arma da fuoco, il 26 gennaio 1979 (Francesca Barra ricostruisce la storia ne Il quarto comandamento, Rizzoli 2011).
    Mi sembra fondamentale risalire a quando e come è stata istituita questa Giornata nazionale della legalità. Nel sito del Senato trovo il Disegno di legge presentato dai senatori Moronese, Cappelletti, Morra, Endrizzi, Giarrusso e Buccarella, il 24 marzo 2015 ossia a ben ventitré anni di distanza dagli attentati ai magistrati Falcone e Borsellino.
    Ne riporto l’incipit:
    “Sono trascorsi, ormai, più di venti anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio e, per poter combattere la cultura mafiosa e le sue manifestazioni più o meno estreme, è necessario innanzitutto avere contezza della storia e delle sue radici, e soprattutto farle conoscere ai giovani. Se la memoria è fra i pochi valori capaci di nobilitare e salvare dalla quotidianità della vita, troppo spesso tuttavia dimentichiamo di rievocare e onorare quelle figure esemplari che hanno segnato in modo indelebile la storia del nostro Paese, figure come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, accumunate dal tragico destino di vittime della mafia cui si erano fieramente contrapposti, hanno rappresentato entrambi un’icona indiscussa di legalità, onestà e coraggio”.
    La data proposta per l’iniziativa è il 23 maggio – periodo in cui le scuole, in condizioni di normalità, sono aperte – e la scelta è motivata dall’impossibilità di collocarla nel giorno in cui si verificò la strage di Via D’Amelio (19 luglio 1992). Peraltro, nel testo del disegno di legge non compare il riferimento esplicito al fatto che la data prescelta corrisponde alla strage di Capaci (23 maggio 1992).
    Se dovessi valutare il testo del disegno con i criteri di un compito di italiano, non potrei non notare l’eccesso di retorica: il coacervo di termini giustapposti uno all’altro dicono tanto senza dire niente, ossia senza arrivare al succo della questione. E mi sentirei in dovere di spezzare i periodi, tanto lunghi da essere quasi inintelligibili. Questi aspetti, unitamente al colpevole ritardo con cui è arrivato il disegno di legge, già di per sé ne inficiano il reale valore di denuncia.
    Il ritardo istituzionale con cui arriva è fatto proprio, con una sorta di autoironia, dalla proposta stessa che recita, tra l’altro:
    “Da qualche anno numerosi istituti scolastici, di propria iniziativa, hanno sviluppato percorsi di educazione alla legalità, volta per volta inquadrandoli nel più ampio alveo concernente «Cittadinanza e Costituzione», collaborando sul territorio con istituzioni e associazioni (fra tutte Libera di Don Ciotti), promuovendo incontri, raccogliendo testimonianze e visitando campi di lavoro sorti su beni confiscati alla mafia: in tutte queste attività studentesse e studenti hanno potuto confrontarsi con le tematiche della legalità e crescere criticamente in termini di impegno personale e sociale”.
    Il testo di legge proposto conferma la sua caratteristica di provvedimento di facciata. Nulla muta realmente nell’andazzo quotidiano di questa nostra Repubblica che poco o niente insegna alle nuove generazioni sulla nascita e sui valori della Costituzione.
    Peraltro, non riesco a trovare l’iter di approvazione della proposta, ossia la sua conversione in legge.
    Riesco invece a risalire all’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime della mafia”, che si celebra il 21 marzo ed è stata approvata alla Camera il 1 marzo 2017 (Atto 3683, XVII Legislatura).
    Dal sito del Senato (senato.it) si riesce a ricostruire l’iter di questa legge, i parlamentari coinvolti nel dibattito, le date salienti del dibattito stesso.
    Ora, credo sia legittimo interrogarsi - ogni cittadino è legittimato a farlo:
    - sul destino del disegno di legge per l’istituzione della Giornata del 23 maggio (che è stata celebrata, nei limiti e nei modi consentiti dall’attuale emergenza sanitaria, anche con un intervento del Presidente della Repubblica);
    - sul perché si ritenga opportuno replicare giornate celebrative per fatti dello stesso tipo (ricordo delle vittime della mafia, invito alla legalità, rifiuto di modalità mafiose nella gestione degli affari pubblici);
    - sulla ridondanza nella formulazione di proposte di legge che amplia a dismisura i concetti, rendendoli sostanzialmente fumosi,
    - sulla genericità delle indicazioni rivolte al mondo della scuola che, spesso, si sovrappongono in modo inappropriato al regolare svolgimento del curriculum che prevede di per sé la trattazione di argomenti di educazione civica.
    La trattazione di un argomento tanto importante e grave - le stragi attuate per colpire magistrati che indagavano su attività mafiose e sui rapporti tra Mafia e Stato (forse, abbandonati dallo Stato) - dovrebbe essere parte integrante di una disciplina, l’Educazione civica.
    Questa disciplina, di fatto, è ritornata nel curriculum scolastico con la legge No 92 del 20 agosto 2019 (con entrata in vigore il 5 settembre 2019), con un programma e una classificazione oraria riservata (33 ore all’anno) dopo essere stata sostituita, con la legge No. 169 del 30/10/ 2008 (ossia, durante il Governo Berlusconi), da una generica indicazione trasversale alle discipline con il nome di Cittadinanza e Costituzione.
    Le incongruenze, la formulazione retorica, le lungaggini, il ritornare su provvedimenti e decisioni, introducendo continui cambiamenti appaiono il segno di una classe politica senza idee e senza capacità di governo, che indugia nel moltiplicare cerimonie e modificare programmi scolastici. In questo modo, il messaggio rivolto ai cittadini diviene fumoso se non incomprensibile, spesso anche per gli addetti ai lavori. Una sola giornata di celebrazione, preparata e promossa a dovere, sarebbe più incisiva. Un programma di educazione civica, basato sul fornire agli studenti, fin dai primi anni di scuola, la conoscenza diretta della nostra Costituzione e la capacità di aggiornarsi sulle norme e sui relativi aggiornamenti delle norme, contribuirebbe a formare il cittadino e a renderlo partecipe della vita pubblica.
    Solo in questo modo la celebrazione potrebbe passare da post-it sul calendario a pratica quotidiana.

     

     

     

     

  • LEGGERE GARCIA MARQUEZ
    AI TEMPI DEL COLERA.
    ANZI, DELLA PANDEMIA

    data: 28/05/2020 18:09

    C’è un tempo per tutto. Quello dedicato a determinate letture passa e ne subentrano altre. C’è stato un tempo in cui ho divorato i romanzi sudamericani. Spesso, senza mai capirli fino in fondo. Ma apprezzandoli per la ricchezza delle immagini e delle situazioni. Forse anche per quel pizzico di gusto per l’esotico che è presente in ciascuno di noi.
    La conoscenza diretta di almeno un paese del Sudamerica o, meglio, di una sua parte, – il Brasile – ha eliminato quel residuo di gusto per l’esotico che albergava in me (quando le cose si conoscono direttamente, per un periodo superiore a quello solitamente dedicato ai giorni di una vacanza in qualche luogo ovattato, il punto di vista sulle cose stesse cambia, inevitabilmente) e ha confermato la mia preferenza per la scrittura saggistica.
    Ciononostante, ritengo che leggere i romanzi sia importante.
    E ci sono momenti in cui è importante riscoprirli. Come in questo caso.
    Il romanzo in questione è L’amore ai tempi del colera, di Gabriel GarcÍa Márquez. Pubblicato successivamente all’assegnazione del Premio Nobel all’autore (1985), fu oggetto di numerose critiche.
    A suo tempo lo lessi. Poi l’ho custodito in un angolo della memoria insieme a tanti altri. In quel periodo cominciavo a scoprire gli autori brasiliani.
    Ieri l’amica a cui devo in buona parte la conoscenza della lingua portoghese, me ne ha inviato uno stralcio. Mentre lo leggevo, ho recuperato da quell’angolo di memoria la crociera sul battello lungo il Rio Magdalena (Colombia) dove si svolge la storia d’amore dei due protagonisti, realizzata in tardissima età. Ho cercato il libro dovunque, in casa, senza riuscire a trovarlo. C’è, ne sono sicura. Ma dire dove si trovi è molto difficile. Ci rinuncio. E decido di condividere il passo, che l’amica mi ha inviato in portoghese, in una traduzione ‘di servizio’, sicuramente non all’altezza di quella dell’edizione Mondadori del 1986.
    Per quanto possa sembrare incredibile, si adatta perfettamente a questi tempi di pandemia:

    - Capitano, il ragazzo è molto preoccupato e in ansia a causa della quarantena che il porto ci ha imposto!
    - Cosa ti preoccupa, ragazzo? Non hai abbastanza cibo? Non dormi abbastanza?
    - Non è questo, Capitano. Non sopporto di non poter scendere a terra per abbracciare la mia famiglia.
    - E se ti lasciassero scendere dalla nave e fossi contaminato, potresti sopportare la responsabilità di infettare qualcuno che non è in grado di reagire alla malattia?
    - Non mi perdonerei mai. Ma, secondo me, hanno inventato questa piaga.
    - Può essere. Ma se non fosse stata inventata?
    - Capisco cosa intendi, ma mi sento privato della mia libertà, Capitano. Mi hanno privato di qualcosa.
    - E tu privati di qualcos’altro.
    - Mi sta prendendo in giro?
    - Assolutamente no. Se ti privi di qualcosa senza reagire correttamente, avrai perso.
    - Quindi intendi dire che se qualcosa mi viene tolto, per vincere devo privarmi di qualcos'altro?
    - Esattamente. Sono stato in quarantena 7 anni fa.
    - E di cosa hai dovuto privarti?
    - Ho dovuto aspettare più di 20 giorni sulla nave. Erano mesi che desideravo arrivare in porto e godermi la primavera a terra. Ci fu un'epidemia. A Porto Abril ci fu proibito di sbarcare. I primi giorni sono stati difficili. Mi sentivo come te. Presto ho iniziato a confrontarmi con le imposizioni usando la logica. Sapevo che dopo 21 giorni di questo comportamento si sarebbe creata un'abitudine, e invece di lamentarmi e tenere atteggiamenti distruttivi, ho iniziato a comportarmi in modo diverso da tutti gli altri. Ho iniziato dal cibo. Ho deciso di mangiare la metà di quanto mangiavo abitualmente. Poi ho iniziato a selezionare gli alimenti più digeribili, per non appesantire il corpo. Quindi ho scelto di nutrirmi di cibi che, per tradizione, hanno mantenuto l'uomo in salute.
    Il passo successivo è stato aggiungere al nuovo regime alimentare la purificazione dai pensieri malsani volgendomi a pensieri più elevati e nobili. Ho iniziato a leggere almeno una pagina ogni giorno di un argomento che non conoscevo. Ho iniziato a fare esercizi sul ponte della nave. Un vecchio indù mi aveva detto anni prima che il corpo si migliora trattenendo il respiro. Ho iniziato a fare respiri profondi ogni mattina. Credo che i miei polmoni non avessero mai raggiunto tale capacità e forza. Il pomeriggio iniziava l'ora della preghiera, il momento di ringraziare un'entità, quale che fosse, per non avermi dato in destino privazioni gravi per tutta la vita.
    L'indù mi aveva anche consigliato di prendere l'abitudine di immaginare la luce che entrava dentro di me rendendomi più forte. Poteva funzionare anche per le persone care che erano lontane. Così ho anche inserito questa pratica nella mia routine quotidiana sulla nave.
    Invece di pensare a tutto ciò che non potevo fare, pensavo a cosa avrei fatto una volta sulla terraferma. Ho visualizzato le scene di ogni giorno, le ha vissute intensamente e me le sono gustate nell'attesa. Tutto quello che possiamo ottenere dopo non è interessante. Mai. L'attesa è indispensabile per sublimare il desiderio e renderlo più potente. Mi sono privato di cibi prelibati, di bottiglie di rum e di altre ghiottonerie. Avevo eliminato le carte da gioco, il sonno prolungato, l’ozio, il pensiero fisso su ciò di cui ero stato privato.
    - Come è finita, Capitano?
    - Ho acquisito tutte abitudini nuove. Mi hanno lasciato scendere dalla barca molto più tardi del previsto.
    - Ti hanno privato della primavera, allora?
    - Sì, quell'anno mi hanno privato della primavera e di molto altro. Ma anche così sono rifiorito, ho fatto mia la primavera e nessuno potrà mai togliermela.

    Post scriptum: il libro da leggere - per capire, per riflettere, per evitare di dire stupidaggini (se ne leggono e se ne sono lette un’infinità in questi ultimi mesi) e di diffonderle senza filtro sui social contribuendo ad atteggiamenti insensati, controproducenti e pericolosi - è Spillover. L’evoluzione delle pandemie di David Quammen (1a Ed. 2012; Adelphi, 2014). È un saggio, riccamente documentato, al di sopra di ogni sospetto: non è nato dal nulla in questo periodo di emergenza ma è il risultato di una documentazione durata sei anni, sull’attività di scienziati al lavoro su un tema di scottante attualità in diverse parti del mondo.


     

  • ORO BLU, NOVE STORIE
    DI ACQUE E DI TERRE

    data: 22/05/2020 17:06

    Mentre sono intenta alla lettura di un volume piuttosto ponderoso, mi capitano due piccoli fatti – casualmente concomitanti – che mi inducono a lasciare in pausa quella lettura per deviare l’attenzione su un altro testo.
    Il primo fatto è legato alla raccomandazione della società che gestisce nel territorio la distribuzione dell’acqua - Gran Sasso Acqua SpA - di fare attenzione al consumo di acqua, unitamente al divieto di innaffiare. Da ormai molti mesi, in questa zona appenninica, piove molto poco. Gli effetti si sentono in estate quando il flusso di acqua può diminuire sensibilmente, soprattutto in alcune aree del borgo. La conseguenza è che in casa recuperiamo sistematicamente tutta l’acqua che usiamo. Anche l’acqua di cottura. Anche quella di un pentolino. E la usiamo per innaffiare.
    Il secondo fatto è l’ascolto di un’intervista a Edoardo Borgomeo, autore di Oro blu. Storie di acque e di cambiamento climatico (Laterza 2020), durante una recente puntata di Fahereneit (RAI Radio tre). Sono in macchina. Le domande della conduttrice sollecitano la mia attenzione. Accosto e mi fermo per ascoltare con calma. Appunto mentalmente il titolo. Una volta a casa, verifico il curriculum dell’autore nel sito dell’Environmental Change Institute (ECI) dell’Università di Oxford. Il curriculum è ampio e convincente. Così come erano state convincenti le sue risposte nel corso dell’intervista. Ha conseguito la laurea in scienze della terra e ingegneria con particolare riferimento ai rischi legati ai cambiamenti climatici, alla pianificazione delle infrastrutture e alla gestione delle risorse idriche all’Imperial College di Londra e il dottorato sugli stessi temi, con il supporto di Thames Water and the Environment Agency. Il suo attuale impegno di lavoro presso l’ECI consiste nel dare supporto alle agenzie governative di vari paesi nella gestione delle risorse idriche. Decido di ordinare il libro.

    Devo confessare, a questo punto, la mia dipendenza dagli ordini online. Conosco bene i problemi legati a questa modalità di acquisto. Immagino già le obiezioni di qualcuno. Ma, per chi ha fatto la scelta alternativa di vivere lontano dal mondo cittadino, è l’unica via possibile. Sarebbe assolutamente meno sostenibile, anche in tempi normali, prendere la macchina, percorrere 70 km tra andata e ritorno fino alla prima libreria. Insensato farlo, senza aver preventivamente ordinato il libro. Con l’idea dei minori consumi, quando faccio un ordine, i libri diventano tre o quattro, come minimo. Così ho sempre le scorte. Il problema delle critiche agli ordini online, senz’altro condivisibili per moltissimi aspetti, è che, troppo spesso, tengono conto solo di chi abita in città o in paesi medio/grandi, preferibilmente in pianura. Degli altri, ci si dimentica regolarmente (e non solo per gli ordini online).

    Nel giro di un paio di giorni, il libro è arrivato. Accantono, momentaneamente, il saggio di Jared Diamond che sto leggendo per immergermi nella lettura di Oro Blu, ripensando alle brocche dell’acqua fresca della mia infanzia (Basta una brocca per ripensare il passato e riflettere sul futuro) e al mare raccontato da Rachel Carson (Il risveglio della primavera. Storia di un colossale abbaglio), già negli anni Cinquanta.
    Mentre leggo, ho accanto, come sempre, matita, quaderno e penna. Già dal primo capitolo ho recuperato l’Atlante dal suo scaffale nella libreria. Leggo e verifico i luoghi, per quanto possibile.
    Alla fine della lettura, mi ritrovo con sette pagine fitte di appunti.
    L’autore racconta nove storie. Ogni storia è ambientata in un luogo diverso: si va dal Bangladesh al Brasile, dall’Australia all’Olanda, da Londra a Karachi, dall’Iraq al Messico per approdare in Italia, in Sicilia. Nel complesso, sono tutte storie che ruotano attorno all’acqua. Ognuna è raccontata sul campo, scaturita dall’incontro con persone del luogo, addetti ai lavori o semplici cittadini. L’autore in veste di esperto si è assunto il compito di documentare le situazioni che verifica in giro per il mondo, redigendo per ognuna un vero e proprio reportage. Da ogni reportage emerge la consapevolezza dello studioso e del tecnico che guarda alle diverse situazioni sapendo di dover individuare i problemi per studiare le soluzioni ma anche la preoccupazione per uno stato delle cose che denuncia la scarsa attenzione nei confronti di un elemento fondamentale come l’acqua. La cattiva gestione, la noncuranza, lo spreco sono all’ordine del giorno. L’acqua viene trattata al pari di una merce, diventa un affare per chi gestisce la distribuzione, viene incanalata senza tenere conto delle caratteristiche e delle problematiche del territorio.
    Le conseguenze sono drammatiche per la popolazione, per l’ambiente, per gli effetti che la noncuranza, l’incompetenza o l’azione criminale hanno provocato, provocano quotidianamente e continueranno a provocare sulla vita dell’uomo e sul cambiamento climatico.
    Ogni reportage apre gli occhi del lettore sulla situazione di un’area geografica o di grandi città (Londra, Singapore, Karachi e Città del Messico).
    Di ogni situazione si coglie lo spessore storico: il presente è sempre sostenuto dalla storia di quel territorio e di quella città, che si tratti di dighe, ossia di acqua pulita da incanalare e distribuire. Ciò che dovrebbe essere fatto dalle autorità competenti con equità e nel rispetto del territorio. O che si tratti di acqua sporca da trattare opportunamente al fine di recuperarla e riutilizzarla. In entrambi i casi, i problemi, sotto ogni cielo, sono legati alla scarsa attenzione per la salvaguardia del territorio e agli interessi economici legati a un bene prezioso come l’acqua. Si va dalle problematiche tipiche di zone costiere dove si incontrano – come accade in Bangladesh – le acque salate del mare e quelle dolci dei fiumi con conseguenze drammatiche per la vita delle popolazioni interessate, a quelle legate alla costruzione delle infrastrutture per l’incanalamento delle acque che si trasformano in lotte tra potere politico ed economico. L’analisi dei casi delinea questioni che affondano nella storia delle singole città, del sistema idraulico su cui si basano, sulle questioni legate alla privatizzazione dell’acqua che da bene comune diviene merce. Senza dimenticare le inadempienze che provocano dispersione e inquinamento delle acque nonché siccità con la conseguente fuga dalle zone più a rischio dei rifugiati ambientali.
    Le storie o, meglio, i reportage (raccolti nel periodo 2015 – 2019) raccontano situazioni specifiche e denunciano le problematiche sulla base della competenza tecnica e appassionata di un giovane ingegnere idraulico che si è fatto narratore in nome dei diritti dell’acqua e dell’ambiente. Da questi diritti la vita dell’uomo dipende totalmente. Perché, senza acqua l’uomo non può vivere.
    Ogni storia merita una riflessione, sollecita un approfondimento e va a costituire un tassello nelle conoscenze del lettore.
    In alcune storie ho trovato conferma a questioni toccate in precedenti letture. E’ il caso della prima storia, ambientata in Bangladesh. Mi riporta alla mente una lettura, di tutt’altro segno, in cui l’autore conduce un’analisi dei fattori climatici da un punto di vista squisitamente letterario (Amitav Gosh, La grande cecità, Neri Pozza 2017).
    In altre è riaffiorato il ricordo di avvenimenti del passato. È il caso della storia di ambientazione siciliana. Una storia di acqua, di dighe e di mafia, di Danilo Dolci e della lotta per la gestione democratica dell’acqua. Ma anche la storia della diga Garcia e di Mario Francese, colpevole di aver parlato chiaro nell’inchiesta realizzata per il Giornale di Sicilia (1977), costretto al silenzio con alcuni colpi d’arma da fuoco il 26 gennaio 1979 (F. Barra, Il quarto comandamento, Rizzoli 2011).
    Un’altra storia ancora ha il merito di coniugare passato e presente: riguarda una parte dell’area geografica nota come ‘Mezzaluna fertile’. Quante volte l’ho spiegata in classe, cercando di coniugare storia antica e attualità, geografia e storia! Non è facile. Soprattutto in una scuola i cui programmi privilegiano il passato, arrivando superficialmente e, spesso, anche episodicamente, al presente. Con il risultato che gli alunni ne escono con notizie – destinate a indebolirsi - sui Sumeri, sulla nascita dell’agricoltura e della scrittura, su antiche città, sul Tigre e sull’Eufrate che confluiscono in un unico corso d’acqua per sfociare nel golfo Persico. Alla storia recente di questo territorio non si arriva mai. La si incontra solo in forma di cronaca sulle pagine dei giornali. A meno che un reportage non metta in condizione il lettore di ‘entrare’ nella storia. Come riesce a fare l’autore di Oro blu, cedendo la parola a una biologa dell’Università di Bassora, Nadia, con al suo attivo una formazione nel Regno Unito e anni di lavoro in Nuova Zelanda. Oggi, ascoltato il richiamo della sua terra, è ritornata in patria dove si occupa dei drammatici effetti del cambiamento climatico (e dunque sempre di acqua) in un luogo che una volta conosceva un equilibrio perfetto tra paludi e pianure alluvionali.
    La breve presentazione in cui l’autore di Oro blu spiega le motivazioni del suo impegno per l’acqua, si chiude con un’informazione che conferisce un valore aggiunto al libro e un motivo in più per acquistarlo. Il ricavato della vendita è infatti interamente destinato alla Società Cooperativa Sociale Valle del Marro – Libera Terra che si occupa di agricoltura biologica nei terreni liberi dalla mafia (Polistena, RC).
     

  • IL RISVEGLIO DELLA PRIMAVERA. STORIA DI UN COLOSSALE ABBAGLIO

    data: 12/05/2020 15:25

    Il punto di partenza per capire un libro e parlarne, è rappresentato dalle date. E’ fondamentale collocare l’autore, la scrittura e la pubblicazione nel tempo. Soprattutto quando il libro è datato. L’iter che in un determinato momento storico ha condotto alla scrittura di un libro è fondamentale.

    Rachel Carson ha iniziato la stesura di Primavera silenziosa nel 1958. Il libro è stato pubblicato nel 1962. Dopo due anni, nel 1964, l’autrice moriva per un tumore. Era nata nel 1907, cinquantasette anni prima. Ha deciso di scrivere Primavera silenziosa sulla scorta delle sue ricerche e dei suoi studi. Lei, nata in Pennsylvania, nel pressi degli Allegheny (monti) e dell’Allegheny (fiume), è diventata biologa marina, quando per le donne non era ancora così scontato occuparsi di argomenti scientifici. I suoi studi erano confluiti in un testo (Il mare intorno a noi, 1961, Piano B 2019) che rimane fondamentale per capire lo status quo di un elemento tanto vitale sul finire degli anni Cinquanta.
    Nel libro confluiscono i suoi studi più che ventennali.
    Nella prefazione, l’autrice scrive, tra l’altro: “Sebbene il curriculum dell’uomo come amministratore delle risorse naturali sia scoraggiante, per lungo tempo abbiamo tratto un certo conforto dalla persuasione che almeno il mare fosse inviolato, al di là della capacità dell’uomo di mutare e saccheggiare. Ma questa convinzione si è sfortunatamente dimostrata ingenua … al punto che senza quasi discutere la cosa e quasi senza avviso pubblico, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta il mare è stato scelto come luogo ‘naturale’ di seppellimento dei rifiuti contaminati e di altri “scarti di basso livello” dell’era atomica” (p. 10).
    L’ingenuità di cui parla l’autrice mi riporta alla mente un altro libro, scritto un secolo prima (tra il 1857 e il 1861) da Jules Michelet: Il mare (Il Melangolo, 1992). Il mare protagonista di Michelet (1798 – 1874) è ancora affascinante, potente, descritto con minuzia eloquente, retorica e ‘positiva’. È espressione di altri tempi. Il mare, in quel momento storico, ne ha già viste di tutti i colori, per alcune migliaia di anni. Nasconde reperti di navi diverse, ha fatto suoi i naufraghi di ogni paese. Rifiuti ‘sostenibili’.
    Quel mare, protagonista delle pagine di un autore ottocentesco “uomo d’archivio e di scrittoio, affondato nelle carte più che nella vita” non esiste più. Non a caso, Antonio Tabucchi ne Il capodoglio nel Tago, il breve testo introduttivo all’edizione de Il Melangolo, lo definisce “un libro triste” perché “niente è più triste dell’ottimismo quando il futuro lo deride. La lettura di quell’uomo positivo che fu Michelet, assertore convinto del Progresso, paladino della Scienza che cantò a voce spiegata l’inno della Natura, oggi ha l’effetto di uno strumento arrugginito che suona fra i detriti di plastiche che il mare porta inesorabilmente a riva”.
    Il saggio di Rachel Carson rappresenta una sorta di contraltare de Il mare di Michelet. È frutto della tristezza che segue gli effetti del progresso, della fuga in avanti del progresso che si è incrinata, inesorabilmente, nel corso di un secolo.
    Il progresso che ha portato l’acqua corrente (almeno in una parte del mondo) alle fontane e ai rubinetti dall’inizio del Novecento, ha caracollato in modo inarrestabile al punto da portare distruzione laddove arrivava. Ha introdotto, nel mare e sulla terra, elementi distruttivi tali da mettere a rischio gli elementi naturali – acqua, aria, suolo – e gli esseri viventi. È vero, basta aprire un rubinetto per avere l’acqua a disposizione. Non è più tempo di brocche. Ma cosa c’è, in quell’acqua? I prodotti della terra – legumi, cereali, verdure – sono ordinatamente esposti nei banchi del supermercato. Ma come sono stati coltivati, quali prodotti chimici sono stati utilizzati, da dove arrivano? E, ancora, quanti hanno accesso all’acqua da un rubinetto?
    La sempre crescente consapevolezza di tutti gli elementi di disequilibrio introdotti dall’uomo nella natura ha indotto Rachel Carson (attenzione: nel 1958!) a scrivere il suo secondo testo ‘divulgativo’, Primavera silenziosa. La sua attenzione si sposta dall’acqua alla terra. In diciannove capitoli narra l’avvelenamento sistematico del terreno a partire dal 1942, quando ha inizio l’era del DDT e, in generale, delle sostanze chimiche di sintesi – erbicidi e insetticidi – che si diffondono di pari passo con la monocultura e l’industrializzazione delle coltivazioni, già avviata con l’introduzione delle prime macchine. Complice la guerra, il beneplacito alla sperimentazione e all’uso di prodotti provenienti dalla chimica sintetica. La ‘lotta’ dell’uomo contro la natura, iniziata millenni prima nel lento passaggio da raccolta e caccia a coltivazione, subisce un’accelerata incredibile e incontrollabile. Capitolo dopo capitolo l’autrice prende in esame casi specifici, con dovizia di particolari e di documentazione, raccontandoli con precisione in una narrazione scientifica e al tempo stesso attraente. Non si riesce a smettere di leggere. Ogni singolo caso è un ‘pugno nello stomaco’. Sicuramente contribuisce a prendere consapevolezza: sulla persistenza di queste sostanze nel suolo, sulla diffusione dell’inquinamento, sulla distruzione di animali selvatici, sull’eliminazione sistematica di insetti ritenuti nocivi, sull’inquinamento delle acque (dei fiumi, grandi e piccoli che confluiscono nel mare). Le stesse acque che, evaporando e condensandosi, torneranno sulla terra ‘arricchite’ di elementi inquinanti.
    Il territorio preso in esame è quello degli Stati Uniti. La diffusione di erbicidi e insetticidi non ha confini. Per due motivi, sostanzialmente.
    Perché i confini sono convenzioni imposte dall’uomo. La natura e gli agenti che l’uomo immette nella natura non li conoscono e non li rispettano. Deve essere l’uomo a rispettare la natura e le sue esigenze.
    Perché, a partire dalla domesticazione di piante e animali fino al controllo completo sulla natura (ossia alla distruzione sistematica e, idealmente, ‘mirata’ delle erbacce e degli animali ‘nocivi’), ha prevalso la logica del progresso come profitto. L’agricoltura è diventata un’industria, il suo fine è il profitto. Senza tenere conto del danno arrecato all’ambiente.
    Il DDT è stato abolito negli Stati Uniti nel 1972, trent’anni dopo l’inizio della sua diffusione scriteriata. L’abolizione in Italia avvenne nel 1978.
    La messa al bando del DDT non ha significato mettere al bando erbicidi e insetticidi. Ha solo eliminato una parte di un problema che ha continuato a crescere in modo inarrestabile, anche quando i danni sono (ri)diventati evidenti alle persone più attente.
    Mai come in questo caso le date parlano: la logica conseguenza dei danni provocati all’ambiente avrebbe dovuto portare a un’inversione di tendenza. Di fatto, ce ne sono stati casi esemplari negli anni Settanta. Un esempio per tutti, è quello di Gino Girolomoni, agricoltore biologico, e della Cooperativa Alce Nero (oggi Gino Girolomoni Cooperativa agricola). Ma, per quanto gli esempi possano essere profondi, documentati e appassionati, in generale, la consapevolezza sulla minaccia dell’attacco messo in atto contro la natura continua ad essere scarsa, come afferma l’autrice nel primo capitolo.
    Leggere oggi per la prima volta Primavera silenziosa è consigliabile. Può essere determinante per modificare in profondità il punto di vista con cui si guarda – distrattamente – alla rovina dell’ambiente di cui, direttamente o indirettamente, siamo responsabili.
    È fondamentale per le giovani generazioni proiettate nel mondo del supermercato che non facilita la consapevolezza della provenienza del prodotto. Ma è indispensabile anche per i loro genitori e per i loro nonni. Perché non è facile acquisire consapevolezza di cosa è cambiato, di quanto massiccio è stato ed è l’intervento sull’ambiente, di quanto ciascuno può fare per rallentare il processo di distruzione.
    Rileggerlo è un modo per fare i conti con il proprio passato.
    Nel 1962 avevo 11 anni e le mie estati trascorrevano in campagna, con i pavimenti di cotto da annaffiare prima di spazzare, le mosche sempre presenti (la stalla era al pianterreno della casa, sotto le finestra delle camere; poco distante, c’era la concimaia; l’acqua da bere, attinta dal pozzo, si conservava al fresco nelle brocche). Per quanto ne so, il letame era l’unico concime che si usava. Per certi aspetti un mondo ‘bucolico’, molto lontano, spazialmente e culturalmente, dalla realtà rappresentata in Primavera silenziosa. A conti fatti, sono rimasta pervicacemente ancorata a quell’ambiente e a quella natura, che riproduco in giardino dove le infestanti sono le benvenute insieme alle api e ai bombi che le ‘invadono’. Quando ho letto Primavera silenziosa per la prima volta, alcuni anni fa, ho avuto la sensazione precisa di un colpevole ritardo, quasi che il mondo che avevo conosciuto avesse funzionato, almeno in parte, da paraocchi.
    Il passaggio definitivo all’industria dei prodotti agricoli è avvenuta, inesorabilmente. La logica del profitto e del mercato ha vinto. Con essa la difficoltà diffusa di guardare alla situazione, l’incredulità sugli effetti di tale logica, lo scherno da parte di molti nei confronti di chi si erge a paladino dell’ambiente e di chi tenta soluzioni alternative.
    Nell’edizione Feltrinelli 2019, il testo è preceduto da una introduzione di Al Gore, vicepresidente degli Usa nel periodo 1993 -2001. Ecco l’incipit: “Per chi ricopre una carica elettiva scrivere di Primavera silenziosa è un’esperienza umiliante: il libro di Rachel Carson, pietra miliare dell’ambientalismo, è la prova innegabile di quanto il potere di un’idea possa essere di gran lunga più forte del potere dei politici”.
    In quarta di copertina la presentazione del libro inizia con queste parole: “è raro che un libro riesca a modificare il corso della storia, eppure questo saggio è riuscito a farlo”.
    Ora, mi guardo intorno, in questa primavera anomala, e mi domando: ma realmente la consapevolezza sulle questioni ambientali è aumentata? Veramente le questioni ambientali sono diventate una priorità? Veramente tutti sono pronti a rinunciare a qualcosa di artefatto in cambio di qualcosa di semplice e genuino? Veramente siamo tutti disposti a fare un passo indietro per ridistribuire più equamente quello che abbiamo? E, soprattutto, quanti sono i ‘politici’ che si sentono umiliati?
    O non è piuttosto vero che in realtà non riusciamo (o non vogliamo) a prendere consapevolezza di un’indispensabile inversione di tendenza, neppure di fronte all’evidenza?
    In questo periodo di isolamento forzato, determinato dall’emergenza pandemia, è divenuto impossibile non vedere l’effetto prodigioso che ha avuto sulla natura la chiusura di attività inquinanti, il ridimensionamento dei trasporti, e così via.
    E’ evidente che si deve riprendere, che è necessario riaprire e ricominciare a vivere.
    Ma è altrettanto evidente che consapevolezza significa prendere atto dei rischi e avere un piano per affrontare le emergenze e per modificare con prudenza e determinazione il caracollare del progresso verso la distruzione.
    È palese, peraltro, che il piano non c’è. E questo nella maggior parte dei paesi, a partire da quelli che hanno più peso sugli equilibri del mondo politico ed economico.
    Leggere il libro di Rachel Carson significa percepire l’abbaglio colossale che è alla base dell’attuale situazione. Ossia non rendersi conto che, per attuare un piano diverso, sostenibile, è necessario fare un passo indietro e riconoscere che la natura, senza di noi, vive benissimo e si riprende i suoi spazi, con facilità e in breve tempo. Siamo noi che, avvelenando la natura, distruggiamo noi stessi.
    L’epigrafe posta dall’autrice ad apertura del testo è una frase di Elwyn Brooks White (1899 – 1985): “Sono pessimista sulla sorte della razza umana perché essa ha troppo più ingegno di quanto ne occorra al suo benessere. Noi ci accostiamo alla natura solo per sottometterla. Se ci adattassimo a questo pianeta e lo apprezzassimo, invece di considerarlo in modo scettico e dittatoriale, avremmo migliori probabilità di sopravvivere”.
    È indispensabile un nuovo corso per realizzare un programma concreto di adattamento sostenibile alla natura e di rivalutazione della natura.
    Le piccole azioni di tutti potrebbero confluire nel piano generale e sostenerlo.
    Il condizionale resta d’obbligo, purtroppo. Magari, si può cominciare dalla lettura.
    Leggere, o rileggere, con i bambini (ma va bene anche per i grandi), La tela di Carlotta di Elwyn Brooks White, è un piccolo inizio.
    Leggere un testo appena uscito (E. Borgomeo, Oro blu. Storie di acqua e cambiamento climatico, Laterza 2020), può divenire un elemento di consapevolezza sullo stato dell’acqua e sul privilegio di poterne (ancora) usufruire. L’ho aggiunto alla lista dei libri da leggere.
    Ma la lista è lunga, basta volerlo.
    La lettura può rappresentare un buon metodo per passare a piccoli gesti quotidiani dettati dalla consapevolezza.

     


     

  • BASTA UNA BROCCA
    PER RIPENSARE IL PASSATO
    E RIFLETTERE SUL FUTURO

    data: 30/04/2020 16:44

    In questi giorni sto rileggendo un libro fondamentale. Non è un libro recente ma merita una rilettura. In verità, anche più riletture. E suscita tante riflessioni, difficili da organizzare. A ogni pagina trovo sottolineature e appunti. Ogni appunto merita un approfondimento. Soprattutto ha bisogno di sedimentare. Solo la sedimentazione permette di comprenderne fino in fondo la portata.
    Mentre cerco di trovare, come si dice, il bandolo della matassa, il pensiero corre a un altro filo. In questo caso, non è propriamente un filo ma una corda. Quella a cui era legato il secchio per attingere acqua dal pozzo, nella casa della mia infanzia. Dal secchio, l’acqua veniva trasferita nella brocca e, con la brocca, arrivava in cucina. E mi sono ritrovata a pensare che nella mia vita le brocche sono almeno tre, diverse. E, per quanto possa sembrare incredibile, in qualche modo c’è un legame con il libro sul quale sto riflettendo. Così, mi prendo un po’ di tempo per raccontare queste tre brocche. Il titolo del libro? Per ora lo lascio in sospeso.
    La brocca di coccio
    La cucina è molto ampia e molto scura, una sola finestra e due lampadari a una sola lampadina, fioca. Dalla sala da pranzo ci si arriva per un corridoio molto stretto, quasi un cunicolo, ricavato nel sottoscala.
    Annessa alla cucina c’è la dispensa. Per le derrate che hanno bisogno di stare al fresco, bisogna andare in cantina (la grotta che corre sotto la grande casa, da una parte all’altra. Chi mai avrà avuto il coraggio di percorrerla tutta? Sicuramente, è stata rifugio durante i bombardamenti). In cucina, credenze a muro, un grande camino, un tavolo appoggiato alla parete, completato da sedie impagliate, sulla parete di fondo, un lavello, un piano di lavoro, i fornelli. Pavimento di vecchio cotto da ‘innaffiare’ prima di spazzare per non sollevare la povere.
    Nel ripiano accanto al lavello, troneggia la brocca di coccio. Anzi, le brocche.
    Sulla cucina regna, indisturbata, Corona, governante e cuoca della grande casa.
    Corona è addetta alle colazioni, ai pranzi, alle cene di tutta la famiglia con il supporto dell’orto, della stalla, dal pollaio, dei campi, degli alberi da frutto. E con quello della padrona di casa che presiede alla scelta delle pietanze, integra con gli acquisti (pochi) fatti in città, con la raccolta delle erbe spontanee e con le ricette di dolci per le occasioni speciali. Su tutti, la torta di nocciole.
    I ruoli si invertono, quando è tempo di marmellate. In questo periodo la padrona di casa diventa protagonista. Ma il supporto di Corona rimane indispensabile.
    L’acqua corrente è già una realtà, probabilmente lo è diventata all’inizio del 1900 (anche se la pressione molto bassa rende necessaria una riserva sempre disponibile).
    Per bere, si attinge l’acqua dal pozzo.
    Così Corona fa rifornimento dal pozzo in fondo all’aia, una casetta in miniatura, con il tetto spiovente, la porticina che affaccia sull’interno, la carrucola ben salda al soffitto, il secchio per attingere l’acqua appeso sulla parete interna, a un grosso chiodo.
    Corona, stacca il secchio, afferra saldamente la corda e giù fino a sentire il tonfo nell’acqua. Poi lo tira su fino a poggiarlo sulla base di pietra dell’apertura e riempie con attenzione la brocca.
    E riparte, con lo strofinaccio avvolto a ciambella sulla testa (il ‘cercine’), la brocca in equilibrio, fino alla cucina. Canticchiando, sempre (“Campagnola bella”, “Papaveri e papere”, “Ho un sassolino nella scarpa”). Come poteva conoscerle? Non l’ho mai saputo. Una cosa è certa, la televisione è entrata in questa casa molti anni dopo il suo approdo in Italia (nel 1954), con la disapprovazione pervicace e ostinata del capo famiglia.
    Brocche d’oro per Atena e per Odisseo
    Atena si presenta nelle vesti di Mente, capo dei Tafi, nella reggia di Odisseo, dove i Proci la fanno da padroni. Ha il compito di innescare il meccanismo che farà tornare a casa Odisseo, dalla guerra e dai suoi successivi vagabondaggi mediterranei. Il suo bersaglio è Telemaco, figlio di Odisseo, che fa gli onori di casa all’ospite ma, per il resto, assiste imbelle allo scempio portato dai Proci nella reggia.
    Il primo atto ospitale è il lavacro delle mani. A questo scopo, un’ancella si avvicina con una brocca (πρόχους) d’oro, piena di acqua:
    Venne un’ancella a versare lavacro da brocca / bella, d’oro, su un bacile d’argento / ché si lavasse; e avanti gli trasse una mensa pulita (Odissea, I, 136 -138, Trad. Rosa Calzecchi Onesti).
    Gli stessi versi ricorrono identici nel libro VII (vv. 172 -174). Qui Alcinoo, re dei Feaci, accoglie Odisseo. L’incontro con Nausicaa è già alle spalle. Alcinoo si rassegna presto all’idea che Odisseo, approdato - naufrago ma pur sempre sovrano - sulle coste della sua terra non potrà essere lo sposo della figlia. Il ritorno a Itaca sta per concretizzarsi grazie alla nave che il re Alcinoo mette a disposizione dell’ospite. È una delle tante scene tipiche ricorrenti, dalle quali spesso emerge la cultura materiale.
    In entrambi i casi si tratta di una brocca d’oro. In ambiente regale non poteva che essere così.
    Ma c’erano anche brocche di terracotta, semplici – come quelle che troneggiavano nella cucina che è stata il regno di Corona – o variamente decorate, con la stessa funzione: portare l’acqua. Recuperate nei siti archeologici, fanno bella mostra di sé nei ripiani dei Musei. Oppure tra le pagine dei libri di archeologia, uno tra tutti, ormai datatissimo, Giovanni Becatti, L’arte dell’età classica, Sansoni 1971 (I ed. 1965). Scorro le pagine del manuale, piene di appunti, di sottolineature, di rimandi. Non si perdono mai le abitudini!
    La ‘conca’ abruzzese
    Le brocche dei personaggi di Omero sono in bell’ordine nei musei, catalogate, analizzate, datate, descritte nei particolari in articoli e libri. Anche se non avessero il valore di reperto archeologico, non sarebbero più utilizzate per lo scopo per cui sono nate. Esattamente come le brocche utilizzate per attingere acqua nelle case fino a circa settanta anni fa, poco più poco meno. Anche queste ultime, sono diventate al massimo un oggetto da mettere in bella mostra in un angolo di casa, senza più alcun legame con la preziosa concretezza della situazione in cui venivano utilizzate.
    Alcune di queste sono già entrate di diritto nei Musei, soprattutto in quelli piccoli, di paese, intitolati alle tradizioni popolari e alla civiltà contadina. O nei cosiddetti musei etnografici.
    Oppure in piccole collezioni private. È il caso della brocca di Rosella. O, meglio, della brocca ereditata da Rosella, esposta in un ambiente rustico, ancora oggi utilizzato in parte come dispensa, in parte per i lavori di stagione (fare i pomodori ad agosto, la sfioratura dello zafferano a ottobre, ecc.) e in parte come collezione museale. In realtà, chiamarla brocca è una forzatura: è una conca. E non è in coccio (né tanto meno in oro!) ma in rame. È la classica conca abruzzese, con le due anse e, a volte, il mestolo per attingere l’acqua e bere.
    Materiali diversi, decorazioni diverse, forma sostanzialmente simile e la stessa funzione da tremila e più anni a questa parte per un oggetto che il progresso ha rapidamente reso obsoleto (in questo angolo di Abruzzo le fontane pubbliche risalgono al 1901).
    Non lo rimpiangiamo, certo. Non avrebbe alcun senso. Ma ci offre l’occasione per riflettere su un bene prezioso come l’acqua che il progresso (sotto forma di acqua corrente sempre a disposizione) ci ha abituato a considerare scontato. Ma che scontato non è. A meno che l’ambiente non torni al centro dell’attenzione di noi umani, decisamente spreconi e molto superficiali. Per capirlo non c’è che un modo: ripensare il passato e capire dove e come abbiamo perso l’attenzione per ciò che ci permette di vivere. A partire dalle piccole cose. È la condizione indispensabile per guardare al futuro con fiducia.

    Post Scriptum: a scanso di equivoci, non ho inventato a bella posta il nome Corona. È un nome femminile, sicuramente desueto, di ispirazione religiosa. Corona è stata una martire cristiana. Per me una presenza importante nella mia vita di bambina.
     

  • "REWILDING", OSSIA
    "RINSELVATICHIRE"

    data: 23/04/2020 18:20

    Il percorso di lettura dedicato alla natura, nato sui classici, si sviluppa ormai da tempo a partire dalle note. Mi spiego: tranne pochi casi, le mie scelte sono orientate su libri corredati da un ricco apparato di note. Le note permettono di risalire alle fonti e agli studi scientifici e, dunque, consentono l’approfondimento. E invogliano ad ampliare il ventaglio di letture.
    In questo percorso seguo un filo logico che, peraltro, come tutti i fii, tende a ingarbugliarsi e infittirsi. La logica c’entra fino a un certo punto, nel passare da un libro a un altro.
    C’entra, soprattutto, l’amore per la conoscenza. Mi riconosco nella definizione che ho trovato, appena qualche giorno fa, in Edmund O. Wilson: “Una educazione che sia davvero rivolta alla formazione culturale deve trovare il modo per incentivare la passione per la scienza e insieme per le discipline umanistiche, ossia per la cultura intesa nel senso migliore” (La Creazione, Adelphi 2008, p. 149). Seguendo questi andirivieni, ho intrapreso la lettura di Selvaggi. Il rewilding della terra, del mare e della vita umana di George Monbiot (Piano B Edizioni 2018).
    Come sempre, quando leggo, ho accanto a me una matita per sottolineare, una penna e un quaderno per prendere appunti. Già dai primi capitoli, mi sono resa conto di doverli usare spessissimo.
    Il titolo, a prima vista, è rassicurante. O, almeno, lo è il sottotitolo - Il rewilding della terra, del mare e della vita umana, anche se il termine in inglese dà da riflettere. Così riconsidero il titolo originale, nel suo insieme: Feral. Searching for Enchantment in The Frontiers of Rewilding. Due cose mi colpiscono: la scelta dell’aggettivo ‘selvaggio’ (feral, propriamente definisce lo stato selvaggio riacquistato dopo la domesticazione, ‘wild’ = ‘selvatico’) e la sostituzione dell’originale sottotitolo con uno più tranquillizzante, descrittivo, che rende con immediatezza il contenuto, banalizzandolo. La scelta del titolo, sicuramente, è determinata dall’impossibilità, in italiano, di rendere una condizione (‘feral’) con un aggettivo al singolare. Così, si è scelta l’opzione di usarne uno al plurale, ‘Selvaggi’, più efficace di ‘Selvatici’.
    Sembrano sottigliezze. Si può spiegare come Guccini spiegava perché è bello leggere i romanzi di Jack Kerouac mantenendo i nomi in inglese (Statale 17, in Beat folk N. 1): ‘gli americani ci fregano con la lingua’. Tant’è che nel sottotitolo Rewilding è rimasto in inglese (peraltro, è entrato recentemente - 2011- nel dizionario, come l’autore spiega). Si è perso, però, nella versione italiana del sottotitolo, il termine più significativo: ‘Enchantment’. Ossia l’incanto della ricerca di luoghi ‘rinselvatichiti’, lasciati, volutamente, al rinselvatichimento spontaneo della natura. Rinselvatichiti e rinselvatichimento sono termini oggettivamente ‘brutti’. Nel dizionario italiano esistono, come esiste il verbo ‘rinselvatichire’ che significa appunto ritornare alla condizione ‘selvatica’ (‘si dice, propriamente, di animali o piante che dallo stato domestico, o coltivato, riacquistano caratteri o comportamenti proprî della condizione selvatica’, dal Dizionario Treccani online). Se ne trova ancora qualche traccia nelle silvae che Plinio il Vecchio passa in rassegna nella sua Naturalis Historia (l. XVI). Ma, già ai suoi tempi, molto del carattere originario si era perso.
    Iniziare la lettura significa immergersi in scenari molto diversi. Ogni capitolo è un tuffo in un mondo nel quale si riconoscono gli effetti, contrapposti, del controllo sulla natura o, viceversa, l’effetto del Rewilding. L’approccio non è rassicurante, volutamente. Non certo per il contatto ravvicinato con il ‘selvatico’ quanto perché questo contatto grazie alle parole dell’autore è tanto consapevole e diretto da riuscire a scardinare le convinzioni rassicuranti sul contatto con la ‘natura’ di cui spesso ammantiamo i nostri discorsi. Il ribaltamento dei punti di vista consueti è tanto forte da diventare indispensabile nella costruzione della consapevolezza del disastro di cui ci siamo resi responsabili, direttamente o indirettamente.
    A partire da una questione di base fondamentale: quello che chiamiamo ‘natura’ (paesaggi coltivati, bucolici, boschivi, prati, giardini, parchi, oceani, mari, spiagge, laghi, fiumi, ruscelli, ecc.) non è affatto naturale. E’ il risultato di un intervento dell’uomo che dura da millenni. E’ un intervento di domesticazione che è stato attuato su tutti gli ambienti e su tutti gli esseri viventi, nella assoluta convinzione di essere nel giusto. George Monbiot si immerge nei luoghi in cui l’uomo decide di farsi indietro, lasciando spazio alla natura. E ce li racconta, con dovizia di particolari e riferimenti puntuali alla documentazione (nel corpo del testo e nelle note). Spesso, li contrappone a quelli domesticati, ottenendo un effetto a contrasto estremamente significativo. Sono i luoghi dell’incanto.
    Dove si trovano? Si va dal Brasile – nel territorio degli indigeni Yanomami – alle coste del Galles, dal territorio Masai in Kenia alle superstiti foreste in giro per l’Europa, dalla Scozia alla Romania e alla Slovenia. Per individuare con certezza i luoghi, ho recuperato l’Atlante dall’angolo dei libri dimenticati (ma comunque sempre recuperabili). È un’edizione del 1980 dell’Atlante geografico metodico dell’Istituto Geografico De Agostini, superato per molti aspetti (i confini oilitici) ma utile per individuare luoghi fisici: ad esempio, mi è stato prezioso per ‘ripassare’ il percorso degli affluenti di destra del Danubio - Kolpa e Sava – in un capitolo che prende le mosse da un altro fiume, l’Isonzo, a Caporetto. Solo nel caso del Galles, non mi ha aiutato: individuare i tratti di costa della Baia di Cardigan dal nome in gallese, non è propriamente una passeggiata!
    E’ impossibile dar conto di tutti gli ambienti di cui l’autore parla nell’analisi delle differenti situazioni. È importante affrontare la lettura sapendo che le cronache dai luoghi più disparati sono scandite da riflessioni illuminanti, a partire dall’idea che “Rewilding significa resistere alla pulsione di controllare la natura: è permettere alla natura di trovare la propria strada (p. 13)” perché il ‘restauro ecologico è un lavoro di speranza” (p.154 ) di cui la natura deve essere protagonista.
    I quindici capitoli sono tutti preceduti da un titolo che suggerisce, direttamente o indirettamente, il particolare incanto che il capitolo stesso indaga.
    Ogni titolo è seguito da un’epigrafe tratta da un autore di lingua inglese. Ogni epigrafe suggerisce un particolare punto di vista. In alcuni casi ho ricercato il testo da cui la citazione è tratta, scoprendo che potrebbe diventare un percorso originale sul particolare punto di vista che l’immaginario letterario dedica al rapporto uomo natura. Ho debitamente appuntato sul quaderno i riferimenti essenziali. Non si sa mai, potrei tornarci su.

    Post Scriptum: mi rendo conto che è già la seconda volta che uso una citazione da Guccini. Sicuramente, chi legge non avrà dubbi sulla mia appartenenza generazionale.
     

  • PASSEGGIANDO FRA LE PIANTINE CHE SBUCANO DA OGNI FESSURA SOTTO CASA

    data: 17/04/2020 16:30

    Nel 1899 Navelli (AQ) aveva circa 3000 abitanti. L’ho scoperto, per caso, in un libro di geografia nella biblioteca storica del Liceo Classico Ennio Quirino Visconti, situato in un’ala del Collegio Romano, la sede dell’istruzione gesuitica (dal 1584 al 1870).
    Poi c’è stato il XX sec. Il risultato? Oggi Navelli ha circa 400 abitanti stabili, un po’ di più in agosto. La maggioranza è anziana. Il distanziamento sociale è la norma, tranne poche occasioni (la posta, la farmacia, lo studio medico, la piazza nei giorni di mercato, le ‘postazioni’ dei negozianti con le loro botteghe su quattro ruote - verdura e frutta, pesce fresco, formaggi - e, naturalmente, la Chiesa parrocchiale).
    Da questo angolo di mondo, arroccato su un colle nel cuore dell’Appennino abruzzese, affacciato sulla SS 17 (la stessa della canzone di Guccini, per chi se la ricorda), a metà strada tra L’Aquila e Sulmona, ai piedi del Gran Sasso e con vista sulla Majella, viviamo il distanziamento sociale in tempi di emergenza.
    Chiusi o regolamentati i luoghi pubblici, osserviamo tutti, scrupolosamente, le regole. Nel nostro caso rappresentano solo un irrigidimento della situazione consueta: in paese, per incontrarsi, bisogna volerlo. Ognuno si è ‘attrezzato’ per l’emergenza. Chi ha un fazzoletto di terra annesso alla casa, si trova in una situazione privilegiata.
    Per camminare un po’, mi sono abituata a fare un percorso di circa duecento metri, nelle viuzze attorno a casa. Il percorso è sempre lo stesso, andata e ritorno.
    Un’occasione per osservare e riflettere.
    I primi giorni, ho osservato le maniglie e gli anelli di metallo sui portoni chiusi da un numero imprecisato di decenni. Poi, sono passata a osservare gli anelli in pietra, ben saldi alle pareti accanto ai portoni. Quelli dove un tempo si legavano gli asini al ritorno dai campi.
    Sono piccoli segni di un’ ‘architettura senza architetti’ (cfr. Bernard Rudofsky, Architecture Without Architects, 1972). Testimoniano centinaia di anni di storia e un secolo di progressivo abbandono.
    Navelli è un caso isolato? Assolutamente no. La penisola è piena di situazioni come questa, lungo la fascia appenninica e, in generale, al di sopra dei 700 msl.
    Ho come l’impressione che, una volta finita l’emergenza, si dovrebbe cominciare a ripensare seriamente il territorio (gli spazi, il lavoro, i trasporti, i servizi ecc. Le questioni sono tante e il modello unico – la città che tutto ingloba – forse ha fatto il suo tempo).

    Dopo le maniglie sui portoni e gli anelli sulle pareti, ho trasferito lo sguardo verso il basso.
    Lungo il percorso, nascono tante piante, tra gli interstizi della pavimentazione.
    Ogni scalino, una pianta diversa. Ci sono tarassaco, romice, bocca di leone, menta, un cardo e molte altre cui non so dare un nome. Almeno, non con sicurezza.
    La varietà di quello che si riesce a scoprire anche in un percorso di soli duecento metri, per una viottola impervia, sempre, tutti i giorni dell’anno, indipendentemente dall’attuale emergenza, è incredibile. Questa varietà è il segnale della forza della natura.
    L’uomo vuole costringerla, affossarla e soffocarla. E lei – niente - spunta fuori da qualsiasi interstizio. Dovunque si trovi un po’ di terra, un seme riesce ad attecchire, a farsi strada.
    Complici il vento, gli insetti, la pioggia, il sole, la natura fa il suo lavoro. E le piante – erbacce, vagabonde, nomadi, comunque le si voglia chiamare – crescono.
    Poi arriva l’uomo e le taglia.
    Perché ormai da millenni si è autopromosso a dominatore della natura, livellando, uniformando e distruggendo. Tentando in ogni modo di rendere la natura monotona.
    E ha trasformato la monotonia così ottenuta nella sua noia.
    Allora ben venga la passeggiata obbligata entro 200 m da casa, curiosando tra le fessure delle pietre, agli angoli tra fondo stradale e mura delle case …
    C’è tanto da scoprire, osservando la natura. C’è tanto da imparare. Non c’è spazio per la noia.
    Tornando a casa, mi viene in soccorso un passo tratto da La creazione di Edward O. Wilson (Adelphi, 2008):

    “La natura difficilmente muore. Anche nel più triste parcheggio per auto vedrete le piccole tenaci erbacce che fanno capolino da una fessura nel calcestruzzo, il ciuffo d’erba su un cordone di marciapiede, la macchia debolmente colorata di una colonia di cianobatteri sul muro dell’edicola che distribuisce i biglietti d’ingresso. Osserviamo da vicino questa piccole creature che prosperano nel loro povero ecosistema: l’acaro, il piccolo verme. Il bruco che si agita per diventare farfalla. Questi organismi selvatici sono la linea di resistenza, l’avanguardia dell’inevitabile ritorno della Terra al verde e al blu. E attendono pazientemente che noi cambiamo idea. Essi possono ancora riportare in vita parte di quello che noi ci accaniamo a distruggere con così pochi scrupoli”.

    Le regole del distanziamento sociale stanno mettendo a nudo la difficoltà a vivere entro confini circoscritti, la disabitudine a soffermarsi sulle piccole cose, la noia della quotidianità.
    Tutto sembra monotono. In condizioni ‘normali’ si fugge la monotonia. In condizioni eccezionali, la monotonia diviene insopportabile.
    Ma, attenzione, molto dipende dalla capacità che abbiamo di riconoscere la varietà in un’apparente monotonia. Un paesaggio può risultare monotono ai nostri occhi.
    Ma siamo sicuri di guardarlo veramente?
    Se ci sforziamo di osservare, volendo realmente vedere, la situazione potrebbe cambiare. Proviamo a mettere al centro dell’attenzione le piccole cose: una maniglia su una porta abbandonata, un anello di pietra sulla parete di una casa dove non vive più nessuno da decenni (dove sarà? dove sono i suoi discendenti? In Australia, in Canada? o forse in Venezuela? quando è andato via? Dopo la prima guerra o dopo la seconda?), le piantine che sbucano da ogni fessura e che parlano di una natura più forte di noi, a dispetto della nostra ansia di dominarla.
    Piccole cose che dicono molto se solo ci fermassimo ad ascoltarle, che ci invitano a non avere fretta. E ad approfittare di questo periodo per ripensare le nostre scelte, troppo spesso scriteriate.
     

  • UN LIBRO TIRA L'ALTRO
    ACCOMPAGNANDOTI
    PER TUTTA LA VITA

    data: 12/04/2020 17:32

    La mia avventura con i libri è iniziata molto, molto presto. Per qualche strana alchimia ero attratta dai libri fin da bambina. E il rimprovero di mio padre, che lamentava i miei maldestri tentativi di afferrare i suoi libri, mi ha accompagnato per tutta la vita. Non è riuscito, peraltro, a farmi desistere da un percorso di lettura che si è andato ampliando e diversificando con il tempo.
    La libreria nello studio del nonno – antica, polverosa, scura, ricolma di libri di medicina e di un’ampia sezione letteraria (ivi compresi romanzi, novelle e racconti scritti e pubblicati dal nonno tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta) – ha segnato i miei anni di adolescente che si rintanava nello studio per affrontare i compiti di latino e greco, le materie sulle quali ho puntato fin dalla scuola media (unificata da lì a poco senza che realmente si fosse capita la vera portata del cambiamento).
    Perché mai una ragazzina, all’inizio degli anni Sessanta, si mette in testa con una caparbia fuori del comune di riuscire in quelle particolari discipline? La domanda è lecita.
    Le risposte sono almeno tre.
    La prima è un profondo senso di vergogna. Quinta elementare. Sono vicina alla cattedra. In un testo scrivo ‘dio’ con la minuscola. La maestra mi addita al ludibrio della classe intera. Non ho mai ‘digerito’ quel rimprovero. Non combaciava con la molteplicità di dèi con cui ero già entrata in contatto nelle pagine del sussidiario.
    La seconda è una sfida. Prima media. Il primo compito di latino e un risultato pessimo. Il giudizio tranciante di una professoressa – di quelle che non hanno mai dubbi, a prescindere - che assolutamente non ricordo. Io, undicenne, ho deciso che non gliela avrei data vinta.
    La terza è un fattore puramente casuale. Tra tutti i professori che ho incontrato nella carriera scolastica, i migliori – senza dubbio alcuno – sono stati quelli di materie classiche, per dottrina, serietà e metodo.
    Al punto da ricordarne i nomi: Raimondo Pesaresi, durante una breve parentesi da studentessa ginnasiale nel liceo classico di Viterbo, e Emidio Panichi, in un liceo romano. Sugli altri è sceso il pietoso velo dell’obblio.
    Sono esperienze che segnano e, direttamente o indirettamente, determinano il corso delle cose.
    Inutile ricordare i lunghi anni di apprendistato sul campo (ossia, in aula), contrassegnato non certo dalla necessità di formare un docente ma dalle macchinose, lunghissime procedure per entrare in ruolo (supplenze ‘accumulapunti’, corsi ‘accumulapunti’, un primo concorso ‘abilitante’, il secondo concorso ‘a cattedre’).
    Sono lunghi anni di pratica in classi sempre diverse, con il bagaglio degli studi liceali e di quelli universitari, orientati inevitabilmente agli studi classici (università prestigiosa, senza dubbio, ma nel settore ‘filologia classica’ chi mai si è preoccupato di dover formare non tanto filologi quanto insegnanti? Soprattutto in anni difficili, in cui le mura rassicuranti di una biblioteca potevano schermare la visione del mondo esterno. E soprattutto in un mondo che, già da quegli anni, non ha più bisogno di molti filologi).
    Il vero bagaglio sono i classici e i dubbi perenni che mi accompagnano da allora (cosa proporre, come studiare, perché quel passo e non l’altro, come far diventare un particolare passo un bagaglio vivo e presente per un giovane degli anni Settanta, Ottanta, Novanta e, poi, del nuovo secolo?).
    Forte di questo bagaglio, mi sono attrezzata. Ho selezionato, scelto, proposto, discusso, accolto proposte, sollecitato il dibattito su temi provenienti direttamente dal mondo di Omero, dai viaggi di Erodoto, dal teatro di Dioniso, dall’assemblea ateniese, dalla guerra del Peloponneso, dalle scuole filosofiche, dalle biblioteche, da Roma repubblicana, imperiale, universale e cristiana.
    Quando le scelte dei libri di testo – a volte decisamente prevedibili o, come dire, ‘patinate’ - non mi soddisfacevano, integravo con altri testi. Non per niente, erano ancora i tempi in cui si leggeva Mario Lodi. Idealmente il libro di testi e letteratura, greca e latina che fosse, doveva essere sempre in fieri, doveva essere vivo, doveva presentare questioni attuali. Tucidide ma anche Ippocrate, per esempio. Platone, certo, ma perché non l’Aristotele che si occupa di piante e di animali? Cicerone, sicuramente, ma perché non il Catone del De re rustica? Tacito ma anche Plinio il Vecchio.
    L’obiezione di fondo, potrebbe essere che i contenuti sono ampiamente e, in molti casi, definitivamente superati. Ed è vero, non c’è dubbio. Ma proprio questo induce a problematizzare i contenuti, a ragionare sulle differenze, a capire il cammino percorso dall’uomo in duemila anni e oltre, e, perché no, anche a riflettere sul significato e l’impatto delle conoscenze che l’uomo ha raggiunto successivamente e, infine, sulla portata di tali conoscenze sull’uomo stesso e sull’ambiente. Se così non fosse, lo studio del passato potrebbe essere liquidato.
    E non è così. Anzi, lo studio del mondo antico è fondamentale. E proprio tramite quello studio, abbiamo oggi la possibilità di analizzare quanto e come gli ultimi tremila anni ci abbiano portati ad una crescita preoccupante. Senza la prospettiva storica, senza le testimonianze degli antichi, il quadro sarebbe più vago. Invece abbiamo la possibilità del confronto.
    Chiudere la pluridecennale parentesi ‘in classe’ non è stato facile. Non ha significato chiudere con l’attitudine a un approccio al mondo costruito a partire dai testi, senza pretese di trasmettere verità indiscutibili ma nella convinzione di presentare questioni sempre aperte, da rileggere e reinterpretare di giorno in giorno, di anno in anno, di decennio in decennio.
    Perché le prospettive cambiano. Guai se non fosse così.
    Anzi, ha significato ampliare la prospettiva e riscoprire interessi nati e prontamente sopiti negli anni di scuola da lezioni soporifere, pagine assegnate, libri inadeguati. Alla fine del liceo, da sola, non ho avuto la forza di orientare gli studi universitari sulle materie che realmente mi affascinavano. Provai a proporlo in casa. Altri tempi. Una facoltà scientifica? Perché mai?
    Ero già abbastanza ribelle per gli standard dell’epoca per avere la forza di insistere.
    Da brava scolara, ho scelto quello che ci si aspettava che scegliessi, accantonando per sempre il sogno solo vagheggiato di studiare botanica o agraria.
    È così che nel decennio che si sta concludendo in modo così drammatico, di fronte al fatto incontrovertibile che i confini sono solo convenzioni che l’uomo definisce e ridefinisce e attorno alle quali si accanisce ma che non interessano i fenomeni naturali né, tantomeno i virus, ho continuato a leggere, a prendere appunti, a riflettere, a leggere ancora.
    La spinta nasce dai miei interessi, ormai senza confini e, anzi, sostenuti dai lunghi anni di pratica quotidiana con i classici. Sempre con in mente i versi di un coro, dall’Antigone di Sofocle:
    “Molte potenze sono tremende, ma nessuna lo è più dell’uomo. È lui che oltre il mare canuto procede nella tempesta invernale attraverso i flutti che gli si frangono intorno. È lui che la dea suprema tra tutti gli dèi, Gaia, violenta anno per anno con gli aratri tirati dalla stirpe equina.
    È lui che cattura con attorte reti gli uccelli dalla mente alata e le fiere selvagge e gli animali del mare.
    È lui, l’uomo, capace di pensiero, che ha il potere sulle bestie dei campi e su quelle che vagano sui monti; è lui che aggioga il cavallo crinito e l’infaticabile toro.
    È lui che la parola e il pensiero, simile al vento, ha imparato e l’impulso che porta alla legge e a fuggire gli strali tremendi dell’inabitabile gelo sotto l’etere aperto. Ovunque si apre la strada, in nulla s’arresta.
    Così affronta il futuro. Da Ade solo non ha escogitato scampo, per quanti rimedi abbia inventato a inguaribili mali.
    Oltre ogni speranza e attesa, conosce, fabbrica, inventa, a volte rivolgendosi al male, a volte al bene. Allorché si accorda alle leggi della sua terra, e alla giustizia giurata degli dèi, siede in alto nella città, ma se si macchia di azioni malvagie e sfrenata audacia, della città neppure fa parte. Mai gli sarò commensale, mai avrò animo uguale con chi così agisce”.

    Sofocle, Antigone, vv. 332-375 Traduzione: Massimo Cacciari

    Ogni volta che li rileggo, non riesco a non pensare che erano cantati nel teatro, luogo di formazione per eccellenza dei cittadini per alcuni decenni cruciali, e che rimanevano nella loro memoria.
    Un monito sulla terribile grandezza dell’uomo, una grandezza ambigua che si dispiega in tutti gli ambiti della vita (la caccia, l’agricoltura, la navigazione, la medicina, la politica ...), nel bene e nel male. Parole pronunciate nel 442 a.C. che - a distanza di duemila e quattrocento sessantadue anni - sono ancora terribilmente valide.
    Ancora di più nella presente contingenza che ci vede affrontare, direttamente o indirettamente, un nemico tanto piccolo e tanto potente da mettere in ginocchio strutture politico economiche e sociali che, con la stessa superbia dell’uomo stigmatizzata da Sofocle, consideriamo inattaccabili.